Caso Moro, le BR e il mistero della cassetta numero 13
Il potere della scrittura, quel prezioso alleato per chi indaga
Indagine sui costi dei servizi di scorta in Italia
COPIA OMAGGIO
anno 2 – N. 15, Maggio 2015
IL COLONNELLO
DEI MISTERI ITALIANI
LA MORTE DI ANTONIO VARISCO: DALL’ENIGMA DELL’AGENDA A UN’AZIENDA FARMACEUTICA FINO ALLA STRANA RIVENDICAZIONE DELLE BRIGATE ROSSE
Indice del mese 4. Inchiesta del mese
IL COLONNELLO DEI MISTERI, DA PECORELLI AD ANDREOTTI
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10. Inchiesta del mese IL SANGUE NELLA NEBBIA
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16. Inchiesta del mese
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DELITTO VARISCO, I MISTERI DELL’AGENDA E I DUBBI SULLE BRIGATE ROSSE
22. Dossier da collezione
CASO MORO, LE BR E IL MISTERO DELLA CASSETTA NUMERO 13
26. Sulla scena del crimine IL GUANTO DELLA SFIDA
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32. Sulla scena del crimine UN “CASO PISTORIUS” ALL’ITALIANA
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38. Indagare se stessi
POSSONO LE PAROLE CONTRASTARE IL CRIMINE?
Caso Moro, le BR e il mistero della cassetta numero 13
Il potere della scrittura, quel prezioso alleato per chi indaga
42. Criminalistica
LE TRE PARTICELLE CHE INCASTRANO IL COLPEVOLE
COPIA OMAGGIO
anno 2 – N. 15, Maggio 2015
IL COLONNELLO
DEI MISTERI ITALIANI
LA MORTE DI ANTONIO VARISCO: DALL’ENIGMA DELL’AGENDA A UN’AZIENDA FARMACEUTICA FINO ALLA STRANA RIVENDICAZIONE DELLE BRIGATE ROSSE
Indagine sui costi dei servizi di scorta in Italia
ANNO 2 - N. 15 MAGGIO 2015
48. Dossier società I SERVIZI DI SCORTA IN ITALIA
Rivista On-line Gratuita
52. Diritti e minori
Direttore Responsbile Pasquale Ragone Direttore Editoriale Laura Maria Gipponi
58. Storie di tutti i giorni
Articoli a cura di Alberto Bonomo, Nicoletta Calizia, Nia Guaita, Nicola Guarneri, Dora Millaci, Paolo Mugnai, Gelsomina Napolitano, Tommaso Nelli, Katiuscia Pacini, Paola Pagliari, Mauro Valentini.
62. Media crime
Direzione - Redazione - Pubblicità Auraoffice Edizioni srl a socio unico Via Diaz, 37 - 26013 Crema (CR) Tel. 0373 80522 - Fax 0373 254399 edizioni@auraoffice.com
BAMBINI SVANITI NEL NULLA
AMORE E SOFFERENZA
LIBRO, FILM, PROGRAMMA TV E RADIO CONSIGLIATI
Grafica e Impaginazione Giulia Dester Testi e foto non possono essere riprodotti senza autorizzazione scritta dall’Editore. Le opinioni espresse negli articoli appartengono ai singoli autori dei quali si intende rispettare la piena libertà di espressione.
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Registrato al ROC n°: 23491 Iscrizione al tribunale N: 1411V.G. dal 29 ottobre 2013
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Antonio Varisco aveva la divisa dell’Arma nel cuore, cresciuto com’era con il doloroso fardello delle traversie storiche della sua città, Zara. Classe 1927, Varisco inizia la sua carriera nei Carabinieri da giovanissimo, diventando ufficiale già nel dicembre 1957. Compiuti appena 30 anni viene destinato a Roma, con il compito di organizzare la sicurezza degli uffici giudiziari. La sua carriera ha una svolta nel 1973, siamo in piena emergenza eversiva, i giudici e gli avvocati sono bersaglio dei gruppi terroristici di estrema sinistra ed estrema destra, Varisco ottiene una promozione a Maggiore e gli viene affidata la responsabilità del Nucleo di Polizia Giudiziaria, sempre a Roma. Anni difficili, anche perché Varisco svolge e collabora anche con indagini che toccano i nervi scoperti di quel sottobosco di terrore, che lavora alla destabilizzazione dell’ordinamento democratico. Ed è in questo fango di collusione tra politica ed eversione che Varisco diventa un elemento cardine, tanto che nel 1976, costituisce il “Reparto Servizi Magistratura”. Attento, puntiglioso e con una capacità di relazionarsi con simpatia negli ambienti molto rigidi e abbottonati che frequenta, ha qualità che lo rendono un punto di riferimento anche per i cronisti di nera, che vedono in lui un interlocutore brillante, simpatico e rispettato anche da
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un cronista come Mino Pecorelli. Varisco lo considera un talento, si vedranno spesso, il Colonnello e il direttore di Osservatore Politico (OP). Una conoscenza questa che comunque si ammanterà di mistero, come ogni cosa, quando c’è di mezzo Pecorelli. Varisco intanto fa carriera: si occupa dello scandalo Lockheed, viene coinvolto nell’inchiesta sulla Rosa dei Venti, per poi occuparsi dello scandalo Italcasse, inchieste che vedono coinvolti apparati dello Stato ai massimi livelli. Sarà anche chiamato in causa dal giudice Vittorio Occorsio nelle primissime indagini sulle P2 di Gelli, delegando il Colonnello
Giulio Andreotti.
a indagare su una riunione segreta della Loggia tenutasi nel 1975; quella Loggia che il Giudice considerava implicitamente legata all’eversione nera, un mostro inafferrabile e dalle mille teste. Tra le più scottanti seguite da Varisco c’è l’inchiesta sul caso Moro. Si diceva di Mino Pecorelli. Varisco frequentava un ufficio in piazza delle Cinque Lune ed è certo che anche il giornalista direttore di OP frequentasse quell’ufficio nei giorni del sequestro Moro. Quale che sia il motivo, alcuni memoriali dello statista ucciso dalle Brigate Rosse vengono pubblicati da Pecorelli, che sembra molto informato a dispetto dei
suoi colleghi. È un uomo sicuramente geniale, ma anche molto informato. Di quante informazioni Mino Pecorelli fosse a conoscenza non potremo mai saperlo con certezza perché il 20 marzo del 1979 viene ucciso sotto la sede del suo giornale, in via Tacito 50. Giuseppe D’Avanzo, sul Corriere della Sera del 25 settembre 1999 scriverà che quella sera Varisco, insieme a Domenico Sica arriva sul posto poco dopo l’omicidio, salgono in redazione e mentre stanno perquisendo l’ufficio trovano un biglietto dalla firma illustrissima. «Caro Pecorelli, le invio questo medicinale perché possa lenire la sua cefalea. Io, come lei sa, soffro del
Carmine Pecorelli.
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medesimo male. Importante è comunque che lei si prenda un periodo di riposo. Giulio Andreotti». Un invito cordiale o un “ordine”? Varisco ne rimase colpito, anche perché pochi giorni dopo quella morte, in un taxi a Roma viene ritrovato (quanto casualmente) un borsello con appunti eversivi e alcune schede di persone in vista, tra qui quella di Pecorelli, con un appunto che riguarda da vicino il Colonnello. Su quella scheda, falsa, vera o ad uso e consumo di un depistaggio, c’era un appunto inquietante: «Mino Pecorelli (da eliminare) preferibilmente dopo le 19 nei pressi della redazione di OP». A margine poi, un’altra importante annotazione: «Martedì 6 marzo 1979 causa intrattenimento prolungato presso alto ufficiale dei Carabinieri, zona piazza
Colonnello Antonio Varisco.
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delle Cinque Lune, l’operazione è stata rinviata». L’alto ufficiale era proprio lui. Si dice che quell’omicidio lo abbia convinto a lasciare l’Arma, a soli 52 anni e con una carriera sicura, c’è chi ipotizza invece un possibile salto di qualità del suo ruolo investigativo proprio uscendo dal ruolo palese ed istituzionale che si era ritagliato, fatto sta che il colonnello Varisco rassegna le dimissioni subito dopo quell’omicidio. Concluderà il suo mandato il 30 luglio del 1979, andando a dirigere la sicurezza di un colosso dell’industria italiana. Il 13 luglio, a bordo della sua BMW 2002 sta percorrendo Lungotevere Arnaldo da Brescia. Deve recarsi a Piazzale Clodio, sono gli ultimi giorni di lavoro, siamo al passaggio di consegne con l’ufficiale che lo sostituirà. Due auto gli si affiancano in un tratto dove la strada si restringe per un cantiere della metropolitana. Gli sparano 4 colpi con due fucili a canne mozze, uccidendolo all’istante.
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Il sangue nella nebbia La scena del crimine del delitto Varisco
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Sono da poco passate le 9:00 del mattino. È un sabato. La voce intraprendente della radio si arresta per un istante nei bar, dentro i saloni e nelle auto. Poi riprende confusa e frastornata ma il tono non è più quello di prima. Qualcosa si è rotto. L’enfasi lascia il posto allo sgomento. Poche frasi pronunciate lente comunicano la notizia dell’attentato sferrato ai danni del colonnello Antonio Varisco. Le lunghe pause di quella voce, rassegnata tra parola e parola, raccontano di un’esecuzione condotta fino in fondo. Non un avvertimento, non un tentativo. Il 13 luglio 1979, sul Lungotevere Arnaldo da Brescia della Capitale, all’interno della propria auto, giace depredato il corpo di Antonio Varisco. La BMW color avana è stata speronata fino allo schianto contro l’imponente barriera di lamiera costruita per delimitare i lavori della metropolitana che proprio in quel punto ricreano un
considerevole restringimento della carreggiata a quattro corsie. Il corpo, protetto da un lenzuolo intriso di sangue, è riverso sui sedili anteriori, ricoperto dai vetri dei finestrini frantumati. Due dei quattro colpi mortali hanno raggiunto l’alto ufficiale; uno si è schiantato contro l’auto e un altro è andato a vuoto. Una fredda esecuzione alla luce del giorno. Un modus operandi da professionisti. Mezz’ora dopo l’omicidio, in una telefona anonima all’Ansa (sul momento poco attendibile) una voce maschile dichiara: «Siamo le Brigate Rosse. L’abbiamo ucciso noi. Avrete un documento». Quella zona a quell’ora non era molto trafficata. Solo pochi testimoni possono aiutare gli investigatori a ricostruire l’accaduto. Tutti parlano di un’azione fulminea. I killer hanno condotto un piano con compiti ben precisi a seguito di un attento studio dei luoghi e delle tempistiche, questo è
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certo. Due auto modello Fiat 128. Su una delle due è pronto il tiratore, la seconda solo d’appoggio e copertura durante la fuga. Varisco, una volta uscito di casa, sarebbe stato intercettato lungo il tragitto che solitamente compie per recarsi da casa al proprio ufficio presso il palazzo di giustizia. I terroristi avrebbero dapprima atteso il momento prestabilito e dunque agito con un primo colpo che ha sfondato il lunotto posteriore colpendo il Colonnello in prossimità della testa. Dopo essersi
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affiancati, avrebbero esploso in rapida successione i successivi due colpi contro la loro vittima predestinata colpendola al viso e al fianco e accompagnando poi la corsa finale dell’autovettura contro la barriera di lamiera che delimita il cantiere. Il resto è noto. Un fumogeno esploso dagli assassini ha creato un diversivo visivo aiutandoli a scomparire nella nebbia. Le perizie balistiche diranno che l’hanno freddato con un fucile “Winchester” a canne mozze calibro 12 di fabbricazione
americana. Non un’arma automatica ma molto potente (ogni colpo esploso contiene 9 pallettoni di piombo della grandezza di un proiettile calibro 9). In sede autoptica, a un primo esame, sono stati riscontrati 18 fori lungo tutto il corpo. Quasi tutti colpi capaci di produrre lesioni mortali. Le auto usate per l’agguato verranno ritrovate poco dopo, abbandonate di là del Tevere, nel quartiere Prati, lungo via Ulpiano ai piedi del “Palazzaccio” di piazza Cavour. Pare che i protagonisti di quest’atto terroristico
Lungotevere Arnaldo da Brescia.
all’infuori delle auto abbandonate non abbiano lasciano altri indizi dietro le loro spalle. Al di là della telefonata d’incerta rivendicazione delle BR in prossimità del fatto di sangue, gli inquirenti hanno validi motivi per avvalorale la paternità dell’organizzazione terroristica eversiva. In primis perché Antonio Varisco aveva collaborato in tutti i più importanti fatti giudiziari e di cronaca nera; le inchieste sul
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terrorismo, gli scandali finanziari, il crack Sindona e molti altri. In secondo luogo era noto come il quartiere Prati fosse già stato teatro di altre imprese terroristiche delle BR (l’assalto di piazza Nicosia). Le ricerche condotte precedentemente in quei luoghi avevano portato all’arresto di Valerio Morucci e Adriana Faranda in un covo a viale Giulio Cesare, all’importante ritrovamento della mitraglietta Skorpion usata per uccidere Aldo Moro e di una lista di nomi-obiettivo tra i quali figurava proprio quello di Antonio Varisco. Quattro giorni dopo il vile gesto, un comunicato “ufficiale” delle BR rivendica l’assassinio del Colonnello. Due ciclostilati sono fatti ritrovare da due redattori del Messaggero e di Vita. Gli scritti, datati 17 luglio, sono
Fiat 128.
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Calibro 12.
caratterizzati da vistosi errori grammaticali e battuti da un dattilografo inesperto. Come in una sentenza motivano il massacro. Il militare sarebbe stato reo di essere protagonista attivo del servizio speciale antiguerriglia comandato dal generale Carlo Alberto Dalla Chiesa e di essere affidatario del compito di stanare la “talpa” guerrigliera all’interno del palazzo di Grazia e Giustizia. Non si è mai riusciti a risalire agli esecutori materiali dell’omicidio. Solo nel 1982 il leader della colonna romana, Antonio Savasta, confesserà la responsabilità dell’atto e nel 2004, dopo essere stata catturata, Rita Algranati si autoaccuserà di complicità.
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Delitto Varisco, i misteri dell’agenda
e i dubbi sulle
Brigate Rosse
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Cronaca&Dossier dedica uno speciale sulla morte di Antonio Varisco con l’approfondimento firmato dal giornalista Tommaso Nelli, il quale ha consultato le carte dell’inchiesta sull’omicidio e soprattutto l’agenda del Colonnello, sottolineando tutte le incongruenze di una storia che non convince con i troppi dubbi sul ruolo delle Brigate Rosse e i misteri sull’ultimo impegno di Varisco in un’importante azienda farmaceutica italiana. Confluita nel processo Moro dopo un improduttivo anno di investigazioni, l’indagine sul delitto di Antonio Varisco ebbe una prima svolta alla fine del gennaio 1982 quando a Padova, nell’ambito dell’operazione che portò alla liberazione del generale americano James Lee Dozier, i NOCS arrestarono una cellula delle Brigate Rosse. In essa vi era anche Antonio Savasta, nome di battaglia “Diego”, che si autoaccusò dell’omicidio chiamando in causa gli altri elementi del commando: Francesco Piccioni, Odorisio Perrotta, Rita Algranati e Cecilia Massara. Alcuni di loro saranno condannati nel “Moro-bis”, altri nel “Moro-ter”, ultime occasioni nelle quali sarà menzionato il nome dell’ufficiale dalmata. Da quel momento la sua figura cadrà nel dimenticatoio nonostante la sua morte avesse destato cordoglio e scalpore. Perché uccidere un uomo che non ricopriva un ruolo di primaria importanza e che a fine luglio avrebbe lasciato l’Arma? E perché con una modalità decisamente insolita, di stampo mafioso, adoperata in precedenza dalle BR nell’attentato alle guardie delle Carceri Nuove di Torino nel 1978? Perplessità che si tramutano
in contraddizioni nella ricostruzione dell’operazione. Il 3 febbraio 1982, al procuratore di Verona Guido Papalia, Savasta disse che l’azione Varisco era nata ed era stata eseguita dopo la gogna a Pierluigi Camilli, giornalista RAI in quota Dc, ammanettato alla cancellata di casa con un cartello al collo la sera del 14 febbraio 1979. Sempre Savasta però alla Corte d’Assise di Roma nell’aprile dello stesso anno affermò che l’indagine su Varisco era stata condotta da Gallinari assieme alla Braghetti e alla Algranati, riferendosi così alle insoddisfacenti ricognizioni compiute dalle BR a fine ‘77 in via del Babuino, dove abitava il Colonnello, che portarono a un accantonamento dell’inchiesta. Emilia Libera, fidanzata di Savasta, nello stesso
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dibattimento dichiarò: «L’azione era stata progettata, con un altro nucleo di cui doveva far parte Arreni, per dicembre ‘78. Slittò per l’irregolarità degli orari di Varisco». A suo sostegno, una brigatista meteora: Norma Andriani. Nelle BR da maggio ‘78 a febbraio ‘79, trascorse la sua militanza a studiare l’Arma e in particolare la figura di Varisco, come risulta agli atti del “Moro-bis”. Poca chiarezza anche sulla conoscenza dell’imminente pensionamento di Varisco. Per Savasta la notizia era ignota, nonostante l’inchiesta fosse in continuo aggiornamento, salvo poi ritrattare che le BR non avevano creduto a questa voce. Infine, altro banco di nebbia sulla strada della verità, i “falsi
storici” del volantino di rivendicazione delle BR. Nessun pestaggio in aula di Varisco verso Maria Pia Vianale e Franca Salerno durante il processo ai NAP iniziato nel maggio ‘79. Prima della morte del Colonnello infatti l’unico dato di rilievo era stato il duplice rinvio dell’udienza a data da destinarsi poiché i terroristi avevano revocato i loro avvocati. Inoltre il volantino risultò anomalo anche per la temporalità della sua composizione. La rivendicazione scritta degli scempi delle BR avveniva sempre nella giornata stessa della loro realizzazione mentre quella per Varisco arrivò il 17 luglio, come scritto in fondo al documento che però Savasta davanti
Roma, via del Babuino.
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la Corte dichiarò essere stato composto precedentemente l’attentato. Meritevole d’interesse la deposizione del giovane carabiniere Giuseppe Coderoni: «Mercoledì 11 c.m. mentre espletavo un servizio di piantone al comando Legione Lazio, in piazza del Popolo, si presentava un signore che sceso dalla Fiat 130 bleu mi chiedeva dove abitasse il colonnello Varisco. Io rispondevo di non essere al corrente per cui lo sconosciuto replicava che il Colonnello abitava in via del Babuino però non sapeva il numero civico. Al che io replicavo ancora una volta di non avere minima idea in merito. Successivamente lo sconosciuto mi chiedeva se vi fossero dei garages in via del Babuino, al che io rispondevo che da quanto mi risultava in via del Babuino non vi erano garages, però nei pressi ve ne erano due, di cui uno ubicato in via S. Sebastianello e lo altro in via Belsiana». All’epoca la Fiat 130 era una cosiddetta “auto blu” e nelle foto segnaletiche Coderoni non riconobbe quell’uomo vestito come un autista ministeriale, che mai più rivide. Sparirono nel nulla anche i due giovani notati da Maria Teresa Alfieri giocare a tennis alle 7:00 del mattino nei due giorni precedenti il delitto. Nel 1979 Roma era già teatro degli Internazionali d’Italia. Ma al Foro Italico, sulla terra battuta. Non sui sanpietrini all’incrocio fra via Alibert e via Margutta. Dove abitava la signora e dove il palazzo di Varisco aveva
un secondo ingresso. Gli inquirenti non approfondirono così un episodio molto simile a quanto avvenuto dal 13 al 15 marzo 1978 a via Belli, sterrata traversa privata di via Trionfale, a 800 metri da via Fani, dove quattro giovani smontarono e rimontarono il motore della loro Fiat 500 dal primo pomeriggio al tramonto. La mattina del 16 marzo, da quella strada, transitarono le macchine con
James Lee Dozier.
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Prospero Gallinari. a bordo Moro prigioniero. Quel giorno Varisco fu tra i primi ad arrivare sul luogo dell’eccidio assieme al sostituto procuratore Luciano Infelisi. Un mese più tardi i due entreranno nel covo brigatista di via Gradoli e la loro fotografia mentre scavalcano l’inferriata sarà rinvenuta, con tanto di croce rossa sulle loro figure, nell’appartamento di viale Giulio Cesare dove abitavano Valerio Morucci e Adriana
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Faranda. E il 15 marzo 1979, in un appunto consegnato al magistrato Achille Gallucci, Varisco scrisse come «uno sconosciuto, probabile informatore» gli avesse rivelato che «l’on. Moro sarebbe stato prigioniero in una casa abitata di Focene». Oltre a Infelisi e Gallucci, Varisco era amico di altri magistrati. Come Ugo Niutta, uomo di fiducia di Bisaglia nella gestione delle partecipazioni statali, presidente della Farm-ItaliaCarlo Erba, azienda dove il Colonnello si sarebbe trasferito per importanti compiti di sorveglianza dopo la pensione, e amico di Eugenio Cefis, numero uno di ENI e Montedison, a sua volta in ottimi rapporti con Varisco al punto da affittargli a prezzo simbolico la casa di Sperlonga per trascorrere i week-end in compagnia della giovanissima fidanzata, Cristina Nosella. Un rapporto certificato anche dalla presenza dell’indirizzo di Niutta nell’agenda di Varisco, altro elemento mai approfondito con la dovuta attenzione. In essa si trovano infatti molteplici conoscenze altolocate – l’ambasciatore olandese S.J.J. Van Voorst tot Voorst, residente in un irenico maniero
alle porte dell’Appia Antica; i magistrati Bruno, Guasco e Zucchini; gli avvocati Vitalone e Gaito; qualche antiquario – ma soprattutto ben 47 utenze su 95 risultate inesistenti, inattive, non rintracciabili o non collegate dopo gli accertamenti effettuati dagli uomini del tenente colonnello dei carabinieri Di Petrillo nel 1989, a dieci anni dalla morte di Varisco, per verificare eventuali collegamenti con il “falsario di Stato” Tony Chichiarelli, che ad amici vantava d’aver sotterrato per mesi, nel giardino di casa, la lupara dell’attentato. Anomalie e misteri. Come il suo effettivo rapporto con Mino Pecorelli, incontrato ben 42 volte dopo via Fani e sulla cui rivista OP scriveva la stessa Nosella, che nel processo di Perugia ricordò le reiterate e pesanti minacce di morte subite da lei e Varisco all’indomani della morte
del giornalista. Parole cadute nel vuoto e impossibili da approfondire perché la donna è morta nel 2006. Trascorsi trentacinque anni dalla scomparsa di Varisco, al di là della verità giudiziaria recante comunque più d’un’incongruenza, i numerosi interrogativi fin qui sollevati permangono e sono da sciogliere se si vuole la verità storica su un uomo poliedrico, sempre dedito al suo lavoro, ma con la passione dell’arte, del cinema e delle belle donne. Perché la mancanza di queste risposte non potrà che dar sempre ragione a quell’ex brigatista che nel novembre 2012, dal cortile della sua abitazione, liquidò la mia curiosità con celere stizza: «Di certe storie si sa solo quello che si deve sapere!».
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Si apre un nuovo capitolo nel caso Moro grazie a
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agli ultimi ritrovamenti
Sono passati 37 anni da quel nefasto 1978. Dopo quasi quattro decadi tuttavia il mistero intorno all’assassinio di Aldo Moro e soprattutto del suo interrogatorio durante i 55 giorni di prigionia sembra infittirsi ogni giorno di più. Anche il recente ritrovamento delle audiocassette del covo delle Brigate Rosse di via Gradoli potrebbe essere un buco nell’acqua: sarà l’ennesima vittoria mutilata o il primo mattone sui cui costruire la ricerca della verità? Andiamo con ordine: nel covo di via Gradoli vennero trovate 18 audiocassette. I reperti all’epoca dei fatti vennero ritenuti di scarso interesse. C’era soprattutto della musica (Guccini e gli Inti Illimani) anche se un appunto di un brigadiere evidenziava che in una cassetta si sentivano delle voci mentre discutevano di alcuni articoli. La tecnologia dell’epoca ovviamente non poteva permettere l’isolamento delle voci e quindi si repertarono le cassette con poca importanza. Ebbene sì, una vicenda tutta italiana non può che avere uno sviluppo tutto italiano. Grazie alle ricerche della dottoressa Antonia Giammaria le cassette sono state ritrovate, ma delle originarie 18 ne sono state rinvenute solo 17. Il RIS è al lavoro in questi giorni per esaminarne il contenuto e cercare di isolare e identificare quelle “voci” appuntate dal brigadiere. Valter Biscotti, legale da anni della famiglia Moro, entra a pie’ pari nella
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notizia del ritrovamento non lasciando spazio alla diplomazia: «Scommetto che alla fine mancherà la numero 13» ha dichiarato Repubblica.it, indicando ovviamente l’audiocassetta in cui erano contenute le voci da identificare. Un compito comunque non facile per il RIS, visto che alcune delle cassette sono state sovraincise. Ora, veniamo all’ipotesi più “fortunata”. Cosa si potrebbe trovare nella cassetta numero 13? L’appunto del brigadiere parlava di «discussione di articoli» ma come sottolinea ancora l’avvocato Biscotti, le Brigate Rosse non erano solite registrare le loro riunioni. È più facile invece che la molteplicità di voci sia causata da una sovraincisione e che la voce sia una sola: è quindi possibile che ci sia una parte dell’interrogatorio a Aldo Moro? L’ipotesi non è da escludere. Se così fosse si potrebbero iniziare a dissipare le nubi sui quei 55 giorni di prigionia, sui quali non ci sono certezze e ben poche idee. Sempre che le dichiarazioni complottistiche dell’avvocato Biscotti non si rivelino veritiere, e a mancare sia proprio la cassetta numero 13. Con la puntualità di un orologio svizzero, Nicolò Bozzo (braccio destro del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa all’epoca del rapimento) sconvolge la ricostruzione del caso Moro. In seguito ad un’intervista rilasciata a Il Fatto Quotidiano Bozzo racconta come lui e Dalla Chiesa
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sapessero dell’appartamento di via Montalcini ancora prima che Moro fosse rapito. Bozzo spiega come avessero ricevuto informazioni da un infiltrato che spiegava che alcuni brigatisti avevano chiesto aiuto ad un «compagno muratore» per fare un lavoro di muratura all’interno di un appartamento, sito a Roma in via Montalcini. Bozzo e Dalla Chiesa sapevano che il covo sarebbe servito a trattenere un sequestrato d’eccellenza, così informarono subito l’Arma di Roma. Il capo di Stato maggiore
dell’Arma, il generale Mario De Sena, non ebbe parole tenere per Bozzo: «Guagliò, quello delle Brigate Rosse è un problema vostro, del Nord, qui a Roma non c’è traccia». Anche in seguito al sequestro le parole di Bozzo non ebbero risonanza: nessuno volle andare a bussare alla porta di quell’appartamento di via Montalcini, nonostante alcune segnalazioni arrivarono anche alla signora Vittoria Leone, moglie del Presidente della Repubblica. Ma perché la verità di Bozzo arriva soltanto ora? Perché «se saltasse fuori ancora qualche piccolo pezzo di verità, sono convinto che verrà giù tutto». Evidentemente c’è ancora molto da dire sull’assassinio di Moro e sui quei terribili 55 giorni di prigionia e la nuova Commissione d’inchiesta ha le carte in regola per scoprire la verità una volta per tutte. Cassetta numero 13 permettendo.
Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa.
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IL GUANTO DELLA
SFIDA
In una scatola la possibile veritĂ sulla morte dei coniugi Fioretto
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Una sfida quella tra gli assassini dei coniugi Fioretto e gli inquirenti, una sfida lunga ventiquattro anni lanciata alla vecchia maniera: con un guanto. È questa l’unica traccia utile lasciata dai due giovani che la sera del 25 febbraio del 1991 aspettano l’avvocato Pietrangelo Fioretto sotto la sua casa per ucciderlo. Sono le 20:30 e l’avvocato torna a casa, in contrà Torretti, sulla sua Alfa Romeo nuova dopo una giornata di lavoro. Parcheggia nel cortile e scende dall’auto. Subito due uomini gli bloccano la strada. Pietrangelo non si lascia intimidire e reagisce all’aggressione. Urla e litiga con i due, fino a che questi non estraggono una pistola e sparano. Fioretto cade a terra ucciso da tre colpi di pistola, alla schiena e al torace. Un quarto, lo raggiunge a bruciapelo, sfiorando la tempia. Poteva finire così se Mafalda, la moglie di Pietrangelo, non si fosse affacciata sul terrazzo, allarmata dalle urla, e non fosse scesa in cortile per aiutare il marito. I due killer uccidono anche lei sparandole alla testa. Muoiono così Pierangelo Fioretto, uno dei migliori civilisti di Vicenza e sua moglie Mafalda. Ora ai due assassini non resta che la fuga. In fretta e furia imboccano la strada dello Stadio gettando per strada i guanti e la pistola (una “Morgora 765”) munita di silenziatore. Poi il buio. Nonostante le indagini degli inquirenti e i racconti di alcuni testimoni (che ricordano di aver visto due uomini, giovani e ben vestiti, aggirarsi nel il tribunale di Vicenza e chiedere dell’avvocato, la mattina stessa dell’omicidio), gli assassini dei coniugi Fioretto non vengono individuati così
come non viene individuato il possibile movente del duplice delitto a causa dei troppi casi “delicati” seguiti dallo stesso avvocato. L’unica pista seguita, poi abbandonata dagli inquirenti per mancanza di prove certe, punta su un tale Massimiliano Romano, un calabrese molto vicino agli ambienti della criminalità locale. A carico del Romano, gli inquirenti hanno solamente la testimonianza di una donna che lo avrebbe riconosciuto in contrà Torretti, la sera dell’omicidio, e una sua frase intercettata durante le indagini: «Ho fatto una strage, ma devono trovare le prove». Ma di indizi seri, precisi e concordanti, dai quali potrebbero nascere le prove, non vi è traccia e così tutti i reperti dell’omicidio vengono chiusi in
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uno scatolone e riposti nei sotterranei del Tribunale. Passano ben ventuno anni da quel giorno quando il capo della Squadra Mobile trova la scatola con i reperti dell’epoca. Incuriosito la apre e studia il duplice delitto. Il 15 marzo 2012 il procuratore Paolo Pecori firma la richiesta per la riapertura l’indagine chiedendo l’intervento della Squadra per il “cold case”, creata dal Ministero dell’Interno. Sono tutti convinti che il mistero della morte dei coniugi Fioretto possa essere contenuto in quella scatola polverosa che contiene otto preziosi reperti: gli abiti indossati dall’avvocato, le scarpe della moglie, la pistola marca “Morgora” ritrovata lungo la via di fuga dei killer e tre paia di guanti. Delle tre paia, quello in pelle scura attira l’attenzione degli inquirenti. Infatti se già
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vent’anni fa su di esso vennero repertate tracce di polvere da sparo, oggi è il DNA che si cerca. Grazie alle moderne tecnologie gli inquirenti cercano la chiave di volta di questo misterioso e insoluto delitto. Chiave di volta che, purtroppo, tarda ad arrivare in quanto il DNA isolato in un laboratorio romano non corrisponde all’unico sospettato dell’epoca: il calabrese Massimiliano Romano (morto un anno dopo il delitto durante un conflitto a fuoco con la Polizia). Così il DNA acquisito sul “guanto di sfida” da possibile chiave di volta diviene il nono reperto. La speranza di svelare il mistero della morte dei due coniugi rimane intrappolata, ancora una volta, tra le anguste maglie degli esami scientifici. Magari per essere poi ricercata e trovata in futuro, comparando gli indizi forniti nei vecchi e polverosi fascicoli con il nuovo reperto: il numero nove.
Crimine ai Raggi X articolo di Alberto Bonomo
DNA,
le tecniche per individuarlo L’indagine genetica rappresenta uno studio dalle potenzialità enormi; assunto il fatto che non esistono due persone che siano geneticamente identiche ad eccezione dei gemelli omozigoti. Nei casi in cui vi sia il sospetto della presenza di possibili tracce biologiche impresse allo stato latente su reperti della scena del crimine è possibile avvalersi dell’utilizzo di tecniche avanzate per la loro individuazione. La scelta della tecnica analitica è fondamentale giacché, la decisione di utilizzare un errato protocollo d’analisi potrebbe portare a non ottenere DNA in quantità o qualità sufficiente per procedere all’identificazione di un profilo e alla successiva indagine comparativa. Uno strumento ad oggi molto utilizzato è la Crimescope. Una lampada ad alta intensità, con lunghezza d’onda variabile tra i 400 e i 670nm, in grado di sfruttare il diverso assorbimento della luce, creando in tal modo una diversificazione delle tracce di sperma, saliva, sangue, sudore, urina o impronte papillari. La lampada, per ottenere i risultati voluti, deve essere utilizzata in un ambiente buio e con l’aiuto di occhiali di diverse gradazioni (colore giallo, arancione e rosso) a seconda delle tracce da ricercare. Ogni traccia avrà un suo iter prestabilito; ad esempio per ciò che attiene al sudore, di norma rilevabile su un indumento, dovrà essere dapprima asciugato all’aria e in seguito il capo stesso, su cui è presente la traccia, dovrà essere chiuso in contenitori di carta o cartone per gli ulteriori step analitici. 29
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Dopo 8 anni l’orribile sospetto: omicidio v
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volontario contro la ex
«Ero stato seviziato per ore, drogato e infine violentato da due malviventi romeni durante una rapina subita in casa il 13 ottobre 2007». Così Settimio Melaragni, agente immobiliare di Capodimonte, in provincia di Viterbo, giustifica il possesso dell’arma con la quale ha sparato nel gennaio 2008 alla sua compagna Daniela Nicoleta Hatmanu, scambiandola, a suo dire, per un ladro. Quella rapina subita, unita alla violenza, l’aveva sconvolto e terrorizzato a tal punto da fargli installare un sistema d’allarme, a richiedere il porto d’armi e a comprare una “Beretta” cal. 9, tenuta accanto al letto. Durante la notte del 31 gennaio 2008 l’antifurto si era azionato, svegliando di soprassalto l’uomo. Vedendo un’ombra nel buio aveva temuto una nuova rapina e aveva sparato, colpendo, però, Daniela Nicoleta che probabilmente si era alzata dal letto per andare in bagno. Due proiettili l’avevano colpita in pieno a una gamba e al torace, uccidendola all’istante. La donna, 37enne di nazionalità romena, abitava a Palermo, ma era atterrata nel pomeriggio a Fiumicino, quindi giunta nel viterbese aveva passato la serata e poi la notte con Melaragni. L’uomo tenta di spiegare quanto successo a dicembre come un grosso equivoco e, in merito all’epoca della rapina, aggiunge di non aver sporto denuncia per motivi di riservatezza.
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Precisa che quella sera aveva fatto uso di droga, quindi, in un primo momento, non si era reso conto appieno di quanto gli era capitato. Per provare la violenza subita, l’allora difensore dell’immobiliarista aveva esibito al Gip le cartelle cliniche dell’ospedale Belcolle di Viterbo che certificavano la violenza sessuale. Si era trattata probabilmente di una spedizione punitiva scaturita da una delle relazioni che l’agente immobiliare aveva avuto con giovani donne dell’Est europeo, entraineuse nei night. Aveva sostenuto la difesa: «Il Giudice ha compreso fino in fondo la situazione psicologica di Melaragni. Ha cioè capito che è ancora in preda ad una vera e propria fobia indotta dall’esperienza vissuta pochi mesi fa e che è alla base delle tragedia», si era detto all’epoca,
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ma ciò non era bastato a farlo finire nel carcere Mammagialla, con l’accusa di omicidio volontario. In primo grado, l’immobiliarista era stato condannato a dieci anni e sette mesi dal Tribunale di Viterbo; pena successivamente ridotta in Appello a otto. Proprio in questi giorni la Cassazione ha annullato però questa sentenza, con rinvio ad un nuovo processo in Corte d’Assise d’Appello. Quindi tutto da riconsiderare. Sarà più dura per la difesa, poiché la versione del timore per una rapina, con conseguente violenza sessuale subita, era stata brutalmente smentita da una sua ex, sempre di nazionalità rumena, che aveva fornito una ben diversa lettura di quanto accaduto quella notte del 2007, descrivendo una vicenda decisamente torbida, per i numerosi risvolti “hard”: la
40enne romena Melinda Zabo aveva infatti affermato di essere stata minacciata ripetutamente da Melaragni di diffondere foto che la ritraevano nuda, se gli avesse negato rapporti sessuali; inoltre l’avrebbe incolpata ingiustamente della rapina da lui subita il 13 ottobre 2007. Secondo Melaragni, infatti, il mandante sarebbe stata proprio la sua ex, da lui accusata di aver ingaggiato due suoi connazionali per derubarlo e sodomizzarlo. La donna aveva categoricamente negato anche l’esistenza della stessa rapina e la violenza sessuale su Melaragni: «Eravamo insieme, la notte tra il 12 e il 13 ottobre di quattro anni fa. Siamo stati bene, abbiamo fatto l’amore. Non c’è stata nessuna rapina. Melaragni non è stato stuprato dai ladri. Non è entrato nessuno in casa», versione ovviamente smentita dalla difesa dell’uomo, che vede così crollare il teorema difensivo basato sulla folle paura di una nuova aggressione.
Le due vicende, comunque, si intrecciano. Per la calunnia e la tentata estorsione a Melinda Zabo, Melaragni è finito in manette il 19 maggio 2011. In occasione di quell’arresto, gli uomini del Nucleo Investigativo di Viterbo avevano sequestrato anche il computer dell’immobiliarista e alcuni documenti. Invece, decisione proprio di questi ultimi giorni, sarà una nuova sezione della Corte d’Assise d’Appello di Roma a giudicare Settimio Melaragni per l’uccisione di Daniela Nicoleta Hatmanu. Il legale Maria Lufrano attende, per ora, le motivazioni della sentenza e l’inizio del nuovo processo, ma si ritiene soddisfatta: «Per lui, questa vicenda è stata un dramma nel dramma: non ha mai accettato e non accetta ancora il fatto di aver ucciso una persona. Io gli credo e spero che anche i giudici lo faranno». Seguiremo con interesse i nuovi capitoli di questa vicenda dai contorni decisamente torbidi.
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L ’errore Capodimonte Affinché l’errore possa avere la forza d’escludere la colpevolezza dell’agente è necessario che esso colpisca gli elementi essenziali della fattispecie penale astratta. In una prospettiva del genere appare poco influente ai fini della colpevolezza l’errore che ricade sull’identità del soggetto o dell’oggetto durante la condotta criminosa. Una disciplina particolare è prevista per l’ipotesi di errore sulla persona offesa da un reato. Il primo comma dell’articolo 60 c.p. stabilisce che «nel caso di errore sulla persona offesa da un reato, non sono poste a carico dell’agente le circostanze aggravanti, che riguardano le condizioni o qualità della persona offesa, o i rapporti tra offeso e colpevole»; al secondo comma: «Sono invece valutate a suo favore le circostanze attenuanti, erroneamente supposte, che concernono le condizioni, le qualità o i rapporti predetti». Un tipico esempio riportato come casistica di riferimento è di un uomo che convinto di uccidere il suo nemico, per un errore di tipo percettivo, uccide un uomo che in realtà risulterà essere il padre. L’uomo per ovvi motivi risponderà di omicidio semplice ma non certo di parricidio in quanto per la realizzazione di tale tipo di reato, occorre la consapevolezza da parte del soggetto di agire con il chiaro proposito di uccidere il padre.
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Lo SCAN (Scientific Content Analysis) è una tecnica linguistica utilizzata negli USA dall’FBI ma adesso anche in Inghilterra, Australia e Canada, per analizzare i messaggi nei casi di suicidio, lettere anonime, lettere minatorie, diari, e-mail, ecc., basata sull’assunto che il nostro linguaggio rivela chi siamo, anche quando cerchiamo di mascherarci. Gli esperti della BSU dell’FBI, per esempio, riescono in questo modo a risolvere i casi di stalking per lettera, riuscendo ad identificare l’autore delle minacce e delle molestie seriali. Questa disciplina investigativa si colloca nell’ambito più generale dell’analisi criminale ed investigativa, accanto all’analisi dei capelli, delle fibre, del DNA e di ogni altro elemento di tipo balistico, con lo scopo di fornire agli investigatori indizi ed ogni altro elemento utile per orientare e restringere il campo delle loro indagini. Capita che agli investigatori sia dato il compito di analizzare lettere anonime, biglietti ed appunti con minacce ed offese, nonché testi scritti da criminali di varia natura. In questo caso, il compito primario dello studio è valutarne la reale minaccia criminale e, se questa viene ritenuta attendibile, estrapolare delle informazioni in grado di tracciare il profilo psicologico dell’autore della minaccia e quindi il grado di pericolosità. La domanda che ci poniamo è: come fanno gli investigatori a valutare il grado di pericolosità da minacce scritte? E come fanno poi ad estrapolare il profilo psicologico dell’autore? L’analisi del linguaggio, offre all’investigatore una notevole ricchezza di informazioni: l’origine geografica,
l’appartenenza etnica, l’età, il sesso, l’attività lavorativa, il livello educativo e scolastico, l’orientamento religioso e tutto quello che potrebbe essere correlato tra caratteristiche linguistiche e caratteristiche sociobiografiche. Come si procede, per esempio, per l’identificazione dell’età? Nella fase della formazione del linguaggio adulto si assorbono termini e gergalità, cosiddetti imprinting linguistici generazionali, che sono tipici di quella fase socio-linguistica e che poi restano per sempre nel modo di parlare della persona. Possiamo dire che ogni generazione di teenager ha i propri gerghi e luoghi linguistici che identificano uno specifico vocabolario e struttura lessicale. La scelta di alcuni termini e di alcune espressioni linguistiche potrebbe essere quindi suggestiva di soggetti sotto i 25 anni oppure tra i 25 ed i 40 anni
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oppure vicini ai 60 anni di età. Allo stesso modo è possibile identificare, in base alle espressioni linguistiche di un testo scritto, il sesso della persona autore del messaggio o della lettera. Esiste una differenza tra uomini e donne nei vari pattern del linguaggio che identificano degli specifici markers di linguaggio maschile e di linguaggio femminile, come ad esempio l’uso della prima o della terza persona, l’uso degli aggettivi e la costruzione delle frasi. Altre informazioni che possono essere ricavate dall’analisi degli aggettivi, dei verbi, delle metafore e della punteggiatura dei documenti e delle varie tipologie di comunicazione, riguardano la professione o il mestiere svolto, il livello scolastico ed educativo e l’orientamento religioso. È possibile inoltre estrapolare delle altre informazioni comportamentali (come l’aggressività e l’impulsività), inerenti lo stato psicologico dell’autore (ansietà, depressione, paranoia) ed alcuni bisogni significativi per la condotta criminologica, come ad esempio il bisogno di esercitare
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sugli altri forme di potere e di controllo. James R. Fitzgerald, che per 20 anni è stato capo unità dell’Analisi Comportamentale Unit-1 dell’FBI, ricorda come una trasposizione di verbi nel manifesto scritto da Unabomber abbia contribuito a portare alla sua identificazione. Chi scrive, descrive se stesso. La sequenza di lettere e parole su un foglio bianco, riflette la personalità di chi l’ha tracciata e questo perché a guidare la mano è il cervello che trasmette circa 9 impulsi nervosi al secondo, vale a dire 540 stimoli sensitivi e motori al minuto. La scrittura richiede quindi il coinvolgimento di tutte le strutture cerebrali.
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LE TRE PARTICELLE CHE INCASTRANO IL
COLPEVOLE Studiare i residui dello sparo per identificare gli autori di reati commessi con armi da fuoco
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Cosa sono i famosi residui dello sparo (Gun Shot Residue) e perché sono così importanti nell’ambito delle Scienze forensi? Per capirlo dobbiamo analizzare la composizione di una cartuccia e cosa accade quando viene premuto il grilletto di un’arma da fuoco lasciando partire un colpo. Una cartuccia è composta essenzialmente da quattro componenti: una pallottola, una carica di lancio, un innesco contenente minime tracce di esplosivi detonanti ed un bossolo che ha il compito di tenere unito il tutto. Nello sparo, il percussore dell’arma colpisce l’innesco della cartuccia provocando la deflagrazione della carica di lancio con la conseguente proiezione della pallottola verso il bersaglio. Il fenomeno della detonazione dell’innesco porta alla formazione e dispersione di una nube di gas contenente numerose particelle che vanno a formare il così detto residuo dello sparo (RDS). Queste piccolissime “sferule”, spesso di dimensioni nanometriche, fuoriuscendo dall’arma si depositano sulle mani dello sparatore e nell’ambiente circostante. Sarà la presenza di queste caratteristiche particelle a dare la prova che una persona ha sparato. Ma come vengono raccolti questi residui? Storicamente i primi protocolli furono elaborati già a partire dai primi anni del ‘900, ed è sicuramente grazie alla visione dei film polizieschi o alla lettura di gialli e casi di cronaca nera che ognuno di noi si ricorderà del celebre “guanto di paraffina”. Questo metodo, nato negli anni ‘30 grazie all’opera del poliziotto messicano Teodor Gonzales e adesso ritenuto obsoleto e
superato dagli anni ‘70 proprio a causa della sua aspecificità (ovvero la tendenza a reagisce anche con sostanze che non hanno niente a che fare con i residui dello sparo) e del suo carattere di irripetibilità, si basava su una semplice tecnica: la paraffina calda veniva fatta colare sul dorso della mano e, una volta raffreddata, veniva rimossa insieme alle sostanze prodotte dallo sparo, che in questo caso erano residui a base di nitriti e nitrati. Il guanto di paraffina veniva poi trattato con un reagente chiamato difenilammina, mostrando una colorazione blu scura in caso di positività ai residui dello sparo. Un metodo molto più affidabile e rapido, ormai adottato da tutte le polizie del mondo è quello della raccolta delle particelle trimetalliche degli elementi piombo (Pb), antimonio (Sb) e bario (Ba) mediante l’utilizzo di particolari tamponi adesivi chiamati “stub”. Questi vengono premuti più volte sul dorso delle mani del sospettato, in modo da poter raccogliere gli eventuali residui depositati che poi verranno analizzati con
Foto esame RDS cortesemente fornita da Irene del Piano.
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un microscopio elettronico a scansione (SEM) dotato di una particolare sonda in grado di riconoscere i metalli. Anche se all’apparenza l’utilizzo dello stub può apparire un’operazione semplice, in realtà è estremamente delicata ed un errore o una semplice disattenzione possono falsare totalmente il risultato. Come sostiene il prof. Martino Farneti, esperto balistico e docente del corso in “Balistica Forense e Scena del Crimine” «la repertazione con gli stub operata dai reparti scientifici delle Forze dell’ordine non deve essere un’operazione improvvisata, bensì svolta da personale estremamente preparato e in luoghi non contaminati dai residui dello sparo. Si pensi infatti ad un operatore delle forze di Polizia che è andato ad addestrarsi al tiro in poligono (quindi pieno di residui dello sparo) e magari qualche ora dopo si ritrova ad usare lo sub su una persona sospettata. Questo è un gravissimo errore, perché lui stesso potrebbe contaminare il sospettato mediante il trasferimento delle particelle.
Particella dello sparo.
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Foto esame RDS cortesemente fornita da Irene del Piano.
Bisogna poi porre attenzione anche al contesto e non focalizzarsi sul semplice repertamento. Ad esempio, è assodato a livello scientifico che particelle simili a quelle dello sparo possono anche formarsi a causa delle alte temperature raggiunte dai ferodi delle autovetture. Particelle che possono finire sulle mani di un innocente! Questi sono esempi non rari che portano a conseguenze spiacevoli facilmente immaginabili. Per questo vi è l’esigenza di una forte formazione e di una piena consapevolezza del rispetto dei protocolli di repertazione, sia da parte dei reparti scientifici ma anche dei consulenti di parte chiamati ad operare nelle indagini difensive».
L ’importanza della pratica Qual è l’impressione di chi per la prima volta affronta le Scienze forensi sul campo? Lo abbiamo chiesto, con una breve intervista a Irene del Piano, tra coloro che hanno preso parte al corso pratico “Esperto Balistico e Scena del Crimine” diretto dal prof. Martino Farneti. Puoi descriverci la tua prima esperienza con il mondo dei residui dello sparo? «La prima esperienza di prelievo delle particelle dei residui dello sparo mediante stub è avvenuta in una simulazione effettuata durante il corso di “Esperto in Balistica Forense e Scena del Crimine”, con il prof. Farneti. Dopo aver appreso la parte teorica, quindi i metodi, le tecniche e soprattutto le precauzioni con le quali vanno effettuati questi prelievi si è passati alla parte pratica. Questa esperienza è stata fondamentale per capire l’importanza di unire la parte teorica a quella sperimentale. Questo, a mio parere, è un’ottima opportunità per evitare di commettere errori che nel dibattimento, molto spesso, provocano annullamenti della prova». Pensi che potrebbe servirti questa esperienza nel lavoro delle indagini difensive? «Sicuramente sì. Conoscere perfettamente il protocollo con il quale devono essere eseguiti questi prelievi è di fondamentale importanza per chi, come noi, andrà poi a fare delle indagini difensive. Uno dei problemi più frequenti, quando si parla dei residui dello sparo, è quello della contaminazione, vale a dire la possibilità che soggetti sicuramente estranei allo sparo possano essere stati oggetto del trasferimento di particelle dalla mano o dalle superfici interessate (armi, autovetture, uffici di Polizia, ecc.) esibendo così una positività che non ha nulla a che vedere con gli spari prodotti da un’arma da fuoco. In conclusione, la conoscenza del protocollo, dei metodi e delle tecniche dei prelievi dei residui dello sparo mediante l’uso dello stub risulterà di fondamentale importanza per la ricerca della verità». 45
Ci puoi trovare anche on-line con una veste grafica tutta nuova www.cronacaedossier.it
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Teatro Bellini di Casalbuttano 29 maggio ore 20.30
La cavalcata dei Jihadisti dello Stato Islamico: una minaccia globale
L’autrice, Dott.ssa Nia Guaita, sarà presente all’evento e illustrerà le strategie e le tecniche di comunicazione utilizzate dall’ Isis per promuovere la loro causa e attirare e radicalizzare i giovani in Europa A seguire interverranno il Dott. Pasquale Ragone, Direttore Responsabile del magazine Cronaca & Dossier e il Direttore Editoriale Laura Gipponi
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I servizi di scorta in Italia Indagine su organizzazione e costi della sicurezza
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Nel nostro Paese i servizi di scorta permettono di tutelare le persone esposte a particolari situazioni di rischio. L’organizzazione della sicurezza richiede un lavoro enorme e dispendioso. In Italia, infatti, le cifre legate a queste attività sono abbastanza alte, ma suscitano anche numerose perplessità. Le incertezze, il più delle volte, sono legate alle domande su chi abbia realmente diritto alla scorta e soprattutto se c’è chi approfitta di questo servizio senza una reale necessità. Prima di rispondere a questi quesiti è importante ripercorrere brevemente i cambiamenti avvenuti nel tempo, sia nella gestione dei servizi sia dal punto di vista economico. Inizialmente sono le Prefetture locali a coordinare gli agenti della DIGOS impegnati maggiormente nelle scorte. Questi si trovano spesso in difficoltà a
causa di una scarsa preparazione; la loro professionalità va di pari passo con l’esperienza e si costruisce direttamente sul campo. Con il passare del tempo, sorge quindi l’esigenza di una maggiore preparazione degli agenti. Vengono istituite scuole di specializzazione e attuati corsi di perfezionamento. Dal 2002 la gestione cambia: l’ufficio centrale Interforze del Ministero dell’Interno inizia ad occuparsi della coordinazione delle scorte e ad oggi, l’UCIS coadiuva il Ministro dell’Interno nella sua funzione di Autorità nazionale di Pubblica Sicurezza. Ci sono però delle incongruenze. In una paese che lamenta continuamente l’assenza di fondi per la gestione di attività e servizi indispensabili, si evidenziano anche tanti sprechi: spese per auto blu, scorte ai politici e ad altri personaggi gravano pesantemente sull’economia
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dello Stato. Da un elenco ufficiale, diffuso qualche anno fa dal settimanale l’Epresso, emerge che in Italia ci sono più di 1.000 auto blindate e oltre 2.000 agenti impegnati nella gestione delle scorte. Tra magistrati, politici, ambasciatori, sindaci, sindacalisti, giornalisti e pentiti, 410 persone hanno a disposizione un’auto blindata fornita dallo Stato italiano. I numeri relativi al personale impegnato per i servizi di protezione, disposti dal Viminale, sono vertiginosi: 900 agenti di polizia, 700 carabinieri, 250 finanzieri, 100 agenti di polizia penitenziaria e 400 uomini per la vigilanza fissa davanti ad abitazioni o sedi sensibili. Negli ultimi anni, lo Stato italiano ha investito milioni di euro per comprare auto
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(Audi A8 e BMW7) del valore di 140mila euro l’una. Le cifre sono altissime, ma il problema è un altro. La scorta viene assegnata in seguito ad una valutazione del rischio e, quando con il passare del tempo il pericolo viene meno, esiste anche la revoca. Numerosi esponenti della politica che non hanno più incarichi e di conseguenza non sono più esposti a situazioni di rischio, continuano ad essere scortati. È questo il punto: la reale necessità molte volte è messa in dubbio da situazioni apparentemente non consone. Se ci guardiamo intorno notiamo delle situazioni completamente diverse. Austria e Danimarca sono i paesi con meno scorte; seguono Francia e Inghilterra dove i politici non attingono alle casse
Parlamento italiano.
pubbliche per il servizio ma provvedono autonomamente e si rivolgono ad una scorta privata. Insomma, situazioni completamente differenti che mettono sempre più in evidenza lo sperpero pubblico italiano ed una cattiva gestione delle spese. Eliminare le scorte inutili sarebbe una delle tante azioni positive necessarie in questo paese. Cittadini e sindacati di Polizia hanno messo in evidenza gli scandali che avvengono ripetutamente in questo settore, ma nemmeno la crisi è in grado di scalfire le coscienze. In fin dei conti la decadenza colpisce i “deboli”. I più “forti” si servono di mezzi, scorte e strategie per tenere alto il loro livello.
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Il fenomeno della “scomparsa di minore”: effetti sulle famiglie, risonanza mediatica e difficoltà nelle indagini
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La maggior parte di chi sparisce torna indietro e racconta ciò che è successo. Alcuni, invece, non hanno nulla da raccontare o non vogliono parlare dell’esperienza vissuta e riprendono la vita di prima. Altri, invece, sono meno fortunati e di loro si trova solo il corpo. Ci sono poi quelli di cui non si saprà mai più niente. Fra questi, c’è sempre un bambino. E, purtroppo, anche una famiglia che soffre. «Mio figlio è scomparso!». Quando un genitore pronuncia queste parole, mette in atto un processo fisico, emotivo e mentale non comparabile con nient’altro. Padri, madri, fratelli, sorelle, nonni, zii alternano emozioni di tristezza, ansia, preoccupazione, disperazione, senso di colpa, vergogna, paura, frustrazione, senso di impotenza e speranza; vivono in una sorta di “limbo” – fino a quando il bambino scomparso non ritorna – ed esperiscono una “mancanza ambigua”, in quanto il bambino fisicamente assente è ancora emotivamente presente all’interno del nucleo famigliare.
Approfondimento
a cura di Nicoletta Calizia L’investigazione nei casi di scomparsa di minore La scomparsa di un bambino rappresenta non solo l’incubo peggiore per un genitore, ma anche un caso difficile da gestire e risolvere per le Forze dell’ordine coinvolte nell’investigazione. A causa della loro rarità, complessità, forte emotività sottesa e gravità, questi tipi di scomparsa sono estremamente complicati da indagare, in quanto, non essendoci un’iniziale indicazione che si tratti di rapimento o di allontanamento volontario, solitamente vengono denunciati alle Autorità come generica “scomparsa di minore”. Non sapere se il bambino scomparso è solo in ritardo o se, invece, è stato sottratto rappresenta un vero e proprio rompicapo per gli investigatori. La difficoltà di questi casi rispetto a tutti gli altri è dovuta soprattutto alla mancanza di esperienza in questa tipologia di reati e alla scarsa ricerca empirica condotta sia sul tema dei “missing children” che sulla metodologia di indagine da seguire. L’investigatore si trova nella posizione di dover decidere immediatamente, anche senza
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Nell’accezione “scomparsa di minore” rientrano molteplici tipologie di situazioni: i bambini che vengono rapiti, quelli sottratti da uno dei due genitori, quelli che si perdono, ma anche ragazzi italiani o stranieri che si allontanano da casa o da istituto. La maggior parte delle volte, il ritrovamento viene effettuato entro le 24 ore, ma non sempre è così. Alcuni diventano vittime dei predatory abductors, che vogliono fare soldi chiedendo il loro riscatto, molestarli sessualmente, e/o seviziarli e ucciderli. Per questo le prime ore sono di vitale importanza e determinanti per capire davvero la soglia di allarme e intervenire. L’elenco dei bambini che vengono rapiti e uccisi ogni anno da qualcuno che non è un membro della famiglia è relativamente breve, rispetto al numero di bambini scomparsi, sottratti o ad altri tipi di omicidio infantile. Sebbene, però, i rapimenti da estranei siano rari, c’è da dire che sono quelli più allarmanti, che destano maggiore preoccupazione sociale e che i media nazionali ed internazionali mettono
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avere informazioni salienti sul tipo di azione da intraprendere, poiché si rende conto che in questi delicati frangenti il tempo costituisce un fattore molto critico. Un’azione celere è necessaria per due ragioni: la prima è che c’è di solito un ritardo di due ore nel fare la denuncia di scomparsa; la seconda è che nella maggioranza dei casi di omicidio di bambini sottratti, la vittima è stata uccisa nelle prime ventiquattro ore. Per tale motivo, qualsiasi denuncia di scomparsa di minore dovrebbe essere presa molto seriamente: tutti gli eventi che ruotano attorno alla sparizione dovrebbero essere ricondotti in unico quadro e una valutazione della natura del caso dovrebbe essere fatta rapidamente. Fattori da considerare nell’indagare il caso sono l’età del minore, le circostanze legate alla scomparsa del bambino e la sua storia di vita. È importante, perciò, rispondere velocemente con un sopralluogo accurato del quartiere di residenza del minore, dell’area adiacente (compresa una ricerca approfondita del vicinato) e dell’ultimo luogo noto, ossia il posto più recente in cui la vittima è stata vista l’ultima volta. Il sopralluogo e interviste mirate a familiari, amici e vicinato costituiscono dei passaggi fondamentali in un caso di scomparsa, che potranno fare la differenza tra la vita e la morte di un bambino.
molto in risalto. Basti pensare al Mostro di Marcinelle o all’Orco di Cleveland, passando per Wolfgang Priklopil, il sequestratore di Natasha Kampush; o ancora prima ai casi dei piccoli Adam Walsh e Etan Patz, due scomparse emblematiche che traumatizzarono gli USA tra fine anni ‘70 e inizio anni ‘80, tanto da iniziare a parlare su come prevenire e combattere il fenomeno dei “missing children”. Anche in Italia è sempre più elevato il numero dei bambini scomparsi. A fronte dei molti casi che si sono risolti positivamente, alcuni hanno avuto esiti drammatici. Per ricordare questi bambini e per sensibilizzare su questo fenomeno così grave che colpisce la società intera, è stata istituita la Giornata Internazionale per i bambini scomparsi che cade anche quest’anno il 25 maggio.
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e SOFFERENZA In Italia ancora oggi nessun diritto per i caregiver, invisibili per lo Stato
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Per prima cosa è bene spiegare, a chi non si è mai trovato davanti questo termine e quindi non è nel mondo della disabilità, che cosa significa caregiver: oramai entrata nell’uso comune anche nel nostro Paese, si indicano coloro che si prendono cura e che assistono persone gravemente disabili. Generalmente è un familiare che segue un congiunto ammalato, tanto che ogni cosa grava sulle sue spalle poiché la presa in carico è 24 ore su 24, 7 giorni su 7. È molto semplice dire: «Tocca a loro farlo», in quanto mogli/madri, sorelle, padri etc., ma non è proprio così. Molte volte sono costrette perché non hanno altre possibilità o via d’uscita. Per il 74% i caregiver sono donne, di cui ben il 31% di età inferiore ai 45 anni. Ricordiamo che questo concetto si amplia anche pensando a chi si occupa degli anziani non autosufficienti, quindi non solo ai malati gravi o gravissimi. Immaginate per un solo istante però, di non avere più una vita indipendente e
nessun diritto davanti allo Stato, neppure quello di un sostegno economico. Voi come reagireste? L’amore fa fare grandi sacrifici, ma occorrono anche aiuti da parte delle Istituzioni, così come accade in altri paesi dell’Europa. I caregiver in Italia sono invisibili benché svolgano un’attività di vitale importanza. Se lo Stato tutela poco o male un disabile, non fa proprio nulla per chi si dedica a lui. Da ben 18 anni nel nostro Paese è ferma una proposta di legge per il prepensionamento dei familiari di disabili gravi. Questa era stata approvata qualche anno fa alla Camera dei Deputati, poi è arrivata al Senato della Repubblica, infine è sparita. Una brutta sorpresa è giunta proprio in questi giorni in merito ai ticket sanitari, anche se a livello regionale. Se infatti l’esenzione del ticket in base al codice E02 è da sempre riservata ai disoccupati, per i caregiver, che sono definiti “inoccupati”, non ha alcun valore. Ecco, è una delle
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tante assurdità dell’Italia. All’inizio dell’anno è stata allestita una campagna, dal titolo Maipiùsoli per far valere i diritti che in Europa invece già esistono assieme a tutele giuridiche ed economiche. Un caregiver è una persona quasi agli arresti domiciliari, poiché deve assistere in ogni momento della giornata, notte compresa, in tutte le sue necessità il congiunto. Si pensi allo stress fisico e psicologico a cui si può arrivare. Occorrono aiuti, sostegni, informazione, sensibilizzazione e affiancamenti. È stato presentato al Parlamento europeo un ricorso collettivo nazionale per il riconoscimento della figura del caregiver, poiché siamo gli unici in Europa a non L’opinione pubblica concentra le sue veder riconosciuti nemmeno i diritti energie sui falsi invalidi, sugli evasori, basilari. ma quante volte abbiamo sentito parlare dei caregiver? Perché le Istituzioni non si occupano mai di questa grande e importante parte della popolazione, che lavora molto più di altre fasce e non percepisce uno stipendio e un domani neppure una pensione? Riflettiamo, prendiamone atto e soprattutto cerchiamo di cambiare le cose.
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LIBRO E PROGRAMMA TV
CONSIGLIATI
a cura di Mauro Valentini La notte della Repubblica
Sergio Zavoli e quel lungo viaggio verso il buio e ritorno Il 12 dicembre del 1989 proprio nell’anniversario dei 20 anni della prima grande azione terroristica che la memoria di questo paese ricordi, andava in onda su Rai2 la prima puntata de La notte della Repubblica di Sergio Zavoli, la lunga inchiesta televisiva dedicata agli anni più bui e travagliati della nostra storia recente: gli Anni di piombo. Il libro che la Mondadori ha pubblicato e ristampato con la ERI a più riprese riporta quell’esperienza televisiva senza precedenti, fissandola in un saggio che si legge come un romanzo. Del resto, Sergio Zavoli è un narratore pacato ma pungente, racconta con difficile equilibrio quelle galassie ideologiche opposte, quel terrorismo di destra e di sinistra che esplodendo gettò nel terrore il paese per quasi vent’anni. Una ricerca che riporta quanto accaduto nel luogo che più compete a tale galassia di eventi, spostandolo dalla cronaca alla storia e con coraggio. Lo stesso autore spiega nella prefazione dell’edizione ultima: «Un Paese che ha prodotto una tale tragedia non può uscirne affidandone la fine solo ad una burocratica, distante espiazione carceraria, come se tutto appartenesse a qualcosa di ormai estraneo alla nostra comunità e alla nostra coscienza». Il libro parte da quello che lo stesso Zavoli chiama il «rumore di sciabole», quel sottobosco eversivo che parte dal “Piano Solo” negli anni ‘60 e che poi sfocerà in un’alternanza di doppi estremismi tra bombe, gambizzazioni ed esecuzioni nelle “prigioni del popolo”. Il volume offre un’occasione unica per comprendere quello che siamo attraverso quelle pulsioni emotive e feroci che appaiono in un’epoca come questa, ricca di percorsi volti all’alienazione dell’ideologia storica. La contestazione operaia post-Boom che sfocia in movimenti extraparlamentari, a cui si contrappongono violente squadre terroristiche della Destra conservatrice in un susseguirsi di violenze di piazza e di vendette violente che esplode irreversibilmente a piazza Fontana nel 1969. Tutto questo è scritto e documentato, narrato come un romanzo avvincente.
Diritto di Cronaca, la nuova rubrica di politica ed attualità in onda
ogni martedì e giovedì su Teleromauno (CH. 271). Tante le tematiche già affrontate, dal caso Cucchi al clan dei Marsigliesi, fino alle inchieste su sanità, sicurezza e criminalità. Tutte le puntate sono disponibili sulla pagina Facebook di “Diritto di Cronaca”, condotte dal giornalista Giovanni Lucifora.
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FILM E PROGRAMMA RADIOFONICO
CONSIGLIATI a cura di Nicola Guarneri
Al cinema
The face of an angel (La faccia di un angelo)
The face of an angel (La faccia di un angelo) non ha ancora una data italiana ufficiale ma dovrebbe uscire nelle sale cinematografiche tra l’estate e l’autunno 2015. Liberamente ispirato all’omicidio di Meredith Kercher e alle successive indagini giudiziarie intorno alla figura di Amanda Knox, il film di Michael Winterbottom racconta le avventure di un giornalista che sta indagando su un caso di omicidio e il suo rapporto con un filmaker che si è interessato al processo. Le riprese sono girate quasi interamente in Toscana; nel cast anche Valerio Mastandrea.
In radio Nun te Radioreggae più, ideato e prodotto da Claudio Caruso, in onda ogni lunedì dalle 22:30 alle 00:00 su “Radio Libera Tutti” (www.radioliberatutti.it) o app RTL, è un’ora e mezza di puro intrattenimento con la conduzione di Claudio Caruso e Federico Mancini, per dire finalmente cosa non sopportiamo, parlando di attualità ma sempre con una vena ironica. La Radio lavora anche alla rubrica Dalla parte di chi non c’è ispirato a tutte quelle persone che sono vittime dello Stato o della mafia.
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