COPIA OMAGGIO
anno 2 – N. 17, Luglio - Agosto 2015
SPECIALE
SERVIZI SEGRETI 1965-2015, STRAGI E DEPISTAGGI
A 50 ANNI DALLA GRANDE RIFORMA.
QUALE VERITÀ? Le nuove sfide per l’Intelligence italiana
Cosa vuol dire essere oggi agente segreto
Intercettazioni, importanza e costi in Italia
Indice del mese 4. Inchiesta del mese INCHIESTA SERVIZI SEGRETI 4. La grande riforma 6. 1945, ex OVRA e SIM 8. 1964, il “Piano Solo” 10. 1969, piazza Fontana 12. 1970, il golpe Borghese 14. 1974, piazza della Loggia 16. 1974, il treno Italicus 18. 1978, il caso Moro 20. 1980, strage di Ustica 22. 1980, strage di Bologna 24. 1992, strage di via D’Amelio 26. 2002, il “Nigergate” 28. 2003, il caso Pollari 30. 2013, Servizi al confine 32. Le nuove sfide dell’Intelligence
7
2
38. Ricerca e analisi CIA VS SENATO: LE (OLTRE) SEIMILA PAGINE DELLA DISCORDIA
42. Stay Behind COSA VUOL DIRE ESSERE OGGI UN AGENTE SEGRETO
50. Criminalistica INTERCETTAZIONI, QUELLE ARMI DEI SERVIZI SEGRETI
18 32
3
24
31
56. Dossier società QUANTO COSTA SPIARE LA PRIVACY IN ITALIA?
60. Diritti e minori TERRORISMO E MAFIA, QUALI DESTINI PER I FIGLI DELLE VITTIME?
66. Sulla scena del crimine ARCHIVIATO, ANZI NO. DOPPIO GIALLO NEL CASO MAURANTONIO
72. Sulla scena del crimine MORTI PER ERRORE
78. Sulla scena del crimine DUE VITE, UN MISTERO
84. Dossier da collezione ROCCO CHINNICI, L’UOMO CHE IDEÒ IL POOL ANTIMAFIA
88. Memorabili Canaglie PINO COBIANCHI: SERIAL KILLER O MITOMANE?
94. Storie di tutti i giorni L’ISEE 2015 DANNEGGIA LE PERSONE CON DISABILITÀ
98. Media crime LIBRO, FILM, PROGRAMMA TV E RADIO CONSIGLIATI
ANNO 2 - N. 17 LUGLIO - AGOSTO 2015 Rivista On-line Gratuita
Foto di copertina fonte Facebook
Direttore Responsbile Pasquale Ragone Direttore Editoriale Laura Gipponi Articoli a cura di Alberto Bonomo, Nicoletta Calizia, Nia Guaita, Nicola Guarneri, Dora Millaci, Paolo Mugnai, Gelsomina Napolitano, Katiuscia Pacini, Paola Pagliari, Mauro Valentini, Antonella Marchisella, Francesca De Rinaldis. Direzione - Redazione - Pubblicità Auraoffice Edizioni srl a socio unico Via Diaz, 37 - 26013 Crema (CR) Tel. 0373 80522 - Fax 0373 254399 edizioni@auraoffice.com Grafica e Impaginazione Giulia Dester Testi e foto non possono essere riprodotti senza autorizzazione scritta dall’Editore. Le opinioni espresse negli articoli appartengono ai singoli autori dei quali si intende rispettare la piena libertà di espressione. Registrato al ROC n°: 23491 Iscrizione al tribunale N: 1411V.G. dal 29 ottobre 2013
ESE
DEL M A T S E I
INCH
50 ANNI FA LA RIFORMA CHE CAMBIÒ I SERVIZI SEGRETI ITALIANI
Occuparsi dei servizi segreti vuol dire entrare in un labirinto nel quale è facile perdersi. Trattare poi le vicende inerenti i Servizi italiani diventa addirittura improbabile perché troppe sono le storie nelle quali essi sembrano comparire come fantasmi, attraversando fatti oscuri e delittuosi. In occasione della ricorrenza dei 50 anni da una delle più importanti riforme dei servizi segreti nostrani, Cronaca&Dossier ha scelto di compiere assieme ai nostri lettori un viaggio nelle vicende tra le più rilevanti della Storia repubblicana italiana, passando dal SIM (Servizio Informazioni Militari) al SIFAR (Servizio Informazioni Forze Armate) e trascinando con sé migliaia di schede, documenti, informative e persino un tentato colpo di Stato (il celebre “Piano Solo”) come quello organizzato, e poi fermato, dal generale Giovanni De Lorenzo. È il 1964 quando il cosiddetto “Piano Solo” dovrebbe trovare attuazione in Italia ma all’ultimo momento fallisce. Da lì inizia un’altra storia.
Esattamente 50 anni fa, nel giugno del 1965, con riorganizzazione a luglio e attuazione dall’anno
4
successivo, si passa dal SIFAR (poi disciolto per decreto il 18 novembre 1965) al SID (Servizio Informazione e Difesa), segnando un punto di non ritorno. Sebbene gli uomini che avevano fatto parte del precedente Servizio si ritrovano in reparti diversificati e apparentemente più “gestibili”, sotto la direzione del suo primo direttore (l’ammiraglio Eugenio Henke), dal 1966 al 1970 (per poi tristemente continuare) inizia un’escalation che gli storici hanno sintetizzato nell’espressione “Strategia della tensione”: la bomba a piazza Fontana (Milano) nel 1969, il tentato golpe Borghese nel 1970, le stragi dell’Italicus e a piazza della Loggia nel 1974, il caso Aldo Moro nel 1978, le presunte coperture sui fatti legati ad Ustica e alla bomba alla stazione di Bologna nel 1980 e persino il possibile ruolo nelle vicende circa la morte dei giudici Falcone e Borsellino (1992). La lista dei fatti di sangue nei quali i servizi segreti italiani sono stati chiamati in causa a vario titolo è lunga, ancora più lunga di quella appena indicata. I Servizi cambieranno pelle tante volte nel corso dei decenni. Dal già
citato SID si passerà nel 1977 (con legge n. 801 del 24 ottobre 1977) al SISMI (Servizio Informazioni e Sicurezza Militare) e al SISDE (Servizio Informazioni Sicurezza Democratica) distinguendo le competenze sulla sicurezza militare da quella civile; con la legge n. 124 del 3 agosto 2007 si passerà poi all’attuale AISE (Agenzia Informazioni e Sicurezza Estera) raccogliendo l’eredità del SISMI, e all’AISI (Agenzia Informazioni e Sicurezza Interna) in sostituzione del SISDE. Non è certo questa la sede per “giudicare” penalmente l’operato dei Servizi, ma è senz’altro questa l’occasione per
porsi la domanda di natura storico-giornalistica se l’Intelligence nostrana si sia “limitata” a compiere coperture nelle suddette vicende o se vi sia stata una partecipazione attiva al punto da determinare l’accadimento di quei fatti.
Le recenti declassificazioni di documenti, i casi riaperti e i nuovi processi impongono un ritorno alla riflessione su vicende storiche per le quali si ha ancora la sensazione che non sia stato fatto abbastanza.
5
MESE ni L E D ti IESTA alen
INCH Mauro V a di r
a cu
Ex OVRA e SIM, VECCHI AGENTI NEI NUOVI SERVIZI SEGRETI
Appena dopo la marcia su Roma e l’occupazione del potere, per Mussolini è prioritario creare subito una rete segreta di spionaggio interno. Le sue camicie nere erano forti e con il petto in fuori, ma deboli ed inesperte nella gestione delle trame sommerse di un paese che fino ad allora aveva gestito le questioni di sicurezza interna con metodi Regi e fedeli a quel Re lo erano ancora.
6
Il SIM e l’OVRA sono i due organismi che nascono già nel 1925 con l’intento di gestire l’“intelligence” della neonata dittatura. Il Duce ritiene necessario infatti affidarsi ad organismi funzionali e sinergici al suo governo, che ha rischiato di esser travolto quasi subito sull’onda emotiva dell’omicidio di Matteotti. Mussolini, che ha misurato sulla propria pelle quanto difficile era stato nel 1924
gestire mettendoci egli stesso la faccia in vicende così spinose, ha necessità che il lavoro sporco lo facciano altri, al riparo nella nebbia spionistica. Egli continuerà ad essere il mandante di ogni azione ma rimanendo così con le mani pulite. Anche quando l’OVRA farà uccidere i fratelli Rosselli in Francia, con la complicità dalle meschine avanguardie “cagoulards” francesi, più naziste di Goebbels. Dopo il ‘45 il nuovo governo repubblicano si trova a gestire la questione degli affari interni prima da un punto di vista strettamente militare. Del resto, non si era fatto altro che guerreggiare e ad occupare i posti di comando sono gli esponenti tra i partiti e i partigiani vincitori morali e materiali, mentre sul piano civile lo scacchiere era tutto da definire. Ed è in questo nuovo ambito che chi aveva avuto ruoli chiave con OVRA E SIM si ricicla con grande abilità, impermeabili ad ogni epurazione. E così nel nuovo ”Ufficio Affari riservati” del Ministero dell’Interno riescono ad occupare poltrone di spicco funzionari come Guido Leto, che per l’OVRA dirigeva
Benito Mussolini.
la sicurezza per la Repubblica di Salò e il veterano fascista Gesualdo Barletta, ex uomo di spicco dell’Italia repubblichina. Ma il capolavoro dell’usato tutt’altro che sicuro lo si ha con Ciro Verdiani, che farà in tempo prima di morire per sospetto avvelenamento ad intessere rapporti mai chiariti con Salvatore Giuliano. All’interno del Ministero dell’Interno dunque, con estrema velocità e forse per influenza diretta degli Stati Uniti avviene un “cambio della guardia” improvviso tra gli ex partigiani, ed ex fascisti, alcuni non proprio dei passacarte, già epurati o arrestati per alcuni episodi orribili di cui si erano macchiati ai tempi di Salò, atrocità spesso dimenticate in nome della “ragion di Stato”.
7
MESE one L E D ag IESTA le R
INCH r
a cu
a
squ
Pa a di
1964
IL “PIANO SOLO” E QUELLE SCHEDE DEI SERVIZI SEGRETI Il tentato del 1964 è la prima grande vicenda controversa che riempie lepagine dei libri di Storia sulla giovane Repubblica italiana. Qualcosa era in programma per il 18 luglio del 1964 nelle intenzioni del generale dei Carabinieri De Lorenzo? Su questo “qualcosa” si interrogheranno, dal 1967 (dopo la campagna stampa de L’Espresso) giornalisti, storici e pm. La Storia ha dato un nome a quel “qualcosa” oggi ricordato come il “Piano Solo” sebbene smentito in sede processuale.
8
È certo che il Piano prevedesse un intervento militare nel caso in cui i “rossi” avessero tentato di conquistare il potere in Italia attraverso insurrezioni di piazza. Per difendersi, i soli Carabinieri (da qui il nome “Piano Solo”) sarebbero dovuti intervenire per sedare gli animi e portare esponenti dell’allora Sinistra italiana (culturale e politica) in Sardegna al fine di essere lì segretamente trattenuti. Fin qui il ruolo “previsto” degli uomini dell’Arma. Dietro però c’è tutto un mondo. Ed è qui che entrano in gioco i servizi segreti.
Per ciascun uomo politico (non solo di Sinistra), del mondo dello spettacolo e dell’ambito culturale esistevano interi fascicoli pieni di informative o addirittura veri e propri tomi (come nel caso di Amintore Fanfani) per raccontarne spostamenti, incontri, vizi e virtù. Alla fine si conteranno 157.000 fascicoli. La controversia aveva tirato in ballo il precedente ruolo di Giovanni De Lorenzo, già a capo del SIFAR nei quali dal 1955 al 1962, anni il Servizio continua quel certosino lavoro di schedatura iniziato dal SIM. Un’eredità pesante, preziosa per la sicurezza nazionale ma potenzialmente accentuato dalle controversie processuali in grado di diventare un’arma di tra De Lorenzo e L’Espresso, quest’ultimo ricatto se in mani sbagliate. Dopo accusato di avere pubblicato notizie false. la pubblicazione del '67, il clamore sul presunto golpe non mancherà, Entrano così sulla scena gli omissis che l’allora presidente del Consiglio Aldo Moro impone, ma soprattutto ci si accorge che una parte di quei fascicoli svanisce nel nulla, con più di qualche sospetto che ad operare nell’interesse della sicurezza nazionale possano essere stati uomini dei Servizi, chiamati a mettere toppe su una vicenda potenzialmente esplosiva. Il caso Piano Solo segna soprattutto un vero punto di non ritorno, rendendo evidente la necessità di una riforma dei servizi segreti tale da potenziare l’Intelligence nostrana per esprimere un controllo maggiore segnando zone “di confine” maggiormente definite anche rispetto agli altri apparati militari dello Stato. Un Servizio più potente e organizzato, insomma. Si passa così al SID (Servizio Informazione e Difesa), altra arma che Giovanni De Lorenzo. si rivelerà a doppio taglio se in mani sbagliate.
9
MESE ri L E D TA rne Gua HIES
INC
a cu
a
icol
iN ra d
1969
LA STRAGE DI PIAZZA FONTANA E IL SILENZIO DEI SERVIZI
È il 12 dicembre 1969, centro di Milano. La storia è arcinota: alle ore 16:37 nella sede della Banca Nazionale dell’Agricoltura in piazza Fontana esplode un ordigno che causa la morte di 17 persone, oltre ad 88 feriti. Una seconda bomba, inesplosa, verrà poi trovata nella sede della Banca Commerciale Italiana di piazza della Scala. La strage è, se possibile, ancora più grave se si considera come il vero e proprio inizio del periodo della Strategia della tensione. Al di là dei vari coinvolgimenti, ciò che fa più scalpore
10
è anche solo il sospetto che pezzi dello Stato, come i servizi segreti, possano avere avuto un ruolo nella triste vicenda. Già, ma di quale ruolo potrebbe trattarsi? I primi sospetti giungono già nelle ore immediatamente successive alla strage, quando una serie di elementi tendono a depistare le indagini verso gli anarchici, additando a quest’ultimi la responsabilità delle bombe. Si rivelerà un falso. La vera pista porta all’eversione di destra, come decreterà la Magistratura, in particolare al neofascismo veneto.
Sebbene costellata solo da voci e sospetti, in realtà nella strage di Milano le ombre dei Servizi compaiono eccome. Su tutte spicca la figura perlomeno enigmatica, quella del giornalista Guido Giannettini. Il lavoro con la carta stampata è infatti solo una copertura: Giannettini, conosciuto anche come “Agente Zeta”, è un infiltrato dei servizi segreti ed è presente alla riunione tenuta a Padova il 18 aprile 1969 in cui la cellula nera pianifica l’attentato. Evidentemente svolge male il suo lavoro, visto che l’attentato non viene sventato, come tutti quelli in cui Giannettini è infiltrato (avrà un ruolo anche nell’attentato di Fiumicino del 1973). Qualche anno più tardi il “giornalista” viene accusato di aver partecipato attivamente all’attentato di piazza Fontana; solo grazie al ministro Andreotti riuscirà ad evitare il processo. Grazie alle indagini del giornalista Mino Pecorelli si scopre come il SID – sempre su beneplacito andreottiano – favorisca la fuga di Giannettini all’estero, non solo procurandogli i documenti necessari (come il passaporto falso) ma continuando
pure a stipendiarlo come un dipendente. A più di 40 anni di distanza restano senza risposta numerose domande. La più importante: come mai il SID decise di affidarsi a un uomo come Giannettini, dichiaratamente neonazista e già implicato in organizzazioni di spionaggio internazionale? Forse tutte le “missioni” in cui Giannettini si è infiltrato non si sono rivelate fallimentari; forse, per i servizi segreti, le cose sono andate esattamente come dovevano andare? L’Agente Zeta gode così di importanti protezioni, evidentemente custode di informazioni rilevanti o, come più pragmaticamente funziona negli ambienti dei Servizi, un agente va tutelato per evitare di bruciare altre fonti, anch’esse infiltrate e parte in quel momento di operazioni delicate. Una questione di vita o di morte, insomma, un po’ come avvenuto a piazza Fontana.
11
ESE M L E D one Rag IESTA
INCH Pasqual a di
e
r
a cu
1970
I SERVIZI SEGRETI SAPEVANO TUTTO È previsto un golpe nella notte tra il 7 e l’8 dicembre 1970. Anzi no, cambia tutto e alla fine diventa un’iniziativa di quattro vecchietti nostalgici. Si può sintetizzare così una vicenda sulla quale l’Italia sa ancora poco. Chi invece sa tutto sin dalle origini sono i servizi segreti operanti in quegli anni (SID). Il tentato golpe Borghese nasce su iniziativa dell’ex comandante della flottiglia X Mas
12
operante durante la Seconda guerra mondiale. Il “Principe nero” (soprannome di Junio Valerio Borghese) ha l’obiettivo di attuare una sorta di “Presidenzialismo forte” con il supporto delle Forze Armate. Per farlo mobilita uomini appartenenti alla galassia dell’estremismo di destra mettendo assieme vecchi fascisti e nuove leve. In origine il golpe deve attuarsi già nell’estate del 1969. Ma Borghese
rimanda, forse per risorse economiche ancora non sufficienti. Ha ancora un anno per mettere in piedi una macchina perfetta per mettere in subbuglio la vita dello Stato. Il piano sembra ormai pronto quando tra il 7 e l’8 dicembre 1970 si tenta l’assalto. La conquista del Viminale, della RAI e l’arresto dell’allora presidente della Repubblica Giuseppe Saragat: è questo lo schema preciso che Borghese ha in mente mentre con i suoi fedelissimi segue l’evolversi di quella che sembra una lunga notte. Il Principe ha già il discorso pronto e i suoi uomini sono già nel Viminale. Sembra fatta. Ma la Storia si ferma qui perché dopo sussistono solo ipotesi. La più probabile vuole una telefonata raggiungere proprio Borghese imponendo l’immediato fermo delle operazioni. Chi è dall’altro capo del telefono è tanto convincente quanto misterioso perché alla fine il piano muore e del golpe non resterà più nulla. Quando nel 1971 la vicenda verrà alla luce, apparirà evidente che l’allora SID sapeva tutto sin nei minimi dettagli. Le informative ancora oggi conservate e ormai disponibili al pubblico raccontano una storia avulsa da dietrologie. Nessun uomo dello Stato, tantomeno dei servizi segreti, avallò i piani eversivi di Borghese. Gli incontri del Principe, i suoi spostamenti, le risorse che gli giungevano, i contatti avuti e tanti, tanti nomi erano tutti attentamente controllati grazie ad un’eccellente capacità di infiltrazione negli ambienti dell’estrema destra. Addirittura la vicenda Borghese sarà poi utilizzata internamente al SID per
giochi di potere, laddove il numero due del Servizio (Gianadelio Maletti) tenterà di additare al suo capo (Vito Miceli) responsabilità e coperture comunicandole al successivo ministro della Difesa Giulio Andreotti. Nonostante il grande clamore nazionale che susciterà la vicenda negli anni successivi, tutto si concluderà con il decretare il tentato golpe un’iniziativa personale e fuori portata di vecchi nostalgici, fermati forse da uomini degli stessi servizi segreti italiani; “vecchietti” lasciati agire un po’ come fa il gatto con il topo prima di farne un sol boccone.
Junio Valerio Borghese.
13
MESE i L E D STA ntin CHIE Vale
IN
auro
iM ra d
a cu
1974
UOMINI DEL SID IN PIAZZA DELLA LOGGIA Quello scoppio, quella voce del delegato sindacale che cerca di gestire dal palco quell’ondeggiamento della folla impaurita e impazzita alla vista di tutto quel sangue. Chissà che cosa avrà provato il delegato, Franco Castrezzati quando tanti anni dopo si scoprirà che nelle foto scattate dai reporter quella mattina appena dopo la tragedia, tra la folla piangente, c’è impresso il volto di Maurizio Tramonte, infiltrato del SID nella galassia di Ordine Nuovo. Cosa faceva lì Tramonte? È stato lui a metter
14
la bomba e per conto di chi? A distanza di 40 anni qualcuno che parla senza freni è proprio un ex ordinovista, Vincenzo Vinciguerra, che ai cronisti che seguono il processo, l’ennesimo ai possibili mandanti e autori di quella strage, dice: «Obiettivo della strage erano i manifestanti, non i carabinieri. Perché la strage di Brescia è la conseguenza di uno scontro durissimo all’interno dell’anticomunismo politico che governava l’Italia dal maggio 1947. In piazza della Loggia i carabinieri
si spostarono perché non dovevano essere loro a morire ma i manifestanti. Eseguirono un ordine». Dove abbia appreso questa verità l’autore della strage di Peteano non è dato saperlo: «Di quanto avvenne a Brescia ho saputo durante la detenzione ma anche nel periodo della mia latitanza, iniziata ancor prima di quel 28 maggio 1974». Prove in realtà non ce ne sono molte, anzi, ma le testimonianze hanno convinto i pm Roberto Di Martino e Francesco Piantoni del processo ancora in corso con un teorema chiaro e drammaticamente semplice: «Sullo sfondo di questa storia ci sono i servizi segreti italiani e americani». Si sarebbe verificato quindi un maledetto intreccio tra chi dirigeva Ordine Nuovo e apparati deviati dello Stato, anche ai massimi livelli. Ecco perché tra gli imputati c’è il generale Francesco Delfino, oggi defunto, ma in quel periodo a Brescia. I Pm lo accusano di aver partecipato a riunioni anche organizzative della strage. Ma chi sono questi testimoni che hanno concorso ad
ipotizzare le accuse? In primis ci sono le deboli ammissioni dello stesso Tramonte, non proprio un granché, ma qualche consistenza l’avrebbero, misteriose del resto come il suo ruolo imponeva. Poi i due pentiti, Martino Siciliano e Carlo Digilio, due personaggi che prima di morire con le proprie dichiarazioni costruiscono un quadro che appare probante. Soprattutto quella di Digilio che addirittura sostiene di essere un agente della CIA. E poi una figura che sembra chiave, l’anello di congiunzione, ormai defunto anch’egli: Giovanni Maifredi, un funzionario dello Stato. Per l’accusa era il collettore di informazioni strategico per i terroristi nella stanza dei bottoni al Ministero dell’Interno. Intanto il 22 luglio 2015 la Corte di Assise d’Appello di Milano ha condannato Tramonte (e l’ordinovista Carlo Maria Maggi) alla pena dell’ergastolo. Un punto fermo su questa triste vicenda dopo anni di indagini.
15
MESE L E D tini IESTA alen
INCH
ra
a cu
ro V
au di M
1974
ITALICUS, IL TRENO DIVENTA TERRORE Ore 1:23 del 4 agosto 1974, sull’espresso Roma-Monaco, denominato Italicus, esplode una bomba. Accade nella carrozza numero 5, il treno riesce ad uscire dalla galleria, arriva con il suo carico di orrore fatto di 12 vite spezzate e di 48 feriti nella stazione di San Benedetto Val di Sambro. Il movimento Ordine Nuovo rivendica
16
l’attentato. Strano però, perché queste stragi non si rivendicano anzi, hanno proprio nel mistero l’effetto principale per destabilizzare opinione pubblica e società civile. Eppure, il giorno dopo arriva al Resto del Carlino una telefonata che sembra non lasciar dubbi: «Con la bomba al tritolo che abbiamo messo sull’Espresso Roma-Monaco abbiamo
voluto dimostrare alla nazione che siamo in grado di mettere bombe dove vogliamo, in qualsiasi ora, in qualsiasi luogo, dove e quando ci pare. Giancarlo Esposti è stato vendicato». Giancarlo Esposti era stato ucciso durante un conflitto a fuoco con i Carabinieri qualche mese prima e non era un personaggio di poco conto nella galassia del terrorismo di destra. Ma possibile che una strage che per puro caso non fa il triplo dei morti che ha fatto sia solo frutto di una ritorsione? L’autore sia del volantino che della telefonata anonima è Italo Bono, personaggio interno all’estrema destra, poco considerato nell’ambiente e con qualche disturbo di personalità. Ma il motivo per cui questa strage entra di diritto nel catalogo dei misteri di Stato arriva appena 5 giorni dopo. Il 9 agosto si presenta in Questura di Roma Rosa Marotta, che ha una ricevitoria del Lotto nei pressi della Stazione, non lontano dal Ministero dell’Interno, in via Aureliana a Roma. La donna dice che ha “origliato” qualche giorno prima della strage una
telefonata fatta da una ragazza nel suo negozio, riguardante un attentato. Fa scrivere a verbale che questa ragazza avrebbe detto: «Le bombe sono pronte… I passaporti sono pronti». Le indagini partono velocemente, forse troppo si ipotizza, perché la Squadra Mobile trova subito la ragazza autrice della telefonata. È Claudia Ajello, ma la sorpresa più grande sarà quando vedranno che cosa fa per vivere la signorina Claudia: collaboratrice del SID, impiegata nell’ufficio dei servizi segreti proprio in via Aureliana. Ajello nega: «Ma quale bomba! Parlavo con mia madre». Ma c’è qualcosa di misterioso nell’impiegata del SID. Si scopre infatti che Claudia Ajello non ha il solo ruolo di traduttrice come si affrettano a spiegare i suoi superiori, ma è infiltrata nella sezione del Partito Comunista Italiano di Casal Bertone, regolarmente iscritta, tradita forse con quella telefonata nella sua specialità, ovvero quella di origliare conversazioni pericolose.
17
S
IE INCH a
SE
L ME E D A T
i Alb
d cura
o
nom
Bo erto
1978
IL CASO MORO
E LE TRAME DEI SERVIZI
Dopo 55 giorni di estenuante prigionia, la mattina del 9 maggio 1978, il corpo senza vita del leader democristiano giace rannicchiato dentro una Renault 4 abbandonata su via Caetani, giustiziato. Tutte le fasi di questa vicenda, dal rapimento all’uccisione, coinvolgono protagonisti avvolti da uno strano strato di nebbia e celano manovre e obiettivi oscuri. Si scorgono solo i profili, a volte riconoscibili altre no. Il coinvolgimento dei servizi segreti (nazionali e internazionali)
18
in questa vicenda è stato più volte sussurrato e non solo, anche gridato, ma ancora oggi si parla esclusivamente d’ipotesi plausibili. Il periodo storico di riferimento è caratterizzato da turbolenze geopolitiche. I Servizi americani operano costantemente su tutto il territorio europeo (anche in Italia) per contrastare eventuali influenze filo-sovietiche. L’organizzazione Gladio nasce proprio per tale scopo. Senza uscire dai confini del Paese, durante le fasi del rapimento Moro si è ipotizzata (a
posteriori) un’implicazione nella vicenda della loggia massonica P2 di Licio Gelli, punto d’incontro per molti uomini delle istituzioni impegnati nel caso (tra questi, alcuni pezzi grossi del Sismi). Nel 2008 la testimonianza di Llich Ramirez Sanchez, terrorista venezuelano, svela i retroscena di un incontro segreto diretto dagli uomini del SISMI, guidati dal colonnello Stefano Giovannone, che la notte dell’8 maggio si sarebbero recati a Beirut per barattare la liberazione di Moro attraverso la consegna di alcuni prigionieri del fronte Popolare per la liberazione della Palestina. Qualcosa andò storto, il giorno dopo la notizia del cadavere di Moro. I dubbi maggiori, circa le influenze dei servizi segreti, riguardano la presenza del colonnello Camillo Guglielmi del SISMI, nei pressi del luogo in cui fu consumato il sequestro per opera delle Brigate Rosse. Notizia questa rivelata dalla Commissione Stragi nel 1991. Guglielmi, secondo alcune fonti affiliato a Gladio, affermerà di essere stato realmente in zona quel giorno ma per altri motivi, pura casualità. A
corroborare la tesi che vede il colonnello Guglielmi coinvolto nella presunta rete, ci sarebbero le rivelazioni all’Ansa dell’ex ispettore di Polizia Enrico Rossi, che ha indagato su alcuni aspetti della vicenda e secondo cui le responsabilità del Colonnello sarebbero conclamate, al punto da affermare: «Due agenti dei servizi segreti aiutarono le Brigate Rosse in via Fani durante il rapimento di Aldo Moro […] per proteggere le BR da disturbi di qualsiasi genere». Le sue indagini sarebbero partite da una lettera anonima scritta da uno dei due uomini in sella a una moto Honda presenti durante l’agguato. Eppure, le trame dietro la morte di Aldo Moro porterebbero lontano, molto lontano, verso quei servizi segreti internazionali, americani e sovietici in primis. In questo scenario, forse il ruolo dei Servizi italiani sarebbe stato “solo” di “controllo”, con o senza il ruolo attivo degli uomini del colonnello Guglielmi, casualità permettendo.
19
MESE L E D i ntin ESTA I e l H a C V IN r
a cu
uro
Ma a di
1980
USTICA, QUEL DEPISTAGGIO CONSACRATO DALLA
CASSAZIONE
Non si è accertato chi ha sparato quel missile, ma i Giudici chiamati a decidere delle richieste di risarcimento in sede civile per i parenti delle vittime e per gli eredi di Aldo Davanzali, presidente Itavia sono state operate da parte del Ministero dei Trasporti e della Difesa azioni di «depistaggio definitivamente accertato». Un colpo al cuore dello Stato, o meglio, alle sue tasche, ma anche e soprattutto
20
una prima ammissione nella storia dei misteri italiani. Perché la Corte di Cassazione Civile riconosce che «è certa la tesi del missile sparato da aereo ignoto, la cui presenza sulla rotta del velivolo Itavia non era stata impedita dai due enti (Difesa e Trasporti, ndr)». Eppure, in sede penale non era andata proprio così, perché quattro generali accusati a vario titolo di non aver gestito la sicurezza e
soprattutto di non aver dato informazioni alle autorità politiche e giudiziarie erano stati assolti. «Perché il fatto non sussiste», si era deciso, e così Lamberto Bartolucci, Franco Ferri, Zeno Tascio e Corrado Melillo se l’erano cavata senza guai. Dopo il “decreto Renzi” qualcosa di interessante viene riportato alla luce. È un documento redatto dai servizi segreti italiani. Nel 2000 si scopre che le due rotte chiamate in codice “Ambra 13” e “Ambra 14” erano le zone di competenza degli aerei militari e che il DC9 quella sera incrociò proprio quelle zone, sopra Ponza, che ufficialmente risultavano libere ma che libere non erano affatto. Nel documento denominato Questioni informative aperte con gli Stati Uniti si fa cenno al fatto che fin da pochi giorni dopo la strage, il SISMI già sapesse di un coinvolgimento di Gheddafi sebbene non sia ancora chiaro se in veste di bersaglio di un aereo nemico o addirittura mandante dell’esplosione in volo. La pista libica è comunque la più accreditata, ma sempre omessa per Ragion di Stato. Così come potrebbero celarsi dietro ragioni “supreme” le «troppe morti improvvise», dirà anni più tardi il magistrato Rosario Priore chiamato a indagare sulla strage. Il 3 agosto del 1980 muore in un incidente stradale il colonnello Pierangelo Tedoldi, collega di Mario Alberto Dettori, l’uomo presente al centro radar di Poggio Ballone (GR) la sera del disastro e trovato impiccato il 31 marzo 1987. Il 9 maggio 1981 un infarto uccide Maurizio Gari, capocontrollore della sala operativa della Difesa aerea a Poggio Ballone; il 23 gennaio 1983 muore
il sindaco di Grosseto, Giovanni Battista Finetti; il 12 agosto 1988 il maresciallo Ugo Zammarelli, del SIOS (Servizio segreto dell’aeronautica) di Cagliari, muore in un incidente stradale. Il 28 agosto un incidente aereo uccide i colonnelli Mario Nardini e Ivo Nutarelli. Entrambi avevano dato l’allarme la notte del 27 giugno ma senza mai rivelarne la ragione. Dal ’91 al ’95 si alternano altre quattro morti: sono quelle del maresciallo Antonio Muzio (‘91), del maresciallo Antonio Pagliara (‘92), del generale Roberto Boemio (‘93), del maresciallo Franco Parisi (‘95), tutti implicati direttamente o indirettamente ai fatti di Ustica. Non mancano date inquietanti. Se davvero Gheddafi avesse ordinato l’abbattimento del DC-9 sarebbe facile vedervi una reazione all’azione italiana di garanzia della neutralità di Malta, accordo che sarà firmato il 2 agosto 1980, alle 09:30, un’ora prima della bomba alla Stazione di Bologna.
21
MESE L E D ini IESTA lent H a C V N I auro
iM ra d
a cu
1980
STRAGE DI BOLOGNA IL CENTRO ESATTO DI OGNI DEPISTAGGIO È un luglio torrido quello del 1980, quando il colonnello Amos Spiazzi di Corte Regia viene incaricato da apparati del SISDE di indagare sulla possibile riorganizzazione dei gruppi eversivi di destra. Strano, stranissimo questo incarico per un uomo che Gianadelio Maletti definiva qualche mese prima «pieno di entusiasmo, un vero signore, professionalmente ottimo, politicamente però un lattante, un vero ingenuo». Eppure Spiazzi si mette subito all’opera, aveva voglia di rendersi
22
utile dopo aver scontato quasi sei anni di carcere per il sospetto (in verità poi rientrato) di aver partecipato al perverso “golpe Borghese”. Perché il SISDE si affidi a lui è un mistero nel mistero, ma tant’è. E Spiazzi qualcosa di interessante lo porta a casa, subito, con incredibile velocità per uno che stava in carcere fino a poche ore prima, riuscendo a contattare Francesco Mangiameli, infiltrato nella galassia neofascista. E Mangiameli dice apertamente che per agosto è previsto
«un gran botto», lui è sicuro. E Spiazzi gli crede, consegnando ai servizi segreti un rapporto su quanto ha scoperto, il 31 luglio 1980, 48 ore prima dell’attentato. Mangiameli stavolta però ha sbagliato interlocutore, perché un mese dopo verrà ucciso dai coniugi Fioravanti, si dirà per questioni economiche legate ai NAR e all’evasione di Concutelli, ma certo la circostanza è sospetta, dal momento che proprio Giusva Fioravanti e Francesca Mambro saranno accusati per quella strage alla Stazione. Ma se il SISDE ha per le mani un’informativa che scotta, il centro di questa vicenda, dopo la conta dei morti e dei feriti passa in mano al SISMI, che con i suoi massimi vertici organizza un depistaggio (conclamato da sentenza negli anni successivi) a dir poco spettacolare. Pietro Musumeci e Giuseppe Belmonte, al vertice del SISMI, produssero un dossier chiamato senza
neanche troppa fantasia Terrore sui treni. Dossier compilato sulla base del ritrovamento di una valigia, a gennaio 1981, sul treno Milano-Taranto, contenete esplosivo e oggetti personali di estremisti di destra, esplosivo uguale a quello della Stazione di Bologna. Quella valigia era stata lasciata li proprio su ordine dei vertici del SISMI, con l’immancabile beneplacito del vertice della P2, proprio per spostare l’attenzione sui gruppi eversivi neri. Ma perché ci si chiederà anni dopo, quando gli stessi vertici del SISMI saranno condannati per calunnia aggravata. Il sospetto più grande, mai confessato, riporta ancora una volta alla Libia, alla volontà per ragioni economiche e politiche di coprire le responsabilità di quel paese canaglia con cui l’Italia aveva interessi chiari e poco chiari da condividere e che sarebbero andati in pezzi qualora si fosse scoperto che loro, proprio loro, potevano aver ucciso senza pietà cittadini innocenti.
23
ESE
DEL M A T S E I
INCH a
e
i Alb
d cura
omo
on rto B
1992
I BUONI DIETRO LA STRAGE? C’è chi la verità la cerca e c’è chi invece preferisce che questa rimanga sepolta sotto montagne di sotterfugi, contaminazioni e dispersioni. Ad oggi, nessuno è in grado di esaminare ai raggi x lo scheletro delle terribili stragi di mafia organizzate del 1992 e dipanare i misteri che aleggiano dietro responsabilità mai accertate fino in fondo. Le indagini che per anni hanno occupato le pagine della cronaca hanno delineato una verità necessaria: dietro l’orrore e la puzza di tritolo si nasconde solo il volto della mafia. L’importanza di
24
queste conclusioni nasce, sì, dal desiderio di identificare i protagonisti di azioni talmente vili, ma anche per mettere a tacere tutte quelle voci che sussurravano torbide contaminazioni dello Stato e dei servizi segreti nell’organizzazione e nella realizzazione delle carneficine. Non è stato sempre così. Nel corso dei lavori d’indagine testimonianze, percorsi logici e fonti di prova sull’asfalto hanno lasciato intendere che qualcosa di poco chiaro, in effetti, c’era. Solo il SISDE, ad esempio, era dettagliatamente al corrente degli
spostamenti dei due magistrati. Cosa Nostra per quanto potente non aveva l’accesso a informazioni del più elevato livello di sensibilità (come il piano di volo dell’aereo di Stato che portava Falcone da Roma a Palermo). Il 22 luglio, tre giorni dopo la Strage di via d’Amelio la Scientifica trovò un biglietto a poco meno di cento metri dal cratere dell’esplosione con un indirizzo e recapito relativo al nome e alla sede di una società del SISDE, nonché ad un numero telefonico di un funzionario appartenente alla medesima struttura: Lorenzo Narracci. Una coincidenza inquietante soprattutto perché quel funzionario è stato vice capo della struttura informativa di Palermo ed è ritenuto vicino a Bruno Contrada, l’ex numero tre del SISDE finito in carcere per presunte collusioni mafiose, condannato in primo grado e assolto in appello.
Un uomo, Narracci, definito come il possibile anello di congiunzione tra la mafia e i Servizi. Nonostante ciò oggi, a 23 anni di distanza, la storia ci dice, e dirà alle generazioni future, che nessun uomo del SISDE ha mai partecipato alla logistica dell’attentato, così come nessun uomo dei Servizi ha responsabilità su tutto quel sangue versato. Non esiste nessuna falange “deviata” dei servizi segreti. Esecutori e mandanti sarebbero riconducibili esclusivamente ai clan mafiosi capeggiati da Totò Riina. La paura è trovarsi sempre di fronte ad un gioco morboso in cui scompaiono carte decisive dai fascicoli, in cui la verità è taciuta, in cui il male si mischia al bene coprendosi a vicenda le spalle. Prima di morire Borsellino disse: «Cosa Nostra non mi ammazza, se lo fa è perché glielo chiede qualcuno».
25
S
IE INCH a
SE
L ME E D A T e
i Alb
d cura
omo
on rto B
2002
LE OMBRE SEGRETE SUL NIGERGATE Nel 2002 un traffico di documenti e informazioni legate a un presunto contatto tra Niger e Iraq per la fornitura di uranio e la fabbricazione di armi nucleare diventerà per la cronaca mondiale lo scandalo “Nigergate”. L’informativa sul presunto contrabbando risulta essere in possesso del SISMI. Questo scomodo segreto sarebbe stato consegnato dai servizi segreti italiani agli Stati Uniti che, di concerto con il Regno Unito, avrebbero dovuto costatare la violazione
26
dell’embargo iracheno sui dettami delle Nazioni Unite e l’intento di creare armi per la distruzione di massa. Dobbiamo aspettare il 2005 per scoprire che in realtà queste informazioni, capaci di incrinare i delicati rapporti internazionali, sono del tutto infondate e dunque false. Il subbuglio diplomatico è grande, nonostante ciò, il governo esclude ufficialmente ogni tipo di coinvolgimento negando la responsabilità nella consegna agli Usa delle scottanti informazioni sulla compravendita di uranio.
I cervelli dietro una menzogna talmente infiocchettata sarebbero una fonte del SISMI e alti esponenti della struttura. Purtroppo, un coinvolgimento italiano è stato accertato. Il 15 ottobre 2001 il SISMI avrebbe inviato alla CIA un report su questi dati sensibili. A confermarlo poco tempo dopo è il direttore stesso della CIA in una dichiarazione innanzi al Senato degli Stati Uniti: «Abbiamo appreso l´esistenza del documento sul Niger dai servizi italiani alla fine del 2001». Dopo la scottante notizia, il direttore del SISMI tenterà (senza un buon esito) un lancio boomerang diffondendo un dossier, anch’esso fasullo, in cui si addebita la faccenda al governo francese contrario alla guerra. Purtroppo la tesi francese trova la sua perfetta antitesi nell’inesistenza di un qualsivoglia documento che possa provarla. L’inchiesta sull’accertamento della verità approda a una svolta quando un ex dirigente della Cia, Tyler Drumheller (responsabile
CIA per operazioni europee), svela in un’intervista alla rete americana CBS, chi accreditò l’interna montatura sul traffico di Uranio organizzato da Saddam Hussein. A suo dire fu proprio l´Intelligence di Roma a fornire il rapporto che “provava” l´acquisto iracheno di uranio in Niger. Da quel momento, racconta, verrà diffusa ogni tipo di notizia e solo un teorema veniva eseguito costantemente: «Se una singola fonte, come nel caso dell’uranio nigerino, era pronta a confermare ciò che l´Amministrazione Bush voleva sentirsi dire, era attendibile. Ma se accadeva il contrario, allora una singola fonte non era più sufficiente». Nonostante la bufala dell’uranio verrà smascherata dall’AIEA (Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica) restano nell’aria l’odore di polvere da sparo, tanta confusione e i sotterfugi dietro cui si è nascosto il governo italiano.
27
ESE
EL M D A T IES
INCH
ra a cu
lb
di A
o
nom
Bo erto
2003
IL CASO POLLARI E LE VOLONTÀ SEGRETE Nonostante la piena assoluzione del 14 gennaio 2014 della Corte Costituzionale, che accoglie il ricorso del Governo Italiano sul segreto di Stato, le ombre e gli interrogativi dietro la figura di Nicolò Pollari non sono mai svaniti. Il profilo dell’ex direttore del SISMI è riconoscibile nelle intricate trame che avvolgono alcuni dei fatti geopolitici più oscuri del paese. Era il gennaio 2007 quando Pollari fu
28
processato a Milano (imputate altre 34 persone) per il rapimento dell’Imam egiziano della moschea di viale Jenner. L’operazione, organizzata dalla CIA, fu eseguita sul suolo italiano il 17 febbraio 2003. Tutti i faldoni di prove raccolte dalla procura di Milano tracciano una strada ben precisa. Due alti ufficiali dell’Intelligence militare erano a conoscenza del piano di sequestro: Marco Mancini e Gustavo
Pignero. Entrambi, in periodi diversi, direttori del controspionaggio del SISMI. Nessuno si è prodigato per impedire l’extraordinary rendition sul suolo italiano. Per la prima volta l’Italia, consapevole del gravissimo atto contrario a ogni trattato internazionale, ha acconsentito tacitamente e simbolicamente con il capo chino la sottrazione di un indagato alle autorità preposte per deportarlo forzatamente in uno Stato terzo. Le responsabilità dei servizi segreti nostrani cominciano a essere palleggiate a destra e sinistra. Esiste un codice cui attenersi in casi come questo. L’agente segreto che ha notizia dell’organizzazione di un reato deve informare il suo superiore diretto; il superiore diretto si rapporterà al suo superiore e così fino alla cima della piramide gerarchica. In questo modo la Procura è riuscita a scalare l’intera montagna gerarchica: dall’ultimo anello della catena fino a Marco Mancini e Gustavo Pignero. Le indagini condotte terminano la strada verso la verità innanzi alla porta del direttore del SISMI: Nicolò
Pollari. Resta da capire se l’informativa del sequestro forzato varcò mai le porte di quell’ufficio finendo avallata persino dal “capo”. La verità ancora oggi vive dietro il segreto di Stato. Esistono due tesi contrastanti ma forse costruite ad hoc per confondere ancor di più. La prima riconosce Pollari estraneo alla faccenda ma veste quest’affermazione di connotati negativi. Delinea la figura di un Pollari spesso allo scuro di ciò che accadeva dentro e fuori i palazzi del SISMI; la seconda invece evidenzia le tante anomalie emerse in fase d’indagini e in fase di giudizio, descrive la forte ambiguità del SISMI ma al contempo ne professa l’estraneità. In alcune interviste rilasciate dall’agente CIA Sabrina De Sousa agli organi di stampa, la donna afferma che Pollari si rifiutò espressamente di eseguire operazioni di extraordinary rendition in Italia. Caso chiuso?
29
S
IE INCH a
SE
L ME E D A T e
i Alb
d cura
omo
on rto B
2013
CASO SHALABAYEVA, SERVIZI AL CONFINE È la fine di maggio del 2013. Alma Shalabayeva è stata intercettata da un gruppo operativo della questura di Roma presso una villa a Casalpalocco. Alla donna, moglie del dissidente kazako Mukhatar Ablyazov, è contestata l’accusa di possedere un passaporto falso. Non passeranno più di 48 ore prima che la questura di Roma convalidi l’espulsione della Shalabayeva e della giovane figlia, rimandate in Kazakistan con un volo diretto. L’ingresso illegale in Italia rappresenterebbe la motivazione alla base del provvedimento. La
30
perentoria estradizione produce subito degli strascichi diplomatici. Il Consiglio italiano per i rifugiati esige, con la stessa efficienza, spiegazione dettagliata dal Ministero degli Esteri. Da subito il capo della polizia Pansa comunica che in nessuna fase della vicenda i funzionari italiani avrebbero avuto notizia del fatto che Ablyazov fosse un dissidente politico fuggito dal Kazakistan, possibile oggetto di ritorsioni. La vicenda darà vita a un’inchiesta della Procura di Roma, che metterà in luce sia le probabili omissioni nella procedura di espulsione sia i punti
oscuri sull’operato consolare kazaco di concerto con i funzionari italiani. Il 12 luglio 2013 giunge la revoca ufficiale dell’espulsione: madre e figlia “rifugiate” tornano in Italia. La vicenda ha lasciato non pochi punti di domanda, molti dei quali legati alla figura di Ablyazov. Il direttore dell’AISE (Agenzia Informazioni e Sicurezza Esterna) ha prontamente confermato che la sua struttura era totalmente all’oscuro della probabile residenza del kazako nel territorio italiano (improbabile questa estraneità). Addirittura alcune fonti asseriscono che il governo kazako avrebbe chiesto all’ENI di stare alle costole di Mukhtar Ablyazov. L’ENI avrebbe confermato la presenza a Roma del dissidente passando la notizia ai Servizi italiani, che avrebbero a loro volta avvisato il sospettato permettendogli la fuga in Inghilterra dove avrebbe goduto del diritto d’asilo. Questa scelta dei Servizi sarebbe stata dettata dall’essere (l’eventuale cattura di Ablyazov su suolo italiano) una scelta eccessivamente
Il ministro Angelino Alfano.
sensibile dal punto di vista politico. Paolo Scaroni, all’epoca presidente dell’ENI, ha più volte gridato l’estraneità della società a tali accordi segreti, aiutando piuttosto la Procura. La corrente ufficiale è quella che vede i servizi segreti italiani all’oscuro sulla presenza di Mukhtar Ablyazov poiché l’uomo non era tra le minacce sensibili alla sicurezza nazionale. Ci si chiede dunque come mai la presenza del dissidente Kazako era stata invece evidenziata da alcune informative dell’Interpol. Questo “inghippo” potrebbe essere dunque una falla nella sicurezza nazionale, ponendo ulteriori riflessioni sullo stato dei nostri servizi segreti.
31
IES
INCH
SE
L ME E D A T
olo d
artic
a
uait
G i Nia
LE NUOVE SFIDE DELL’INTELLIGENCE ITALIANA Le problematiche legate alla condivisione di informazioni tra servizi segreti
32
Un segnale d’allarme per i servizi di intelligence occidentali era arrivato a metà giugno con un messaggio trasmesso via Internet dal portavoce dell’Isis Abu Mohammed al-Adnani; l’avvertimento era fin troppo chiaro: «Mi appello ai musulmani affinché trasformino il mese sacro di Ramadan in una devastazione per infedeli, sciiti e apostati». Gli attacchi in Tunisia, in Francia, in Kuwait e in Somalia certamente erano già stati pianificati ma adesso, è questa esortazione così esplicita a far temere che non sia finita, che altri attentati possano essere già stati progettati. E allora l’Italia potenzia ulteriormente la sorveglianza – già al livello massimo dopo la strage di Parigi nella redazione di Charlie Hebdo e al mercato Kosher – impiegando l’esercito per nuovi possibili obiettivi. L’attenzione è rivolta ai “lupi solitari” e non solo, perché bisogna controllare chi in passato ha avuto contatti con persone o gruppi legati al fondamentalismo. L’attività di prevenzione tiene comunque conto di una realtà che lo stesso Alfano così sintetizza: «Nessun Paese è a rischio zero». È complicato, praticamente impossibile, tenere sotto stretta sorveglianza ogni potenziale sospetto e l’Europa si scopre esposta e fragile di fronte a questi attacchi, nonostante le misure di sicurezza e le leggi speciali. Sono troppi, infatti, gli obiettivi cosiddetti sensibili (solo in Italia sono oltre 13.000) per quanto moltissimi siano da tempo sottoposti a stretta sorveglianza. E soprattutto sono molti i terroristi e i
fiancheggiatori pronti ad agire. I terroristi protagonisti degli ultimi attentati in Europa risultano essere cittadini europei. Non si tratta, in sintesi, di una minaccia esterna, per quanto alimentata dalla propaganda in rete, bensì di un problema interno all’Europa e, proprio per questo, più difficile da affrontare. Servono a poco i controlli alle frontiere o le ipotesi di limitazione degli accordi di Schengen, se le cellule del terrore si mimetizzano nelle periferie, nei luoghi di lavoro, negli ambienti religiosi. Va anche ricordato che la grande maggioranza dei miliziani arruolati dall’Isis sono europei usciti dall’Europa: giovani sottoposti a quotidiani messaggi di fanatismo e di odio inviati da Paesi dove l’immagine dell’Europa è offuscata dal passato coloniale e dalle operazioni militari del presente. Ciclicamente, i rappresentanti politici delle varie nazioni enunciano la necessità, per il settore sicurezza, di lavorare in sinergia attraverso la “condivisione delle informazioni” ma niente è più falso di tale proposito se si richiama un noto monito: «In
33
ESE
EL M D A T IES
INCH
olo d
artic
a
uait
G i Nia
momenti critici potrebbe effettivamente essere utile condividere informazioni tra Servizi. Ma esiste anche una sacra regola: condividere può anche risultare un’operazione pericolosa. Un amico oggi potrebbe divenire un terribile nemico domani». Le conseguenze “politiche” di una potenziale sinergia tra servizi di intelligence, si possono comprendere, ad esempio, riprendendo una notizia di poco tempo fa apparsa sui principali quotidiani nazionali e internazionali riguardo lo “scandalo” che avrebbe coinvolto i servizi segreti esteri tedeschi, la BND (Bundesnachrichtendienst, paragonabili alla nostra AISE) accusati dai media nazionali di aver collaborato attivamente con la NSA (National Security Agency) americana, per raccogliere informazioni riservate in Europa. La controversia nasce dalla circostanza secondo cui, dopo i fatti dell’11 settembre 2001, i servizi segreti tedeschi avrebbero iniziato a collaborare attivamente con la NSA. Detto ciò, non si può comunque escludere a priori che gli apparati di sicurezza ed informazione collaborino tra di loro. Si dice infatti che esista un “sistema di spionaggio condiviso” che tiene uniti da decenni i servizi segreti degli Stati Uniti, Regno Unito, Canada, Australia e Nuova Zelanda: un network esclusivo per lo
34
scambio di informazioni tra gli apparati di sicurezza di questi Paesi. Anche l’Europa auspica in una più proficua collaborazione tra le intelligence e già da alcuni anni degli europarlamentari (in primis l’ex Commissario UE alla Giustizia Viviane Reding), avrebbero avanzato la proposta di creare un apparato a livello sovranazionale, un’agenzia europea in grado di coordinare gli apparati di intelligence dei singoli Paesi aderenti (la EIS, European Intelligence Service). Inoltre, il Consiglio dei Ministri degli Esteri e della Difesa UE ha approvato un piano di intervento navale contro i trafficanti di esseri umani: il Crisis Management Concept (CMC). Il quartier generale dell’operazione, che si chiamerà EuNavfor Med, dovrebbe essere in Italia, a Roma. Il piano prevede «un grande lavoro di intelligence in collaborazione tra i vari Stati per individuare i trafficanti e procedere a incursioni mirate». Quali intelligence nello specifico? Sicuramente in Libia non mancheranno i nostri Servizi e quelli francesi e il Primo Ministro britannico Cameron, peraltro, ha recentemente dichiarato che darà il suo supporto alla causa europea contro il traffico di migranti con l’apporto diretto dei loro servizi segreti. La Relazione annuale del nostro apparato di intelligence (Relazione italiana sulla Politica dell’Informazione per la
Sicurezza con cui il governo riferisce al Parlamento), parla del fenomeno del terrorismo di matrice islamica e informa che il rischio cresce. La prima parte della Relazione è un’analisi geopolitica dal titolo Jihad Globale, Jihad Regionale e riguarda l’evoluzione de La minaccia in Occidente: affermazione dello Stato Islamico; accentuata capacità di presa del messaggio radicale; reclutamento per aspiranti combattenti, riferibile tanto a “lupi solitari” e cellule autonome. Per comprendere la reale percezione della minaccia Isis per i Paesi occidentali, è utile uno specifico passaggio: «La condivisione del know-how operativo acquisito sul campo, unitamente alla rafforzata rete di conoscenze e contatti, potrebbe accentuare in prospettiva
il pericolo rappresentato da quella indefinibile percentuale di reduci che, sulla spinta di una forte motivazione ideologica e, in qualche caso, di shock emotivi subiti in combattimento, intendano concretizzare disegni offensivi in suolo occidentale, autonomamente ovvero su input di organizzazioni terroristiche operanti nei teatri di jihad. Nell’ottica di tali formazioni, i foreign fighters di matrice europea presentano, del resto, il profilo tatticamente più pagante grazie a: elevata capacità di mimetizzazione; facilità di spostamento all’interno dello spazio Schenghen; utili contatti di base in Europa che possano fungere da trait d’union con i gruppi armati attivi nelle aree di crisi. Per quanto riguarda l’Italia, la specifica minaccia deve esser valutata non solo per gli sporadici casi nazionali ma anche e soprattutto tenendo presente l’eventualità di un ripiegamento sul nostro territorio di estremisti partiti per la Siria da altri Paesi europei, anche in ragione delle relazioni sviluppate sul campo tra militanti di varia nazionalità». Negli ultimi mesi sarebbero rientrati in Europa almeno 400 combattenti che sono stati addestrati in Siria dai miliziani del Califfato e, alla luce di tali osservazioni, è palese che la minaccia Isis non sia solamente una percezione bensì un concreto ed attuale pericolo anche per
35
ESE
DEL M A T S E I
INCH
olo artic
ita
di N
ua ia G
l’Italia. Inoltre, la Relazione pone l’attenzione, in un passaggio, proprio sulla questione libica: «Prioritario rilievo d’intelligence ha assunto la situazione in Libia, dove il difficile processo di institution building è arretrato a causa delle profonde divisioni politiche e dell’aperta conflittualità tra le milizie riconducibili agli opposti schieramenti, soprattutto nelle aree di Tripoli e di Bengasi». Questo vuol significare che nel teatro del sud del Mediterraneo vi è un’intensa attività di analisi (sia per il “pericolo Isis” sia per le questioni politiche interne e per il traffico dei migranti) che coinvolge certamente più apparati di sicurezza, tra cui quello italiano, con un’efficace presenza dei nostri servizi proprio nell’area libica al fine di monitorare l’attuale situazione e, contestualmente, di “mediare” tra le due fazioni, ossia i cosiddetti islamisti di Tripoli e i laici di Tobruk. Si potrebbe quindi affermare che, per una causa comune, le intelligence possono collaborare tra di loro: permangono tuttavia numerosi dubbi su come possano effettivamente coordinarsi degli apparati così sensibili, al di fuori di un mero scambio di notizie/ informazioni. Nella Relazione, anche un riferimento alla tecnologia: «A fronte degli investimenti sovente massicci compiuti da altri Stati in
36
tale settore, ed in forza della necessità di contrastare gli attori della minaccia che ci obbligano ad interagire in tempo reale con rischi inediti e puntiformi, l’integrazione fra la componente umana, la cui valenza strategica rimane imprescindibile, e quella tecnologica è il vero game changer della dimensione intelligence». Investire nella tecnologia è quindi fondamentale, non solo per dare vigore, con nuovi equipaggiamenti, alle forze armate della nazione, ma per mettere altresì la struttura di intelligence nelle condizioni di poter svolgere il ruolo assegnatole in modo più incisivo. Per fare un esempio, la Svizzera nella sua Relazione sulla Sicurezza 2015, pur dichiarando che non è designata tra gli obiettivi principali dei gruppi jihadisti, ritiene comunque di non dover abbassare la guardia, provvedendo ad un nuovo Programma d’armamento che prevede l’acquisto di un ulteriore sistema
di droni da ricognizione per la spesa di 250 milioni di franchi. Trattasi di droni modello “Hermes 900” HFE prodotti dall’azienda israeliana Elbit System. Come parallelismo, le Forze Armate italiane hanno in dotazione sei droni “Predator B”, anche detti Reaper, ma manca la tecnologia necessaria per armarli. In conclusione, il comparto intelligence in questo momento storico, risulta più che mai indispensabile sia per raccogliere notizie e dati all’estero negli scenari più caldi, sia all’interno della nazione per prevenire possibili attentati o situazioni che possano destabilizzare il Paese e la democrazia. Inoltre, la sinergia tra gli apparati delle singole nazioni europee e
non, è più che mai in questo momento indispensabile. Però, prima di pensare a migliorare il dialogo tra i servizi dei vari Paesi occorre che ogni singolo Paese occidentale migliori il coordinamento interno tra le forze di Polizia. In questo periodo storico, è necessario che si metta fine all’era dei personalismi. L’intelligence e le forze di Polizia devono coordinare le risorse, gli sforzi, le capacità se vogliono raggiungere veramente dei risultati. Non è possibile per l’intelligence di nessun Paese intercettare, pedinare tutti i potenziali terroristi presenti sul territorio ma è invece possibile stabilire delle priorità e suddividere con le altre Polizie il controllo dei soggetti potenzialmente pericolosi. Solo in questo modo si potrà ridurre il rischio di attentati. Solo con un efficiente coordinamento interno si potrà parlare di creare o dove c’è già, rafforzare, il dialogo tra intelligence di altri Paesi. Infine, non dimentichiamo che i terroristi che sono riusciti a colpire e uccidere nelle città europee erano già noti alle autorità e ciò significa che i servizi di intelligence funzionano. Il compito dei servizi di intelligence è individuare i potenziali terroristi e non quello di trattenerli in carcere. Questo è un compito della Magistratura che è sottoposta all’autorità della legge.
37
SI NALI neri A E CA uar ICER la G
R
di icolo
art
Nico
CIA VS. SENATO: LE (OLTRE) SEIMILA PAGINE DELLA DISCORDIA Lo scorso dicembre una commissione speciale ha diffuso un rapporto in cui si documentano le tecniche utilizzate dagli 007 americani nel post 11 settembre 2001
38
Seimilasettecento pagine. A tanto ammonta il rapporto redatto dalla Commissione di Controllo dei servizi segreti del Senato Usa. In seguito alle denunce del presidente degli Stati Uniti Barack Obama, che nel 2009 chiese di porre fine alle cosiddette “tecniche di interrogatorio non convenzionali” utilizzate dai servizi segreti, il passo è stato breve: la Commissione, presieduta dalla senatrice della California Dianne Feinstein, ha studiato a fondo i documenti della CIA. Al di là delle dispute politiche e delle opinioni personali che non troveranno luogo di dibattito in questa sede, è interessante notare le conclusioni a cui la Commissione è arrivata. Già nell’introduzione la Feinstein si dimostra scioccata e seccata per l’assenza di alcuni documenti andati “perduti”, come il resoconto degli interrogatori di Abu Zubaydah e ‘Abd al-Rahim al-Nashiri. La Senatrice ammonisce la CIA, invita a terminare gli interrogatori coercitivi, a smetterla di dare false risposte e a non ripetere gli errori del passato. Neanche una tragedia come l’attentato alle Torri Gemelle può giustificare un così largo uso della violenza. Il rapporto arriva a 20 conclusioni, che i lettori di Cronaca&Dossier possono leggere per la prima volta in italiano. 1 – L’uso da parte della CIA di “tecniche avanzate di interrogatorio” non ha avuto come effettivo scopo quello di raccogliere
informazioni di intelligence o di spingere i detenuti alla cooperazione; 2 – Le giustificazioni della CIA circa l’uso delle “tecniche avanzate di interrogatorio” sono assai inaccurate, soprattutto riguardo la loro efficacia; 3 – Gli interrogatori dei detenuti della CIA sono stati molto più brutali di quello che la stessa CIA ha prospettato ai politici e a chi di dovere; 4 – Le condizioni di reclusione dei detenuti della CIA sono state molto più dure di quelli che la stessa CIA ha prospettato ai politici e a chi di dovere; 5 – Le informazioni consegnate dalla CIA al Dipartimento di Giustizia sono state continuamente inaccurate, in modo da impedire una corretta analisi legale del Programma di Detenzione e Interrogatori della CIA;
39
SI NALI neri A E CA uar ICER la G
R
di icolo
art
Nico
6 – La CIA ha attivamente evitato o impedito la vigilanza del Congresso sul Programma; 7 – La CIA ha ostacolato l’effettiva vigilanza e gli ordini della Casa Bianca; 8 – La gestione del Programma della CIA ha complicato, e in alcuni casi impedito, le missioni di sicurezza nazionale di altre agenzie federali degli Stati Uniti; 9 – La CIA ha impedito la vigilanza dello stesso Ispettore Generale della CIA; 10 – La CIA ha coordinato il rilascio ai media di alcune informazioni segrete, incluse informazioni errate circa l’efficacia delle loro “tecniche avanzate di interrogatorio”; 11 – La CIA era impreparata quando incominciò il Programma di Detenzione e Interrogatori, più di sei mesi dopo avere ottenuto il permesso dalle autorità; 12 – La gestione e l’operato della CIA per quanto riguarda il Programma di Detenzione e Interrogatori sono stati pesantemente scorretti durante tutta la durata del Programma, specialmente nel 2002 e nei primi mesi del 2003; 13 – Due psicologi interni hanno messo a punto le tecniche di interrogatorio forzato della CIA e hanno svolto un ruolo centrale nella gestione del Programma. Fino al 2005, la CIA si è affidata diverse volte a personale esterno per operazioni relative
40
al programma. 14 – I detenuti della CIA sono stati sottoposti a tecniche di interrogatorio forzato che non sono state approvate dal Dipartimento di Giustizia e non sono state autorizzate dai quartieri generali della stessa CIA; 15 – La CIA non ha condotto un accurato e appropriato conteggio del numero di individui detenuti, e ha trattenuto individui senza rispettare gli standard legali per la detenzione. I dati forniti della CIA circa il numero di persone detenute e sottoposte alle tecniche di interrogatorio forzato sono stati pesantemente inaccurati; 16 – La CIA ha fallito nel valutare adeguatamente l’efficacia delle tecniche di interrogatorio forzato;
17 – Raramente la CIA ha rimproverato i suoi dipendenti per serie e significative violazioni, attività inappropriate e per la fallimentare gestione degli interrogatori; 18 – La CIA ha minimizzato o ignorato le numerose ed interne critiche e obiezioni sulla gestione del Programma di Detenzione e Interrogatori della CIA stessa; 19 – Il Programma di Detenzione e Interrogatori della CIA era di per sé insostenibile e indifendibile, ed ebbe fine nel 2006 a causa di diffusioni per mezzo stampa di informazioni non autorizzate, di una riduzione dell’aiuto da parte di altre nazioni e di possibili ripercussioni legali e di controllo; 20 – Il Programma di Detenzione e Interrogatori della CIA ha danneggiato la reputazione degli Stati Uniti d’America nel mondo, procurando significativi danni economici e non. Ogni lettore può trarre da sé le conclusioni che ritiene opportune: ad di là del fatto che sia stato provato l’utilizzo di queste tecniche di interrogatorio “non convenzionali”, è interessante sottolineare come i mezzi in questo caso non siano giustificati dal fine, poiché lo stesso fine non è stato raggiunto. Che quindi la Storia sia ancora una volta maestra di vita.
41
la HIND archisel E B Y STA lla M tone
ra a cu
n
di A
COSA VUOL DIRE ESSERE OGGI UN AGENTE SEGRETO Nell’intervista al Dott. Marco Cannavicci, psichiatra militare presso l’Ispettorato della Sanità Militare dello Stato Maggiore della Difesa, concessa in esclusiva a Cronaca&Dossier, i nuovi volti e coperture nei servizi di Intelligence
42
Dottor Cannavicci, quali sono le caratteristiche psichiche fondamentali che dovrebbe caratterizzare un soggetto ideale per il personale di intelligence? «I profili principali attengono al personale operativo e gli analisti. Il primo è sul territorio ed ha il compito di acquisire le informazioni da ogni possibile fonte, mentre gli analisti svolgono il loro compito in ufficio per comprendere le informazioni raccolte al fine di stilare previsioni su possibili scenari futuri ed il grado di probabilità che un dato evento possa realizzarsi. In base alle due tipologie di funzioni sono quindi privilegiati il dinamismo, la curiosità, la percezione acuta del dettaglio e della complessità, le capacità relazionali e di controllo dello stress nel personale operativo; mentre negli analisti sono privilegiati le conoscenze accademiche o professionali, la rete delle relazioni e dei collegamenti di cui dispongono (conoscere chi conosce), nonché la tutela della riservatezza e delle attività d’ufficio». Il generale e filosofo cinese Sun Tzu scriveva che «le questioni belliche seguono il Dao dell’inganno». La spia dovrebbe essere dunque un soggetto prevalentemente in grado di ingannare? «Il personale dell’intelligence deve avere l’attitudine ad informarsi e capire su tutto ciò che potrebbe rappresentare un pericolo o una minaccia per le istituzioni e per gli interessi industriali, scientifici, economici dello Stato. Non è richiesta la
Dott. Marco Cannavicci.
capacità di ingannare. Se di inganno si parla ciò riguarda la tutela, attraverso false identità, della riservatezza e del segreto del proprio compito, del proprio ruolo e della propria missione. Gli addetti militari delle varie ambasciate sono conosciuti come uomini “legittimi” dell’intelligence, mentre quelli che vengono puniti se scoperti sono gli agenti illegali che si muovono sotto copertura. Fin dall’antichità gli agenti operativi si muovevano sotto copertura, spesso sotto le spoglie di mercanti e uomini d’affari, mentre oggi le coperture privilegiate sono il turista, il giornalista, lo studioso dell’università o l’addetto agli scambi economici e culturali. L’interlocutore (la fonte delle informazioni) non deve conoscere il vero ruolo della persona a cui sta fornendo notizie e non deve neanche accorgersi di quali siano le informazioni preferite che l’altro vuole
43
a HIND archisell E B Y STA lla M one
ra a cu
nt
di A
sapere. Deve avere la sensazione di parlare liberamente con un’altra persona, conosciuta “per caso”, senza percepire il suo desiderio di mirare ad uno specifico obiettivo informativo». Quali sono gli effetti dell’inganno sulla psiche a breve e a lungo termine? «Nella psiche dell’agente operativo deve essere sempre ben presente qual è il fine della propria missione ed agire di conseguenza in modo “machiavellico” in quanto l’importanza del fine (istituzionale) prevale sulla legalità giuridica dei mezzi utilizzati (a cui anche le forze di polizia devono adeguarsi) per cui deve essere scaltro, opportunista e cinicamente disponibile a mettere in atto qualsiasi tipo di attività illecita, ma solo se serve al conseguimento del suo obiettivo. Deve quindi avere sempre ben presente che se agisce in modo illecito lo fa per il successo della propria missione e non per interesse personale. Mai e poi mai dovrà mettere
44
in atto azioni illecite per fini personali. E su questa competenza cognitiva deve essere valutata l’affidabilità “istituzionale” di un agente operativo. In assenza o con la perdita di questa competenza cognitiva anche in Italia in passato sono stati commessi atti illeciti, da parte degli uomini dell’intelligence, atti che una volta giunti a conoscenza dell’opinione pubblica sono stati giudicati dai media come atti “devianti” o “depistanti”, quando in realtà si trattava solo di banali illeciti penali del dipendente, il più delle volte delle volgari truffe». Per la psiche umana cosa significa avere il comando di qualcosa o di qualcuno? «In genere nella Pubblica Amministrazione italiana il “comando” viene equiparato con la responsabilità, per cui se qualcosa va storto deve essere identificato un responsabile a cui si possa chiedere conto di quanto accaduto. Nel mondo militare e dell’intelligence il “comando” viene equiparato con la capacità decisionale di stabilire un piano tattico (a breve scadenza) o strategico (a lunga scadenza) utile ai fini del perseguimento dei vari obiettivi che vengono via via identificati. Le capacità decisionali si basano sulla conoscenza per cui quanto maggiore sarà il grado di conoscenza di una determinata situazione tanto più efficaci e mirate risulteranno le decisioni prese. Al fine di incrementare
la conoscenza, da sempre, vengono in aiuto i servizi di intelligence attraverso la loro incessante raccolta ed analisi delle informazioni su tutto ciò che possa riguardare gli uomini, i mezzi, gli obiettivi, le strategie, i territori, le armi disponibili, insomma i punti forza e di debolezza del possibile nemico, avversario o concorrente o di altre possibili minacce. Se comunque le informazioni non sono sufficienti, la decisione deve essere comunque sempre presa e la capacità di decidere, in carenza di informazioni, rappresenta la migliore competenza “strategica” che un comandante possa possedere». Perché in taluni casi l’appartenenza ad un Servizio Speciale potrebbe condurre ad una pericolosa mutazione del carattere del soggetto arruolato? «Il pericolo di una “mutazione” del carattere e del comportamento di un agente operativo potrebbe essere collegato alla possibilità, riconosciuta ed ammessa dal proprio stato giuridico, di violare la legge ogniqualvolta i fini della propria missione possano prevedere l’uso di mezzi o modalità illecite. Se l’agente perde la capacità di distinguere i fini istituzionali da quelli personali e privati potrebbe trovarsi nella condizione di agire in modo illegale per qualcosa di estraneo al Servizio, con la convinzione che non sarà mai chiamato a rispondere dei propri atti davanti alla giustizia. In Italia non esiste e
Stemma Stato Maggiore della Difesa.
non è mai esistita la “licenza di uccidere” che invece altri importanti servizi di intelligence conferiscono ai propri agenti. In Italia, quando si perde la percezione del confine precedentemente citato, si adottano comportamenti da prepotenti, da arroganti, da sbruffoni, da opportunisti, da persone che in ogni atto comunicano la loro posizione privilegiata di potere e di privilegio, spesso accompagnati dall’uso disinvolto di fondi o risorse economiche dello Stato». Come si valuta il Quoziente Emotivo? «Le capacità connesse con il Quoziente Emotivo riguardano in modo particolare le capacità empatiche con cui ci si relaziona
45
D ella EHIN chis B r a Y A ST lla M tone
ra a cu
n
di A
con le altre persone, riuscendo a percepire sia lo stato d’animo che il punto di vista dell’altro. Il fine è quello di ottenere collaborazione, disponibilità, informazioni e conoscenze da soggetti tutto sommato sconosciuti e quindi è necessario mettere in campo le migliori competenze, relazioni e comunicative. Queste abilità emotive presuppongono il capire velocemente lo stato d’animo dell’altro, i suoi pensieri, le sue aspettative, ma anche la sua rabbia, la sua voglia di vendetta, di prestigio o di soddisfazione economica. Le competenze emotive permettono di sintonizzarsi sullo stato d’animo dell’altro, comprenderne le molle motivazionali e stimolarlo o provocarlo o dare soddisfazioni su questi punti per ottenere in cambio informazioni,
Minox, telecamera.
46
collaborazione o appoggio. Un alto livello di quoziente emotivo è il presupposto quindi per una utile “manipolazione” psicologica della fonte, attraverso la percezione e la comprensione del suo stato psicologico, relazionale e sociale. In questo modo è possibile cogliere i bisogni psicologici dell’altro, soddisfarli ed ottenere in cambio quello che si vuole, non dietro la richiesta dell’agente operativo, ma per “spontanea” offerta della fonte». Ai servizi di intelligence non interessano persone solo molto intelligenti, bensì intelligenti che siano anche emotivamente fredde. Cosa significa esattamente essere “emotivamente freddi”? «Come dicevo prima, l’abilità ad apprendere e capire persone o situazioni in modo efficace presuppone il celare, nascondere e camuffare le proprie intenzioni o la propria realtà. Spesso si vestono dei panni “innocui”, diversi da quelli propri, e si assumono identità di comodo che non corrispondono. È necessario che l’agente operativo riesca a rimanere costantemente freddo il proprio livello di tensione emotiva e lucidamente concentrato sul ruolo che sta interpretando, per non incorrere in lapsus, dimenticanze o atti automatici d’impulso che possano svelare la propria
reale identità. Ciò risulta peraltro molto più difficile in contesti pericolosi, come quelli rischiosi in cui si muovono gli agenti infiltrati negli apparati istituzionali di altri Stati, nei gruppi terroristici o nelle organizzazioni criminali, poiché un errore comporta il loro smascheramento e la possibilità di infauste conseguenze, come il carcere o la morte». Cosa significa che “psicopatie” possono essere già richieste come condizione preliminare per l’assunzione in servizio? «Alcuni assetti della personalità, come ad esempio quelli presenti nel soggetto paranoideo o in quello schizoide, possono essere funzionali alle esigenze del servizio di intelligence poiché
presuppongono che il soggetto, per propria natura e formazione psicologica, riesca a mettere spontaneamente in atto alcuni comportamenti che sono desiderati o richiesti nel personale di intelligence. Il paranoideo ad esempio è un soggetto che diffida degli altri ed ha sviluppato una particolare abilità a resistere ai condizionamenti ed alle suggestioni altrui, è molto critico, chiuso e riservato, diffida di tutti e di tutto, analizza continuamente in modo critico i comportamenti altrui mettendo in campo abilità e competenze utili ai fini dell’efficacia e della sicurezza del servizio. Anche i soggetti schizoidi mettono in atto naturalmente abilità utili ai fini del servizio in quanto sono soggetti impermeabili all’emotività e che riescono a mantenersi freddi, lucidi e razionali anche nei contesti emotivi più caldi o coinvolgenti. La freddezza emotiva in operazioni ad alto rischio evita che siano commessi atti impulsivi o stupidi che possano far fallire l’intera operazione e mettere in pericolo la sicurezza degli altri agenti impegnati nella stessa operazione». In che modo possono coesistere nella psiche umana tutte le caratteristiche che ha finora elencato? «Nella psiche umana è presente un coacervo di competenze e di capacità, poiché è una struttura complessa, ricca
47
a IND isell H h E c B r a STAY lla M one
a
t
i An
d cura
di potenziali repertori comportamentali sia di tipo adattativo che disfunzionali e quindi patologici. Non sempre si riesce ad utilizzare tutte le potenzialità insite nel potenziale repertorio delle abilità della natura umana. Solo i soggetti che hanno superato le rigidità personologiche e comportamentali, determinate dai meccanismi di difesa della psiche, possono mettere in campo un repertorio di azioni flessibili e strumentalmente efficaci allo scopo richiesto, come sfruttare qualsiasi tipo di situazione si possa presentare al fine di conseguire l’obiettivo della propria
48
missione. Una delle competenze più utili è infatti la capacità di “leggere” le situazioni in modo strategico, comprendere la situazione in atto, lo stato emotivo e psicologico delle persone coinvolte ed adeguarsi flessibilmente e plasticamente ad esse piegandole, orientandole e “manipolandole” secondo i propri fini. Ciò è possibile solo se l’agente, attraverso il proprio ricco repertorio di comportamenti, riesce a leggere ad interpretare in modo corretto il ruolo che in quel momento gli è richiesto dalla situazione che si è venuta a creare».
CA
ISTI INAL
CRIM
olo artic
di P
ai
ugn
M aolo
INTERCETTAZIONI, QUELLE ARMI DEI SERVIZI SEGRETI Come, dove e quando per i Servizi è possibile invadere la privacy
In tema di intercettazioni l’Italia non ha nulla da invidiare rispetto al resto dell’Europa. Questo almeno per quanto riguarda la notevole mole di intercettazioni compiute ogni anno nel nostro Paese. Ma quali sono i metodi d’intercettazione, gli strumenti più utilizzati, i risultati che si possono ottenere e le difficoltà operative? Cominciamo con il comprendere il significato di “intercettazione”, ovvero la captazione con opportuni dispositivi elettronici, di conversazioni o comunicazioni che si svolgono a distanza
50
mediante telefono o altro mezzo, o tra persone presenti in un determinato contesto ambientale a opera di un terzo individuo che non è partecipe al colloquio né destinatario delle comunicazioni intercettate. In termini più popolari, il concetto è che quando parliamo al telefono di casa oppure al telefono cellulare possiamo essere segretamente registrati in tempo reale ed ascoltati da operatori di Polizia per acquisire prove ai fini investigativi. Di fatto le intercettazioni,
al pari di perquisizioni e sequestri sono mezzi di ricerca della prova, volti ad accertare la presenza di fatti penalmente rilevanti. Queste possono essere di tipo “ambientale”, con l’utilizzo di microspie audio (le temutissime “cimici”) e microfoni, i quali possono essere facilmente occultati nell’interno di un’abitazione oppure dentro un’autovettura in modo da poter registrare quello che viene detto tra due o più interlocutori. L’intercettazione ambientale può essere anche svolta con l’utilizzo di microfoni direzionali o sistemi di captazione a distanza senza la necessità di introdursi in una proprietà privata. Un’altra forma di intercettazione, sempre cosiddetta “ambientale”, è quella dove un individuo inviato su richiesta degli organi di Polizia è presente ad un colloquio tra più persone (al quale può o meno prenderne parte) dotato di sistemi di registrazione audio occultati alla vista. In questo caso l’individuo menzionato assume il ruolo di un vero e proprio agente segreto e fa da tramite tra gli interlocutori ed un terzo soggetto nascosto, rappresentato dall’Autorità Giudiziaria. Differente e distinto dalle intercettazioni è invece il caso dove un privato cittadino, di sua spontanea volontà, registri lecitamente un colloquio tra lui ed altre persone senza darne avvertimento ai suoi interlocutori. Si pensi al registratore che uno studente porta all’interno di un’aula universitaria per una lezione, oppure chi subisce un sopruso e vuole smascherarlo tenendo in tasca un piccolo registratore. Questo è reso possibile proprio perché viene meno l’aspetto di segretezza della
comunicazione tra due o più persone dove si inserisce un terzo soggetto “occulto” che non rappresenta il destinatario e che ascolta segretamente una conversazione, aspetto tipico invece delle intercettazioni. Con la nascita delle nuove tecnologie informatiche e l’ulteriore sviluppo delle telecomunicazioni il tema delle intercettazioni si è espanso anche in questi settori, arrivando alla possibilità di intercettare sms, fax, mail di posta elettronica, conversazioni via software e traffico internet. Da queste premesse deriva la conclusione che tali attività sono operazioni che possono essere disposte esclusivamente dagli uffici della Procura della Repubblica e svolte dalla Polizia Giudiziaria per fini preventivi e di accertamento di fatti criminosi. Naturalmente anche i servizi segreti possono svolgere intercettazioni telefoniche ed ambientali. Considerata la delicatezza del tema e tenuto conto che la stessa Costituzione, con l’art. 15 proclama che «la libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni
51 51
CR
nai
ug lo M
o
i Pa
lo d rtico
a
A
STIC
ALI IMIN
forma di comunicazione sono inviolabili e che la loro limitazione può avvenire soltanto per atto motivato dell’autorità giudiziaria con le garanzie stabilite dalla legge». Prima di essere effettuate, le intercettazioni devono superare una serie di fattori limitanti: ad esempio autorizzate soltanto per certe tipologie di reati e, comunque, necessitano sempre dell’autorizzazione del Giudice a patto che si prefiguri la presenza di «gravi indizi di reato» e se «l’intercettazione è assolutamente indispensabile ai fini della prosecuzione dell’indagine». In caso contrario, se prodotte senza il rispetto di questi requisiti non potranno essere utilizzate. Proprio per il crescente fenomeno e per tranquillizzare i cittadini, molti
52 52
venditori di prodotti per la telefonia e le telecomunicazioni offrono la possibilità di acquistare sistemi apparentemente antispionaggio. Ma sono veramente sicuri? Se pensiamo al fatto che alcuni parlamentari italiani, sebbene dotati di telefoni cellulari GSM con sistema di criptazione, sono stati più volte intercettati, oppure la stessa Cancelliera tedesca Angela Merkel pare essere stata per anni sotto intercettazione telefonica da parte della NSA americana (National Security Agency) qualche dubbio è lecito. Ma in fondo, anche se l’ipotesi che la propria vita personale possa essere monitorata in modo occulto generando fastidi e preoccupazioni sulla privacy, se non avete commesso atti illeciti e non avete la vocazione del criminale, non c’è niente da temere di fronte ad una intercettazione.
a cura di Paolo Mugnai
IL RUOLO DELLE INTERCETTAZIONI NELLE INDAGINI DIFENSIVE Intervista al Direttore dell’“Agenzia Turso Investigazioni”: una finestra sul mondo delle consulenze Maico Turso.
Maico Turso, può dirci come nasce il Suo lavoro di investigatore privato?
«Il mio lavoro nasce nel 2010, data del rilascio della mia licenza da parte della Prefettura di Brindisi, ma tutto ebbe inizio qualche anno prima. Ero in Tribunale ed assistevo ad una delle tante arringhe di mio suocero, avvocato in una provincia difficile, quella brindisina, dove i figli non vanno capiti ma difesi. Parlando con un maresciallo dei Carabinieri seduto di fianco a me, di indagini ed accertamenti tecnici, fui folgorato dalle sue parole, mi disse: “Ti vedrei bene come consulente tecnico”. Il pomeriggio stesso mi iscrissi ad un corso di laurea specifico, da lì ebbe inizio questa nuova esperienza che oggi mi permette di affermare che sto svolgendo il mestiere più bello del mondo e che non potrei fare altro».
53 53
CR
ra a cu
A
STIC
ALI IMIN di P
ai
ugn
M aolo
Qual è il Suo nel campo intercettazioni?
ruolo delle
«Nel processo penale le intercettazioni sono diventate una delle principali fonti di prova, soprattutto per i reati che prevedono l’associazione mafiosa o il traffico di sostanze stupefacenti. In questi casi, attraverso le intercettazioni, l’organo di PG, riesce fin da subito ad indirizzare le proprie attività di indagini e l’Autorità Giudiziaria a consolidare i propri capi d’accusa. L’investigatore privato entra “in azione” grazie alla possibilità che offre il codice attraverso il “giusto processo”, attività che viene svolta per conto della difesa su incarico degli avvocati. L’attività principale, svolta da noi investigatori privati, è quella di riascoltare le intercettazioni e verificare l’esatta trascrizione sul documento. Qualora ci si accorge di un errore d’interpretazione o di un termine errato o addirittura non trascritto si deve procedere a contestazione. Non ultimo, attraverso questa attività, vi è la possibilità di trovare ulteriori informazioni utili all’indagine».
Può spiegare ai nostri lettori le responsabilità e la delicatezza che comporta questo lavoro? «Il lavoro delle trascrizioni è compito delicato sia quando a svolgerlo è l’investigatore privato che cerca prove a supporto della difesa, ma soprattutto lo è (o dovrebbe esserlo) per gli organi investigativi della Procura. Come già detto, per alcuni reati le intercettazioni sono la principale fonte di prova, trascrivere fedelmente ed avere l’umiltà di fermarsi quando l’ascolto è incomprensibile, senza “accontentare” chi ha formalmente conferito il mandato (PM, Giudici,
54 54
Avvocati) a prescindere se si ricopre la veste di PG, CTU (Consulente Tecnico d’Ufficio) o CTP (Consulente Tecnico di Parte). Il nostro compito, come quello della Polizia Giudiziaria, è quello di accertare la verità e lo si può svolgere solo con scienza, coscienza e professionalità».
Quali sono i casi di cui generalmente Si occupa in qualità di consulente?
«Il lavoro principale lo svolgo nell’ambito di processi dove sono chiamato ad espletare attività di indagini difensive che riguardano soprattutto reati di mafia. Riascolto tutte le intercettazioni per riscontrare se le trascrizioni fatte dalla PG o dai CTU, sono riportate “fedelmente”. Un compito di massima fiducia, in quanto chi si affida al mio lavoro deve necessariamente credere che io lo svolga nel modo migliore. La posta in gioco è sempre molto alta. Il mio compito non si esaurisce con il controllo della correttezza della trascrizione. Ascoltando ore ed ore di intercettazioni riesco a cogliere gli aspetti più interiori degli indagati (si ascolta tutto in genere), questo mi serve per capire i comportamenti, le intenzioni, ecc.. Tempo fa, attraverso l’atteggiamento di un “sodale” ed una giusta interpretazione, riuscii a dimostrare che lo stesso era ormai intenzionato a lasciare il proprio “gruppo malavitoso”, da ciò ne derivò la scarcerazione da parte del Tribunale della Libertà. In passato ho lavorato con i Tribunali, ma la mia passione è lavorare per le “indagini difensive”, così come disciplinato dal Codice di Procedura Penale».
55 55
CIETÀ
ER SO I S S O
D
olo d
artic
min
lso i Ge
o
litan
po a Na
QUANTO COSTA SPIARE LA PRIVACY
IN ITALIA?
Il primato italiano delle intercettazioni e le città più “virtuose”
56
Il diritto alla privacy subisce un’evoluzione nel corso degli anni e diviene sempre più oggetto di discussione. Con l’ingresso nell’era digitale, la riservatezza delle informazioni personali si assottiglia, nonostante i divieti di legge. La tracciabilità delle informazioni non è più così complicata e, grazie al potente mezzo della tecnologia, è semplice invadere la sfera personale degli individui. Tra le numerose forme di violazione della privacy, le intercettazioni sono da sempre oggetto di dibattito e si possono effettuare nel caso di reati gravi. Le persone possono essere spiate, previa autorizzazione del giudice, qualora esistano elementi fondanti per l’accertamento di un reato o indicazioni rilevanti per impedirne la commissione. Gli atti delle indagini possono essere pubblicati solo in forma di riassunto, quando non sono più coperti da segreto e, nel caso di divulgazione testuale, gli editori possono essere puniti con multe elevate. La riservatezza, quindi, è fondamentale per la buona riuscita delle indagini e per il rispetto della privacy. Ogni anno in Italia si eseguono circa 181 milioni di intercettazioni
57
ETÀ
OCI IER S
DOSS olo
artic
omin
els di G
o
litan
po a Na
e il fenomeno è cresciuto dal 2006 del 22,6%. È quanto emerge dall’ultimo studio aggiornato dell’Eurispes del Ministero della Giustizia-Direzione Generale di Statistica, pubblicato nel 2012. Secondo i dati forniti dall’Ufficio Statistico del Ministero, tra le diverse tipologie di intercettazione, quelle telefoniche rappresentano il 90% del totale (125.150), quelle ambientali l’8,4% (11.729) e, infine, quelle informatiche e telematiche solo l’1,6% (2.172). I controlli effettuati, non solo sulle
58
conversazioni, fanno emergere numeri abbastanza alti. Le cifre, poi, si innalzano a picco se valutiamo i costi per la realizzazione di tali procedure distribuiti diversamente per aree geografiche. Tra i distretti dove la spesa per le intercettazioni telefoniche è più alta troviamo al primo posto Milano, dove nel 2010 gli uffici giudiziari hanno liquidato 39.670.400€ per questa tipologia di spese. Seguono Palermo (34.746.180€), Reggio Calabria (31.288.886€), Napoli (25.122.030€) e Catania
circa il doppio delle intercettazioni. Secondo i dati del Ministero, nel 2012 in Italia sono state autorizzate 124.713 intercettazioni telefoniche. Nello stesso anno in Francia ne sono state autorizzate 41.145, in Germania 23.678 e nel Regno Unito appena 3.372. La questione, nella nostra penisola, è in risalto nell’ultimo periodo, in previsione della nuova legge sulle intercettazioni da approvare entro il 2015. Il premier Matteo Renzi intende intervenire sull’argomento per rivedere i limiti della pubblicabilità delle informazioni ottenute durante le indagini e i costi che, negli ultimi tempi, suscitano qualche perplessità. (17.942.562€). Inversamente, la spesa per le intercettazioni è più contenuta a Campobasso (374.359€), Potenza (1.085.988€) e Salerno (1.527.466€). La concentrazione di queste attività di controllo risulta essere minore nelle Province del Mezzogiorno, da sempre associate ad una maggiore presenza di criminalità organizzata di stampo mafioso. Contrariamente, le intercettazioni si concentrano in misura maggiore nelle città settentrionali. In ogni caso, l’Italia rispetto agli altri tre principali paesi europei messi insieme, effettua
59
RI
INO TI E M
DIRIT
i olo d artic
Nico
a
alizi
C letta
TERRORISMO E MAFIA, QUALI DESTINI PER I FIGLI DELLE VITTIME? Dal dolore privato subìto all’impegno pubblico per la ricerca della verità storica
60
Il terrorismo da una parte con le sue stragi e i suoi assassinii, e la mafia dall’altra con la sua violenza intimidatrice e i suoi regolamenti di conti non hanno solo ucciso tanti uomini e tante donne coraggiose, votate al sacrificio e all’impegno, ma anche tanti civili che come unica colpa hanno avuto quella di stare al momento sbagliato nel posto sbagliato. Ma queste vittime da sole non bastano, ci sono altre vittime innocenti, vittime di cui quasi nessuno parla ‒ se non loro stessi in testimonianze e autobiografie ‒, vittime travolte dall’orrore di aver assistito a questi brutali omicidi, costrette a dover rivivere per anni tali esperienze traumatiche a causa della trasmissione mediatica di quegli avvenimenti che diventano, purtroppo, parte della storia italiana. Vittime che non sono sotto i riflettori, perché minorenni, ma proprio per questo più a rischio di subire traumi per il lutto sofferto in maniera improvvisa, senza avvertimenti, ma per di più con un atto violento e senza una causa “fisiologica”, come può essere una malattia o la vecchiaia. Ma cosa succede a questi minori? Chi si occupa di loro? Come crescono? E come vivono? Oltre al danno si realizza la beffa. Sì, perché questi bambini non solo devono accettare e vivere la scomparsa di un loro genitore o, in casi davvero emblematici e gravi, la morte di entrambi, ma devono affrontare tutto un iter burocratico fatto di affidamenti, adozioni e tribunali vari. Le loro storie diventano fascicoli giudiziari, i loro casi vengono trattati dai Magistrati per i minorenni alla stregua di qualsiasi altro orfano. Ma le loro vicende e i loro
vissuti sono completamente diversi. Fortunatamente, nella maggioranza dei casi vengono affidati ai parenti (nonni, zii), i quali però fino a poco tempo prima si prendevano cura di loro informalmente. Ma anche questa soluzione, che sembrerebbe quella ideale, nonostante tutto, a volte non è attuabile per l’età troppo avanzata o per le scarse possibilità economiche dei loro parenti prossimi, e così questi bambini sono costretti ad andare a vivere con altre persone che si occuperanno di loro, portandoli a distaccarsi dalla famiglia di origine. Un altro dolore e un altro trauma si aggiungono a quelli già esistenti che mai li lasceranno per tutta la vita. Questi bambini rivivranno sempre, infatti, la perdita prematura del loro genitore e soffriranno molto e più volte: per il lutto ingiustamente subìto e molto probabilmente rimasto impunito, per l’incapacità di elaborare la scomparsa
61
DIR
di icolo
art
I
INOR
M ITTI E
lizia
Nico
Ca letta
della figura genitoriale, per l’impossibilità o non volontà del sistema penale e politico di trovare i colpevoli e gli assassini, per l’allontanamento dalla propria famiglia o, se affidato all’altro genitore, per dover vivere una vita fatta di sofferenza e di stenti. Molti di loro, per ricostruire la loro memoria e la loro identità, per elaborare il dolore e per recuperare quel rapporto interrotto, crescendo, troveranno sollievo nel ricercare notizie e nel capire cosa sia successo al loro padre o alla loro madre e lo restituiranno in forma scritta, esprimendo prima di tutto forti sentimenti: la sofferenza provata, il vuoto di un’assenza che gli altri familiari non sono riusciti purtroppo a colmare, ma anche l’amore per il genitore, finalmente conosciuto e ritrovato attraverso documenti, lettere, video, fotografie, testimonianze di amici e
Trasporto vittime della tragedia Itavia.
62
Approfondimento a cura di Nicoletta Calizia
benefici per i figli delle vittime Per le vittime del terrorismo, della criminalità organizzata e del dovere e per i loro familiari sono previsti dalle leggi vigenti in Italia elargizioni di natura economica, altri benefici con riflessi economici e un sostegno morale. A partire dagli anni Ottanta, infatti, dopo i cosiddetti “Anni di piombo” in cui eversori neri e sovversivi rossi misero in atto la Strategia della tensione e del terrore, il Legislatore è intervenuto a più riprese con norme volte a tutelare i diritti delle vittime e dei loro familiari e si sono succedute nel tempo numerose integrazioni e modifiche dirette sia ad estendere le categorie ammesse a fruire di tali benefici che la stessa tipologia di tali benefici quali, oltre alla elargizione una tantum e gli assegni vitalizi, la concessione di pensioni privilegiate, il diritto all’assunzione obbligatoria,
colleghi di allora, e anche tramite le stesse carte processuali. Con pudore e pacatezza, danno voce ad una sorta di bisogno interiore: cercare la verità; proprio perché spesso sentono l’esigenza di avere quella giustizia riguardo la responsabilità di così tanta violenza che le indagini giudiziarie non sempre riescono o vogliono trovare. Quasi mai, infatti, vengono individuati i mandanti e punite le organizzazioni terroristiche o mafiose, anzi a tutt’oggi vi sono documenti che continuano ad essere coperti dal segreto di Stato. E proprio i figli, vittime due volte – in primis della catastrofe privata e in secondo luogo per l’atteggiamento delle istituzioni – chiedono di renderli accessibili. Il dolore personale si trasforma così in impegno pubblico, in quanto provano a sensibilizzare la società intera ad un problema di ordine pubblico troppo spesso trascurato dalla politica, e da vittime diventano promotori di una giustizia sociale, andando coraggiosamente a denunciare, in onore del ricordo del loro genitore e della memoria storica, le mancanze e gli errori dello Stato, soprattutto in campo legislativo e giudiziario. E le loro vite, le loro testimonianze, la loro ricerca spasmodica non rappresentano altro che un tentativo di vanificare i numerosi depistaggi istituzionali al fine di permettere a tutti noi, prima o poi, di poter avere una Storia italiana scevra da ombre e sotterfugi, libera da menzogne e da imbrogli politici.
l’esenzione dal pagamento dei ticket sanitari e dell’IRPEF e l’assegnazione di borse di studio, riservate agli studenti della scuola primaria e secondaria di primo grado e scuola secondaria di secondo grado, e agli studenti dei corsi di laurea. Inoltre, è con la legge del 4 maggio 2007, istitutiva della celebrazione della prima “Giornata della Memoria del 9 maggio 2008”, che le vittime hanno trovato visibilità per merito dell’oggi emerito Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, in quanto è stata riconosciuta ufficialmente la centralità delle figure delle vittime e del dolore dei familiari.
63 63
SCUOLA DI ALTA FORMAZIONE DISCIPLINE PSICOLOGICHE
CENTRO STUDI SCENA DEL CRIMINE (CSSC)
CORSO DI ALTA FORMAZIONE IN ANALISI DELLA SCENA DEL CRIMINE E SCIENZE FORENSI
V EDIZIONE
15 NOVEMBRE 2014 – 14 GIUGNO 2015 GEF NETWORK , VIA CESARE CANTÙ 3 MILANO CORDUSIO ( MM CORDUSIO E DUOMO ) SONO APERTE LE PRE ISCRIZIONI ALLA V EDIZIONE PROGRAMMA, DETTAGLI E INFORMAZIONI
WWW.CRIMESCENEINVESTIGATION.IT segreteria@crimesceneinvestigation.it
64
65
CEN
AS SULL
o di ticol
ar
MINE
CRI L E D A
liari
Pao
ag la P
ARCHIVIATO, ANZI NO. DOPPIO GIALLO NEL CASO
MAURANTONIO L’avvocato della famiglia dello studente padovano smentisce fughe di notizie
66
Una scolaresca del liceo padovano Ippolito Nievo in gita a Milano per visitare l’Expo. Le camere prenotate all’Hotel Da Vinci di Milano, quinto piano. Domenico Maurantonio è tra questi ragazzi, in attesa di fare la tanto temuta maturità ma, sebbene sia stato ammesso alla prova, non ha potuto sostenerla perché la sua vita è misteriosamente terminata alle prime ore del giorno 10 maggio. Il suo corpo viene ritrovato di sotto, adagiato in posizione fetale, intorno alle 8:00 del mattino da un inserviente dell’albergo. L’orario della morte è stabilito tra le 5:30 e le 7:00. Domenico, al momento della caduta, indossava solo la maglietta; mutande e pantaloncini sono invece accanto al corpo. Fino a quel momento, nessuno aveva avvertito nulla, compagni di stanza di Domenico compresi, due dei
quali dormivano nel letto matrimoniale con lui nel mezzo. Gli inquirenti hanno prediletto le piste del suicidio, ritenuto possibile anche dalle famiglie dei compagni di Domenico, o dell’incidente. Il legale dei Maurantonio, Eraldo Stefani, sostiene che il ragazzo forse non era poi così benvoluto dai compagni (che hanno successivamente alla morte del giovane tenuto una condotta abbastanza discutibile) e, quindi, avrebbe maturato propositi suicidiari al termine però di una serata allegra con tanto alcol. Domenico, ad una certa ora, avrebbe lasciato la stanza e gli altri occupanti, avrebbe percorso un lungo corridoio, forse anche in preda a forti dolori di pancia con diarrea, avrebbe aperto una finestra e si sarebbe arrampicato per uccidersi, gettandosi di sotto.
67
A
CEN LLA S
SU
o di ticol
ar
INE
RIM DEL C
liari
Pao
ag la P
Oppure, dopo una serata decisamente movimentata, forse anche nel corso di qualche stupida sfida tra compagni, sarebbe accidentalmente caduto da basso. Davvero erano rientrati tutti in stanza oppure i fatti si sono svolti in modo diverso? E il ruolo degli insegnanti, ai quali spettava comunque il compito di vigilare, qual è stato? L’ipotesi del tragico incidente non spiega tuttavia altre strane circostanze: se davvero Domenico era in preda ad una forte dissenteria, probabilmente provocata dallo scherzo stupido di un compagno che gli aveva versato del lassativo nella birra, come mai non ha usato il bagno della propria camera ma è uscito, allontanandosi parecchio nei corridoi? E poi, perché non parlare del suo malessere coi compagni, anche solo per accusarli? Le analisi dei consulenti della Procura, il tossicologo Luca Sironi, il medico legale Giulio Giovannetti e il genetista Marzio Capra, non hanno però evidenziato alcuna traccia dei principi attivi dei più comuni lassativi in commercio. I genitori dei compagni di Domenico hanno proposto la loro verità: «Dopo aver parlato con i nostri figli, la tesi che sosteniamo è il suicidio. Domenico esce dalla stanza,
68
Domenico Maurantonio.
chiude la porta, percorre il corridoio, a metà di questo nell’altra ala dell’albergo, cade giù. Nel tragitto lascia tracce biologiche: secondo noi è il preludio del tragico gesto. Domenico ha paura, ha uno scompenso e “se la fa addosso”», ha spiegato Donato, padre di uno dei giovani. «Mi risulta che gli inquirenti abbiano sequestrato dalla camera dell’albergo, oltre al telefono di Domenico, anche alcuni disegni del ragazzo. Tra questi, un disegno con tre figure, tre volti, uno al centro, un po’ più basso, cancellato con la gomma». «I ragazzi – ha raccontato invece
Elisabetta, madre di un altro ragazzo in gita e in stanza con Domenico – hanno fatto un piccolo festino. C’erano ragazzi che andavano e venivano, si sono trovati anche in 10/11 nella camera e hanno condiviso una bottiglia di liquore, ma anche salame e tarallucci. Alle 3:30 sono scesi e si sono seduti sulle scale dell’albergo fino alle 4:30 e sono stati visti, compreso Domenico, dall’inserviente che era nella hall. A quell’ora sono tornati in camera, dove sono rimasti fino a quando hanno deciso di andare a dormire. In questo intervallo di tempo sono state scattate foto e girati video, in mano degli inquirenti, in cui Domenico risulta sano, vivo e vegeto proprio nell’intervallo orario
in cui si suppone che ci sia stata la morte». Eppure, per chi crede al suicidio, da questo momento in poi si sarebbe verificato qualcosa di talmente forte, da fargli decidere di porre fine alla sua vita. «C’è un grande dramma che è la morte di Domenico, ma c’è anche il dramma dei nostri figli che hanno perso un compagno di scuola e, sottolineo, anche un amico, senza aver avuto il tempo di metabolizzare questo dolore: si sono trovati sbattuti sulle prime pagine di tutti i giornali con l’accusa di essere omertosi. Questa è l’accusa più lieve perché sono stati accusati anche di aver partecipato e in qualche modo contribuito alla morte del loro amico. Sono circolate false notizie: in realtà i nostri figli hanno parlato fin da subito con la polizia giudiziaria, per ore in Questura anche a distanza di una settimana dal tragico evento, ed è stato prelevato un campione di Dna ai ragazzi che erano in camera con lui», spiega sempre mamma Elisabetta. «Tra le false notizie, anche la mancata amicizia, quando in realtà erano molto amici. Domenico aveva scelto volontariamente i compagni con cui condividere la stanza, aveva compagni che conosceva fin dalle elementari e frequentava anche al di fuori della scuola, con i quali condivideva la
69
ENA
SC ULLA
S
liari
ag la P
o
i Pa
lo d rtico
a
INE
RIM DEL C
passione della musica e del disegno. Per il suo compleanno, per esempio, tutta la classe gli ha regalato una bici». I genitori di Domenico credono poco all’ipotesi del suicidio e chiedono che si faccia piena luce su questa morte assurda. Un pool di esperti della difesa ha effettuato dei sopralluoghi sulla scena, cercando di ricostruire le diverse ipotesi, ma senza sostanzialmente venire a nulla di concreto. Per il momento la tesi del suicidio perde terreno, come pure quella dell’omicidio, visto che si ritiene che Domenico fosse solo al momento della caduta. Fino alle 5:20 Domenico era vivo, poi nessuno l’avrebbe più visto. Scartata la tesi dello scherzo goliardico finito in tragedia, ma non si capisce davvero bene in base a quali motivazioni, pare proprio ci si stia orientando per la tragica fatalità.
70
Il pubblico ministero Claudio Gittardi aveva disposto la consulenza medicolegale di esperti di fama nazionale, ai quali si era unito il professor Massimo Montisci, dell’Istituto di Medicina legale dell’Università di Padova, incaricato dall’avvocato Stefani. La consulenza non è ancora stata depositata, ma in Procura a Milano non si aspettano clamorose novità; ormai si teme che l’inchiesta possa finire archiviata. Le uniche note di speranza provengono dall’avv. Stefani: «Sono dell’avviso che ci sarà epilogo positivo in questa vicenda e non penso assolutamente che tutto sarà archiviato. Sono convinto che a breve emergerà la verità, e lo sono non soltanto sulla base delle mie investigazioni ma anche sulla base di quelle condotte della Procura della Repubblica».
71
CEN LLA S
SU
MINE
CRI A DEL
di icolo
art
u
Kati
i
acin
P scia
MORTI PER ERRORE Killer professionisti sbagliano e vengono arrestati dopo 23 anni dal duplice omicidio
72
È una fredda mattina di febbraio. Ma il lavoro non può né deve essere rimandato. È una questione di “famiglia”. L’attesa potrebbe snervare molti ma non lui. Il suo compito è essenziale, individuare e segnalare la macchina “giusta” con il segnale stabilito. Detto, pensato e fatto. La macchina si sta avvicinando, il palo accende l’accendino e i killer svolgono il loro compito. Una pioggia di proiettili avvolge la Renault Clio designata, lungo una strada di Casapesenna (Caserta), uccidendo i due passeggeri. Così Pasquale Pagano, commerciante di 36 anni, e Paolo Coviello, pensionato di 63 anni, perdono la vita la mattina del 26 febbraio del 1992 senza saperne il perché. La scena che si presenta agli
investigatori è inquietante. Sia la macchina che i due all’interno vengono freddati, con ferocia inaudita, da colpi esplosi da un kalashnikov, un fucile e tre pistole. I sicari non dovevano avere pietà. Questo è l’ordine. Un ordine letto chiaramente dagli inquirenti che esaminano la scena. I proiettili e il modus operandi non lasciano agli inquirenti molte interpretazioni. Ma cosa e come c’entrano Pagano e Coviello nella faida della Camorra? Sì, perché solo questo per gli inquirenti è chiaro. Il duplice omicidio è opera della Camorra. Ma quale delle due parti, nella faida tra i Casalesi degli Schiavone e il gruppo Venosa, né è responsabile? La domanda rimane insoluta per molti e molti anni perché, nonostante gli inquirenti cerchino
Renault Clio.
73
MINE
CRI L E D A
CEN LLA S
SU
o di ticol
ar
u
Kati
i
acin
P scia
di scoprire la ragione di questo duplice omicidio così efferato scavando a fondo nella vita delle due vittime, non riescono a venirne a capo. Scavano ed esaminano tutto nella vita di Pagano e Coviello: gli amici, i famigliari più volte interrogati senza trovare quel che lega le vite dei due alla Camorra. Passano gli anni, ma non la voglia degli inquirenti di capire il perché di quell’agguato e di assicurare alla giustizia quei criminali che hanno ucciso senza pietà. Ventitré anni dopo, grazie anche a qualche rivelazione di
74
alcuni pentiti, cosa è successo quella tragica mattina inizia a prendere forma. Le indagini dei Carabinieri, coordinate dal pm dell’Antimafia Giovanni Conzo, arrivano a stabilire il ruolo delle vittime all’interno della faida tra gli Schiavone e i Venosa. Ma Pagano e Coviello sono sempre stati estranei agli ambienti della Camorra. Uccisi per errore: questo il tragico epilogo. Unica “colpa” di una delle vittime è quella di possedere una macchina completamente uguale, sia per modello che per colore, ai veri obiettivi dell’agguato.
Agguanto preparato per Alfredo Zara, luogotenente del clan Schiavone e Domenico Frascogna colpevoli di aver tentato di uccidere, qualche giorno prima, Pietro Paolo Venosa, fratello del capo del gruppo rivale Raffaele Venosa. La mattina del 27 maggio 2015 i Carabinieri del Nucleo Operativo della Compagnia di Casal di Principe, coordinati dai magistrati della Procura della Repubblica di Napoli ‒ Direzione Distrettuale Antimafia, sotto il comando del capitano Michele Centola e del vice Salvatore De Falco ‒ hanno assicurato alla giustizia i colpevoli del duplice omicidio eseguendo un’ordinanza di custodia cautelare nei confronti di due affiliati al clan dei Casalesi della fazione Venosa. Le misure cautelari sono state notificate a Raffaele Venosa rintracciato a San Cipriano d’Aversa e a Francesco
Carannante, presso il carcere di Rossano Calabro, dove l’uomo è attualmente recluso. L’arresto di Raffaele Venosa, eseguito in un ristorante di Parete mentre l’uomo cercava di fuggire, assicura alla giustizia il capo della fazione Venosa del clan dei Casalesi. Due uomini che, all’epoca dei fatti, giovanissimi e che già potevano “decidere” chi doveva vivere e chi morire. Ma le indagini non possono fermarsi a questi due nomi perché le armi usate nel ‘92 non erano solo due, bensì cinque. Chi sono gli altri che hanno preso parte al commando? E chi era o che fine a fatto il “palo”? Perché sbagliare in “alcuni ambienti” non è mai permesso e chi sbaglia paga. Dopo 23 anni un paio di tasselli tornano al loro posto e le famiglie delle vittime attendono ancora che tutti gli “uomini” che hanno ucciso due innocenti paghino per le loro colpe.
75
Crimine ai Raggi X
a cura di Alberto Bonomo
Arma letale
Esiste più di una motivazione per spiegare quella relazione stabile che ormai da qualche tempo intercorre tra le organizzazioni di stampo mafioso e il kalashnikov. “Ak 47” è il suo nome di battesimo ma nel mondo, a fronte dei 75 milioni di pezzi originali che girano, esistono anche numerosissime imitazioni. Si parla di un “Fucile d’assalto” automatico e semiautomatico, cioè una via di mezzo tra un fucile e un mitra che permette di sparare a raffica come anche colpire un bersaglio mirato a lunga distanza. La conseguenza è una versatilità senza eguali che consente l’utilizzo in un ampio ventaglio di situazioni estreme. Un’arma robusta, solida e poco precisa ma in grado di funzionare anche dopo essere finita nel fango, in mare o seppellita sotto la sabbia. Un’arma facilmente smontabile che richiede poca manutenzione e che quindi può essere usata anche da una persona poco esperta. A metà degli anni ‘70 una particolare modifica ne accentuerà la forza distruttrice: un proiettile più piccolo (un calibro 5,45 mm). La meccanica rimane invariata, la differenza è che il proiettile, essendo più piccolo e più leggero, consentirà a chi ne farà uso di trasportare più munizioni. Sia il vecchio calibro 7,62 che il 5,45 esplode colpi destabilizzati. Il proiettile, dunque, è fatto in modo che la coda sia più pesante della punta; ciò comporta che al momento dell’impatto con un corpo il proiettile comincia a ruotare, infliggendo ferite particolarmente devastanti, molto più di una classica arma convenzionale. Fattori che spiegano il perché di una diffusione capillare nelle criminalità organizzata o in cellule terroristiche. Una raffica, capace di perforare la maggior parte dei vetri blindati e di lasciare poco scampo, fa gola a chi ha bisogno di soluzioni definitive.
76
EN
A SC SULL
liari
ag la P
o
i Pa
lo d rtico
a
MINE
CRI A DEL
DUE VITE, UN MISTERO Strani indizi da un’auto carbonizzata e un delitto che grida vendetta
78
Ci sono due indagati per l’omicidio del 19enne Gianluca Monni, freddato mentre aspettava l’autobus per andare a scuola a Nuoro, l’8 maggio ad Orune, Sassari. Si tratta di altri due giovani, un 17enne di Nule e il cugino di 24 anni, che vive in un’abitazione rurale nelle campagne di Ozieri. Le case dei due sono state perquisite il 17 giugno, su disposizione dei magistrati delle Procure di Nuoro e dei Minori di Sassari e sono stati sequestrati apparecchi informatici: pc, tablet, materiale elettronico in generale, nonché i telefoni cellulari di tutti i componenti delle rispettive famiglie. Apparentemente normalissima la vita di questo giovane, ucciso con tre colpi di fucile davanti ad altri ragazzi, subito sentiti dai Carabinieri. Gianluca era seduto su un gradino vicino alla pensilina della fermata, quando è stato raggiunto dagli spari. Il 19enne frequentava la 5a presso l’Istituto professionale Alessandro Volta, di famiglia normalissima: il padre titolare di una rivendita di mangimi per animali, la madre lavora in ospedale a Nuoro, il fratello studente. Il caso, già di per sé intricato, potrebbe essere collegato alla scomparsa di Stefano Masala, 29enne di Nule (Ss) di cui si sono perse le tracce proprio la sera prima del delitto Monni. I due casi sarebbero legati per il tramite di un episodio avvenuto il 13 dicembre scorso in occasione della festa “Cortes apertas” ad Orune: un gruppo di ragazzi
di Nule, ospiti di amici orunesi, in una sala da ballo importunarono delle ragazze del paese, tra le quali la fidanzata di Gianluca Monni, intervenuto per difenderla. Tra i due gruppi si sarebbero quindi creati dei forti malumori e, complice un elevato tasso alcolico, sbucò fuori da un tasca del 17enne ora indagato anche una pistola. Alla fine il gruppo di Nule se ne tornò a casa. Tra loro pare ci fosse anche Stefano Masala, ed è stato addirittura ipotizzato che proprio Masala fosse al volante dell’auto usata per l’agguato mortale a Monni, una Opel Corsa grigia ritrovata bruciata il giorno dopo l’omicidio dello studente nelle campagne di Pattada (Ss). L’auto su cui viaggiavano gli assassini venne più volte ripresa da alcune videocamere di sorveglianza ed aveva un cerchione
79
CENA
AS SULL
i olo d c i t r a
INE
RIM DEL C
liari
Pao
ag la P
diverso dagli altri tre. Particolare presente anche nell’auto ritrovata carbonizzata. La famiglia di Masala smentisce categoricamente il legame tra i due fatti e Stefano rimane a tutti gli effetti uno “scomparso”. Per ora senza esito le perquisizioni in alcune abitazioni rurali di Pattada anche con l’ausilio dei cani molecolari, ma al momento non è emerso nulla di nuovo. La madre del giovane indagato aveva anche cercato di fornirgli un alibi: «All’ora dell’omicidio mio figlio era in casa, poi è andato in campagna con il padre». Invece il ragazzo la sera della sparizione di Masala sarebbe andato al bar per poi tornare presto a casa. Testimonianza che può avere, comunque, un valore relativo, essendo stata fornita da un familiare.
Pattada.
80
Le ultime tracce di Stefano lo danno presente la sera di giovedì 7, più o meno alle 19:45. Un’ora più tardi il suo cellulare già non rispondeva più. In mezzo ci sono un passaggio al solito bar con un rapido saluto agli amici presenti e il generico riferimento ad un misterioso appuntamento urgente. Il ragazzo è descritto da tutti come mite, gentile che si fida anche troppo degli altri, pronto ad aiutare. Potrebbe essere stato coinvolto in qualcosa di brutto? E perché la sua auto è stata ritrovata carbonizzata? I familiari, papà Marco, mamma Carmela, il fratello Giuseppe e le sorelle Valentina e Alessandra chiedono che non venga abbandonato l’interesse per questa vicenda che, per ora, è ancora a tutti gli effetti una scomparsa, non
necessariamente collegata all’omicidio del giovane Gianluca Monni. «Temiamo seriamente che a Stefano sia stato fatto del male, e sia stato nascosto in qualche luogo inaccessibile». «Caro Stefano – avevano detto in un primo appello – devi sapere che non sei solo, la tua famiglia come sempre ti è vicina e ti vuole bene. Non sappiamo cosa è successo, se hai paura di qualcosa noi siamo con te, siamo pronti ad aiutarti in qualunque momento e a qualunque ora. Se sei in difficoltà e puoi mandare un messaggio o un segnale, fallo immediatamente e
noi siamo pronti a raggiungerti. Siamo preoccupati per te, tu non preoccuparti di niente: a noi interessa solo che tu torni a casa al più presto». E poi un appello alla cittadinanza: «La famiglia Masala-Dore chiede accoratamente agli abitanti di Nule e del circondario, se qualcuno conosce o ha visto qualcosa, riferisca con urgenza e celerità, anche in forma anonima, qualsiasi informazioni o indicazione utile al ritrovamento di Stefano, in particolare si invoca chi, sapendo, non avrà mai la coscienza a posto, mantenendosi dentro questo rimorso».
Sardinia Orune.
81
82
83
IER DOSS
D
o di ticol
ar
E
ZION
LLE A CO l
Nico
eri
arn a Gu
ROCCO CHINNICI
L’UOMO CHE IDEÒ IL POOL ANTIMAFIA Trentadue anni fa il magistrato diventava una delle prime vittime illustri di Cosa Nostra
84
“Pool antimafia”. Quante volte sentiamo questa locuzione ai telegiornali, quante volte la leggiamo sui maggiori quotidiani nazionali? Ebbene, forse in pochi sanno che fu proprio Rocco Chinnici il primo a proporre un’unione tra i magistrati per la lotta alla mafia. Chinnici è un predestinato. Nel 1952, a soli 27 anni (è un classe ‘25) fa il suo ingresso nella Magistratura. Un ingresso in punta di piedi, come uditore giudiziario presso il Tribunale di Trapani. D’altronde, come ricorderà la figlia Caterina nel libro È così lieve il tuo bacio sulla fronte (ed. Mondadori), «non chiamatelo eroe, perché era speciale in modo normale». Dopo un decennio abbondante in cui è pretore a Partanna, nel 1966
Il magistrato Rocco Chinnici.
85
IER DOSS
DA
eri
arn a Gu
icol
iN olo d
artic
ONE
EZI COLL
Chinnici giunge a Palermo per rivestire la carica di giudice istruttore. È in questo periodo che si trova a che fare con le indagini di mafia e inizia a pensare ad un modo per arginare questo oscuro potere. Dopo aver lavorato alla strage di viale Lazio (uno dei primi “lavori” dei mafiosi che avrebbero monopolizzato gli anni Ottanta e Novanta, come Salvatore Riina e Bernardo Provenzano) nel 1975 diventa prima magistrato di Cassazione e poi Consigliere Istruttore. Le uccisioni della mafia di susseguono fino al 1980, quando le morti del capitano dell’Arma dei Carabinieri Emanuele Basile e del procuratore Gaetano Costa (amico di Chinnici) fanno scattare qualcosa nella testa del magistrato. Chinnici si rende Bernardo Provenzano. conto che l’unione fa la forza e propone di istituire un pool di magistrati e Forze ci saranno proprio i giudici Falcone dell’ordine per la lotta alla mafia (tra i e Borsellino). Fino ad allora infatti le più favorevoli a questo modus operandi indagini personali non solo mettevano a repentaglio le vite degli investigatori ma anche le loro scoperte, che dopo la loro morte venivano disperse nel nulla. Chinnici propone anche una nuova strategia di indagine che si rivela molto efficace (e che sarà, probabilmente, una delle maggiori cause della sua scomparsa): è il primo a seguire i soldi, il flusso di denaro. Le tracce lasciate dagli sporchi affari permettono a Chinnici di iniziare a intuire il fondo dell’iceberg dell’imprenditoria mafiosa, il cui connubio con la politica inizia a diventare evidente. La città di Palermo dall’alto.
86
Il fatto che Chinnici abbia “fatto centro” si traduce nei primi messaggi di minaccia: il telefono di casa inizia a squillare senza che dall’altro capo qualcuno spiccichi parola. Forse Chinnici non si rende conto di essere un “morto che cammina” e continua imperterrito nel suo lavoro, nella sua missione. Fino a quel maledetto 29 luglio del 1983. Sono le 08:05 del mattino quando il magistrato esce dalla sua abitazione per recarsi al lavoro, come ogni giorno. Forse è pensieroso e non nota un’auto che di solito non sosta in via Giuseppe Pipitone Federico: è una
Fiat 126 verde ed è piena di tritolo, circa cento chili. L’esplosione è violentissima e oltre a Rocco Chinnici perdono la vita anche il maresciallo dei carabinieri Mario Trapassi, l’appuntato Salvatore Bartolotta e il portiere dello stabile Stefano Li Sacchi. L’unico superstite è l’autista, Giovanni Paparcuri. La primogenita Caterina non è in casa; i primi ad uscire sono gli altri due figli, Giovanni ed Elvira, di 19 e 24 anni, che accorrono ancora in pigiama. Il cratere che li accoglie è un buco che ha inghiottito per sempre il loro papà. Un buco fondo e nero, proprio come la mafia.
Foto segnaletica di Salvatore Riina.
87
GLIE
ANA C I L I RAB
EMO
M
olo
artic
cesc
ran di F
is
nald
Ri a De
PINO COBIANCHI: SERIAL KILLER O MITOMANE? L’uomo che si autoaccusò del massacro di prostitute e vantò amicizie insospettabili
88
È il 19 marzo 2006 quando in un fosso, nelle campagne di Coltano (Pisa) viene ritrovato il cadavere di una giovane donna. Il corpo è quello di una prostituta di 28 anni, Veruska Vason, della quale si erano perse le tracce due mesi prima. L’assassino ha infierito su di lei con oltre 50 coltellate. Le indagini sulla sua morte imboccano una strada ben precisa grazie alle analisi dei tabulati del suo cellulare, ritrovato nella stanza di albergo a Livorno dove la donna aveva soggiornato due giorni prima. Tre mesi più tardi arriva l’arresto di tre persone, tra cui, come esecutore materiale del delitto, un uomo di Milano di 52 anni, Pino Cobianchi. L’uomo confessa subito, affermando che tutto sarebbe successo per una truffa finita male. Cobianchi è lo stesso che aveva denunciato la scomparsa di Veruska, un mese e mezzo prima del ritrovamento del corpo recandosi più volte presso la sede del quotidiano Il Tirreno, raccontando di gente che voleva sfruttarla e di raggiri. Invece, a febbraio, poco dopo aver dato l’allarme su Veruska, lo arrestano insieme ad una donna e ad un amico. Il gruppo è stato soprannominato “Banda di Robin Hood” perché, dopo aver messo a segno alcuni colpi nei negozi di Pisa e provincia, telefonava al giornale locale rivendicando l’operazione col nome dell’eroe della foresta di Sherwood. Quando va dai cronisti de Il Tirreno, non solo Cobianchi denuncia la scomparsa di Veruska Vason, ma chiede loro di aiutarlo a tornare “dentro”. In fondo “dentro” Cobianchi è abituato a starci: una vita,
la sua, passata tra galere, riformatori e orfanotrofi. Agli inizi degli anni Ottanta era stato condannato a quasi 30 anni per un delitto e in passato si era pure attribuito gli omicidi di alcune prostitute. Il caso vuole che, al momento del suo arresto per la morte di Veruska Vason, nella zona ci siano altri casi irrisolti, proprio riguardanti delle prostitute. Cobianchi insiste perché gliene venga attribuita la responsabilità, in particolare di uno, quello del transessuale brasiliano Wagner Pereira Da Silva, ucciso a Nodica la notte fra il 2 e il 3 dicembre 2004, e lo fa scrivendo una lettera a La Nazione, nella quale implora: «Dovete credermi. Sono io l’assassino». I Magistrati però non gli credono, e questo Cobianchi non lo sopporta. Intanto, viene però rinviato a giudizio per la morte di altre tre prostitute, uccise nel 2003, i cui casi sono stati riaperti. Tutte e tre sono state uccise a colpi di pistola.
89
ORAB
MEM
esca
nc i Fra
olo d
artic
LIE
NAG ILI CA
ldis
ina De R
Nel maggio del 2009 inizia il processo a Cobianchi, già condannato a 30 anni per l’omicidio di Veruska Vason. A dicembre dello stesso anno è lui a deporre in aula e lo fa presentandosi con indosso la maglia della squadra del Genoa, anzi dell’ex attaccante Marco Borriello, in onore alla sua compagna che porta lo stesso cognome del calciatore. Stavolta il copione cambia: Cobianchi spiazza tutti proclamandosi innocente. Non solo, per dar prova della propria credibilità, dà voce a tutte le sue conoscenze di noti casi di criminalità italiana affermando tra l’altro: «Sono stato ascoltato come testimone durante il processo di Perugia per la morte di Meredith Kercher perché sono venuto a conoscenza di alcuni particolari di quell’indagine, così come ho deposto, sempre come teste, a Brescia al processo per la strage di piazza della Loggia contro il generale Delfino, nel quale ho prodotto un documento, che il suo difensore ha
90
definito un atto coperto da segreto di Stato». Anche il suo avvocato Laura Antonelli, stupita, gli domanda come mai sappia tutti questi fatti della cronaca nera. E lui, prontamente: «Perché sono stato amico di Vallanzasca e nell’ambiente della malavita questo è un vanto e sono conosciuto come una persona affidabile. In tanti mi vengono a raccontare le cose, perché sanno che non sono un “infame”». A tal proposito, scrive anche una lettera a La Nazione in cui si attribuisce il delitto dell’agente della Polstrada Bruno Lucchesi, avvenuto nel 1976 e per il quale è stato invece condannato proprio Renato Vallanzasca. A sostenere l’innocenza di Cobianchi relativamente agli omicidi delle tre prostitute è anche il suo legale, il quale fa notare un dettaglio non trascurabile e cioè che Cobianchi, uno che le prostitute le frequentava, soffre di un’anomalia sessuale che lo porta ad abbondanti eiaculazioni. Eppure il suo Dna non è mai stato repertato sul luogo degli omicidi. Ciò non è comunque ritenuto sufficiente dai giudici che lo condannano all’ergastolo in primo e secondo grado. Nel febbraio 2012, quando ormai Cobianchi è condannato a scontare, tra quattro delitti e reati minori quali incendi, rapine e furti, circa 104 anni di pena, si impicca nella sua cella al carcere di Opera.
Approfondimento
IL PARERE DELL’ESPERTA Dott.ssa Francesca De Rinaldis (psicologa forense) La storia criminale italiana ricorda Pino Cobianchi come serial killer. Tuttavia, al di là delle decisioni processuali, resta ancora oggi difficile stabilire con certezza se sia o meno responsabile della morte delle prostitute della quale si era assunto dapprima la responsabilità per poi ritrattare tutto in sede processuale, atteggiamento anomalo per un serial killer che considera ogni omicidio come una sorta di sua opera d’arte della quale desidera gliene venga giustamente riconosciuto “ogni merito”. Cobianchi ha cercato in più occasioni di attrarre l’attenzione su di sé e lo ha fatto contattando direttamente, sia di persona, sia attraverso lettere, le redazioni delle principali testate giornalistiche italiane, certo che tale mezzo di comunicazione di massa, il giornale appunto, gli avrebbe garantito visibilità e notorietà ampia ed immediata. È tipico del serial killer il desiderio di attrarre su di sé l’attenzione, di tenere così “in scacco” inquirenti ed opinione pubblica. Ciò gli permette di esercitare il suo senso di grandezza e desiderio di onnipotenza che si concretizza nel terrore delle masse e nell’incapacità degli investigatori di giungere alla sua cattura. Difficilmente però lo fa esponendosi in prima persona e chiedendo di essere incriminato per morti delle quali non è ancora stata nemmeno accertata la paternità di una stessa mano. Certamente però, Cobianchi ha esibito una serie di comportamenti da mitomane. 91
Approfondimento Clinicamente la mitomania è la tendenza abituale ad inventare bugie, a cui spesso crede l’autore stesso allo scopo di destare ammirazione, compassione o comunque interesse negli altri. La mitomania è indotta dal bisogno che ha un soggetto di valutarsi di fronte agli altri cercando, con storie fittizie o fantasiose, di crearsi una sua notorietà. Il mitomane talvolta è cosciente della natura fantastica del suo racconto, talvolta invece finisce con il crederci tanto è viva la sua partecipazione affettiva. Fisiologica nel bambino che ancora confonde fantasia e realtà, la mitomania diventa patologica in soggetti adulti costretti a sostituire una realtà esterna o interna insopportabile con una fittizia. Già la storia criminale italiana, anche recente, ci ha abituati al confronto con mitomani. Tra tutti val la pena ricordare Stefano Spilotros, 22 anni, agente immobiliare della provincia di Milano, che nel 1992 contattò la polizia per confessare di essere l’autore dell’omicidio del piccolo Simone Allegretti, di 4 anni, prima delle due piccole vittime del mostro di Foligno, Luigi Chiatti. In realtà Spilotros, come hanno testimoniato varie persone, il giorno della morte del piccolo Simone Allegretti, era nella sua città, qualcuno lo ha anche incontrato in discoteca, eppure egli vuole demolire il suo alibi, mosso dal suo delirio di grandezza, dal suo bisogno patologico di esistere in un grande teatro della finzione. Recentemente, riguardo all’omicidio di Yara Gambirasio, tra gli altri si è fatto avanti un altro mitomane che reclamava la paternità del delitto, scrivendo una lettere al quotidiano l’Eco di Bergamo affermando: «Ecco come ho ucciso Yara Gambinasio», fornendo una serie di dettagli che sono stati a lungo sottoposti al vaglio degli inquirenti fino alla smentita. Questi sono solo due esempi che stanno a dimostrare come la cronaca nera si costelli spesso di fatti di questo tipo, proprio perché i casi difficili, e soprattutto molto attenzionati dall’opinione pubblica, avvicinano facilmente il mitomane, che si sente “forte” nella veste di colui che sfida le indagini con successo. Anche Ferdinando Carretta, l’uomo che nel 1998 ha sterminato la sua intera famiglia per godere da solo di tutto il patrimonio economico, nel momento della sua confessione si è creduto potesse essere un mitomane, memore dell’esperienza di Spilotros. A tal proposito Achille Serra, l’investigatore che lo arrestò, affermò: «Se Carretta è mitomane non reggerà quando i riflettori si saranno spenti». Così è stato, i riflettori si sono spenti e Carretta non ha mai ritrattato anzi, ha fornito dettagli coerenti che hanno trovato adeguati riscontri, ha scontato tutta la pena, tra cui un periodo in un Ospedale Psichiatrico Giudiziario, ed oggi gode della sua libertà e della sua eredità. Cobianchi no, quando l’impatto con la realtà carceraria non lasciava vie di fuga e quando ormai il sipario su di lui era calato e quei riflettori che egli aveva voluto puntare su di sé si erano spenti, non ha retto al duro impatto depressivo con la realtà ed è crollato, togliendosi la vita. 92
IT
IE D STOR
lo di
o artic
ORNI
I GI UTTI
i
illac
aM Dor
L’isee 2015 danneggia le persone con disabilitĂ
Anche il TAR con le associazioni di categoria contro il nuovo indicatore di reddito
94
Per prima cosa chiariamo per chi non lo sapesse che cos’è esattamente l’ISEE. Con questo termine il Ministero del Lavoro, delle Politiche Sociali e l’INPS hanno definito un documento entrato in vigore nel 1998, per comparare la situazione economica delle famiglie italiane, in base alla quale si verifica se si può accedere a prestazioni sociali agevolate. Questi sono alcuni esempi: una carta acquisti, bonus bebé, aiuti per le mense scolastiche, borse di studio, agevolazioni per l’iscrizione al nido, contributi per affitto, gas, luce, ecc.. All’interno del documento troviamo diverse informazioni, da quelle di carattere anagrafico a quelle reddituali. Quest’anno il documento che dovrebbe agevolare le famiglie bisognose è stato modificato. Contrastanti sono i punti
da compilare da parte delle persone con disabilità e il metodo per il calcolo dell’ISEE ha tenuto ben poco conto dei diritti di quest’ultimi. Il Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali continuano a sostenere la vantaggiosità del nuovo documento, eppure la popolazione interessata, le associazioni che tutelano i disabili ed anche il Tribunale amministrativo laziale (attraverso ben 3 sentenze), hanno dei grossi dubbi al riguardo. Vediamo nel dettaglio alcuni punti cruciali sui quali si combatte. Secondo il nuovo ISEE gli aiuti erogati dall’Inps, come le pensioni di invalidità e le indennità di accompagnamento, andrebbero inseriti come redditi. Cosa a dir poco assurda, secondo i sostenitori dei diritti di categoria.
95
RNI
GIO TTI I
I TU
IE D STOR
lo di
o artic
D
i
illac
M ora
Come citato sopra, il TAR del Lazio ha bocciato queste ipotesi, considerando come redditi disponibili quelle somme elargite dallo Stato a compensazione di oggettive condizioni di difficoltà, come appunto i sostegni previsti per le situazioni di grave disabilità. Altro punto sotto accusa è il tetto da cinquemila euro per le spese che si possono detrarre nel calcolo, come quelle mediche o per l’acquisto di cani guida. È palese però che una persona disabile grave è costretta, a causa della sua condizione, a cure costose e pertanto molte volte quel tetto viene superato. Inoltre poi ci sono da tener conto le scelte Regionali e dei singoli Comuni, che determinano particolari condizioni. Pertanto è lecito sostenere che questo nuovo ISEE non agevoli affatto le persone con sofferenza economica, ma anzi dà
96
loro solo altre preoccupazioni e problemi. Per questo motivo le associazioni per i diritti delle persone con disabilità e i familiari degli stessi si ritrovano spesso a manifestare non solo a Roma, ma in diverse città italiane. Quello che viene richiesto è che venga effettuata una revisione del “famoso” documento, che farebbe risultare “ricca” una persona che prende la misera pensione d’invalidità con accompagnamento. Questo perché tra le altre azioni controproducenti, pregiudica anche l’assegnazione di una casa popolare e di altri piccoli aiuti. In conclusione, se è vero che in taluni casi il nuovo ISEE è più conveniente rispetto al passato, per chi ha una disabilità grave il sistema di calcolo 2015 rischia di essere decisamente svantaggioso.
97
LIBRO E PROGRAMMA TV
CONSIGLIATI
a cura di Mauro Valentini Storia dei servizi segreti italiani
Antonella Colonna Vilasi percorre la storia e i misteri dell’Intelligence del “Bel Paese” Autrice di numerosi saggi che hanno affrontato storie criminali e psicopedagogiche, Antonella Colonna Vilasi è esperta di Intelligence e ha pubblicato molte opere nel campo tortuoso e a volte (quasi sempre) misterioso dei servizi segreti. Con il suo Storia dei Servizi segreti Italiani (Città del Sole Edizioni) esplora, partendo dalle origini fino ad oggi, quelli che sono stati e saranno la storia ed il ruolo dei nostri apparati preposti alla sicurezza. Un saggio che nella premessa l’autrice descrive come un libro rivolto a tutti coloro che vogliono avere un quadro generale dell’Intelligence italiana, e lo scopo è appunto quello di studiarne le radici per comprenderne le prossime trasformazioni. Il libro scorre con un’attraente trama cronologica, ricca di documenti e di percorsi cronologici che aiutano non solo a comprendere le trame e gli sviluppi, ma diventa anche un ricco ed enciclopedico vademecum che aiuterà chi vuole orientarsi per studio o per cultura personale nella materia. Si percorrono poi i casi più eclatanti della nostra storia, senza mai deviare in tecnicismi e il libro è diviso in 4 parti: la prima è una serie di interviste ad ex direttori responsabili dell’Intelligence italiana, tra cui Mario Mori; la seconda parte è con evidenza il cuore del libro con la storia dei servizi segreti, dall’Unità d’Italia ad oggi, passando per il periodo fascista, fino ad attraversare le cupe ombre della “Strategia della tensione” finendo per trattare con un capitolo a parte la morte di Nicola Calipari, ferita ancora aperta nella coscienza del Paese. La terza parte è dedicata ai documenti, dove si esprimono gli ambiti legali delle attività dei Servizi, mentre chiude la quarta parte con interviste a politici ed esperti, con l’intervento finale di Benito Li Vigni, che fu collaboratore di Enrico Mattei, la cui morte è avvolta ancora di mistero. Un libro che con chiarezza spiega la struttura dei servizi segreti, rivolto a tutti quelli che vogliono avere un quadro chiaro su un tema che, come si comprenderà leggendo queste pagine, determina le politiche e i rapporti internazionali.
Diritto di Cronaca, la nuova rubrica di politica ed attualità in onda
ogni martedì e giovedì su Teleromauno (CH. 271). Tante le tematiche già affrontate, dal caso Cucchi al clan dei Marsigliesi, fino alle inchieste su sanità, sicurezza e criminalità. Tutte le puntate sono disponibili sulla pagina Facebook di “Diritto di Cronaca”, condotte dal giornalista Giovanni Lucifora.
98
FILM E PROGRAMMA RADIOFONICO
CONSIGLIATI a cura di Nicola Guarneri
Al cinema
Spectre - 007
Mancano ancora più di tre mesi all’uscita, prevista per il 6 novembre prossimo, ma il nuovo film di 007 (il ventiquattresimo) fa già parlare di sé. L’agente segreto più famoso del grande schermo si trova alle prese con un criptico messaggio proveniente dal passato e una nuova minaccia da sventare. Particolarmente interessante il cast: di fianco a Daniel Craig (James Bond per la quarta volta) troviamo ben due Bond Girls: Léa Seydoux (La vita di Adele) e, soprattutto, la nostra Monica Bellucci. Appuntamento al cinema!
In radio Nun te Radioreggae più, ideato e prodotto da Claudio Caruso, in onda ogni lunedì dalle 22:30 alle 00:00 su “Radio Libera Tutti” (www.radioliberatutti.it) o app RTL, è un’ora e mezza di puro intrattenimento con la conduzione di Claudio Caruso e Federico Mancini, per dire finalmente cosa non sopportiamo, parlando di attualità ma sempre con una vena ironica. La Radio lavora anche alla rubrica Dalla parte di chi non c’è ispirato a tutte quelle persone che sono vittime dello Stato o della mafia. .
99