Cronaca&Dossier20

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COPIA OMAGGIO

anno 2 – N. 20, Novembre 2015

CASO DI PORDENONE, GENETICA, BALISTICA E IDENTIKIT PER FARE LUCE Mostro di Firenze, l’ultimo delitto in un documentario

«Non sono un’assassina!». Oltre i luoghi comuni: la Parla la moglie di Vitale pedofilia non sempre è reato


Indice del mese 4. Inchiesta del mese

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TRIFONE E TERESA, OTTOCENTO METRI PER UN ENIGMA

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10. Inchiesta del mese

GIALLO DI PORDENONE: IL MOSAICO PRENDE FORMA

14. Ricerca e analisi

CASO PORDENONE, L’IMPORTANZA DELL’IDENTIKIT

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18. Criminalistica

LA BALISTICA FORENSE NEL DUPLICE OMICIDIO DI PORDENONE

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24. Sulla scena del crimine «NON SONO UN’ASSASSINA!». RIAPERTO IL CASO VITALE

30. Sulla scena del crimine UNA SFIDA ALL’ULTIMO INDIZIO

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36. Sulla scena del crimine

MOSTRO DI FIRENZE, DOCUMENTARIO SULL’ULTIMO MASSACRO

COPIA OMAGGIO

anno 2 – N. 20, Novembre 2015

CASO DI PORDENONE, GENETICA, BALISTICA E IDENTIKIT PER FARE LUCE Mostro di Firenze, l’ultimo delitto in un documentario

«Non sono un’assassina!». Oltre i luoghi comuni: la Parla la moglie di Vitale pedofilia non sempre è reato

40. Diritti e minori

LA PEDOFILIA NON SEMPRE È REATO

46. Memorabili canaglie QUELLE MOSTRUOSITÀ DI PADRE IN FIGLIO

52. Dossier da collezione

GLADIO, IL BUCO NERO DELLA STORIA REPUBBLICANA ITALIANA

58. Media crime

LIBRO, FILM, PROGRAMMA TV E RADIO CONSIGLIATI

60. Dossier società

ARRIVA IL CODING. NUOVI LINGUAGGI ED EVOLUZIONE

64. Storie di tutti i giorni CENTRI URBANI E DISABILITÀ: BISOGNA FIDARSI?

ANNO 2 - N. 20 NOVEMBRE 2015

Rivista On-line Gratuita Direttore Responsbile Pasquale Ragone Direttore Editoriale Laura Gipponi Articoli a cura di Alberto Bonomo, Nicoletta Calizia, Nia Guaita, Nicola Guarneri, Dora Millaci, Paolo Mugnai, Gelsomina Napolitano, Katiuscia Pacini, Paola Pagliari, Mauro Valentini, Francesca De Rinaldis. Direzione - Redazione - Pubblicità Auraoffice Edizioni srl a socio unico Via Diaz, 37 - 26013 Crema (CR) Tel. 0373 80522 - Fax 0373 254399 edizioni@auraoffice.com Grafica e Impaginazione Giulia Dester Testi e foto non possono essere riprodotti senza autorizzazione scritta dall’Editore. Le opinioni espresse negli articoli appartengono ai singoli autori dei quali si intende rispettare la piena libertà di espressione. Registrato al ROC n°: 23491 Iscrizione al tribunale N: 1411V.G. dal 29 ottobre 2013


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TRIFONE E TERESA, OTTOCENTO METRI PER UN ENIGMA Quel duplice delitto lucido, spietato e dettagliato ma ancora senza movente

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«È dura la vita vero signora? Però bisogna andare avanti». Rossella sorride a mezza bocca a quel ragazzo che in via Leo Girolami, vedendola arrancare dietro al suo cane, l’ha apostrofata così. Ha un accento partenopeo. Lei ha origini campane e a Pordenone una voce meridionale non passa inosservata. Un cenno, attraversa la strada e va via. É il 17 marzo 2015, sta facendo buio, sono le 17:15. Rossella ricorderà quell’incontro la sera stessa e guardando il TG della notte rimarrà di sasso ascoltando la notizia: due ragazzi sono stati uccisi a colpi d’arma da fuoco nel parcheggio del Palasport di Pordenone, a pochi metri da quella via e da quell’incontro con lo sconosciuto. Trifone Ragone e Teresa Costanza giacciono nella loro auto, lei al posto di guida, lui sul lato passeggero. Gli hanno sparato sei colpi a distanza ravvicinata. Tutti in viso, spari per uccidere. Uno soltanto non è andato a segno. Un agguato in piena regola che ha colto i due ragazzi di sorpresa. Alle 20:00 Trifone esce dalla palestra, appena finito il suo allenamento, Teresa è passata a prenderlo. Non si rendono neanche conto di quello che sta accadendo, nessuna azione di difesa, a dimostrazione che Trifone, almeno lui, conosce lo sparatore. Chi ha sparato lo ha fatto dal suo lato, aprendogli lo sportello e colpendolo in viso, una, due, tre volte. Gli inquirenti sono certi, i due sono stati

colti di sorpresa magari dopo un saluto proprio all’assassino. Uno come Trifone, si sarebbe difeso e ce ne sarebbe stata evidenza nella postura che lo ha colto nell’atto della morte. Teresa è stata colpita appena dopo, ha lo sguardo attonito e atterrito di chi vede la morte in faccia e la aspetta senza speranza. Chi ha sparato è poi fuggito nel buio del parcheggio, ma come? Ci sono testimonianze che convergono nel distinguere una macchina grigia che si allontana mentre tutti invece vanno verso l’auto bianca con i ragazzi morti. Si analizzano subito le telecamere della zona e una traccia

Teresa Costanza

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rimane nel setaccio di chi analizza le immagini. Un’Audi grigia che percorre via di San Valentino, la strada proprio dietro il Palasport e che costeggia il parco. Un percorso che le due telecamere poste agli antipodi della via che è lunga 800 metri mostrano chiaramente. Però qualcosa di strano c’è. Perché per percorrere questi 800 metri l’auto impiega 7 minuti circa. Decisamente troppo. Si ascoltano gli amici di Trifone, ci si concentra su di lui, si cerca qualche crepa

Trifone Ragone

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plausibile nella vita di questo ragazzo che giustifichi un omicidio. Trifone prima di andare a vivere con Teresa divideva un appartamento con Giosuè Ruotolo, campano e collega del ragazzo ucciso. Giosuè ha un’Audi grigia. Nel frattempo Rossella si presenta in Caserma, vuole raccontare quell’incontro con quel ragazzo due ore e mezza prima del duplice omicidio. Tracciano un identikit. Rossella ricorda benissimo che quel tipo aveva un cappello di lana blu in testa.


Giosuè ai Carabinieri che lo interrogano dice che non è mai uscito di casa quella sera, i commilitoni che sono con lui lo confermano. Però quell’auto sembra proprio la sua e nella sua auto, fatalità, durante la perquisizione gli trovano tre cappelli di lana scuri del tutto simili a quelli descritti dalla signora Rossella. Ma i due pm Pier Umberto Vallerin e Matteo Campagnaro sono tormentati da quegli 800 metri percorsi in 7 minuti. Fanno un sopralluogo e notano che in quel tratto di via c’è l’ingresso del parco. Soprattutto c’è un laghetto. Mandano i sommozzatori che subito trovano l’arma del delitto, gettata a pezzi nell’acqua. I periti la rimontano, è una Beretta della Prima Guerra Mondiale. Ed è l’arma che ha ucciso Trifone e Teresa. Giosuè allora cambia versione: quella macchina è la sua, è andato al Palasport, è vero. Ma dice che non ha trovato parcheggio ed è tornato indietro percorrendo via di San Valentino. Si è fermato al parco per fare jogging, ma per pochi minuti perché aveva freddo. È risalito in macchina ed è tornato a casa. I commilitoni coinquilini, anche loro ora ricordano meglio. Prima confermavano

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che Giosuè non era mai uscito, ora dicono sì, è uscito. «Gli abbiamo chiesto “dove vai?”. Ci ha risposto “fatevi i cavoli vostri”». La ricostruzione di Giosuè è troppo posticcia e spalmata sulle evidenze investigative per non essere sospetta. Giosuè è indagato, accerchiato da tanti riscontri. Ma se ne cercano altri, più consistenti: si sta comparando una impronta parziale su una cartuccia rimasta sulla scena, si stanno analizzando delle piccole

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macchie forse ematiche nell’Audi grigia e si stanno facendo rilievi sulla vernice nera che rivestiva la pistola. Soprattutto, si scava nei meandri della vita privata di Giosuè che, testimonianza dopo testimonianza, sta mostrando qualche crepa emotiva soprattutto nella sfera sentimentale. Quello che manca però finora a chi indaga è il movente. Quale può esser la molla di un duplice omicidio operato con una rabbia così lucida ed estrema nelle modalità di esecuzione?


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GIALLO DI PORDENONE:

IL MOSAICO PRENDE FORMA

La lente di ingrandimento della Procura scandaglia da settimane ogni aspetto della vita di Giosuè Ruotolo, unico indagato per il duplice omicidio di Teresa Costanza e Trifone Ragone. La Dottoressa Marina Baldi, specialista in Biologia e Genetica forense, consulente tecnico del pool difensivo della famiglia Ragone, ci aiuta a fare luce su alcuni punti chiave della vicenda

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Laddove le analisi biologiche/genetiche conducessero verso tracce appartenenti alle vittime, ma diverse dal sangue, avremmo ipotetici nuovi risvolti investigativi e dunque processuali. Quale sarà, ad esempio, l’approccio ai possibili falsi positivi riscontrabili dall’utilizzo del luminol nelle indagini? «Il luminol è un presidio molto utile ma, com’è noto, può reagire con molti substrati e quindi può dare molti falsi positivi. Viene quindi utilizzato come screening iniziale per evidenziare tracce latenti non visibili a occhio nudo che possono quindi essere prelevate ed analizzate. Solo dopo le analisi si potrà decidere quali tracce sono di sicuro interesse e se sì». Quanto influirà il tempo trascorso da quel tragico 17 marzo sulla ricerca della verità? «Più ci si allontana dall’azione omicidiaria e più ovviamente i rilievi diventano difficili. Teniamo però presente che in questo caso gli inquirenti hanno fatto il sopralluogo e i rilievi medico-legali dopo poco tempo dall’omicidio e quindi dal punto di vista

Dott.ssa Marina Baldi

necroscopico e delle informazioni che si possono deteriorare non ci sono i problemi che si possono presentare in altri casi in cui l’evento viene scoperto dopo molto tempo da quando è avvenuto». Saranno diversi i protocolli da seguire nell’analisi dell’autovettura da quelli utilizzati per gli abiti o per l’arma rinvenuta? Esistono particolari difficoltà in relazione al tipo di tessuto da analizzare relativamente agli indumenti o ai materiali sintetici dell’autovettura? «Per ciò che riguarda i rilievi biologici, i protocolli sono gli stessi: osservazione con luce bianca, osservazione con luminol, prelievo delle tracce e invio in laboratorio.

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MESE L E D omo STA E n I o H oB INC

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Per la pistola è stato necessario un trattamento per asportare il fango da cui era ricoperta, dopodiché sono iniziate le analisi di tipo balistico, dattiloscopico e biologico». Di recente, attraverso gli esami condotti sull’autovettura di Ruotolo, sarebbero state isolate delle non meglio identificate tracce biologiche all’interno dell’abitacolo. Che cosa può dirci in merito? «Come potete immaginare posso dire poco, in quanto si tratta di accertamenti coperti dal segreto istruttorio, ma posso senz’altro confermare che sono state individuate e prelevate alcune tracce biologiche interessanti per le quali sono

Esempio di ricerca impronte digitali

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ancora in corso le analisi al RIS di Parma». Le circostanze inerenti al ritrovamento dell’arma sul fondale del laghetto del parco di San Valentino quanto incideranno sulla ricerca di tracce biologiche? L’acqua distruggerà ogni possibile prova? «Purtroppo è molto probabile che sulla pistola i rilievi diano scarsi risultati in quanto la permanenza in acqua per molto tempo ha compromesso le tracce. Però le impronte si possono essere conservate in quanto sono formate da una componente grassa, non idrosolubile che potrebbe non essere stata completamente distrutta. È già trapelata la notizia che un’impronta situata su un proiettile sia stata


Esempio di analisi di tessuto al microscopio

individuata. Se le analisi consentiranno di ottenere un’immagine di buona qualità potrebbe essere possibile effettuare una comparazione». Durante le indagini ha destato una certa curiosità la bottiglietta ritrovata, nell’immediatezza dei fatti, proprio dietro una delle ruote dell’autovettura appartenente alle vittime. Sono state condotte delle analisi su questo reperto? Vi è stato un riscontro o è stata in seconda battuta accantonata? «Non è stato accantonato nulla! Le indagini su quella bottiglietta sono in corso, insieme con quelle degli altri reperti».

sequestrati all’indagato afferma: «Difficile che da questi esami emerga una prova d’innocenza per Ruotolo». Alla luce dell’incessante lavoro profuso per la risoluzione del caso, cosa ne pensa di quest’affermazione? «Penso che gli inquirenti, per fare quest’affermazione abbiano in mano elementi utili per sostenere la colpevolezza di Ruotolo. Ricordiamo sempre che gli atti sono secretati!». Possiamo dire di trovarci di fronte ad uno di quei casi in cui la prova scientifica sarà l’unica vera discriminante tra assoluzione e condanna? «È presto per dirlo, ma sinceramente non credo. Ritengo invece che gli elementi di accusa siano frutto d’investigazioni molto approfondite alle quali le prove scientifiche, se ce ne saranno, potranno solo dare ulteriori conferme».

Il procuratore Marco Martini, in un’intervista al Ilgazzettino.it, in merito agli accertamenti del RIS sui reperti Rilievo impronta digitale su superficie

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CASO PORDENONE,

L’IMPORTANZA DELL’IDENTIKIT

Ecco quando diventa decisivo l’identikit: tutte le tecniche dallo schizzo a mano libera ai software

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L’identificazione dell’autore di un reato è uno dei principali obiettivi della Polizia di ogni Paese e l’identikit, da oltre 100 anni, è uno strumento importante. Nel caso dell’assassinio dei fidanzati di Pordenone, l’identikit è stato utile grazie alla testimonianza della signora Rossella in relazione a quanto visto due ore e mezza prima del duplice delitto. Diventa perciò importante capire cos’è un identikit e quale peso abbia oggi tra le moderne tecniche d’indagine. Nato come disegno di un viso somigliante ad un sospettato, si basava inizialmente sulla capacità di un disegnatore di interpretare e tradurre in forma grafica le descrizioni orali che venivano fatte da parte del teste (questo è ancora il metodo preferito dall’FBI). Negli anni, l’identikit si è evoluto su due fronti: il primo, di tipo grafico, con l’avvento di software che hanno al loro interno una banca dati di connotati fisiognomici e permettono, anche a chi non è un disegnatore, di produrre risultati di qualità. Il secondo fronte è invece legato

all’aspetto psicologico del testimone. Uno dei software più utilizzati, anche dalla nostra Polizia Scientifica, è il sistema “Faces”, un programma che offre una vastissima gamma di nasi, occhi, orecchie, capelli, forme del viso e permette anche di modificare, in modo immediato e veloce, i tratti del viso aggiungendo rughe, eventuali cicatrici, ma anche piercing, tatuaggi, nei, borse sotto gli occhi e così via. La vittima/testimone sceglie, tra i particolari, quello che più si avvicina alla persona da descrivere. In questo modo, in base alle indicazioni fornite, l’operatore combina le varie parti del viso e genera un’immagine che rispecchi l’idea che il teste ha del colpevole. Ecco allora che il

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risultato finale è la ricostruzione di un viso con le caratteristiche di una fotografia, quindi “vivo” e con notevole somiglianza con la persona di cui sono state fornite le caratteristiche. Ma comporre l’identikit di un presunto criminale non è cosa facile. Il processo di ricostruzione delle sembianze di una persona, spesso intravista per breve tempo, è complicato da varie difficoltà: la maggiore nel creare un’immagine somigliante sta, soprattutto, nei processi psicologici e di recupero della memoria della vittima/testimone e l’abilità

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dell’operatore non è semplicemente quella di abbinare parti grafiche del viso, ma quella di riuscire ad evocare elementi che il teste pensa di non aver visto o di non ricordare. La violenza, lo stress e il trauma di essere vittima/testimone di un reato, così come il lasso di tempo tra il crimine e la realizzazione dell’identikit, annebbia e confonde la memoria. Uno dei più rilevanti meccanismi psicologici che provocano la distorsione di un ricordo è quello conosciuto come focus on weapon, che agisce sui soggetti minacciati con armi, nei quali tutta la loro attenzione è concentrata solo sull’arma e, per questa ragione, non sono in grado di riferire nessun altro dettaglio e non riescono a ricordare nessun tratto distintivo di chi li minacciava a volto scoperto. Anche il processo di codificazione della nostra mente può rappresentare un problema perché tutto ciò che è stato percepito dagli organi sensoriali e dai meccanismi percettivi, è influenzato dalle caratteristiche personali e ciò che vediamo è sempre e soltanto ciò che le nostre ipotesi, le nostre idee preconcette, la nostra cultura di fondo ci predispongono e ci preparano a vedere. Ecco allora, come nel caso di una rapina in banca, che diversi testimoni descrivono il colpevole in modo diverso, poiché ciascuno rimane colpito da qualcosa in particolare. Inoltre, uno studio del National


Institute of Health di Bethesda, nel Maryland (USA), dimostrerebbe che non immagazziniamo nella nostra memoria i tratti somatici di tutte le persone (anche conosciute) per poi richiamarli alla mente, ma probabilmente procediamo per comparazione. Nella nostra memoria, cioè, abbiamo un generico “archivio” di tratti somatici più comuni e frequenti e quando vediamo un volto lo paragoniamo alla media statistica che abbiamo in mente. Anche il tempo rende più labili i nostri ricordi e può essere assai difficoltoso ricostruire un identikit somigliante a distanza dall’evento. È per questo motivo

che il software “Faces” è installato, negli USA, anche sulle auto di pattuglia della Polizia, proprio per consentire agli agenti di elaborare immagini dalle testimonianze, nell’immediatezza dei fatti. Concretizzare un identikit somigliante di una persona mai vista è in ogni caso molto impegnativo e difficoltoso: oltre alla evidente difficoltà di creare un’immagine che si avvicini a un volto umano mai visto, c’è da tener conto dei tanti risvolti psicologici e cognitivi dei testi e richiede agli operatori una formazione complessa, fatta di intuizioni, ponderazioni, abilità artistiche e approfondite nozioni di psicologia.

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LA BALISTICA FORENSE NEL DUPLICE OMICIDIO DI PORDENONE Le indagini sulla pistola ritrovata e l’impronta su una cartuccia alla base delle indagini del RIS

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Pordenone 17 marzo 2015. Il parcheggio di una palestra, due giovani fidanzati brutalmente uccisi in macchina, una vecchia pistola ripescata in fondo ad un lago e per ora un solo iscritto sul registro degli indagati. Cosa accomuna tutti questi elementi, ancora rimane un mistero. Stiamo infatti parlando del duplice omicidio di Trifone Ragone e Teresa Costanza. Nel duplice omicidio, dal punto di vista scientifico, la Balistica forense è una delle tecniche criminalistiche in grado di fornire elementi certi alle indagini in corso. I due giovani sono stati infatti uccisi con un’arma da fuoco, una pistola semiautomatica risultata compatibile per calibro e marca con l’arma ripescata dai Carabinieri sommozzatori nel lago di San Valentino, situato nelle vicinanze del parcheggio dove sono stati uccisi i due giovani fidanzati. L’arma repertata è una vecchia Beretta modello 1922 in calibro

Analisi comparativa fra due proiettili

Esempio di comparazione di solchi di rigatura

7.65 mm, prodotta negli anni ‘20 del secolo scorso. Quasi un reperto da collezione. Quali sono i principali esperimenti balistici da fare per poter affermare che l’arma in sequestro è quella con cui l’assassino ha commesso il delitto? Sappiamo che l’omicida ha sparato nei confronti di Trifone e Teresa sei cartucce con una pistola semiautomatica, lasciando delle prove fondamentali rappresentate dai proiettili che hanno attinto i corpi dei due giovani, e i bossoli, rinvenuti sulla scena del crimine. Quando viene sparato un colpo con un’arma da fuoco il proiettile attraversa l’anima della canna e si lascia modellare dai principi di rigatura che hanno il compito di mettere in rotazione il proiettile per garantirne stabilità. Questo passaggio lascia sul proiettile delle tracce, dette microstriature, che sono riconducibili in maniera univoca all’arma

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che ha sparato il colpo. Per comprendere meglio il concetto potremmo paragonare le microstriature alle impronte digitali: non esistono due persone con le medesime impronte. Durante l’esplosione di un colpo avvengono anche altri fenomeni soprattutto a carico del bossolo, come ad esempio la percussione dell’innesco da parte del percussore, l’aggancio del bossolo da parte dell’unghia estrattrice

Microscopio comparatore

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e il piano del fondello del bossolo che colpisce l’espulsore, che espelle il bossolo stesso dall’arma. Tutti questi fenomeni producono dei segni caratteristici, tali da permettere l’identificazione del tipo di arma utilizzata. Come sostiene il professore Martino Farneti, esperto balistico di fama internazionale e docente di Balistica Forense presso l’Università della Tuscia, già volto noto della tv dopo essere


quella utilizzata per l’omicidio. Un altro aspetto a volte ignorato, ma utile ai fini della comparazione balistica, è l’analisi dei segni lasciati sul bossolo dalle labbra del caricatore: avendo repertato i bossoli, è sicuramente possibile comparare tali segni con quelli lasciati su una cartuccia di prova appositamente montata all’interno del caricatore in fase di indagine balistica». Non rimane che aspettare quanto prima i risultati ufficiali della consulenza balistica, così come Esempio di comparazione fra unghie estrattrici si attendono le prime risultanze dopo l’analisi dell’impronta digitale parziale intervenuto anche sul caso di Pordenone trovata su una cartuccia. Due punti presso gli studi di Quarto Grado: importanti che potrebbero segnare una «Riferendoci al caso del duplice omicidio svolta per le indagini. di Pordenone, avendo in sequestro l’arma, una delle operazioni fondamentali che con molta probabilità il consulente tecnico esperto in Balistica avrà condotto, sarà stata quella di aver sparato dei colpi di prova per poi aver raccolto i proiettili e i bossoli test, al fine di compararli con quelli repertati sulla scena del crimine. Se sui bossoli test i segni lasciati dal percussore, dall’ unghia estrattrice e dall’espulsore sono sovrapponibili a quelli presenti sui bossoli repertati, e lo stesso vale per i solchi di rigatura e le microstriature presenti sui proiettili, vi è la certezza che l’arma in sequestro è effettivamente Esempio di comparazione fra unghie estrattrici

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SCUOLA DI ALTA FORMAZIONE DISCIPLINE PSICOLOGICHE

CENTRO STUDI SCENA DEL CRIMINE (CSSC)

CORSO DI ALTA FORMAZIONE IN ANALISI DELLA SCENA DEL CRIMINE E SCIENZE FORENSI

V EDIZIONE

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«NON SONO UN’ASSA

Dopo la riapertura del caso di Rosario Vital la sua e annuncia l’uscita di un l

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ASSINA!»

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Torna ad essere un vero mistero la morte di Rosario Vitale, il marittimo di Santa Flavia, morto in circostanze non chiarite a casa della moglie il 17 settembre 2007, per una coltellata allo stomaco. La donna, insieme al padre Stefano, erano stati ritenuti colpevoli d’omicidio e condannati a 16 anni in primo grado, ma nei giorni scorsi dalla Corte d’Assise di Appello di Palermo è arrivata una assoluzione con formula piena che ha ridato serenità a Stefania e Stefano Lo Piparo, 41 e 68 anni. Gli avvenimenti erano apparsi da subito piuttosto confusi e si era inizialmente parlato di un suicidio al culmine di una brutta lite fra coniugi, ma all’ospedale Buccheri La Ferla, un medico si era accorto di uno strano taglio in faccia e si era insospettito. Quindi, il sostituto procuratore Maria Forti aveva acceso i riflettori ovviamente sulla moglie Stefania e sul padre di lei. L’uomo aveva consegnato ai Carabinieri un coltello, affermando che fosse l’arma dell’aggressione e del suicidio, portata dallo stesso Vitale. Ma non vi erano riscontri e l’effettiva arma che aveva provocato la morte del marittimo non venne mai trovata. Altro fatto singolare: in casa del suocero, dove poco prima era arrivato Vitale con intenti minacciosi, non erano state trovate tracce di sangue. La versione fornita dalla figlia era stata: «È stato lui a ferirsi con il coltello», ma in primo grado non aveva convinto del tutto. Quella del padre: «È caduto sul coltello». I vicini avevano raccontato di una lite furibonda, in cui presto sarebbe

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comparso non si sa da dove il coltello. Spaventati dalle grida, avevano chiamato il 112. I Carabinieri e poi i soccorsi, che avevano trovato l’uomo mentre scendeva le scale, ancora vivo. Non aveva accusato né moglie, né suocero. Vitale non aveva alcun precedente penale; per gli archivi di Polizia e Carabinieri era un perfetto sconosciuto, sebbene avesse avuto diverse denunce, anche partite dall’ospedale Buccheri dove proprio Stefania veniva medicata, ed i suoi conoscenti ne parlavano come di un uomo tranquillo. Valutata dai Carabinieri anche l’ipotesi che il padre della donna fosse intervenuto per dirimere la lite tra i due e, forse, a un certo punto, sarebbero stati solo i due uomini ad affrontarsi. In effetti, tante volte i vicini di casa li avevano sentiti litigare. La coppia continuava a

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Stefania Lo Piparo (nella foto di copertina assieme al marito)

scontrarsi a proposito del figlio e per questioni di gelosia, ma mai quelle violente discussioni erano finite al peggio. Tutti gli elementi avevano portato i due ad una condanna con rito abbreviato a 16 anni di carcere, ma ora, in Appello, i legali della donna sono riusciti a provare che non poteva uccidere il marito, anzi aveva cercato di aiutarlo tamponando la ferita. Ora che tutto è finito, Stefania Lo Piparo ci ha rilasciato una commossa intervista: «Il mio desiderio più grande è che nessuna donna possa mai provare cosa vuol dire vivere col terrore di perdere il proprio figlio per avere in tutti modi cercato di


salvare la vita a proprio carnefice. Io non voglio medaglie al valore, ma voglio che la gente sappia la verità e che nessuno abbia il solo sospetto di potere pensare che io sia un’assassina o che mio padre sia un assassino. Io non ho vissuto in questi anni, ho vegetato e non sono mai stata aiutata da nessuno, se non dai miei cari. Pensavo a mio figlio Mauro, a cosa sarebbe potuto accadere se fossi stata condannata definitivamente». Ma Stefania vuole lasciarsi tutto alle spalle: «Ovviamente ora sono una donna libera, nel senso che posso andare dove voglio, ma mio figlio in questi ultimi anni ha subito i miei stati d’animo e per lui è stato davvero un periodo difficile. Lui vive per me e io per lui. Rosario era un uomo imponente, con un fisico palestrato, ma dall’animo fragile e tormentato. Mi sono trovata la vita rovinata per la mia sindrome da crocerossina e in una società maschilista ho subito molte ingiustizie. Fino a questa sentenza, non mi ero sentita affatto tutelata dalla giustizia. Ora, invece, posso ringraziare i giudici che mi hanno trattata in modo rispettoso ed umano ed il mio avvocato Giovanni Di Benedetto». Stefania, a causa della vicenda giudiziaria, aveva anche perso il lavoro. «Sto scrivendo un libro sulla mia storia, per poter aiutare altre donne che potranno

trovarsi in una situazione simile alla mia. Parte dei proventi andranno infatti a sostegno delle donne maltrattate e vittime di violenze familiari». La morte di Rosario Vitale rimane senza un colpevole o senza una spiegazione convincente. Come altre volte accade: si ricomincia tutto da capo, anche se l’ipotesi più ragionevole appare quella di uno sfortunato incidente, dettato dalla paura di Vitale di finire nelle mani dei Carabinieri. Perciò, avrebbe cercato di ferirsi, in modo da essere ricoverato in ospedale. Purtroppo, anche a causa di ritardi nei soccorsi, poi particolarmente maldestri, gli avvenimenti hanno avuto un esito tragico. Questa assoluzione rappresenta una doccia gelata, invece, per i familiari di Rosario Vitale, fratello, sorella e madre, che in primo grado si erano costituiti parte civile ed avevano ottenuto un risarcimento.

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Crimine ai Raggi X a cura di Alberto Bonomo

IL SILENZIO DELL’ARMA BIANCA Solitamente il suicidio mediante arma bianca è attuato prendendo di mira la regione precordiale o quella epigastrica e i colpi sono inferti previo denudamento della parte: questa circostanza costituisce un elemento differenziale con l’omicidio. La sede delle ferite inferte è di grande utilità investigativa perché il suicida tende a colpire e a circoscrivere i colpi alla regione cardiaca, al collo e all’addome; nell’omicidio, invece, i colpi sono inferti solitamente con meno consapevolezza e hanno una distribuzione pressappoco causale poiché vanno a cadere laddove l’aggressore riesce a colpire nella concitazione degli eventi. Inoltre, nei casi di omicidio sono frequenti ferite, dette da difesa, agli arti superiori esposti dalla vittima nel tentativo di difendersi. Ferite da difesa attiva sul palmo delle mani dovute al tentativo di bloccare la lama; ferite da difesa passiva sul dorso delle mani nel tentativo di fare scudo sugli organi vitali; ferite da schivamento sulle spalle o sul torace dovute ai tentativi della vittima in movimento di deviare i colpi inferti dall’aggressore. È importante precisare che il numero delle ferite da punta e da taglio non è di per sé dimostrativo poiché esistono in letteratura numerosi casi di suicidio realizzati con un gran numero di colpi.

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UNA SFIDA ALL’ULTIMO INDIZIO Il silenzio assordante delle prove nella morte di Giuseppe Colabrese

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Un cranio fracassato, degli insetti, un paio di occhiali da sole e un paio di scarpe da ginnastica pulite: ecco gli indizi che gli inquirenti hanno per indagare sulla morte di Giuseppe Colabrese, giovane sulmonese di 27 anni, scomparso i primi di agosto a Genova e ritrovato nei boschi di Canarbino, vicino a La Spezia, nella prima decade di ottobre. Giuseppe, dopo aver passato la prima parte dell’estate a Pescocostanzo a lavorare nei campi del padre, decide di concedersi qualche giorno di vacanza e di andare a trovare un amico di Sulmona a Romito Magra, in Liguria. Non è la prima volta che Giuseppe va a trovare Francesco. Sono amici da anni e da qualche anno passano alcuni giorni di vacanza insieme. Giuseppe

parte da Sulmona il 1° agosto, con un borsone nero e azzurro con la scritta “Sports” riempito con pochi vestiti e uno zaino nero dell’Eastpak. Sono i genitori ad accompagnarlo alla stazione degli autobus dove, nel salutarli, Giuseppe dice loro: «Non chiamatemi al telefono, facciamo come l’anno scorso, tanto sapete dove sono! Torno fra quindici/venti giorni. State tranquilli». Tuttavia, mamma Annarita e papà Luciano decidono comunque di sentire Giuseppe per Ferragosto. Il telefono è spento, risponde la segreteria telefonica. Un po’ preoccupati riprovano anche il giorno successivo. Ancora nulla. Allora papà Luciano decide di chiamare Francesco, il quale gli racconta di aver lasciato Giuseppe alla stazione di Genova

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il 6 agosto perché lui aveva prenotato un traghetto a causa di un lavoretto estivo trovato in Sardegna. Allarmati da queste parole Annarita e Luciano, dopo aver denunciato la scomparsa del figlio, iniziano un lungo calvario di attesa. Tre mesi dopo alcuni cacciatori ritrovano il corpo di un giovane nei boschi di Romito. Il cadavere è in avanzato stato di decomposizione e sembra appartenere ad un uomo di circa 30 anni. Gli inquirenti, guidati dal sostituto procuratore Claudia Merlino, non ci mettono molto a collegare il corpo alla scomparsa. Le scarpe e i pantaloncini indossati dal giovane vengono riconosciuti da mamma Annarita. Immediatamente si cerca, tramite l’autopsia effettuata dal medico legale, Dott.ssa Susanna Gamba, di stabilire sia le cause del decesso

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sia di prelevare campioni biologici da confrontare con i familiari di Giuseppe. Ed è proprio il DNA a non lasciare scampo alle speranze dei due genitori: il corpo, ritrovato in un dirupo profondo circa venti metri, è quello del loro primogenito Giuseppe. Purtroppo il cadavere è dilaniato a tal punto che nemmeno l’anatomopatologa riesce, attraverso l’autopsia, a stabilire scientificamente la causa del decesso. Intanto però gli investigatori che sospettano, dagli indizi raccolti sulla scena del crimine e supportati dalle ferite alla nuca del cadavere, che la causa della morte sia da ricondurre ad una morte violenta, iniziano ad indagare a tutto campo. Dai tabulati telefonici scoprono che il telefonino di Giuseppe


è stato agganciato per l’ultima volta il 6 agosto da una cella nei pressi della stazione di Genova, per poi scomparire per sempre. Ascoltano immediatamente Francesco Del Monaco, ultima persona, forse, a vedere vivo Giuseppe. Francesco dichiara agli inquirenti quello che ha già detto a papà Luciano aggiungendo che Giuseppe dorme, durante tutte le sue visite, sempre nello stesso B&B di Lerici e che nell’ultimo anno, lo stesso, lo aveva raggiunto almeno tre volte. Ora però sarebbe lo stesso Francesco a ritrattare: non più il 6 ma il giorno 4 avrebbe lasciato Giuseppe alla stazione. Stranamente gli inquirenti non riescono a trovare riscontri a tali dichiarazioni perché nessun B&B di Lerici né di Romito ha confermato di aver ospitato il ragazzo, né i genitori di Giuseppe confermano i tanti viaggi di Giuseppe a Romito. Altro particolare sospetto, per una persona che dovrebbe aver attraversato un bosco impervio e pieno di terra, è il ritrovamento delle Nike Air Force bianche, indossate da Giuseppe, con le suole praticamente pulite. Naturalmente non vi è nemmeno nessuna traccia né i documenti, né i bagagli con cui il ragazzo è partito da Sulmona. In tutti questi indizi che mancano, in tutto il silenzio che circonda

questa triste storia (poiché nessuno ha mai risposto agli appelli della famiglia Colabrese), vi sono tre piccole luci di speranza: la ferita al cranio, gli esemplari di larve trovate sul corpo del ragazzo e un paio di occhiali da sole integri, trovati nel bosco vicino al cadavere, che non sembrano appartenere a Giuseppe. Per la ferita al cranio gli inquirenti hanno richiesto esami più approfonditi, che consentiranno di capire in che maniera si è formata la ferita. Per l’esame delle larve sarà nominato un esperto che riuscirà, molto probabilmente, a stabilire un range temporale per la morte del ragazzo. E gli occhiali da sole? Forse nemmeno il più scaltro degli assassini può sottrarsi alla dura legge di Locard!

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Crimine ai Raggi X

a cura di Alberto Bonomo

INDIZI DALLA NATURA Quando il ritrovamento di un cadavere avviene in ambienti aperti, risulta di grande ausilio alle indagini investigative (per ciò che attiene al luogo, alle cause della morte o alla diagnosi di PMI, post mortem interval) l’analisi dei resti di natura vegetale in prossimità della scena primaria. La Botanica Forense comprende specifiche sottocategorie d’indagine riguardanti la scienza delle piante come la Palinologia Forense (o Criminopalinologia), la Limnologia e la Dendrocronologia. La prima è lo studio dei pollini, delle spore, delle cisti algali e altri microorganismi. Questa scienza ne calcola la costituzione chimica, provenienza, velocità di caduta e dispersione nell’ambiente. La Palinologia fornisce prove utili a stabilire o escludere collegamenti tra persone, luoghi e oggetti. La Limnologia studia tutte le caratteristiche delle acque dolci e la flora algale in esse presente (in particolari casi lo studio delle Diatomee è utile sulla scena del crimine poiché esse sono molto sensibili alle variazioni stagionali che incidono sulla loro quantità e tipologia). Infine, la Dendrocronolgia studia gli anelli di accrescimento degli alberi. L’analisi di un “semplice” rametto strappato, rinvenuto sulla vittima o nelle immediate vicinanze, potrebbe rappresentare un valido aiuto e un riferimento cronologico di non poca importanza nelle indagini.

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MOSTRO DI FIRENZE, DOCUMENTARIO

SULL’ULTIMO MASSACRO Il delitto degli Scopeti e le ultime novità oggetto di un interessante documentario di Paolo Cochi

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Il 18 ottobre si è tenuto a Roma presso la suggestiva sede del Museo di Arte Sanitaria, il terzo convegno sul Mostro di Firenze organizzato dalla Ophir Criminology. Il convegno ha avuto come fulcro quello che viene considerato l’ultimo dei delitti ufficialmente attribuiti al Mostro: il duplice omicidio degli Scopeti. Il Mostro di Firenze, quell’entità oscura e ancora senza nome che ha terrorizzato la Toscana fiorentina dalla fine degli anni ‘60 alla metà degli anni ‘80, ha sicuramente raggiunto il suo massimo livello di orrore ed atrocità proprio in quella piazzola localizzata in località Scopeti, a San Casciano Val di Pesa, uccidendo due cittadini francesi, la 36enne Nadine Mauriot e il 25enne JeanMichel Kraveichvili. L’apertura dei lavori Il regista Paolo Cochi del convegno è coincisa con la proiezione del documentario girato dal regista Paolo Cochi. Un documentario sintetico e ben narrato dal giornalista Fabio Sanvitale, che parte dalla ricostruzione del delitto ed arriva a tutta una serie di questioni che mettono in dubbio la versione ufficiale, secondo la quale il duplice omicidio fu compiuto nella notte tra la domenica 8 settembre 1985 e il lunedì successivo. Infatti, come ben argomentato nel corso del convegno Ophir dai vari relatori, gli eventi potrebbero essere andati diversamente rispetto a quella che viene considerata come la verità ufficiale. Come ci racconta il regista Paolo Cochi «nel documentario sono molti gli elementi che porterebbero a retrodatare il delitto di uno o addirittura due giorni (invalidando le testimonianze Immagine dal documentario di Paolo Cochi auto ed etero accusatorie di alcuni dei

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compagni di merende): vecchie e nuove consulenze medico-legali per discutere sullo stato di decomposizione dei cadaveri, l’analisi degli scontrini (fermi al giorno 6 settembre 1985) ritrovati all’interno dell’auto dei due francesi, l’attento studio delle testimonianze e, non ultima una serie di esperimenti di entomologia forense condotti dalla professoressa Simonetta Lambiase dell’Università di Pavia, proprio sulla piazzola degli Scopeti e che mirano a retrodatare il delitto grazie allo studio degli stadi larvali di alcune specie di mosche. Quello degli Scopeti – continua ancora Paolo Cochi – è un delitto nuovo, un delitto diverso rispetto ai precedenti.

Immagine dal documentario di Paolo Cochi

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Immagine dal documentario di Paolo Cochi

Non è più l’attacco ad una coppietta appartata in macchina giusto il tempo per scambiarsi le proprie effusioni amorose, bensì ad una coppia accampata in una tenda canadese. Inoltre in questo delitto il Mostro nasconde i corpi, con il probabile intento di ritardarne il loro ritrovamento. Ma sicuramente l’apice del terrore, che si unisce al senso di sfida, viene raggiunto in questo delitto quando il Mostro asporta il seno della povera Nadine Mauriot e ne invia una parte al Magistrato Silvia della Monica (che già da due anni non si occupava più dei casi del Mostro)


imbucando il feticcio in una cassetta delle lettere a San Piero a Sieve». Un delitto agghiacciante per il quale la Giustizia ha ufficialmente fatto il suo corso, portando alla condanna definitiva di alcuni dei cosiddetti compagni di merende (Giancarlo Lotti e Mario Vanni). Tuttavia, avendo visto gli elementi riportati nel documentario di Paolo Cochi, i dubbi nei confronti della versione ufficiale non sono pochi. Un documentario la cui realizzazione ha richiesto due anni di intense ricerche, interviste e collaborazioni con avvocati e con vari esperti di criminalistica e

Immagine dal documentario di Paolo Cochi

Immagine dal documentario di Paolo Cochi

che proprio in questi giorni pare abbia riacceso l’interesse degli inquirenti sui casi del Mostro di Firenze. Lo scopo di un documentario del genere è proprio questo: collegare eventi, pareri e studi, riproponendoli in una forma sintetica, che arrivi diretta e che trasmetta le informazioni essenziali. Adesso non rimane che aspettare i nuovi possibili sviluppi, sperando che un giorno si possa aggiungere un ulteriore tassello di verità a questa intricatissima e misteriosa vicenda che ha terrorizzato e nello stesso tempo affascinato un Paese intero.

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LA PEDOFIL NON SEMP È REATO

Al di là dei luoghi comuni l’approfondime fenomeno della pedofilia: quando è rea

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Pedofilia e pedopornografia sono tuttora temi che destano confusione, per questo risulta indispensabile mettere ordine in un ambito molto delicato come questo. La pedofilia, secondo il DSM V (Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali), è inserita nelle parafilie (pedofilic disorder, exhibitionistic disorder, fetishistic disorder, frotteuristic disorder, sexual masochism disorder, sexual sadism disorder, transvestic disorder e voyeuristic disorder), ma con la recente edizione, gli psichiatri hanno voluto fare una differenziazione tra pedofilia “agita” e “non agita”, andando così a creare una sottocategoria del disturbo pedofiliaco: l’«orientamento sessuale pedofiliaco», che se non agito, appunto, non può caratterizzarsi come disturbo; quindi, colui che mostra un’attrazione sessuale e agito verso i bambini, prova

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un disagio clinicamente significativo, comportando una compromissione dell’area sociale e psicologica, soffre di pedofilia come patologia, mentre colui che ha un’attrazione sessuale rivolta verso i bambini non agita e non prova sentimenti di colpa, vergogna e ansia, presenta, invece, un “orientamento sessuale”, o “interesse sessuale” nei confronti dei preadolescenti. Da un punto di vista comportamentale, questo interesse può portare il pedofilo a limitarsi a guardare il bambino fino ad assumere comportamenti fortemente sessualizzati come spogliare il bambino, accarezzarlo, toccarlo, masturbarsi in sua presenza, avere rapporti orali, anali o vaginali penetrandolo con il pene, le dita o altri oggetti.

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APPROFONDIMENTO

Una madre compie atti sessuali con il proprio figlio a cura di Nicoletta Calizia

È questa la notizia di cronaca, uscita il 22 ottobre scorso, che ha fatto scandalizzare e inorridire l’opinione pubblica: una mamma di Pescara non solo ha abusato del figlio di 5 anni, ma con la complicità del cugino, nonché amante, ha registrato alcuni video che la riprendevano mentre violentava il figlio e li ha diffusi in internet. Sia l’uomo che la donna, i cui nomi non sono stati resi noti, sono stati arrestati per produzione e divulgazione di materiale pedopornografico, atti sessuali con minorenni e corruzione di minorenni. La domanda che più inquieta è: una mamma può arrivare ad abusare del figlio e a pubblicare il video pedopornografico in rete? A quanto pare sì. Questa donna viveva con i figli e un altro uomo, apparentemente ignaro di questi reati e della relazione segreta con il cugino della donna. Una situazione borderline, un contesto sociale


Da qui l’altra differenza tra pedofilia e abuso sessuale, che spesso vengono utilizzati erroneamente come sinonimi. Non tutti i pedofili abusano sessualmente, ma molti rimangono nella sfera della fantasia. Perciò vi è reato se il pedofilo assume comportamenti fortemente sessualizzati, mentre se vi sono solo fantasie, o attrazione ed eccitazione verso i prepuberi, ma il pedofilo non mette in atto alcun comportamento, non si può parlare di reato. Sempre nel DSM V viene per la prima volta indicato l’uso di pornografia raffigurante bambini in età prepubere o preadolescenti come un sintomo di pedofilia. La pedopornografia è un fenomeno che si sta, purtroppo, sempre più diffondendo, date le nuove tecnologie e la velocità di pubblicazione in rete di immagini, filmati ritraenti un minore coinvolto in attività sessuali - reali o simulate - o qualsiasi altra rappresentazione di organi sessuali di un minore per scopi prevalentemente sessuali. Sebbene sia più semplice, oggigiorno, trovare e scambiare materiale pedopornografico, ma più difficile risalire all’autore, c’è da dire che le strategie e gli esperti che combattono il fenomeno della pornografia minorile stanno diventando sempre più efficienti e abili nello scovare in rete i responsabili e arrestarli.

medio-basso, a detta della Polizia Postale e delle Comunicazioni che attraverso le indagini del CNCPO (Centro Nazionale per il Contrasto alla Pedopornografia Online) è riuscita a risalire all’uomo che caricava questi video pedopornografici e all’abitazione della donna in cui avvenivano questi atti sessuali con il minorenne. Una brutta storia che mette in allarme e spaventa una comunità, ma anche la società intera poiché mai ci si aspetta che una madre arrivi a commettere un reato del genere. Proprio colei che dovrebbe essere la prima a proteggere i propri figli dai pericoli, che per convenzione si pensa provengano sempre dall’esterno. Fin da piccoli ci insegnano a non accettare nulla dagli estranei, a non parlare con gli sconosciuti. Invece la cronaca e le ricerche ci rivelano tutt’altro: il mostro molto spesso è in famiglia. Una verità che fa male, una realtà che terrorizza, ma con la quale dobbiamo, purtroppo, fare i conti.

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QUELLE MOSTRUOSITÀ DI PADRE IN FIGLIO La drammatica storia di Elvino e Mario Gargiulo, “mostri” del Quadraro

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È la sera del 3 novembre 1994 quando Luca Amorese, 14 anni, detto il “Pelè del Quadraro”, scompare nel nulla. Qual pomeriggio, come era solito fare, dopo aver finito i compiti esce con la sua Vespa, ma la sera non farà più rientro in casa. Il padre, allarmato, chiama la Polizia ed iniziano le ricerche cui partecipa tutto il quartiere, ma non sembrano emergere né indizi, né piste o anomalie nella vita di Luca che possano giustificarne la scomparsa. Alcuni raccontano che recentemente Luca ha iniziato ad avere in tasca sempre più soldi, anche banconote da Lire 100.000, con cui compra vestiti che prima non poteva permettersi e anche la Vespa con la quale è uscito quel pomeriggio. Pochi giorni dopo la sua scomparsa i genitori ricevono una lettera firmata da Luca nella Zona del Quadraro, Roma quale egli manda a dire di stare bene e di aver finalmente trovato qualcuno che lo ama. La madre riconosce l’autenticità della firma del figlio, ma sicuramente il testo è contraffatto, con molta probabilità, da un adulto. Nel frattempo, in una baracca, appartenente ad Elvino Gargiulo che vive lì col figlio Mario, i Carabinieri ritrovano i resti completamente smontati della Vespa di Luca. Mario, 30 anni, e il patrigno Elvino, 70 anni, fanno i rigattieri. Elvino sostiene che è stato proprio Luca a vendergli la Vespa, prima di allontanarsi a bordo di un’auto di grossa cilindrata guidata da un adulto sconosciuto. Le attenzioni si concentrano allora proprio attorno ai due Gargiulo, Elvino e Mario. Iniziano le ricerche e si verifica che la

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pagina sulla quale Luca avrebbe scritto la lettera recapitata ai genitori è stata scritta su un foglio strappato ad un’agenda ritrovata in casa dei Gargiulo. Si viene così a sapere che da qualche tempo Luca, ma anche altri ragazzini della zona, erano soliti frequentare la baracca di Elvino Gargiulo che chiamavano “il nonno” per via della sua lunga barba bianca. Elvino, in realtà, è un pedofilo sebbene sia sessualmente attratto anche dalle donne, e costringe il figlio Mario a partecipare ai suoi “giochi”:

Casale del Quadraro, Roma

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spesso invita nella baracca i ragazzini del quartiere per una rapida prestazione sessuale e li ricompensa regalando loro qualche biglietto da Lire 1.000 e dei giornaletti porno. Molte volte accoglie anche donne allo sbando per soddisfare le sue voglie sessuali insaziabili. Ed è in quest’ultimo scenario che maturano gli omicidi di Luigina Giumento e della nipote di 10 anni, Valentina Palladini, avvenuti nell’estate 1991. Elvino le aveva accolte in casa perché non avevano un posto


dove dormire. Una sera Elvino decide che Luigina dovrà iniziare Mario al sesso con le donne, visto che, fino a quel momento aveva avuto dei rapporti sessuali soltanto con bambini. I due salgono al piano superiore, ma Mario non riesce a soddisfare la donna che, per rabbia, gli grida le parole: «Impotente, frocione». Mario perde il controllo e la strangola, poi si addormenta vicino al cadavere. Nel frattempo, Elvino è rimasto da solo con la bambina che, dopo un po’, si mette a piangere e a chiamare la nonna, così

lui perde il controllo e la uccide. La sera successiva, i due Gargiulo fanno a pezzi i cadaveri e li bruciano in un vecchio pozzo scavato nel giardino, per poi far sparire le ossa carbonizzate. Nel processo del 1997, Elvino Gargiulo viene condannato a 24 anni di reclusione e il figlio Mario a 16, concedendo a quest’ultimo le attenuanti generiche e il vizio parziale di mente, condanne confermate in Appello con l’aggiunta di un anno di pena per Mario. Attualmente Elvino Gargiulo è deceduto, ucciso nel carcere di Poggioreale (Napoli) nel 2005, mentre il figlio Mario, scontata la pena detentiva, è in carico ai servizi psichiatrici.

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Approfondimento

LE ORIGINI DEL MALE Approfondimento della psicologa forense Francesca De Rinaldis Mario Gargiulo cresce in un nucleo familiare precario sul piano economico, vivendo in abitazioni fatiscenti o baracche, come prima casa, accanto alla figura del patrigno, che egli riconosce come proprio padre a tutti gli effetti. Elvino Gargiulo, conosciuto nel quartiere Quadraro per le sue inclinazioni decisamente sadiche, il carattere scontroso, irascibile e violento, oltre che ad essere noto come adescatore di bambini, vizietto che gli era costato diversi arresti per lesioni e molestie su minori. Lo stesso Mario, che ha anche dei problemi di ritardo mentale, risalenti proprio all’infanzia, all’età di 10 anni, viene venduto proprio dal patrigno Elvino ad un pedofilo per Lire 32.000. Il nucleo familiare si è caratterizzato per l’assenza di una figura femminile stabile. La madre è deceduta quando Mario aveva 9 anni e le ulteriori conviventi del padre si sono avvicendate senza rappresentare una figura materna sussidiaria. Pertanto la figura più stabile di riferimento è sempre stata quella del padre, che più volte 50


Approfondimento venne recluso in Ospedale Psichiatrico Giudiziario. Lo stesso Mario, prima vittima del padre Elvino, lo descrive come persona brutale e incestuosa. La drammatica vita di Mario Gargiulo è costellata infatti di abusi sessuali e violenze perpetrate a suo danno, da parte del padre. Dall’età di 5 anni in avanti, Mario riporta numerosi traumi e lesioni a causa dei maltrattamenti del padre: stuprato, costretto a dormire per terra e a mangiare topi, malmenato fino a gravi lesioni agli arti e all’occhio sinistro dove il padre gli infila una forchetta. Come tutti i bambini, cresciuti in contesti di violenza e maltrattamento e vittime di abusi sessuali, Mario finirà con l’identificare nel suo aguzzino, il padre Elvino, il suo unico punto di riferimento e oggetto di dipendenza affettiva e sudditanza psichica. Mario Gargiulo ha vissuto e vive una dicotomia, una scissione tra la rabbia per le umiliazioni, le sofferenze e i dolori inferti dal padre, e al tempo stesso si assimila a lui vittima di una sudditanza psicologica che ha impedito lo sviluppo di una personalità autonoma ed equilibrata, che invece ha assorbito, facendole proprie, le attitudini violente del padre. Prima di divenire carnefice Mario Gargiulo è una vittima, ed è una vittima del peggiore dei reati: la violenza sessuale sui bambini. In Mario, vittima di abuso sessuale, si innesca un complesso accumulo di sentimenti che si traducono in un forte vissuto di stigmatizzazione, caratterizzato soprattutto per la percezione di una profonda differenza di sé rispetto al resto del mondo che non ha sperimentato l’abuso. Vivono infatti in lui sentimenti di disgusto, paura, disperazione, che riecheggiano nel suo mondo interno di bambino abusato come la prova che tutti i suoi peggiori pensieri su se stesso sono proprio veri, che il fatto mostruoso e umiliante che è accaduto, l’ha reso ormai altrettanto “mostruoso” e che questo rimarrà su di lui come un marchio probabilmente per sempre. Sentirsi “mostruosi” costringe anche Mario, vittima di abuso, ad autoisolarsi, per sottrarsi allo sguardo umiliante dell’altro e vivere come “mostro”, in uno stato psichico nel quale quei vissuti di rabbia, disgusto, rifiuto e dolore, non sono indirizzati alla fonte che li ha prodotti, in questo caso il padre, ma riversati contro se stesso, verso un’immagine di sé odiata e pertanto da distruggere. Gli anni di reclusione, a seguito dei brutali fatti del 1991 e del 1994 trascorsi da Mario Gargiulo, sono stati infatti caratterizzati da numerosi atti di tipo autolesionistico: ferite da taglio da lama poi, tentativi di impiccamento, ingestione di farmaci e di oggetti quali cucchiai e maniglie delle porte. Al di là della brutalità degli atti commessi che non possiamo e non dobbiamo ignorare e che vanno giustamente puniti, dobbiamo guardare alla drammaticità degli eventi di vita che hanno caratterizzato i percorsi evolutivi di tanti noti come “Mostri” che negli anni hanno sconvolto le coscienze collettive. Prima dei mostri, ci sono le persone, e queste persone sono esse stesse quasi sempre delle vittime dei peggiori dei crimini: il maltrattamento e l’abuso sessuale. Un fenomeno tanto diffuso, quanto ancora troppo nascosto e mascherato che ogni giorno genera vittime che si sentono e vivono come “Mostri”. 51


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GLADIO, IL BUCO NERO DELLA STORIA

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A 25 anni dalle dichiarazioni in Parlamento di Giulio Andreotti la storia di questa organizzazione segreta deviata è ancora avvolta nel mistero

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«I padri di Gladio sono stati Aldo Moro, Paolo Emilio Taviani, Gaetano Martino e i generali Musco e De Lorenzo, capi del SIFAR. Io ero un piccolo amministratore. Anche se mi sono fatto insegnare a Capo Marrangiu a usare il plastico». Iniziamo dalle certezze: è Francesco Cossiga, già presidente della Repubblica, a entrare di diritto nella storia di Gladio in occasione del suo ottantesimo compleanno. Le dichiarazioni, rilasciate al Corriere della Sera in un’intervista del 2008, aprono solo in parte quello che sembra essere un vaso di Pandora. Ma cos’era esattamente Gladio? E soprattutto, che funzioni aveva? Come noto, Gladio era un’organizzazione segreta di tipo stay-behind, nata in piena Guerra Fredda e proseguita poi fino a inizio anni ‘90, con l’obiettivo di prevenire un eventuale attacco dei cosiddetti “rossi” ed evitare la diffusione del comunismo sul versante occidentale. Lo slittamento semantico delle operazioni di Gladio sarebbe poi arrivato a prevederne un suo utilizzo anche su problemi nazionali, sebbene ufficialmente Gladio non partecipò a nessuna operazione, nazionale o extranazionale che fosse. L’opinione pubblica venne a conoscenza di Gladio solo nel 1990, in seguito a un servizio del Tg1 sull’omicidio del primo ministro svedese Sven Olof Joachim Palme. In quel periodo Giulio Andreotti era presidente del Consiglio e venne chiamato a rispondere alla Camera sulle rivelazioni del Tg1 (che nel frattempo

Francesco Cossiga

aveva costretto alle dimissioni il direttore Nuccio Fava). Tra ottobre e novembre Andreotti comparì prima alla Camera e poi al Senato dove ammise l’esistenza di Gladio, una struttura paramilitare segreta con compiti di anti-invasione, che in teoria avrebbe cessato le sue operazioni nel 1972. Il 18 ottobre 1990 Andreotti presentò in Parlamento un documento che spiegava origine e storia di Gladio, nata il 26 novembre 1956 su idea del SIFAR e sulle orme di una struttura clandestina statunitense di anti-invasione nata nel

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Secondo dopoguerra. Al documento (che sparì per alcuni giorni, per poi ricomparire pieno di omissis) Andreotti allegò anche una lista di 622 gladiatori, che furono congedati con una lettera nel novembre dello stesso anno. Ciò che è certo è la portata dello scandalo. L’assassinio del primo ministro svedese svelò i retroscena di Gladio non solo sul suolo italiano: ogni nazione in quel periodo si era dotata di un sistema di “autodifesa” in modo da sconfiggere il comunismo dell’est. Oltre agli Stati Uniti, anche Francia, Regno Unito, Germania Ovest, Paesi Bassi, Belgio e Lussemburgo aderirono a Gladio. Addirittura anche paesi neutrali come Svizzera, Finlandia, Svezia e Austria si dotarono di una propria rete di servizi segreti deviati in modo da assicurarsi una via d’uscita in caso di invasione russa. Tornando al suolo italiano, nonostante le dichiarazioni ufficiali e il documento di Andreotti ancora molta della storia di Gladio è avvolta nel mistero. Ad esempio, i nomi dei 622 gladiatori sembrano una distrazione, un regalo alla stampa, un elenco che ovviamente non comprendeva i nomi più importanti. Ancora più importante, è il mistero in cui sono avvolte le operazioni a cui effettivamente Gladio prese parte e

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i legami con NATO, SIFAR e soprattutto con la CIA, che in seguito agli accordi del 1959 provvide a inviare materiali e armi (munizioni, esplosivi, bombe a mano, ma anche fucili di precisione, mortai e


radiotrasmittenti) che furono nascoste nei cosiddetti Depositi Nasco (ne furono trovati ben 193). Gladio sarebbe legata anche agli inerenti le ultime ore di vita di Aldo Moro: secondo informazioni non confermate l’ex-presidente del Consiglio avrebbe parlato di Gladio all’interno del suo memoriale. Le parti relative all’organizzazione segreta sarebbero state distrutte dal generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, su ordine del presidente del Consiglio Giulio Andreotti. Una verità troppo scomoda da divulgare in quel momento storico così delicato.

Lo stesso Andreotti che dopo l’incontro in Parlamento ordinò di distruggere una parte degli archivi segreti, in modo che il Comitato Parlamentare per i servizi di informazione e sicurezza e per il segreto di Stato concludesse l’inchiesta riconoscendo la legittimità della struttura e l’assenza di deviazioni. Nel bel mezzo del buco nero che avvolge gli ultimi sessant’anni della storia italiana, la certezza sembra venire proprio dal Comitato: l’organizzazione segreta, clandestina e di anti-invasione Gladio non era deviata.

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LIBRO E PROGRAMMA TV

CONSIGLIATI a cura di Mauro Valentini Verità privata del Moby Prince

Nel libro di Francesco Sanna i dettagli di una vicenda ancora oscura C’è una strage in Italia che, pur con un numero di vittime superiore ad ogni altra tragedia del nostro tempo, non ha mai avuto quella risonanza mediatica che avrebbe meritato. La tragedia della Moby Prince risuona come un nome, un evento sconosciuto alle nuove generazioni, perduto in una nebbia tale e quale a quella vera che, quel 10 aprile del 1991 inghiottì un traghetto passeggeri sulla rada di Livorno causando la morte di ben 140 persone. Il progetto Vent’anni curato da Francesco Sanna nel 2012 ha prodotto un documentario bellissimo che racconta quella storia oscura e il libro Verità privata del Moby Prince (Edizioni Albatros) che raccoglie tutto quello che di misterioso ed inconfessato ha prodotto in anni e anni di false piste e depistaggi. Nel libro, molto dettagliato e ricchissimo di informazioni che scandaglia (è il caso di dirlo) tutti i fatti, dall’incidente, all’omissione di soccorso e le incredibili mancanze giudiziarie, c’è soprattutto spazio per le testimonianze e l’impegno dei familiari, che si stanno battendo contro la chiusura nell’oblio del caso, supportati in questo anche dal presidente del Senato Piero Grasso. Una vicenda, questa che ha coinvolto grandi armatori e ha visto nel suo percorso anche a tentativi di sabotaggio e di manomissione del relitto pur di non arrivare ad una verità scomoda, cercando anche di colpevolizzare il Comandante di quel traghetto che morì come gli altri nel rogo. «In questa strage c’è qualcosa di più profondo della morte e del dolore ‒ ha dichiarato lo stesso Sanna alla presentazione del suo libro ‒, c’è la fine della fiducia. C’è la divisione e l’avere lasciato persone sole. Averle lasciate senza verità a diffidare di tutto e di tutti». Una verità che ancora oggi il presidente dell’associazione familiari delle vittime della Moby Prince, Loris Rispoli, con grande caparbietà e fierezza sta cercando, riuscendo finalmente ad ottenere proprio in questi giorni la costituzione di una Commissione Parlamentare d’Inchiesta che dovrà far luce, 24 anni dopo, su quella storia terribile e misteriosa.

Diritto di Cronaca, la nuova rubrica di politica ed attualità in onda

ogni martedì e giovedì su Teleromauno (CH. 271). Tante le tematiche già affrontate, dal caso Cucchi al clan dei Marsigliesi, fino alle inchieste su sanità, sicurezza e criminalità. Tutte le puntate sono disponibili sulla pagina Facebook di “Diritto di Cronaca”, condotte dal giornalista Giovanni Lucifora.

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FILM E PROGRAMMA RADIOFONICO

CONSIGLIATI

a cura di Nicola Guarneri

Al cinema

Io e lei, un film controcorrente

L’amore omosessuale rappresentato senza stereotipi Maria Sole Tognazzi torna sul grande schermo con un film ricco di sfide, molte delle quali vinte. Io e lei prosegue il filone della urban comedy americana e tratta la storia di Marina e Federica, che convivono da 5 anni. L’amore omosessuale è rappresentato in maniera sincera, libero da stereotipi e ancor prima che una storia omosessuale è proprio un film d’amore, tra due persone che si amano e che quasi casualmente appartengono allo stesso sesso. Nel cast anche Margherita Buy e Sabrina Ferilli.

In radio La Storia Oscura.

Storia, crimine e criminologia su Radio Cusano Campus dal lunedì al venerdì dalle 13:00 alle 15:00 con “La Storia Oscura”, un programma curato e condotto da Fabio Camillacci. Conoscere la storia per capire l’attualità.

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ARRIVA IL CO Ecco i nuovi linguaggi in una societĂ che si evolve

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La rivoluzione digitale ha contribuito a cambiare fortemente il concetto di comunicazione. In tutti gli ambiti della vita sociale, culturale e lavorativa, la tecnologia e la digitalizzazione delle informazioni sono diventate indispensabili. Per tale motivo, anche il mondo della formazione ha iniziato a prestare attenzione alle nuove tecniche digitali che per le nuove generazioni rappresentano il pane quotidiano, ma per quelle precedenti ritraggono ancora qualcosa di ignoto. Nel documento della riforma della “Buona scuola” sono state presentate idee e proposte concernenti gli aspetti tecnologici, tra cui l’inserimento del coding tra le materie di studio. L’idea è partita dall’analisi della società odierna; i tempi sono cambiati ed è necessario conoscere nuovi alfabeti. Non basta più essere solo consumatori delle nuove tecnologie, ma è necessario imparare i linguaggi della programmazione per poter diventare creatori. L’onda del

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La rivoluzione digitale ha contribuito a cambiare fortemente il concetto di comunicazione. In tutti gli ambiti della vita sociale, culturale e lavorativa, la tecnologia e la digitalizzazione delle informazioni sono diventate indispensabili. Per tale motivo, anche il mondo della formazione ha iniziato a prestare attenzione alle nuove tecniche digitali che per le nuove generazioni rappresentano il pane quotidiano, ma per quelle precedenti ritraggono ancora qualcosa di ignoto. Nel documento della riforma della “Buona scuola” sono state presentate idee e proposte concernenti gli aspetti tecnologici, tra cui l’inserimento del coding tra le materie di studio. L’idea è partita dall’analisi della società odierna; i tempi sono cambiati ed è necessario conoscere nuovi alfabeti. Non basta più

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essere solo consumatori delle nuove tecnologie, ma è necessario imparare i linguaggi della programmazione per poter diventare creatori. L’onda del coding parte dai Paesi Anglosassoni e si diffonde in Europa. Microsoft e Facebook, insieme ad altri colossi dell’industria informatica, fanno sentire la propria voce, lasciando a Bruxelles la loro opinione: «I ministri dell’Istruzione dell’Unione Europea dovrebbero impegnarsi per migliorare l’insegnamento delle materie legate alla tecnologia a scuola, a partire dalla programmazione. Nel 2020 mancheranno 900 mila esperti. La programmazione è la risposta per chi cerca lavoro». È fondamentale guardare al futuro osservando i dati attuali. La società si evolve e bisogna mettersi in carreggiata per andare al passo con i tempi. In Italia,


con il Progetto Smart Coding, rientrato nel programma Samsung Corporate Citizenship, viene misurata la percezione della programmazione attraverso un questionario rivolto a 458 studenti, 204 insegnanti e 327 genitori. Tale indagine che copre diverse fasce d’età, diversi ceti economici e culturali e diversi background professionali, mette in evidenza una scarsa conoscenza del linguaggio di programmazione. Il 74% dei genitori non ha mai sentito parlare di coding ed il 50% delle insegnanti non ne ha mai

avuto esperienze dirette. Il 70% degli studenti sostiene di non aver mai studiato coding a scuola. Il progetto “Programma il futuro”, nato in collaborazione tra MIUR e CINI, invece, permette alle scuole di fare delle lezioni interattive attraverso il sito programmailfuturo.it. Dall’11 al 17 ottobre 2014 è stata realizzata la prima sperimentazione. Skuola.net mostra dati sorprendenti su un campione molto più grande rispetto a quello dell’indagine precedente: 1.176 classi coinvolte, 22.464 gli studenti partecipanti, 16.166

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CENTRI DIURNI E DISABILITÀ:

BISOGNA FIDARSI? Luoghi dove c’è supporto alle famiglie ma anche dove si annidano molti pericoli

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Iniziamo spiegando che cosa sono e a chi sono rivolti i Centri Diurni (CEOD): essi sono la risposta a chi non ha la possibilità di tenere in casa un disabile, e quindi necessita di un luogo sicuro ed adeguato alle sue esigenze. I CEOD sono pertanto strutture aperte di tipo educativo e riabilitativo per persone con diversa disabilità, dove si può socializzare e fare attività, occupazioni ma anche riabilitazione. Queste strutture restano aperte per almeno sei-otto ore al giorno. Sono rivolte a persone dai 18 anni in su, dopo che un’apposita Commissione ne certifica l’handicap, ma possono recarvisi anche persone anziane, con disagi Mt Wilga Sports Day, 1959 sociali. Sono ammesse solo persone a cui è riconosciuta una condizione di nonautosufficienza. Quali sono gli obiettivi dei Centri? Offrire servizi diversificati in base al tipo di necessità, seguendo il profilo dei bisogni della persona, e così definire una strategia d’interno mirata. Quindi promuovere una buona qualità di vita, realizzare progetti individuali e interventi socio-assistenziali, ma anche psico-relazionali; soddisfare i bisogni delle persone e incentivare la diversificazione delle varie attività, inoltre dare la possibilità di vivere una vita più autonoma possibile. Le attività offerte possono essere di tipo occupazionale, agricole, di falegnameria, decoupage, recitazione e molte altre ancora. Tutte sono in funzione della stimolazione sensoriale, ma anche come

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sostegno all’integrazione e al rapporto con gli altri. Le residenze, negli ultimi anni, sono aumentate in numero considerevole, e dobbiamo fare molta attenzione quando pensiamo di utilizzare i loro “servizi”. Intanto facciamo presente che alcune di queste sono gestite interamente dalle Asl di competenza territoriale, e pertanto dovrebbero essere completamente gratuite. Altre sono nate grazie alle Onlus e i progetti portati avanti dai volontari. Purtroppo non sempre le cose sono come

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sembrano. È accaduto, per esempio ad alcuni cittadini di Ascoli Piceno, di ritrovarsi la retta mensile triplicata. Un servizio regionale che avrebbe dovuto essere gratuito, per mancanza di fondi è risultato alla fine a pagamento. Alle domande degli interlocutori per chiarimenti su tali richieste, le risposte sono state poche e vaghe. Insomma trasparenza zero. Per non parlare di tutti i fatti di cronaca finiti sui giornali, dove personale senza scrupoli o poco qualificato maltrattava anziani o


disabili. Insomma, dietro i Centri Diurni può circolare un business terribile, fatto di persone che non guardano in faccia nessuno. Noi non ci dobbiamo però far spaventare da questo, e anzi, dobbiamo cercare di prevenirli e fermarli sul nascere con controlli adeguati. Per questo motivo vengono anche spesso effettuati eventi e convegni, per acquisire nuove metodologie sull’assistenza supportata dalla tecnologia.

Ad esempio il 26 novembre, presso l’hotel Residence Villa Glicini a San Secondo di Pinerolo (TO), si terrà il seminario dal tema Centri diurni e disabilità: pensare futuro. I Centri Diurni devono divenire un punto di riferimento per le famiglie che ne hanno necessità, alleggerendo un grosso carico che grava su di loro. Questo però non a discapito della qualità dei servizi, ma anzi migliorandoli e mettendo personale capace e di fiducia a cui poter senza pensieri affidare il proprio caro.

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