Cronaca&dossier21

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COPIA OMAGGIO

anno 2 – N. 21, Dicembre 2015

GUERRA AL TERRORISMO COSA TEMERE E COME DIFENDERCI

Intervista esclusiva a Nicola Longo ex agente ed esperto italiano di azioni sottocopertura

«L’AGENTE UNDERCOVER, QUELLA CARTA SEGRETA CONTRO IL TERRORISMO»


Indice del mese 6

4. Inchiesta del mese DUECENTO PAGINE PER PROTEGGERE ROMA

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10. Ricerca e analisi TERRORISMO IN ITALIA: COME DIFENDERSI?

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16. Inchiesta del mese

«L’AGENTE UNDERCOVER, QUELLA CARTA SEGRETA CONTRO IL TERRORISMO»

25. Storie e personaggi

LA VITA STRAORDINARIA DI UN AGENTE UNDERCOVER

28. Diritti e minori

COME SPIEGARE L’ORRORE AI BAMBINI?

34. Sulla scena del crimine DELITTO AL CIANURO E SENZA COLPEVOLE

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40. Sulla scena del crimine CASO YLENIA CARRISI, UNA STORIA SENZA FINE

COPIA OMAGGIO

anno 2 – N. 21, Dicembre 2015

GUERRA AL TERRORISMO COSA TEMERE E COME DIFENDERCI

Intervista esclusiva a Nicola Longo ex agente ed esperto italiano di azioni sottocopertura

«L’AGENTE UNDERCOVER, QUELLA CARTA SEGRETA CONTRO IL TERRORISMO»

46. Criminalistica

ARTE E SCIENZE FORENSI CONTRO I FALSI

52. Media crime

LIBRO, FILM, PROGRAMMA TV E RADIO CONSIGLIATI

56. Memorabili canaglie UNA LUNGA SCIA DI SANGUE

62. Dossier da collezione

IL SEQUESTRO DOZIER, LA FINE DELLE BRIGATE ROSSE

66. Dossier società

SEQUESTRI IN ITALIA, LE CIFRE E COME DIFENDERSI

70. Storie di tutti i giorni MIGRANTI CON DISABILITÀ DUE VOLTE PENALIZZATI

ANNO 2 - N. 21 DICEMBRE 2015

Rivista On-line Gratuita Direttore Responsbile Pasquale Ragone Direttore Editoriale Laura Gipponi Articoli a cura di Alberto Bonomo, Nicoletta Calizia, Nia Guaita, Nicola Guarneri, Dora Millaci, Paolo Mugnai, Gelsomina Napolitano, Mauro Valentini, Diana Ghisolfi, Francesca De Rinaldis. Direzione - Redazione - Pubblicità Auraoffice Edizioni srl a socio unico Via Diaz, 37 - 26013 Crema (CR) Tel. 0373 80522 - Fax 0373 254399 edizioni@auraoffice.com Grafica e Impaginazione Giulia Dester Testi e foto non possono essere riprodotti senza autorizzazione scritta dall’Editore. Le opinioni espresse negli articoli appartengono ai singoli autori dei quali si intende rispettare la piena libertà di espressione. Registrato al ROC n°: 23491 Iscrizione al tribunale N: 1411V.G. dal 29 ottobre 2013


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DUECENTO PAG

PER PROTEGGE ROMA

Stato di massima allerta nella Capitale per ma ancora troppe falle nel sistema

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Parigi è vicina. Poco più di un mese soltanto separa i romani e i pellegrini accorsi in questi giorni per il “Giubileo della Misericordia” da quel venerdì nero del 13 novembre, quando al teatro Bataclan, allo Stade de France, ai ristoranti Casa Nostra, Le Carillon e la Belle Epoque si seminò morte e un’insopportabile insicurezza nelle vite dei cittadini della vecchia Europa. Roma quindi si prepara a quella che, per stessa ammissione dei due uomini (non) soli al comando della sicurezza cittadina, il prefetto Franco Gabrielli e il questore Nicolò D’Angelo insediati proprio ad hoc per l’evento, sarà «un evento esposto a rischi di natura terroristica, derivanti dal rafforzamento di un soggetto che si propone come “Stato”, ma che si impone con azioni di spietata guerriglia nelle aree geografiche dove sta dilagando». Gabrielli e D’Angelo non dicono il nome, ma è l’Isis con il suo carico di morte il nemico di questa pagina di Storia che si sta scrivendo non

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solo per il mondo cristiano. Un fiume di pellegrini invaderà Roma. Papa Francesco è così amato nel mondo che le stime della Santa Sede prevedono uno sfondamento nel numero delle presenze considerevole in questi mesi di preghiera, tanti da superare le presenze dell’ultimo evento giubilare del 2000, quando le presenze furono “soltanto” intorno ai 25 milioni. Le stime vanno da un minimo di 35 milioni ad un ottimistico di 50 milioni di pellegrini. Tutto messo nero su bianco nell’ordinanza firmata dal Questore. Duecento pagine fitte di indicazioni, dove si spiegano punto per punto quali sono le misure di sicurezza da applicare per rendere l’evento sicuro e a prova di terrorismo. Il piano di sicurezza è scattato proprio l’8 dicembre, una giornata difficilissima per chi era preposto alla sicurezza, tra apertura della Porta Santa e l’omaggio del Papa alla Madonna di Piazza di Spagna. Duemila gli “Angeli” a protezione della città, tutti coinvolti: Polizia di Stato, Carabinieri, Guardia di Finanza e la Polizia di Roma Capitale. Ma non solo: Esercito, Polizia Fluviale e Corpo forestale, dislocati in oltre 1.000 obiettivi sensibili, 1.000 luoghi considerati a rischio, oltre al controllo su autobus e rete metropolitana. Quindi

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non solo San Pietro ma anche i principali monumenti della Capitale e tutti i grandi luoghi di ritrovo. Giro di vite per i controlli in aeroporti, stazioni ferroviarie e sul Tevere. Tutto in quelle 200 pagine. È questa ordinanza che proteggerà Roma dalla minaccia terroristica oltre che dalla criminalità becera che, come sempre, a prescindere dallo scacchiere geopolitico internazionale, si getta come un predatore su chi verrà con candore a pregare per la Pace. La città non sembra però per il momento subire il sussulto del grande dispiegamento di mezzi e continua il suo tran tran quotidiano, fatto di grande caos e di operosa indolenza. Ad ogni fermata della metro, due soldati armati e in mimetica controllano a vista e con discrezione. Se il controllo c’è non si vede. Entrano in tanti con valigie enormi e senza nessuna verifica. Si sono annunciate in quel pacchetto sicurezza anche 2.000 telecamere, ma certo è che sugli autobus e nei vagoni della Metro A che corrono verso la fermata “Ottaviano-San Pietro” non si assiste a controlli “ad personam”. Si è scelto dunque di mantenere un profilo apparentemente basso. Massima allerta e minimo controllo, la scelta coraggiosa di Gabrielli e D’Angelo potrebbe esser la via nuova qualora tutto andrà per il

Porta Santa

verso giusto per una rinnovata strategia nell’affrontare, anche e soprattutto a livello europeo, in una stagione della paura che si annuncia purtroppo lunga nel tempo. «Non ci saranno zone rosse in nessun ambito e occasione» assicurano dalla Prefettura, mentre per il controllo dei droni, punto dolente e del tutto nuovo, si procederà con una attività di prevenzione da parte

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degli apparati di sicurezza. Questo dice l’ordinanza, questo raccomandano quelle 200 pagine che potrebbero diventare la Bibbia per la sicurezza di ogni città europea. Una via nuova, a cui solo negli ultimi giorni lo stesso prefetto Gabrielli ha aggiunto poche raccomandazioni dirette ai pellegrini, poche richieste dettate dal buon senso: «La raccomandazione che faccio è: non portate la vostra casa con voi. Meno bagagli ci saranno più veloci saranno i controlli e maggiore la sicurezza. I cittadini, i turisti e i pellegrini debbono essere nelle condizioni di

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venire serenamente e tranquillamente a Roma. E non perché non siamo in una situazione di rischio ma perché la minaccia che incombe è assolutamente indiscriminata». Con una chiosa che cede però il fianco, ragionevolmente del resto, a tanto ottimismo: «La gestione del rischio non può essere una cosa che il cittadino può tenere sotto controllo se non evitando di andare al cinema, al ristorante, al teatro, al bar e in qualsiasi altro luogo pubblico. E questo credo che sia una cosa irrealizzabile». E ingiusta, aggiungiamo noi.


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come difenderci? Un nuovo modello di coordinamento organizzativo che coinvolga non solo la Polizia ma l’intera societĂ

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L’Italia ha adottato buone misure antiterrorismo, ma non è sufficiente: la strategia del terrore è cambiata e richiede una collaborazione attiva di tutta la società. Quanto successo a Parigi ha evidenziato una trasformazione delle modalità operative dei terroristi: uomini armati di kalashnikov e kamikaze uniti in un progetto comune. Anche i target sono cambiati, colpendo luoghi di vita quotidiana. Terroristi come questi non preparano un attacco da soli (come i “lupi solitari”) ma vengono prima formati separatamente e poi uniti a un gruppo d’attacco. I terroristi di Parigi erano noti singolarmente alle forze di sicurezza che però non sono riuscite a individuare i progetti comuni. Gli esperti calcolano che per realizzare gli attentati di Parigi, oltre alle tre squadre in azione, ci siano state almeno altre 30-50 persone che a vario titolo hanno collaborato a organizzare e realizzare gli attentati. È impossibile credere che in Francia non ci siano

stati segnali d’allarme: un assalto di questo tipo ha bisogno oltre alle molte persone coinvolte, di armi, denaro e una conoscenza precisa del territorio. Tutti questi elementi separati avrebbero dovuto essere monitorati e collegati. Pertanto, ora è necessario un nuovo modello di coordinamento organizzativo che coinvolga non solo le forze di Polizia ma l’intera società. I cittadini dovrebbero essere incoraggiati a osservare ciò che accade intorno a loro e collaborare con le Forze dell’ordine se notano qualcosa di sospetto. Il coinvolgimento della società è parte fondamentale nella lotta contro il terrorismo: dobbiamo ritrovare quel senso di collaborazione per il bene comune che negli ultimi anni si è perso. Oggi, migliaia di appartenenti alle forze di

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Polizia e militari sono stati dispiegati a Roma, in città e nei luoghi considerati a più alto rischio per pattugliare non solo potenziali obiettivi ma anche tutti gli eventi di assembramento collettivo con maggiori controlli e presenza delle Forze dell’ordine anche sugli autobus e nelle metropolitane. Tuttavia, prevenire attacchi è sempre più difficile perché i terroristi fanno sicuramente un’analisi delle misure di sicurezza e sui tempi di reazione delle forze di Polizia e se dovessero pianificare degli attacchi, colpirebbero obiettivi meno prevedibili. Dopo gli attacchi di Parigi, l’Isis ha utilizzato i social media per annunciare che i prossimi attentati si concentrerebbero su Roma, insieme a Londra e Washington. Se nel mirino di al Qaeda ci sono soprattutto gli Stati Uniti, l’Isis ha una connotazione più anti-cristiana che fa aumentare il pericolo anche per noi. Il rischio in Italia è quindi molto alto, non c’è dubbio (come in tutta Europa del resto) ma è poco probabile che un attacco terroristico avvenga durante le fasi iniziali del Giubileo, quando l’attenzione degli apparati di sicurezza è estremamente alta. Inoltre, i miliziani dell’Isis sono fanatici assassini, ma non sono stupidi. La loro strategia è creare un clima di terrore e insicurezza: tenere tutti

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nell’angoscia per poi colpire a sorpresa dove meno appare probabile. È vero che un attentato nei luoghi del Giubileo avrebbe un forte effetto simbolico, però sarebbe anche fra quelli che più facilmente potrebbe fallire. Il che sarebbe un colpo insopportabile per chi deve continuamente alimentare la sensazione di paura negli altri e la certezza dell’infallibilità tra i suoi. I Servizi hanno avuto successo finora in Italia e lo dimostrano le recenti operazioni: Jacopo Ben Salem, 24 anni, padre tunisino e madre italiana, che in tv aveva giustificato la strage di Charlie Hebdo è stato arrestato. L’ultimo dei 62 estremisti islamici espulsi dall’Italia, il 26 novembre, è un marocchino di Milano. Il giorno prima la stessa sorte era toccata ad un tunisino


residente a Vimercate, Kamel Ben Hamida, che sosteneva: «Odio l’Italia e aspiro al martirio». Il 13 novembre, sono stati arrestati altri sette sospetti jihadisti. Solo in Lombardia vengono monitorati 160 posti a rischio di infiltrazioni terroristiche compresi scantinati e garage dove gruppi di musulmani si ritrovano a pregare. E altri 120 sono sotto controllo in Veneto. Anche a Merano sono stati effettuati alcuni arresti. Fra questi il kosovaro Eldin Hozda, che lo scorso anno è stato inviato in Siria dalla rete di mullah Krekar. I nostri servizi lo monitoravano e sapevano che era stato radicalizzato

dall’imam Sead Bajraktar. Abbiamo poi il bosniaco Bilal Bosnic, condannato il 5 novembre a Sarajevo a 7 anni di carcere per aver reclutato mujiaheddin anche in Italia. Bosnic ha “predicato” a Bergamo, Motta Baluffi, in provincia di Cremona e Pordenone, tutti centri islamici sotto osservazione. Dalla zona di Belluno sono partiti per la Siria il bosniaco Ismar Mesinovic, poi ucciso in battaglia e il macedone Munifer Karamaleski: lo sloveno, Rok Zavbi, veterano del Califfato, li ha addestrati nelle Dolomiti. A Renate, vicino a Monza, Costa Masnaga, in provincia di Lecco, Cinisello Balsamo

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e nella moschea di Como ha predicato il kosovaro Idriz Idrizovic. Oggi è riparato in Germania, ma secondo il maggiore Fatos Makolli, dell’antiterrorismo di Pristina, è uno «degli imam che propugnano un Islam radicale e radicalizzano i giovani». Il 2 ottobre, da Schio, in provincia di Vicenza, è stato espulso il tunisino Sofiane Mezzereg: ai bambini islamici insegnava che «la musica è peccato» aizzandoli all’ostilità contro il mondo occidentale. Come possiamo vedere, i servizi segreti in Italia funzionano, ma per combattere

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il terrorismo servono ancora più controlli alle frontiere, il pieno coordinamento tra le diverse Intelligence, un rapido scambio di informazioni e, soprattutto, il coinvolgimento di tutta la società: questi sono gli unici strumenti che possono aiutare a intercettare le mosse che precedono un attacco terrorista e neutralizzarlo. Siamo all’interno di una grave minaccia, siamo spaventati, ma questo non ci deve indurre a un atteggiamento di paura: sarebbe la vittoria concreta, tangibile, evidente della strategia del terrore dell’Isis.


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«L’AGENTE

UNDERCOVER quella CARTA SEGRETA contro IL TERRORISMO»

Intervista inedita a Nicola Longo, il più grande agente segreto undercover italiano in prima linea nella lotta alla criminalità internazionale dagli anni ‘70. L’ex agente sottocopertura spiega ai lettori di Cronaca&Dossier i retroscena di una guerra sotterranea fra Intelligence e come poter reagire alla macchina del terrore.

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Entriamo subito nel tema del momento, ovvero l’Isis. Secondo Lei il gruppo terroristico ha una rete di Intelligence valida? «Io ho partecipato a grandi e piccole riunioni di Intelligence. Nel mio piccolo ho seguito diverse attività di questo tipo e so cosa significa far parte di un gruppo d’intelligence per dare il proprio apporto per contribuire ad una giusta soluzione; è la capacità di saper dipanare la soluzione giusta e saper utilizzare in modo idoneo le risorse a disposizione per fronteggiare una determinata situazione di crisi. In contesto di guerra in cui viviamo oggi si parla di strategia militare e politica la cui attività deve essere coordinata da una Intelligence formata da esperti di strategie diverse. Esistono tuttavia Intelligence impiegate anche per combattere il crimine organizzato con ragioni radicate in un’infinità di motivi; o ancora, Intelligence

necessarie per fronteggiare uno dei tanti conflitti geo-politici, di ordine pubblico o economico, a secondo della situazione. Tutte, comunque, per trovare soluzioni e che siano efficaci. Certamente l’Isis disporrà di una sua Intelligence con l’apporto di esperti militari provenienti da pregressi governi islamici dittatoriali, ma viste le strategie adottate con tale determinazione danno la sensazione d’essere gestite da una mente delirante che, pur di conseguire i propri scopi, non ha remore di sopraffare gli ostacoli. La grande disponibilità economica di cui finora ha disposto ha facilitato il suo delirio devastante».

Non da oggi gli americani sono impegnati in Medio Oriente. È possibile che l’Occidente non abbia in quelle zone una rete capillare di undercover?

«Ruotano troppi interessi di amici-nemici

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MESE L E D omo STA E n I o H oB INC

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di diversi Paesi che coltivano l’interesse per l’oro nero, e non sono solo gli americani. È triste considerare che altre energie alternative potrebbero sostituire il petrolio facendo diminuire drasticamente l’inquinamento ma non si farà mai perché, chi gira attorno a questi meccanismi, non ha interesse che le cose cambino. Tra le file dell’Isis ci sono molti giovani frustrati che, non avendo alternativa, accettano di convertirsi all’islamismo radicale e, indottrinati, scelgono di imbracciare le armi uccidendo senza pietà chiunque, spingendosi fino al martirio».

Veniamo così ai problemi dell’Occidente. I servizi di Intelligence dei vari Paesi riescono ad entrare in sinergia? Soprattutto anche in relazione ai fatti di Parigi e delle ultime vicende che riguardano la Turchia?

Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan

ruotano in modo strumentale attorno all’asse del petrolio e degli armamenti. La Turchia è sotto l’occhio del ciclone e, non a caso, l’uccisione recente dell’avvocato dei curdi fa pensare che a Erdogan preoccupi «Sono stati fatti molti errori e in primis prima di tutto il proprio interesse e quello quello di sottovalutare un terrorismo di combattere il popolo curdo. L’Isis non è internazionale così grave, tanto che i certo la priorità per lui». fatti esplosi in Francia e in Turchia non sono altro che il sintomo di un grave malessere cresciuto in modo straripante Però le accuse del presidente russo proprio perché per lungo tempo non c’è Vladimir Putin sono piuttosto gravi. stato un adeguato piano di cooperazione «Le accuse di Putin sono gravissime. internazionale e che a mio avviso ancora Ed è in un momento così delicato che non è stato pianificato. Ci sono molti c’è bisogno di chiarezza. Troppi orrori interessi politici perversi che ancora prima e per troppo tempo sono stati tollerati e dell’ideologia e del fanatismo religioso proprio nel limbo di questa assenza si

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è annidato un male così grave che non è facile da debellare. Aprendo la Porta Santa prima in Africa e poi a Roma, Papa Francesco con la sua umiltà cristiana ha insegnato che non bisogna avere paura per difendersi. La voglia di andare avanti e la buona volontà sono le strade utili a contrastare il terrore. È inutile parlare di Servizi, d’Intelligenze e di sinergie quando manca la buona volontà».

contatti di Jack Masia, uno dei più grossi trafficanti del mondo di eroina, se non il più importante, prima e dopo averlo arrestato determinando così la chiusura dei laboratori di Marsiglia per la raffinazione della morfina base in eroina. Credo che sciogliere il nodo della Turchia sia uno dei passaggi più importanti».

Leggendo la Sua ampia biografia si ricorda in più passaggi che ha lavorato da undercover in Turchia portando a casa successi di rilievo e quindi conosce bene il paese. Pensa che un accordo pacifico con la Turchia sia un’importante chiave di volta per risolvere la crisi internazionale in atto? «Conosco la Turchia, è un paese bellissimo ma difficile. Sono stato più volte in missione in Anatolia per stabilire i

Il presidente russo Vladimir Putin

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MESE L E D o nom IESTA o H B C N o I

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Come può operare in quei luoghi l’agente undercover? «È davvero difficile infiltrarsi in certi contesti molto rischiosi, ma l’esperienza m’insegna che un agente segreto ben scelto, ben preparato, che soprattutto dispone dell’ausilio di una buona copertura, ha risorse incredibili fino ad arrivare all’obiettivo prescelto per raccogliere quanto è necessario e utile».

Oggi come ieri, quanto sono importanti le infiltrazioni di agenti sotto copertura?

«Sono sempre molto importanti per conoscere le risorse e le strategie dell’antagonista, per prevenire in tempi sotto le ceneri. Adesso che la situazione utili le situazioni devastanti, per tenere è precipitata non è facile, specialmente sotto controllo il fuoco che cova acceso con l’immigrazione di massa e con la mancanza di identificazione delle persone sopraggiunte. È più probabile che qualche cellula dell’Isis sia riuscita a penetrare il controllo per raggiungerne altre ed esordire in modo insano di sorpresa. Penso che oggi sia necessario attivarsi con maggiore attenzione nei luoghi ove il proselitismo fa peggiori danni. A mio parere è ridicolo ricordare che in passato il capo dei Servizi, diversi agenti federali americani e altri italiani, sono stati indagati alla stregua di criminali quando nell’agire prevale la ragione di Stato a tutela della sicurezza pubblica».

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Forse rispetto al passato oggi si pensa sottocopertura, o la figura dell’undercover che la tecnologia possa soppiantare più propriamente detto agente segreto, non può essere trascurata in alcun modo. Per l’essere umano in certe attività? «Oggi è molto facile reperire notizie e informazioni con i satelliti, arrivano ovunque con una precisione incredibile, ma non possono sostituire l’attività umana. Resta quindi fondamentale l’impiego di elementi idonei prescelti e opportunamente addestrati. Quindi possiamo dire che la figura dell’agente

esempio, ritornando alle notizie divulgate da Putin riguardanti un coinvolgimento della Turchia con l’Isis, non è secondario considerare come l’informazione ricevuta non sia stata altro che il risultato di più agenti sottocopertura, portando a galla una situazione compromessa abbastanza concreta e attendibile».

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MESE L E D omo STA E n I o H B o INC a

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Come si può realmente preparare una persona ad infiltrasi in un ambito in cui ci sono altissime possibilità di essere smascherati o essere uccisi?

«Ci sono due fattori determinanti che portano alla riuscita del compito assunto dall’attore spinto a impegnare il suo tempo e la propria vita in una di questa queste attività. Il primo è la passione per il rischio, suffragata dall’interesse personale e dalle doti professionali, coltivata dall’esperienza che nel tempo affina il suo intuito e le sue capacità umane, con una professionalità capace di sopportare situazioni stressanti Il secondo è lo spirito d’iniziativa, che anche in casi di estremo pericolo. non deve mai calare di tono per cercare e trovare in ogni situazione l’alternativa adatta».

Secondo Lei cosa si può fare per arginare il problema terrorismo nell’immediato?

«Si possono e si devono prendere subito iniziative adeguate per frenare in tempo reale questa immane catastrofe isolando e adottando provvedimenti anche verso chi li sostiene. La spettacolarizzazione dell’orrore con la decapitazione delle vittime, l’indurre i bambini a uccidere la propria innocenza trasformandoli in sicari, la distruzione del patrimonio culturale e lo sterminio di massa alimentato dalla cultura di odio e di morte: cos’altro dobbiamo attendere per muoverci?».

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Dinanzi a questo nuovo terrorismo e a questo nuovo tipo di guerra possiamo dirci adeguatamente preparati? Bombardare può essere una via efficace?

in modo indiscriminato si possa risolvere il problema».

d’obbligo studiare una strategia articolata che possa affrontare il problema seriamente, con l’impiego costante di forze comuni coordinate via terra, mare e cielo. Non credo che buttando le bombe

«Il primo adottava la dottrina della lotta armata per rovesciare il capitalismo, mentre quello islamico, che ha radici con al Qaeda, applica la dottrina della lotta armata all’America e all’Occidente

Che differenze nota tra il terrorismo degli anni Settanta e il terrorismo di «Non sono decisioni da prendere su oggi? C’è qualcosa di diverso nel clima due piedi o in riunioni di due-tre giorni. È di terrore?

Nicola Longo

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mediante attentati indiscriminati, anche con azioni terroristiche suicide svolte prima nei Paesi musulmani, mentre ora la loro ideologia di terrore, mossa dal fanatismo religioso, impiega una forte attività terroristica verso i Paesi che maggiormente la contrastano. Ne consegue che ogni governo ha necessità di acquisire ogni notizia utile mediante i propri servizi segreti preposti (interni ed esterni) inerente il plusvalore informativo del fenomeno esposto e in continua evoluzione; da qui lo scambio con i governi alleati per la contestuale

comprensione di eventi e fenomeni verificabili. Dunque occorrono istantaneità e capillarità delle comunicazioni di massa, che inducano e sollecitino, ovunque sia necessario, controlli e adeguati interventi rapidi. Tutto ciò, oltre che prevenire, può sventare o reprimere eventuali attività terroristiche. Ci sono altre regole molto importanti, ma quella della comunicazione fra Intelligence di Paesi alleati per contrastare tale fenomeno è una delle regole fondamentali che, se trasgredita, può provocare, come già è successo, conseguenze molto gravi».

Stazione Termini (Roma)

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UNA VITA

STRAORDINARIA

La storia da infiltrato segreto di Nicola Longo, fra arresti eccellenti e film al fianco di Federico Fellini

Nicola Longo nasce in Calabria nella piana dominata dall’Aspromonte, penultimo di 5 figli di un valoroso sottufficiale dei Carabinieri. L’avventura della sua vita comincia prestissimo, quando appena

diciassettenne è già protagonista nella finale dei campionati nazionali di pugilato. Proprio in quell’occasione giunge l’offerta che muta per sempre la sua esistenza: entrare in Polizia nel Centro Sportivo

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Fiamme Oro. Nicola Longo accetta con entusiasmo e da allora è un susseguirsi di successi, nella vita, nel lavoro e nello sport, portando a casa meriti e trofei, sia nella boxe che nella lotta libera, per quest’ultima addirittura selezionato per le Olimpiadi di Città del Messico, unico al mondo in grado di raggiungere in entrambi i massimi livelli. Ma al grande pubblico Nicola Longo è conosciuto soprattutto per gli arresti e i successi sul campo portati a casa quando, nel 1970, viene trasferito alla Sezione Narcotici della Squadra Mobile di Roma con la nomina di brigadiere. Siamo a cavallo tra gli anni ’70 e gli anni ’80 quando l’Ufficio DEA per l’Europa gli permette di infiltrarsi nella famigerata Banda dei Marsigliesi, riuscendo a trattare l’acquisto di 60 kg di eroina pura destinata al mercato nord-americano. È in situazioni ad altissimo rischio che Nicola Longo dà il meglio di sé. Nel corso di spericolate e adrenaliniche operazioni “sottocopertura”, spesso portate a termine rocambolescamente, manifesta un indubbio coraggio. Di lui si accorge immediatamente la stampa nazionale. Su tutti, un articolo de Il Messaggero a tutta pagina lo presenta al grande pubblico come “lo 007 italiano”, “Nembo Kid”,

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“James Bond” e il “Serpico” nostrano. Le sue azioni in incognito sono innumerevoli, almeno quanto i successi portati a casa. È lui ad arrestare gli inafferrabili Jack Masia, Jacques Berenguer e Albert Bergamelli. È ancora Nicola Longo a chiudere la carriera criminale di Laudovino De Sanctis, soprannominato la “Belva” per


l’efferatezza dei delitti consumati, tutto questo nonostante nel 1978, di ritorno a Roma da New York dopo un’indagine sul riciclaggio di denaro sporco, il Serpico italiano è vittima di un conflitto a fuoco nel quale resta gravemente ferito. Le sue gesta ispirano film che diventeranno dei cult come Il braccio violento della legge e serie poliziesche di successo, come le avventure del commissario Nicola Gilardi, interpretato da Tomas Milian, per ammissione dello stesso regista ispirate alle attività di Nicola Longo, dando di fatto il nome al personaggio. Il Cinema è più volte presente nella vita di Nicola Longo. A lui si interessa nientemeno che il grande Federico Fellini, segnalatogli da Tonino Guerra dopo la lettura del manoscritto La Valle delle farfalle. L’affetto e la stima verso Nicola Longo portano Fellini alla firma di un contratto, volto alla realizzazione di un film per raccontare una vita già fino a quel momento straordinaria. Non mancano però gli ostacoli che, di volta in volta, rendono complessa la realizzazione dello stesso. Il rammarico di Fellini sarà grande, al punto di scrivere a Nicola Longo parole dense di commozione definendolo «eroe buono, che continua a cavalcare

il pericolo rischiando più del dovuto». La morte del regista, nel 1993, segnerà la fine del progetto. Il mito di Nicola Longo continua però anche senza il prodotto filmico, protagonista in anni recenti del successo editoriale Poliziotto (Castelvecchi Editore, 2013), di servizi televisivi in RAI e un posto d’onore tra le pagine de Il Venerdì di Repubblica. Dal 2004, dopo aver lasciato la Polizia di Stato nel settembre 2003, si è dedicato al mondo universitario in qualità di docente, con tesi dedicate alla sua vita e ai casi che ha trattato.

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Gli eventi di Parigi dello scorso venerdì 13 novembre hanno scosso tutti, adulti e bambini. Ma mentre gli adulti riescono a farsi coraggio, a riflettere e ad andare avanti nella vita di tutti i giorni, i bambini hanno bisogno di aiuto e protezione. Devono sapere che accanto hanno persone su cui poter contare e di cui potersi fidare, persone con le quali possono sentirsi liberi di porre domande e di essere ascoltati nelle loro preoccupazioni, senza essere derisi o trattati con sufficienza. Pensare, infatti, che non capiscano quanto accade loro intorno, con la tv sempre accesa a qualsiasi ora in tutte le case e con i social network sempre attivi è totalmente sbagliato; loro vedono, osservano, ascoltano, riescono a farsi una loro idea, ma affinché non abbiano pregiudizi e non si schierino dalla parte sbagliata, è opportuno parlare e aprirsi ad un dialogo costruttivo ed onesto, senza raccontare bugie, senza mostrare indifferenza o addirittura nascondere quanto successo. I bambini hanno diritto a conoscere la verità, ad essere accolti in ogni loro richiesta di spiegazione e di delucidazione. Hanno bisogno di avere delle risposte quanto più aderenti alla realtà, scevre da

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La necessità di affrontar e il terrore dopo


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personali giudizi e faziosità, ma quanto più basate su dati certi e fonti attendibili. L’orrore arrivato nelle nostre case va affrontato, spiegato, insieme alla paura per il terrore. Sembrare duri ed impassibili davanti ai nostri figli non serve ad alcunché. Mostrarsi fragili ed impauriti, ma nonostante tutto sempre pronti a rimettersi in piedi e ad affrontare i periodi bui della nostra storia non può fare altro che avvicinarci a loro, ad entrare in contatto con il loro vissuto emotivo e con le loro sensazioni. Bisogna, quindi, trasmettere fiducia e speranza e non farli mai sentire soli o spaesati durante queste emergenze

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che colpiscono all’improvviso e possono traumatizzare a vita i soggetti coinvolti, sia da lontano che da vicino. Per questo, è opportuno dialogare con bambini ed adolescenti, graduando le nostre parole a seconda dell’età, delle caratteristiche personologiche di ciascuno e della religione di appartenenza. Bisogna puntare a sottolineare e ad evidenziare con i minori alcuni termini chiave che li spingeranno a scegliere e a preferire il Bene rispetto al Male: pace, integrazione, scambio, conoscenza reciproca, diritti, doveri, dialogo interculturale, libertà, democrazia, convivenza civile. Tutto questo deve essere posto in primo piano nel contesto familiare. Spiegare quanto avviene nel mondo e provare a non essere asettici o poco informati sulle vicende negative che, purtroppo, si susseguono, è uno dei compiti principali del genitore. Ma non solo. Questo compito deve essere assolto e coadiuvato dalla scuola, cosicché, se in famiglia venisse trascurato, la scuola potrebbe appropriarsi della sua funzione pedagogica ed educativa e far in modo che il bambino possa esprimersi nelle modalità a lui più consone ed essere capito. Primario sarà per gli insegnanti assolvere a tale funzione, tipica dei genitori, o approfondire quanto

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APPROFONDIMENTO

Consigli per genitori ed insegnanti a cura di Nicoletta Calizia

Cosa succede nel mondo? Perché gli uomini uccidono spietatamente innocenti? Perché ho paura? Come rispondere a queste semplici ma allo stesso tempo delicatissime domande? È proprio su questi temi che genitori e insegnanti possono mostrare cedimenti o difficoltà nel gestire tali questioni e aver paura o titubanze nel rispondere. Il miglior modo è differenziare le risposte e non generalizzare mai. Bisogna essere sinceri e raccontare quello che succede, senza troppi veli. L’unica grande accortezza sarà quella di evitare che nasca la paura del


da loro detto, tutto questo nell’ottica di tranquillizzare il bambino, sconvolto dalle immagini e/o dai racconti dei propri cari. Necessario risulterà rassicurarli e tentare di dare voce alle loro domande rimaste insoddisfatte o svilupparle maggiormente attraverso il gruppo classe, sempre pronto al confronto e alla comprensione degli avvenimenti attuali, che sempre più mettono a dura prova la sicurezza e la preparazione personale nel fronteggiarli. Per fare ciò sarà utile dotare bambini e adolescenti di strumenti che portino alla riflessione. Importante sarà per genitori e insegnanti capire il modo in cui aiutarli a manifestare le proprie paure e le loro emozioni.

diverso, l’odio per l’amico o il compagno di scuola con una fede differente dalla nostra. Altrimenti avremmo toppato nel nostro compito. A seconda dell’età del bambino, genitori ed insegnanti dovranno far in modo che il minore parli di sua spontanea volontà (il consiglio più utile, infatti, è quello di non sedersi mai a tavolino e sconvolgere il suo equilibrio perché noi abbiamo deciso in quel momento di affrontare quel determinato discorso). Dovrà essere nostro figlio o il nostro alunno a chiedercelo. I più piccoli sentiranno il bisogno di esprimersi attraverso il disegno, un’immagine o una frase che ci farà capire che è arrivato il momento giusto per riflettere insieme. Ma in che modo? Attraverso il dialogo aperto, il racconto, la lettura di storie e fiabe, ma anche il gioco e la creatività. Con i ragazzi più grandi, invece, si potranno vedere film o documentari insieme, spiegando le scene più difficili, oppure si potranno fare ricerche su libri e internet per capire insieme quanto accaduto. Agli adolescenti bisogna dare risposte vere e fondate, con loro risultano utili l’ascolto e la comprensione, in loro si cercherà di infondere conoscenza e spirito critico, funzionali a comprendere gli avvenimenti traumatici, in modo tale da costruire insieme a loro una lettura costruttiva della realtà che li circonda. Ragazzi informati, consapevoli, aperti e capaci di gestire la paura e l’ansia saranno adulti forti, sicuri, senza pregiudizi e soprattutto liberi.

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Nel libro “Cianuro a San Lorenzo” il giornalista Mauro Valentini rilancia i misteri sulla morte di Francesca Moretti, avvenuta nel 2000. Nell’intervista all’autore tutti i particolari del misterioso caso e una pista dalla quale ripartire. Nel libro si racconta una vicenda ancora oggi inspiegabile. Ma chi era Francesca Moretti?

«Era una ragazza marchigiana di buona famiglia, laureata in sociologia, che per questioni particolari si trova a Roma, nel quartiere San Lorenzo, dove vive in affitto con altre ragazze. È a Roma da tre anni, un po’ perché vi abita la sorella, un po’ per un amore romano e un po’ per fare l’operatrice interculturale con le minoranze e con i Rom».

Il cianuro è stata la causa della sua morte avvenuta il 22 febbraio 2000. All’inizio si ipotizzò un malore, poi l’atroce verità. In quanto tempo si ritiene sia morta Francesca? «Nella prima perizia si parlò di un’assunzione dai 20 minuti alle 3 ore prima della morte, ma venne poi sconfessata dalla stessa tossicologa. Nella seconda perizia si collocò l’inizio dei sintomi alle 16:50, con assunzione 10-15 minuti prima, alle 16:30-40».

Stringendo il cerchio ai momenti precedenti alla morte di Francesca, come potrebbe avere assunto il cianuro?

«È scritto nella seconda perizia che, data la quantità enorme, si può pensare ad una soluzione solubile. Circa 300 mg di veleno allo stato puro sono stati disciolti in un liquido e assunti senza violenza. A parte un segno dovuto alle operazioni di rianimazione, null’altro venne notato. Aggiungo che non è stato

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un avvelenamento protrattosi nei giorni perché ne avremmo trovato traccia a livello renale. È vero che Francesca stava male da cinque giorni ma solo per un problema alla schiena».

Quali sono state le sequenze che hanno portato al decesso?

«Alle 19:00 Francesca va in arresto cardiaco, alle 19:35 muore. Dal momento in cui arrivano i soccorsi a San Lorenzo fino alla morte passa poco più di un’ora e mezza».

Poi si parlerà cianuro”.

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«La prima perizia, quella errata, collocò l’assunzione dai 20 minuti alle 3 ore. Facendo due conti si arriva alle 13:40, quando c’è una minestrina preparata dalla coinquilina Daniela e lo sappiamo perché a dirlo fu proprio quest’ultima. Dunque le 3 ore diedero possibilità di “agganciarsi” alla somministrazione della minestrina. Da qui partirono le accuse contro la Stuto».

Qual è il tuo parere in merito?

«Secondo me la minestrina non c’entra proprio nulla e chi leggerà il libro capirà perché».

Cosa venne rinvenuto dentro casa?

«In cucina c’era una tavola apparecchiata con diversi bicchieri. Ma non sappiamo La stanza di Francesca Moretti da varie angolature

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quando e da chi vennero usati. Sta di fatto che non vennero analizzati. Così come non venne analizzato il bicchiere nella stanza di Francesca, dove viveva da sola».

Francesca».

Hai provato a cercare il cianuro a San Lorenzo oggi? E all’epoca era facile procurarselo?

«L’ho cercato e l’ho anche trovato. All’epoca era ancora più semplice trovarlo perché c’erano più laboratori artigiani».

Venne perquisita la stanza nella quale vivevano le due inquiline di Francesca Moretti, Daniela Stuto e Mirela Invece Daniela Stuto, accusata quasi subito del delitto, aveva disponibilità Mistor? «No, assolutamente. Non aprirono del cianuro privatamente? neanche i cassetti nella singola di

«Prima di rispondere vorrei dire che la Stuto è stata piuttosto sfortunata perché quando fecero la perquisizione nella casa dei suoi parenti, a Lentini, trovano un fusto alto circa un metro, tutto arrugginito, con scritto “Cianuro”. Era in uso allo zio. Da qui è stato facile ipotizzare il coinvolgimento della donna, però bisogna considerare che la conservazione del cianuro non è una cosa così semplice: è mortale per inalazione e per contatto. La Stuto non era certo una persona esperta in tal senso e, soprattutto, con la vittima si conoscevano solo da pochi giorni. Quindi secondo me non fu lei ad uccidere Francesca».

Come si legge con dovizia di particolari nel libro si ipotizzò anche il possibile coinvolgimento di Graziano, il ragazzo di etnia Rom che Francesca frequentava. Pensi possa essere stato lui a compiere il delitto? La cucina dell’appartamento di Francesca Moretti

«Secondo me no perché era sinceramente legato a Francesca. Graziano aveva una

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moglie e cinque figli e, oltre che essere figlio del capo Rom della sua comunità, per amore di Francesca più volte le aveva sconsigliato di cambiare vita per trasferirsi nel campo, senza energia elettrica, senz’acqua e senza tutte le comodità alle quali Francesca era abituata». Ma la moglie di Graziano aveva un valido movente. Tanto più che il giorno prima della morte di Francesca morì anche il padre di Graziano. Come disse la stessa Francesca, finché sarebbe stato vivo il padre di Graziano non ci sarebbe stato nulla da temere. «Sì, è vero, però leggendo le carte dell’inchiesta non ho avuto la sensazione che potesse spingersi fino ad uccidere Francesca. Al massimo, la moglie di Graziano minacciò di presentarsi a casa di Francesca con i figli piccoli e di farle una scenata davanti a tutti. Siamo ben lontani dall’atto omicidiario».

Insomma, è una figura onnipresente».

Tirando le somme di questa storia, restano sul piatto il suicidio o l’omicidio involontario. Cosa suggeriscono i documenti d’inchiesta di cui si nutre il libro?

«Penso che tra le possibili spiegazioni della morte di Francesca ci siano elementi ancora non detti. Forse Milena è stata testimone di qualcosa che, anche solo involontariamente, potrebbe avere omesso? Alla luce di questa riflessione e di altri elementi riportati nel libro, penso che la chiave per ricominciare le indagini sulla morte di Francesca Moretti sia soltanto Mirela Mistor».

Tolta Daniela Stuto, tolti Graziano e la moglie, non resta che la figura dell’altra coinquilina, Mirela, originaria della Romania. Cosa pensi di lei?

«La sua è una figura interessante perché è lei che resta in casa con Francesca nell’ora in cui assunse il cianuro; è lei a telefonare al fidanzato ispettore di Polizia per chiedergli di precipitarsi a casa viste le condizioni di Francesca; è lei che poi morbosamente chiederà in quelle ore tragiche di sapere le ragioni del malore.

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Il bidone sequestrato


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UNA STORIA

Nemmeno le ultime analisi del DN

del caso: che fine ha fatto la figli

Ci sono storie destinate a restare dei misteri e il caso della scomparsa e presunta morte di Ylenia Carrisi, figlia dei celebri cantanti Al Bano e Romina Power, è ancora oggi una vicenda da annoverare tra i casi irrisolti. Nel ricordare questa triste vicenda non vogliamo lanciarci in ipotesi che potrebbero essere viste come una qualche forma di speculazione sull’onda della notorietà del caso, ma offrire ai lettori una prospettiva più tecnica sui

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passaggi legati al DNA e alla mancata identificazione di Ylenia Carrisi nel corpo ritrovato il 15 settembre 1994 in Florida. Le ultime novità che hanno permesso una (illusoria e informale) riapertura del caso vengono dal camionista Keith Hunter Jesperson, responsabile dell’assassinio di una ragazza di nome Suzanne. A riferire il nome è stato lo stesso camionista e che, destino vuole, sia lo stesso con il quale pare Ylenia Carrisi si facesse chiamare nella sua nuova vita americana


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NA hanno portato a una soluzione

ia di Al Bano e Romina Power?

dopo avere lasciato l’Italia per vivere al seguito di un sassofonista, Alexander Masakela, 54enne di colore conosciuto nell’estate del 1993. Giunta dapprima nel Belize (America Centrale) e infine a New Orleans il 30 dicembre 1993, le notizie su di lei e sulla sua vita diventano via via più sporadiche. L’ultimo contatto che la famiglia ha con Ylenia risale al 31 dicembre 1993, telefonata fatta dal “LeDale Hotel” dove alloggia con il suo fidanzato. Le informazioni inerenti le sue Ylenia Maria Sole Carrisi

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ultime ore giungono invece a seguito delle prime indagini della Polizia. Il 6 gennaio la proprietaria dell’Hotel avrebbe visto Ylenia per l’ultima volta: la ragazza sarebbe uscita alle 12:00, senza valigie e non accompagnata. Quasi dodici ore più tardi un uomo l’avrebbe vista gettarsi nel Missisipi. Ma il presunto testimone si scoprirà essere affetto da miopia e dunque ritenuto inattendibile. L’inchiesta non si ferma e attenzionato speciale è l’uomo che con Ylenia condivideva la camera dell’Hotel, ma anche questa pista svanisce nel nulla. Poi quel corpo e quelle dichiarazioni che riaccendono la “speranza”, almeno quella di ritrovarla e avere un corpo da seppellire. Invece pochi giorni fa l’ennesima pista che si risolve con un nulla di fatto: il

Al Bano Carrisi

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Il LeDale Hotel, ultima residenza conosciuta di Ylenia Carrisi

cadavere rinvenuto lungo uno dei bordi della Interstate 10, zona periferica di Holt, aveva solo le fattezze che ricordavano Ylenia Carrisi, ma non era lei. A dirlo con certezza è il tanto agognato e citato DNA, prova che in questo caso può dirsi inoppugnabile. È stato lo stesso sceriffo di Palm Beach, Dennis Haley, a comunicarlo via e-mail alla trasmissione italiana Chi l’ha visto?. La prova del DNA è oggi una delle più utilizzate, laddove possibile, grazie alla capacità di fornire indicazioni con bassissima probabilità di errore, talvolta prossima allo zero. In casi del genere il primo passo da compiere è la valutazione della salma per comprendere lo stato di


conservazione di un corpo e capire se esistano parti dello stesso in grado di fornire del DNA. Non sappiamo quali parti sono state usate per la comparazione, ma già i denti sono un’ottima fonte di DNA in grado di dare un esito sicuro perché la loro morfologia è poco variabile nel tempo. Il resto lo fanno i cosiddetti “loci”, brevi sequenze localizzate sul DNA, variabili al punto che la loro combinazione può ritenersi unica; parametri necessari per conoscere se l’esito del confronto può dirsi positivo o negativo (solitamente servono almeno 16 loci per dare giudizio di positività ad un accertamento). Nasce da qui l’interrogativo di natura tecnica, ovvero perché si è scelto solo ora di verificare se il cadavere rinvenuto

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Al Bano e Romina Power

sulla Interstate 10 fosse davvero quello di Ylenia, tanto più in virtù della forte somiglianza tra le due ragazze. Già nel 2013, infatti, la madre Romina Power aveva depositato il proprio DNA in Texas presso un laboratorio al fine di compiere tutti gli esami necessari. Al di là della tempistica seguita, anche gli ultimi accertamenti hanno dato esito negativo e dunque serve ripartire da zero. Ylenia non fu uccisa dall’ex fidanzato, non si sarebbe gettata nel Missisipi, non sarebbe finita nel giro della tratta delle bianche. Ad oggi la “verità” sulla fine della ragazza è scritta in una sentenza del Tribunale di Brindisi che un anno fa (1 dicembre 2014) ha accolto la richiesta del padre Al Bano Carrisi e ha dichiarato che si tratta ormai di «morte presunta».

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ARTE E SCIENZE

FORENSI CONTRO I FALSI L’interesse economico dietro l’operato di falsari e di mercanti senza scrupoli: ecco come riconoscerli e difendersi

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Nell’immaginario comune, quando parliamo di Scienze forensi, pensiamo subito a scene del crimine con morti ammazzati, tracce di DNA, impronte digitali e residui dello sparo. Tuttavia esiste un campo meno conosciuto al grande pubblico, in cui non si ha a che fare con omicidi, avvelenamenti e sparatorie, ma per il quale le Scienze forensi danno ugualmente un importantissimo contributo. Questo è il mondo delle opere d’Arte e dei falsi. Un mondo vasto ed estremamente vario, ma anche molto interessante dal punto di vista economico, quindi per questo oggetto da sempre dell’attenzione di falsari e di mercanti senza scrupoli. per falso si intende un’opera mediante Come ebbe a dire il prof. Salvatore Casillo la quale ad un oggetto viene conferita dell’Università di Salerno: «Innanzitutto un’identità che ad esso non appartiene e che invece è propria di un altro manufatto, con l’intento da parte di chi pone in essere tale azione, di ottenere un beneficio, prevalentemente di tipo economico, a danno di altri soggetti». Non esiste infatti settore dell’arte che non sia stato interessato dal fenomeno dei falsi. Prendiamo ad esempio il campo archeologico, dove i falsi più comuni sono le monete antiche, la ceramica e l’oreficeria. Se il falsario ha una perfetta conoscenza dell’arte e della tecnica antica, non cadrà probabilmente in errori stilistici e a prima vista il falso risulterà del tutto identico ad un originale. Sarà quindi necessario ricorrere a tecniche scientifiche di investigazione, ma anche ad una notevole dose di esperienza,

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di intuito e profonda conoscenza della cultura del tempo. Di fronte a un vaso di ceramica da scavo, per esempio, sarà necessario esaminare la patina superficiale alla ricerca di incrostazioni composte prevalentemente da cristalli a base di carbonato di calcio. Per verificare la loro autenticità basterà versarvi sopra qualche goccia di acido cloridrico, che reagendo chimicamente con i carbonati sprigionerà delle bollicine, indice di probabile autenticità. Spesso i falsari, per imitare le concrezioni, mescolano i sali di calcio con collanti

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moderni, che non sono solubili in acido bensì in solventi organici come l’alcool. Se poi vogliamo avere maggiori certezze, le concrezioni possono essere esaminate in laboratorio per via spettroscopica, ottenendo la certezza sulla loro esatta composizione chimica, evidenziando possibili tracce di resine moderne. Per una datazione precisa della ceramica esistono tecniche di laboratorio come la termoluminescenza che, rilevando i danni prodotti dalle radiazioni ambientali in centinaia di anni, permette di avere un’indicazione precisa del periodo


in cui il manufatto è stato realizzato. Naturalmente il falsario è a conoscenza di queste tecniche e cerca sempre nuove strategie per aggirarle. Ad esempio la termoluminescenza può essere “ingannata” se il vaso di ceramica viene passato sotto ad una macchina per radiologi, che emettendo raggi X simula in pochi istanti i danni che si sarebbero dovuti accumulare nei secoli. Nel laboratorio di un detective dell’Arte non può mancare poi un buon microscopio ottico, attraverso il quale possono essere individuate le impercettibili tracce lasciate da strumenti ed utensili moderni, totalmente anacronistici rispetto alle tecniche di un tempo. Non di rado infatti si ritrovano sul mercato presumibili manufatti metallici di epoca etrusca, che

ad un’attenta analisi presentano incisioni realizzate con il bulino (un utensile in grado di tagliare ed asportare il metallo). Questo deve farci sospettare, perché all’epoca degli etruschi non esisteva il bulino bensì il cesello, ovvero un utensile che invece di asportare il metallo lo deformava plasticamente sotto i colpi di un martello. Da questi esempi risulta chiaro come il lavoro dello scienziato forense applicato all’Arte non può essere soltanto l’applicazione di una serie di protocolli e tecniche scientifiche, ma deve contemplare anche un’enorme conoscenza delle tecniche antiche, unita all’esperienza e alla possibilità di aver avuto tra le mani centinaia di reperti. Fondamentale è poi l’immedesimarsi nella mente del falsario.

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Approfondimento

EX FALSARIO

SI RACCONTA

a cura di Paolo Mugnai

Da sinistra, Marco Cerbella con Massimiliano Pani

Marco Cerbella, personaggio noto nel mondo dell’arte come uno tra i più abili (ormai ex) falsari di fama internazionale, autore del libro I Falsi, come riconoscerli nell’Arte e nell’antiquariato, ed ultimamente conosciuto anche dal grande pubblico televisivo in quanto conduttore insieme a Massimiliano Pani del programma culturale Italia da stimare, ci svela alcuni aspetti del mondo dei falsari. 50


Approfondimento Come ha preso vita la Sua “carriera” da falsario di opere d’arte?

«La storia è lunga circa quarant’anni e tutto ha avuto inizio con il ritrovamento di una stipe votiva etrusca, avvenuto quando avevo tredici anni. Da quel giorno è nata anche la mia passione per l’arte, ma soprattutto per la sperimentazione delle tecniche artistiche antiche, oggi solo scarsamente comprese. Sono stato considerato un falsario per l’affermazione del grande esperto d’arte (e di falsi) Pico Cellini che su Rai 1 affermò che ero l’ultimo erede di Alceo Dossena (tra i più grandi falsari di tutti i tempi). In realtà il mio era un gioco per mettere alla prova la capacità dei “grandi esperti” e dei “grandi” antiquari e collezionisti: molti di loro infatti, non si rivelarono propriamente tali».

Attualmente quali sono i rischi per chi realizza un falso immettendolo sul mercato e per chi lo acquista? «I rischi dal punto di vista penale oggi sono elevatissimi. L’Italia si è dotata di una legge capillare che tutela, in maniera forse anche troppo restrittiva secondo me, la circolazione mercantile dei beni artistici o storici. I falsari oggi rischiano pene lunghissime per un reato che penso dovrebbe essere considerato “minore” dal punto di vista giudiziario, per tutta una serie di motivi, non ultimo quello del divieto per l’acquirente di acquistare opere d’arte prive di una certificazione di legittima provenienza».

Come utilizza adesso le conoscenze tecniche?

«Oggi la mia esperienza è mirata principalmente a far conoscere alle persone i metodi e le tecniche artistiche antiche, nonché i sistemi usati dai contraffattori di opere d’arte».

Qual è l’aneddoto più curioso ed interessante della Sua attività di investigatore forense nel campo artistico? «Mi trovavo a Londra al mercatino antiquario di Portobello, vidi una bellissima statuetta etrusca e la comprai. Arrivato a casa preparai gli stampi in silicone e, una volta pronti, notai sul negativo dell’impronta una strana familiarità stilistica con uno stampo simile che avevo realizzato anni prima. La statuetta che avevo acquistato a Londra, era una di quelle che avevo falsificato io».

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LIBRO E PROGRAMMA TV

CONSIGLIATI a cura di Mauro Valentini Sacro Sangue

Storie di svizzeri, menzogne e omicidi La coppia Sanvitale-Palmegiani torna per la quinta volta sulla scena del delitto. Un delitto difficile, misterioso e soprattutto segreto. Come segreto è tutto quello che ruota attorno o, peggio ancora, come in questo caso addirittura “dentro” le mura dello Stato della Città del Vaticano. È Il 4 maggio del 1998, Alois Estermann è stato appena promosso comandante delle guardie svizzere, il più noto e mite corpo militare del mondo. Sembra una serata come le altre per lui, ma sarà l’ultima. Lo spettacolo che si prospetta davanti agli occhi di chi entra in casa sua è terrificante: Estermann e sua moglie Gladys sono riversi a terra, uccisi da colpi di pistola, insieme a loro a terra con un altro colpo sparato a bruciapelo in bocca c’è uno dei sottoposti del Comandante, Cedric Tornay. È lui, Cedric, la chiave del mistero. Infatti la dinamica che viene subito resa nota a tutti i media da parte del direttore della sala stampa del Vaticano, Navarro Valls, non ammette repliche: Cedric Tornay avrebbe ucciso i due coniugi e si sarebbe poi tolto la vita. Il movente? Gelosia del successo del suo comandante? Vendetta per la particolare severità con cui era stato trattato da Estermann? Viene fatta trovare e consegnata alla mamma di Cedric una lettera che sembra confermare il suo scopo suicidiario. Tutto risolto? Ma è davvero andata così come ha raccontato Navarro Valls? Da anni la tesi ufficiale è contestata proprio dalla mamma di Cedric, mai rassegnata alla morte di questo figlio modello e che secondo lei è stato ucciso in una messa in scena. Sacro Sangue (Sovera Edizioni) indaga senza pregiudizi su questi tre morti difficili da decifrare. Incontrano personaggi chiave in questa storia, disegnano la stanza del delitto, leggono le perizie, si muovono tra Roma, Parigi e la Svizzera a caccia di documenti e informazioni ricostruendo questo che è l’episodio più misterioso tra tutti i misteri della storia della Santa Sede e con grande esperienza e con un taglio narrativo originale ed efficace, regalano al lettore una chiave di svolta sorprendente e geniale.

Diritto di Cronaca, la nuova rubrica di politica ed attualità in onda

ogni martedì e giovedì su Teleromauno (CH. 271). Tante le tematiche già affrontate, dal caso Cucchi al clan dei Marsigliesi, fino alle inchieste su sanità, sicurezza e criminalità. Tutte le puntate sono disponibili sulla pagina Facebook di “Diritto di Cronaca”, condotte dal giornalista Giovanni Lucifora.

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FILM E PROGRAMMA RADIOFONICO

CONSIGLIATI

a cura di Diana Ghisolfi

Al cinema

Il ponte delle spie

Un film per spazzare via pregiudizi e superficialità Nel bel mezzo della Guerra fredda, l’avvocato americano James Donovan si ritrova a difendere il pittore Abel, accusato di essere una spia sovietica e al tempo stesso viene incaricato di negoziare lo scambio con il tenente Powers, prigioniero in Russia. La scelta di Spielberg, così come quella dell’avvocato, interpretato da Tom Hanks, è quella di andare oltre l’opinione pubblica e cercare sia la profondità che si cela dietro gli uomini sia la comprensione giusta dei fatti. Donovan quindi non viene influenzato dal disdegno della moglie, del giudice o degli americani, ma decide di difendere Abel, instaurando un rapporto di amicizia e stima. Contro la superficialità e i pregiudizi, il film, in uscita in Italia il 16 dicembre, ribadisce grandi valori sociali spesso calpestati dall’uomo nel corso della storia.

In radio La Storia Oscura.

Storia, crimine e criminologia su Radio Cusano Campus dal lunedì al venerdì dalle 13:00 alle 15:00 con “La Storia Oscura”, un programma curato e condotto da Fabio Camillacci. Conoscere la storia per capire l’attualità.

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UNA LUNGA SCIA DI

SANGUE La storia inquietante di Maurizio Giugliano ribattezzato il “lupo dell’agro romano”

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È il 15 luglio 1983 quando, in un cantiere sulla via Flaminia, a Roma, a pochi chilometri dall’abitato, viene scoperto il cadavere di una donna, Thea Stoppa, prostituta professionista di 31 anni. È l’autopsia a chiarire che l’assassino, dopo la violenza sessuale, ha strangolato la vittima con una calza e l’ha finita con un colpo di pietra alla testa. Agli inquirenti non sfugge inoltre un particolare curioso: il volto è stato coperto con terriccio e sassi. Il 22 luglio, appena una settimana dopo, viene trovata uccisa un’altra prostituta: prima violentata, poi strangolata. Si tratta di Luciana Lupi, 45 anni, e anche in questo caso, il volto appare occultato da terra e pietre. Ancora due giorni e il macabro rituale si ripete. A Castelporziano, Roma, si scopre il corpo senza vita di Lucia Rosa, una prostituta di 34 anni. La donna, che ha subito violenza carnale, è stata strozzata con il suo reggiseno. Le analogie fra i tre omicidi appaiono evidenti agli inquirenti e iniziano ad ipotizzare l’azione di un serial killer. L’azione investigativa è tuttavia ostacolata

dalla mancanza di indizi concreti che possano condurre alla sua identità. A bloccare tale situazione di stallo interviene un altro delitto: il 5 agosto 1983, una donna viene uccisa e abbandonata in un campo di granoturco a Sabaudia, a circa settanta chilometri da Roma. Dalla perizia autoptica emerge che è stata sgozzata e martoriata selvaggiamente. L’assassino le è saltato addosso più volte schiacciandola con il peso del corpo. La vittima si chiamava Giuliana Meschi, impiegata comunale. Una persona irreprensibile e senza lati oscuri. Questa volta, però, il killer non è svanito nel nulla senza lasciar traccia. Un contadino ha notato un uomo fuggire a piedi e poi allontanarsi a bordo di una Ford Capri gialla con il tettuccio nero. Il killer, che sa di essere stato visto, è costretto ad arginare la propria furia omicida, almeno per un po’, anche se l’inattività non dura a lungo, e il suo desiderio di morte non può essere placato per tanto tempo. Infatti l’impeto omicida torna presto ad esplodere: il 30 ottobre 1983 Fernanda Durante, pittrice di via Margutta, viene trovata con il ventre squarciato da 37 coltellate. Dopo quest’ultimo fatto segue un intervallo di

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circa tre mesi, durante i quali il killer ha avuto con molta probabilità bisogno di non esporsi ulteriormente per non attirare velocemente su di sé l’attenzione degli inquirenti. La sera del 21 gennaio 1984 si consuma l’ultimo atto della catena di omicidi: Catherine Skerl, una bella ragazza italo-svedese di 17 anni, saluta gli amici e lascia una festa perché è tardi ed ha fretta di tornare a casa, una casa dove di fatto non arriverà mai. La ritroveranno sommersa nel fango di una vigna a Grottaferrata, vicino a Roma. Lo scenario è il solito: la ragazza è stata violentata, strangolata e massacrata. Stavolta però il killer ha le ore contate perché qualcuno ha assistito alla scena e ha visto salire Catherine su uno scooter guidato da un giovane, nel quale viene individuata la persona di Maurizio Giugliano, figlio di un guardiano di vacche e abitante a Roma, nel quartiere di Trastevere. Maurizio Giugliano viene processato e condannato per due dei sei omicidi; la confessione piena arriverà solo molti

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anni dopo, sotto forma di lettere inviate al commissario che lo aveva inchiodato. Ma la storia criminale del serial killer Maurizio Giuliano non si ferma qui, perché durante la celebrazione del processo il capo della Squadra mobile di Venezia intuisce che probabilmente c’è un’analogia tra la serie criminosa della zona romana agita da Giugliano e un caso di cui si era occupato un anno prima, il 3 agosto 1984, a Punta Sabbioni. In quell’occasione Maurizio Giugliano sta viaggiando con la moglie e il cognato. Fra Venezia e Jesolo si ferma per una sosta, proprio a Punta Sabbioni, per comprare le sigarette. Dirigendosi verso il tabaccaio aveva notato Maria Negri, affacciata alla finestra e vestita in modo succinto per il gran caldo. Una bella casalinga di 51 anni. Giugliano non resiste al suo istinto omicida e anziché entrare in tabaccheria, sale nel palazzo e suona alla porta della donna: appena la sfortunata apre, piomba dentro aggredendola e strangolandola con il filo dell’aspirapolvere. Finita l’opera, torna tranquillamente dai suoi cari che lo attendono in automobile. Maurizio Giugliano dopo il processo è trasferito, all’età di 31anni, all’Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Montelupo Fiorentino, ma la sua furia omicida non è ancora placata: strangola il compagno di cella, colpevole di avergli negato una sigaretta. Trasferito all’Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Reggio Emilia, muore nel 1994 per un infarto.


Approfondimento

QUANDO L’ABBANDONO

DIVENTA VIOLENZA

Approfondimento della psicologa forense Francesca De Rinaldis Come spesso mi piace dire, dietro la maschera di ogni “Mostro” si nasconde la storia di un essere umano. Proprio ripercorrendo quella storia di vita spesso troviamo alcune risposte rispetto ai tanti “perché” legati alle azioni brutali compiute. Maurizio nasce a Roma nel 1962, secondogenito di quattro figli. Una vita costellata di traumi, difficoltà, abbandoni e vuoti, fin dai primissimi momenti 59 5959


Approfondimento e fasi di vita: per farlo nascere è stato necessario l’uso del forcipe, tale circostanza farà sì che nei genitori maturi la convinzione che egli abbia riportato dei danni cerebrali, con conseguente rifiuto. Dopo la nascita, la madre priva di latte decide di affidarlo ad una balia ed in seguito, constatando che Forcipe il piccolo Maurizio è magro e denutrito, lo affiderà nuovamente alle cure di un’altra balia: Maurizio vive così un forte senso di vuoto, di abbandono. Ciò lo porterà ad assumere un atteggiamento aggressivo e a provare un forte rancore nei confronti della madre che era solito chiamare “puttana”. I rapporti col padre sono invece formali e anaffettivi tanto che un giorno arriva persino a formulare l’idea di ucciderlo. L’atteggiamento di ostilità e rabbia inizia ad essere espresso anche nella scuola dove Maurizio strappa un occhio con una forchetta a un compagno e, in un’altra occasione, costringe un bambino a bere della varechina. È all’età di 10 anni che compaiono episodi di piromania e di sadismo orientato sugli animali. Il nuovo abbandono che opera la famiglia nei suoi confronti e il suo addio alla casa paterna fanno sì che si dedichi alla violenza fisica fino alla sua serie omicidiaria negli anni che vanno dal 1983 al 1993. Maurizio Giuliano è a tutti gli effetti un serial killer e tale certezza si fonda sulla constatazione della presenza di alcuni elementi: una vita costellata di ferite emotive mai elaborate, traumi, abbandoni e perdite, e soprattutto mancanza di un riconoscimento affettivo e identitario. Nessuno lo ha mai veramente amato, riconosciuto ed accettato per quello che è, tanto che egli è riconosciuto solo attraverso l’identità di “mostro”. Il sentimento di odio e rifiuto dell’immagine materna 60


Approfondimento lo proietterà su tutte le donne che incontrerà nella sua vita, comprese le sue vittime, donne scelte casualmente con la sola “colpa” di essere donne e dunque meritevoli di odio. La contiguità temporale degli eventi criminosi, commessi a breve tempo l’uno dall’altro, mossi dall’esigenza compulsiva e irrefrenabile del desiderio di morte; la dedizione al corpo della vittima e dunque la “necromania” che si concretizza proprio nel piacere ricevuto dalla manipolazione del corpo cui è stata tolta la vita per mezzo della propria mano; la “firma” dell’assassino che ha l’abitudine di coprire il volto con terra e sassi. Riguardo a ciò è necessario richiamare l’attenzione su un atteggiamento psichico difensivo che si riscontra in molti autori di crimini violenti e, dunque, anche degli assassini seriali: la depersonalizzazione della vittima. Il seriale ha bisogno di privare la vittima dei suoi connotati e delle sue caratteristiche di umanità che lo esporrebbero al rischio di imbattersi ferocemente contro il forte senso di colpa per aver privato della sua vita un essere umano innocente, e comunque non direttamente correlato alla causa delle sue sofferenze. Deprivare la vittima delle sue caratteristiche di umanità, come ad esempio in questo caso specifico, attraverso la copertura del volto, è funzionale a che il seriale porti a termine la sua azione di morte: in tal maniera, nel caso specifico la donna, è resa innocua e soggiace al suo egoistico bisogno di dominio, possesso e piacere.

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IL SEQUESTRO DOZIER

LA FINE DELLE

BRIGATE

ROSSE Nel dicembre 1981 il generale NATO J.L. Dozier veniva rapito dalle BR in quella che si rivelerĂ la loro condanna

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Dicembre 1981, Verona. Sono passati tre anni dal sequestro e dall’uccisione di Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse e l’azione delle Forze dell’ordine è stata violenta e repentina. Il primo grande successo risale al febbraio 1980, con l’arresto di Patrizio Peci, il capo della sezione torinese delle BR e il primo collaboratore di giustizia di una certa importanza. Nell’aprile del 1981 invece viene arrestato Mario Moretti, che dopo gli arresti di Renato Curcio e Alberto Franceschini a metà anni ‘70 era diventato il punto di riferimento all’interno dei vari gruppi delle BR. Nel gruppo terroristico si verifica un vuoto di potere e la prima conseguenza è una scissione: Barbara Balzerani, la “Primula Rossa”, compagna dello stesso Moretti, si ritrova a capo della fazione “Brigate Rosse – Partito Comunista Combattente” mentre Giovanni Senzani guida l’ala “Brigate Rosse – Partito Guerriglia”. È in questo scenario che avviene il rapimento del generale James Lee Dozier. Dopo l’esperienza in Vietnam Dozier viene inviato a Verona, dove diventa vicecapo di Stato Maggiore del Comando delle Forze Terrestri NATO in Sud Europa (FTASE). Ha un ruolo strategico e un grande potere, considerando la base missilistica americana che ha sede a Vicenza. Entra nel radar delle BR quando queste capiscono che può

Barbara Balzerani

essere un obiettivo comune dei gruppi nati dopo l’arresto di Moretti. Dozier è il simbolo dell’imperialismo post Seconda guerra mondiale degli Stati Uniti e il suo sequestro si inserisce in una strategia anti-NATO intrapresa da diversi gruppi terroristici, non solo italiani. Il concetto è ben spiegato da un ex-brigatista romano, Luigi Novelli, intervenuto al programma La Storia Siamo Noi: «Si individua

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nell’installazione dei missili americani nel nostro paese un terreno nuovo di lotta di classe. In questo quadro maturò l’idea di rapire un militare americano». Il sequestro avviene il 17 dicembre: è la stessa Barbara Balzerani ad essere considerata “mente” del rapimento, messo in atto da Antonio Savasta, Pietro Vanzi e Cesare Di Lenardo, con un quarto uomo ad attendere in strada. Sono circa le 18:00 quando la Banda irrompe, tutti travestiti da idraulici e bussano alla porta del generale Dozier: tutto accade in pochi minuti. Immobilizzano la moglie – che verrà ritrovata bendata e legata – e incappucciano il generale. Escono rapidamente in strada dove mezzo che li porterà in un appartamento Giovanni Cucci li attende alla guida del di Padova, dove sarà trattenuto Dozier. È il primo caso di un rapimento ai danni di un generale NATO, mai riuscito nemmeno ai gruppi terroristici vietnamiti, e l’Italia si trova al centro di uno scandalo di portata mondiale. Gli Stati Uniti inviano una task force di CIA e FBI ma sarà la Polizia italiana a risolvere il caso: con un blitz durato 90 secondi e senza sparare un colpo, il 28 gennaio, dopo 42 giorni di prigionia, il generale Dozier viene liberato e i cinque brigatisti presenti nel covo di Padova arrestati. È la fine delle Brigate Rosse (anche se Barbara Balzerani verrà Renato Curcio

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arrestata solo nel 1985) e del terrorismo politico in Italia, ma il sequestro lascerà una lunga scia di polemiche. Risalgono al 2012 le dichiarazioni dell’ex-commissario di polizia Salvatore Genova, accusato insieme ai suoi colleghi di sevizie ai responsabili del sequestro. Intervistato da L’Espresso Genova confessa in toto: «Ero tra i responsabili, e ricevemmo via libera per botte e sevizie. Dovevamo arrestarci l’un con l’altro, questo dovevamo fare». Un vero peccato che la violenza sia stata fermata con la violenza, ennesima pagina nera della storia politica italiana.

Mario Moretti

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SEQUESTRI

IN ITALIA

LE CIFRE

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DIFENDERSI Da sempre una vera e propria industria, ecco in Italia come sono cambiati nel corso degli anni

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Il fenomeno dei sequestri di persona in Italia ha alla base differenti motivazioni storiche, politiche, sociali e culturali. Alcuni sono di natura criminale, volti a soddisfare gli interessi delle organizzazioni mafiose, altri sono messi in atto da bande illegali specializzate. Questo genere di reato raggiunge il picco tra gli anni ‘60 e ‘90; cala minimamente nel periodo successivo e ricompare nell’ultimo arco di tempo in maniera differente. Da fonti dell’Arma dei Carabinieri si evidenzia infatti che tra il 1969 e il 1997 i sequestri di persona hanno fatto registrare numeri elevati: 672 rapimenti, 400 dei quali attribuibili alla ‘Ndrangheta, a fronte dei 130 compiuti dall’Anonima sequestri sarda. Per ridurre i numeri sono stati bloccati patrimoni e messe in atto numerose misure di sicurezza. Il sequestro, in quegli anni, è stato praticato maggiormente dalla

Lapide in memoria del più celebre dei sequestri in Italia

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ETÀ

OCI IER S

tano

li apo S N S a O D in il lsom inama e G i m olo d @gelso artic

Criminalità organizzata italiana come Cosa Nostra, Sacra Corona Unita, Camorra, Banda della Magliana, Basilischi, Brigate Rosse e da altre associazioni a delinquere. Nella maggior parte dei casi si agiva per estorcere denaro e beni. Oggi le cause, invece, sono cambiate. Con l’internazionalizzazione e la facilità degli spostamenti, i rapimenti vengono attuati non solo in Italia e avvengono maggiormente per motivi ideologici (politici, religiosi, sociali), per scopi terroristici o per motivi individuali. Le cause A destra Fabrizio De André, vittima di sequestro sono differenti, ma tra i crimini denunciati dalle Forze di Polizia all’autorità giudiziaria negli anni 2010 – 2013 i numeri relativi ai sequestri di persona sono ancora molto elevati. I dati, ricavati dal Report ISTAT Italia in cifre 2015, ci dicono che nel 2010 ne sono stati denunciati 1.436, 1.443 nel 2011, 1.474 nel 2012. Nell’anno 2013, invece, si evidenzia una lieve diminuzione con 1.353 denunce. Tralasciando le singole cause e le differenti modalità di gestione dei casi, i costi da affrontare rappresentano per l’Italia una spesa non indifferente. La situazione è molto più complicata per gli italiani prigionieri all’estero. Lo Stato italiano spende cifre esorbitanti, sborsando milioni di euro per gestire situazioni sempre più difficili. A questi costi si aggiungono quelli per la prevenzione ossia per le azioni di

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sicurezza da mettere in atto ogni giorno, affinchè le organizzazioni criminali e terroristiche vengano bloccate prima di agire. Quella dei sequestri è una vera e propria industria che agisce da anni e che, seppur in modalità differente nei diversi periodi storici, mette in atto azioni sempre più efferate. Da fonti delle Nazioni Unite emerge che il business dei prigionieri vale circa 2 miliardi di dollari ed è raddoppiato in meno di cinque anni. I riscatti naturalmente peggiorano la situazione alimentando

un’organizzazione gigantesca. A pagarli spesso è lo Stato che si affida ad un’altra industria: quella della sicurezza privata. I soldi che eventualmente i governi pagano per i riscatti sono comunque fondi sottratti all’erario pubblico che potremmo investire in maniera ben diversa. La libertà della persona va protetta, tutelata e recuperata in casi del genere, ma è importante potenziare la prevenzione ed individuare i responsabili di un business che da anni non si riesce a sconfiggere.

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MIGRANTI con DISABILITĂ€

due volte penalizzati Maggiori difficoltĂ per gli stranieri disabili giunti nel nostro Paese, un tema che riguarda tutti

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Come sappiamo, nell’ultimo periodo il fenomeno della migrazione è in continua crescita, non solo nel nostro Paese ma in tutta Europa. Secondo un’indagine ISTAT, gli stranieri residenti in Italia al 1° gennaio 2015 sono più di cinque milioni, con un incremento di 151 mila persone rispetto all’anno precedente. Analizzando i dati del MIUR (Ministero dell’Istruzione) risulta inoltre che più di 26 mila sono bambini con delle disabilità. Se è già difficile per un migrato giungere e vivere in un paese straniero, dove non si conoscono la lingua, le usanze, le abitudini e dove si è arrivati stremati dopo un lungo viaggio di giorni su una carretta nel mare, si immagini le difficoltà che trova nelle medesime circostanze, un disabile. guerra ci sono anche loro, doppiamente Già, perché forse a pochi è venuto in mente penalizzati: i portatori di handicap. che tra le tante persone scappate dalla Attualmente non si sa quanti siano gli immigrati disabili presenti in Italia e a che nazionalità appartengano; ma sappiamo che ci sono bambini che vanno a scuola e adulti, che magari troviamo agli angoli delle strade, che chiedono un piccolo aiuto per vivere. Il popolo degli invisibili, così li definirei. Ancora oggi nel 2015 facciamo fatica ad accettare la disabilità rispetto ad altre forme di diversità, anche se nessuna difformità dev’essere fonte di discriminazione, ma anzi di crescita personale. Questa per esempio è la storia di Lemlem Ghebray una donna eritrea giunta in Italia nel 1993. Arruolata nel 1974 nel Fronte

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Popolare per la liberazione del suo Paese, non ha soltanto combattuto, ma insegnato ai suoi commilitoni ed è stata anche una maestra. Nel 1982 durante una battaglia fu colpita nella parte sinistra del cervello: ha avuto un’emiplegia perdendo l’uso della parola e diventando così disabile. Curata per cinque mesi nel suo Paese, i medici le hanno consigliato di recarsi in Europa. Adesso vive a Ferrara, dove ancora oggi

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fa riabilitazione perché è emiplegica (cioè non riesce bene a muovere una parte del corpo). «Non mi sono mai sentita giudicata per il colore della pelle, ma solo perché sono disabile ‒ ha affermato Lemlem ‒. Quando chiedo informazioni, le persone non mi guardano neppure in faccia o mi scrutano con lo sguardo pieno di compassione». Essere migranti e disabili comporta doppie difficoltà. È proprio su questi


nella seconda sono state presentate diverse proposte per l’integrazione e per riuscire a comprendere le differenze, nell’osservanza dei dati, anche rispetto a quelli degli studenti stranieri con disabilità. Tutto questo, affinché vengano abbattute per sempre le discriminazioni di ogni sorta. Pensiamo per esempio che quello che vediamo può capitare anche a noi in ogni momento della nostra vita. Siamo tutti uguali, viviamo sulla stessa terra, nessuno può fuggire dal proprio destino a tutti ignoto. aspetti che la Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap ha svolto un’indagine (Migranti con disabilità: conoscere il fenomeno per tutelare i diritti) e il tema era sulle condizioni di vita degli stranieri con disabilità in Italia. La ricerca doveva mettere in luce dimensioni e caratteristiche, individuando competenze e obblighi delle diverse istituzioni coinvolte. Per questo motivo il 9 giugno scorso a Roma si è svolto un convegno dal titolo Migrazione e disabilità: invisibili nell’emergenza, organizzato dalla FISH. Nella prima parte sono stati esposti i risultati dello studio, mentre

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