Cronaca&Dossier27

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COPIA OMAGGIO

anno 3 – N. 27, Giugno 2016

BRUNO CACCIA,

IL CASO NON È CHIUSO ‘Ndrangheta, casinò e corruzione: il triangolo di morte nell’ultima inchiesta dell’ex Procuratore di Torino

False rivendicazioni, come riconoscerle?

Sextortion, estorsioni sessuali tra adolescenti

Omertà e segreti nel caso Fortuna Loffredo


Indice del mese 10

4. La finestra sul crimine LA MORTE DI UN UOMO SCOMODO

10. Crimini ai Raggi X UNA VOCE TACIUTA NEL SANGUE

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16. Dossier inchiesta

IL DELITTO CACCIA E LA RETE DEGLI INTOCCABILI

20. Criminalistica

IL MISTERO DELLE FALSE RIVENDICAZIONI

26. Dossier società

IL GIRO D’AFFARI DALLE CASE DA GIOCO AI CASINÒ ONLINE

32. Media crime

LIBRO, PROGRAMMA TV E RADIO CONSIGLIATI

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COPIA OMAGGIO

anno 3 – N. 27, Giugno 2016

34. Sulla scena del crimine L’INTRICATO CASO DELLA “BARBAGIA FLORES”

BRUNO CACCIA,

IL CASO NON È CHIUSO ‘Ndrangheta, casinò e corruzione: il triangolo di morte nell’ultima inchiesta dell’ex Procuratore di Torino

40. Memorabili canaglie

False rivendicazioni, come riconoscerle?

Sextortion, estorsioni sessuali tra adolescenti

Omertà e segreti nel caso Fortuna Loffredo

OMERTÀ E SEGRETI NEL CASO LOFFREDO

ANNO 3 - N. 27 GIUGNO 2016

46. Diritti e minori

Rivista On-line Gratuita

SEXTORTION: LE ESTORSIONI SESSUALI TRA ADOLESCENTI

Direttore Responsbile Pasquale Ragone Direttore Editoriale Laura Gipponi

52. Storie di tutti i giorni

LEGGE 104: CONTROLLI A TAPPETO PER ABUSI E USI IMPROPRI

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Articoli a cura di Alberto Bonomo, Nicoletta Calizia, Nicola Guarneri, Dora Millaci, Paolo Mugnai, Gelsomina Napolitano, Paola Pagliari, Mauro Valentini, Francesca De Rinaldis

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Direzione - Redazione - Pubblicità Auraoffice Edizioni srl a socio unico Via Diaz, 37 - 26013 Crema (CR) Tel. 0373 80522 - Fax 0373 254399 edizioni@auraoffice.com Grafica e Impaginazione Giulia Dester Testi e foto non possono essere riprodotti senza autorizzazione scritta dall’Editore. Le opinioni espresse negli articoli appartengono ai singoli autori dei quali si intende rispettare la piena libertà di espressione.

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Registrato al ROC n°: 23491 Iscrizione al tribunale N: 1/2014 Reg. Stampa dal 15 gennaio 2014


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LA MORTE

DI UN UOMO

SCOMODO

La strana storia del delitto Caccia che 30 anni dopo sembra avere trovato il colpevole: caso chiuso?

La Magistratura ce l’aveva nel sangue Bruno Caccia. Era una questione di famiglia, una famiglia di quelle vecchio stampo, sabaude, di Cuneo, tutte d’un pezzo. Nel 1941, Bruno Caccia, fresco di laurea

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“Magna cum Laude” ha già vinto un concorso alla Procura di Torino, che sarà da quel momento in poi la sua casa, percorrendo tutte le tappe che quella carriera a lui predetta dallo zio paterno e diventando prima Procuratore

ad Aosta e poi Sostituto Procuratore a Torino, nel 1967. A 50 anni dunque è all’apice di quella che sarà una delle Procure più calde dell’“autunno caldo” del 1969. E di quell’emergenza il procuratore capo Caccia si occupa con assoluta dedizione, dimostrando capacità ed un metodo d’indagine assolutamente innovativo per l’epoca. I pestaggi durante gli scioperi divennero per lui il punto su cui lavorare per sconfiggere quello che di lì a poco accese il fenomeno brigatista che a Torino conosce negli anni Settanta l’apice più cruento. Caccia ha grande intuizione, ed è a lui che si deve il coordinamento tra le tante operazioni di quegli anni, tra cui quella che porta alla cattura di Renato Curcio. Nel 1980, nominato Capo della Procura si concentra su quello che riconosce essere ora la minaccia che incombe sulla rinascita economica del Piemonte: la permeazione da parte delle cosche calabresi che cercano (e riescono in parte) ad appropriarsi delle attività industriali per riciclare i proventi dei loro traffici criminali. Al Procuratore viene quindi rafforzata la scorta perché è ad un passo dal chiudere un’indagine proprio contro

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una delle cosche che opera a Torino. La sera del 26 giugno 1983 Caccia è appena rientrato a casa dopo una giornata passata fuori porta. Fa caldo, e in Italia si vota per le ennesime elezioni politiche. Bruno Caccia lascia libera la scorta ed esce con il cane per un piccolo giro intorno alla sua abitazione che si trova in via Sommacampagna.

Torino

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Cammina placido verso corso Moncalieri, da lì quasi si vedono gli argini del Po, e sarà quella l’ultima immagine che si fisserà nella mente del magistrato. Una 128 bianca gli si avvicina e qualcuno da dentro spara una ventina di proiettili 7.65 Parabellum, quasi tutti a segno. Uno degli occupanti del commando di fuoco esce dalla macchina e spara ben


tre colpi di grazia. Chi ha sparato vuole assolutamente esser certo che quella sia l’ultima giornata del Procuratore di Torino. Un’esecuzione cruenta. Quella sera, una telefonata anonima rivendica l’esecuzione come opera delle Brigate Rosse, ma quella rivendicazione è falsa: perché mai i terroristi di sinistra dovevano colpire il Procuratore? Certamente una possibile vendetta per il suo lavoro investigativo, è chiaro che colpire il Capo della Procura quando ci sono ancora molti militanti sotto processo può esser d’esempio. Ma proprio chi è in carcere tra le B.R. si dissocia: «Non siamo stati noi». Gli inquirenti che operano nel Nord non sono ancora preparati ad allargare il campo ad ipotesi alternative a quella terroristica per delitti come questi, ed allora la loro attenzione si sposta nella galassia di estrema destra. Si indaga quindi sui Nuclei Armati Rivoluzionari (N.A.R.) con grande impegno, ma nulla che lascia pensare ad un loro coinvolgimento. E poi manca la rivendicazione. Possibile che chi spara ed uccide in quella maniera così plateale se ha una motivazione ideologica non lo rivendica? Qualche mese dopo però, un boss

della mafia catanese, Francesco Miano, detenuto a Torino decide di raccontare una storia: lui sa che è stata la ‘ndrangheta ad uccidere Caccia. Miano diventa un collaboratore di giustizia e accetta di farsi microfonare di nascosto e di andare a fare due chiacchiere con

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Domenico Belfiore, un boss calabrese che opera e delinque a Torino. Belfiore tra un bicchier di vino e uno spaghettino ai frutti di mare racconta a Miano la verità: «Lo abbiamo ucciso noi Bruno Caccia, cu’ chiddu non si putiva parrari». Parlare di cosa? Ma d’affari, chiaramente. Perché quello era il salto di qualità che la cosca voleva fare: entrare nel palazzo della Procura. Ma con Caccia vivo era impossibile. Domenico Belfiore viene arrestato, è lui

FIAT 128 bianca

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il mandante dell’omicidio Caccia, non c’entra nulla il terrorismo, il motivo della sua condanna a morte da parte degli ‘ndranghetisti è terribilmente semplice: è un uomo dello Stato. Tutto d’un pezzo. Belfiore è condannato all’ergastolo. Ma chi ha sparato quella sera di giugno con Belfiore? Si brancola nel buio per tanti anni, Bruno Caccia viene dimenticato dalla cronaca, del resto un colpevole c’è. Ma manca chi ha sparato quei tre colpi di grazia. E dopo 30 anni la famiglia del


Procuratore chiede la riapertura delle indagini alla Procura di Milano. Se ne occupa Ilda Boccassini e agli inquirenti viene in mente un’altra idea geniale: inviano una lettera anonima a Belfiore, che nel frattempo è uscito dal carcere. Un articolo di giornale che parlava di Caccia e un nome scritto a penna: Rocco Schirripa, che ora fa il panettiere a Torino ma che all’epoca era un luogotenente della cosca. E il colpo va a segno. C’è immediatamente un traffico telefonico tra Schirripa, Belfiore a altri affiliati, evidentemente rimasti in contatto a dispetto degli anni di galera del boss. Il 22 dicembre 2015, 32 anni e mezzo

dopo quell’omicidio, la DDA di Milano arresta Rocco Schirripa. «Sono innocente, non c’entro nulla con l’omicidio: le mie frasi intercettate sono state fraintese» riesce a dire agli uomini dell’antimafia che lo portano in carcere. «Sono emozionata» dice Ilda Boccassini, che ha lavorato con passione a questa indagine insieme al sostituto procuratore Marcello Tatangelo: «Le indagini hanno confermato che i calabresi sono stati mandanti ed esecutori materiali. L’inchiesta però non è conclusa, stiamo verificando se l’omicidio sia stato voluto dalla famiglia Belfiore anche con il beneplacito dell’organizzazione in Calabria».

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UNA VOCE TACIUTA NEL

SANGUE

Non solo la ‘ndrangheta nel caso Caccia: l’ombra oscura di possibili infiltrazioni anche nella Magistratura

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Un uomo dalla giustizia nel cuore. Dicono non ci sia modo di estirpare un ideale dalle viscere di uomo se non eliminando l’uomo. La memoria di Bruno Caccia è stata infangata con il silenzio da quel tragico giorno in cui i proiettili trafissero vigliaccamente il suo corpo. Quelle che ormai siamo soliti chiamare le “verità processuali” hanno stabilito che la mente dietro il feroce agguato mortale è Domenico Belfiore, mai pentito, ai tempi boss della ‘ndrina di Gioiosa Jonica. Il boss sentenziò che l’uccisione avvenne proprio per interesse dell’organizzazione mafiosa che percepiva nel magistrato una concreta minaccia e un uomo con cui non avrebbero mai potuto fare affari. Da qui il sospetto al sapore di certezza che dietro l’efferata condanna a morte vi fosse la reale paura di avere i bastoni tra le ruote nel sottile compito di tessere le fila delle infiltrazioni nella macchina della Magistratura e dello Stato. Caccia era un uomo fedele e attento ai dettagli; la particolare connotazione dell’attenzione ai dettagli è sempre qualcosa che disturba chi tenta di operare sottobanco sempre attento a “non essere visto”. Furono numerose le inchieste che il magistrato portò a termine prima di essere ucciso, tra le tante lo scandalo sulle tangenti delle giunte rosse a Torino e la lotta al terrorismo armato. Mentre il substrato malavitoso tentava di

Nitto Santapaola

penetrare, spesso riuscendoci, dentro il palazzo, a Torino un magistrato d’onore (quello vero), impossibile da corrompere, combatteva strenuamente senza guardare in faccia nessuno. Purtroppo erano anni in cui la ‘ndrangheta con le sue cellule tumorali prendeva piede in tutto il territorio nazionale espandendosi silenziosamente e le famiglie criminali siciliane comandavano seminando atti di terrore. Non è un mistero che tra le tante

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ipotesi formulate vi sia quella secondo cui Caccia stesse lavorando su documenti pericolosi atti a confermare nero su bianco le infiltrazioni delle ‘ndrine dentro le istituzioni. Verità talmente scottanti da generare un terremoto e avvalorare una repentina condanna a morte. L’ipotesi di una collusione tra magistratura e criminalità organizzata, possibile movente dell’assassinio, è ancora più avvalorata

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dai collegamenti con alcuni nomi: Rosario Pio Cattafi, Francesco Di Maggio e Olindo Canali. Nomi che ritornano, prendendo strade secondarie, in questo fatto di sangue. Il nome di Olindo Canali entra nella vicenda (e anche agli atti) a seguito di affermazione rese dal Canali stesso che rivelerà il particolare del ritrovamento nell’abitazione dell’avvocato Rosario Pio


Cattafi della falsa rivendicazione delle B.R., venuta a galla nelle prime ore dopo il fatto. L’ambiguo segreto sarà captato da Canali durante il suo apprendistato alla Corte del pubblico ministero Francesco di Maggio, nonché magistrato incaricato di indagare sul caso Caccia. Non c’è dubbio che sia Canali sia Cattafi rappresentano due personaggi oscuri, pesantemente legati agli ambienti di Cosa Nostra e della criminalità organizzata di stampo mafioso. Alcuni collaboratori di giustizia indicano Cattafi come un uomo profondamente corrotto ben disposto anche di fronte all’avance dei servizi segreti. Avvocato dalla fitte rete di contatti nazionali e internazionali verrà anche chiamato in causa per il sequestro dell’imprenditore Giuseppe Agrati, poi rilasciato in seguito al pagamento di un riscatto. A indagare sarà ancora una volta il pm Di Maggio che arriverà a chiedere l’archiviazione per l’avvocato barcellonese: un decreto di archiviazione che svelerà una presunta quanto velata mediazione. Il nome Canali è presente in numerose storie torbide; nell’informativa dei Carabinieri redatta nell’ambito di un’inchiesta siciliana denominata “Tsunami”, sono sottolineati i rapporti

Beppe Alfano

incontrovertibili dello stesso Canali con Salvatore Rugolo, cognato di Giuseppe Gullotti (la mente dietro l’omicidio Alfano), ritenuto elemento di spicco della mafia di Barcellona Pozzo di Gotto così descritto: «Grazie allo schermo protettivo di cui beneficia per via della sua professione di medico, parrebbe dirigere ponendosi in un ruolo di vera e propria “cerniera” tra gli ambienti criminali e quelli istituzionali».

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RAG NI AI

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I CRIM

Canali negli scorsi anni è stato più volte ascoltato in qualità di testimone dal pubblico ministero Antonino Di Matteo, uno dei magistrati che indaga sulla presunta “trattativa Stato-mafia”. Nel processo senza mezze misure racconterà per diverse ore dell’omicidio di Beppe Alfano e del periodo di latitanza che il celebre boss Nitto Santapaola avrebbe trascorso proprio a Barcellona Pozzo di Gotto, la città di Saro Cattafi. Ascoltato anch’egli, tirerà in ballo i magistrati Di

Barcellona Pozzo di Gotto

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Maggio e Canali con riferimento alla “Trattativa” perennemente in atto dentro quello che appare uno dei possibili grandi misteri d’Italia. Collegamenti sotterranei, fili invisibili nel tempo lunghi centinaia di chilometri e anni, verità sfocate; l’unica certezza è che Bruno Caccia fu colui che diede l’impulso alla lotta viso a viso contro la criminalità organizzata. Una battaglia ancora oggi condotta da uomini che vivono nel ricordo del magistrato torinese sacrificatosi per amore della giustizia.


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IL DELITTO CAC

E LA RETE DEGLI INTOC

Recenti indagini evidenziano un profondo legame t italiani. «Ecco su cosa stava indagando Caccia prim

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tra Clan e casinò ma dell’attentato»

Dopo più di trent’anni si scopre che Bruno Caccia aveva indagato e trovato qualcosa di importante. Una conclusione logica d’altronde; come giustificare altrimenti il primo assassinio di un magistrato da parte della ‘ndrangheta nel Nord Italia? È il 26 giugno del 1983 quando Caccia, Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Torino, viene giustiziato da due uomini mentre porta a passeggio il cane. Un omicidio brutale e violento, falsamente rivendicato. Grazie al coinvolgimento del SISDE, che convince il boss catanese Francesco Miano a collaborare, si scoprono le confidenze di Domenico Belfiore, uno dei capi della ‘ndrangheta a Torino, che racconta il coinvolgimento dell’organizzazione criminale nell’assassinio. A distanza di più di trent’anni, in seguito alla riapertura delle indagini e al lavoro dell’avvocato della famiglia Caccia Fabio Repici, si scopre che c’era una storia molto più intricata dietro all’assassinio del Procuratore di Torino. Quando venne perquisito

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il suo studio la cassaforte risultò vuota; le forze di Polizia inoltre dovettero farla saltare poiché erano sparite le chiavi dalle tasche del magistrato. Su cosa stava indagando Bruno Caccia? La risposta arriva proprio dall’avvocato Repici: «Studiando le carte del processo ci siamo chiesti di cosa si occupasse Caccia appena prima di essere ucciso: del Casinò di Saint Vincent. A maggio, poco più di un mese prima dell’omicidio, la Procura di Torino aveva emesso i decreti di perquisizione che hanno portato al sequestro dei conti correnti sia dell’amministrazione della casa da gioco che dei singoli amministratori. Tre i dirigenti al centro delle indagini: Bruno Masi, Paolo Giovannini, Franco Chamonal. Esistono centinaia di pagine che indicano gli affari del Casinò come causale dell’omicidio, ma sono state del tutto inutilizzate al

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Saint Vincent

processo, perfino dalla difesa di Belfiore. Carte che legano le indagini a Rosario Cattafi». Per questo la ‘ndrangheta si sarebbe mossa: per tutelare i propri interessi. D’altronde, quasi un anno prima era già suonato un forte campanello d’allarme: nel 1982 il procuratore di Aosta Giovanni Selis si salvò miracolosamente da un attentato. La sua auto esplose al momento dell’accensione; Selis sopravvisse perché la carica era stata posizionata male, nel retro dell’auto. Anche lui stava indagando sulle infiltrazioni mafiose nel Casinò di Saint Vincent ma incredibilmente non venne mai sentito come persona informata dei fatti nelle indagini successive alla morte di Bruno Caccia. Morirà suicida in circostanze mai chiarite qualche anno dopo, nel 1987. Se la riapertura del caso del Procuratore


di Torino ha portato lo scorso dicembre all’arresto del presunto killer, Rocco Schirripa, non si può dire che la ricerca dei mandanti sia stata altrettanto efficace. Solo negli ultimi anni, con almeno due decadi di colpevole ritardo, si è arrivati ad indagare con serietà sui rapporti tra clan calabresi e i maggiori casinò, in particolare con quello di Saint Vincent. I casinò sono una macchina da soldi perfetta per riciclare il denaro delle organizzazioni criminali, che possono permettersi di entrare nelle sale da gioco con gli sporchi soldi del mercato della droga e uscirne con soldi puliti. Un sistema che funziona da anni, come torna a spiegare l’avvocato Repici: «Tra gli anni ‘70 e ‘80 è nato un unico universo criminale con vari satelliti: la mafia siciliana, quella calabrese, quella marsigliese, ma con una rete di interessi più ampia. Secondo risultanze documentali coinvolgeva anche il figlio di Roberto Calvi e i finanziamenti fatti dalla P2 ai casinò. La scalata mafiosa ai casinò ha utilizzato come canali le ottime relazioni

con gli apparati deviati: avvocati, magistrati, forze di investigazione e servizi segreti, responsabili di depistaggi su indagini come quelle riguardanti Paolo Borsellino, Bruno Caccia e altri servitori dello Stato». Piemonte, Aosta, Francia ma anche Liguria (dove sorge il casinò di Sanremo): ormai i tentacoli della ‘ndrangheta si sono snodati in quasi tutto il Nord Italia, dove tuttavia la lotta alle associazioni mafiose non è ancora stata affrontata con la giusta forza e serietà. Come aveva fatto invece, profeticamente, Bruno Caccia.

L’avvocato Fabio Repici

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A STIC nai I L A IN Mug 5 CRIM olo

i1 a di P Mugna o l o o artic @Paol

IL MISTERO DELLE FALSE

RIVENDICAZIONI

Quel volantino che non finì mai agli atti del caso Bruno Caccia e come riconoscere i falsi comunicati

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Il 26 giugno 1983 a Torino veniva ucciso il procuratore capo della Repubblica Bruno Caccia. Un magistrato inavvicinabile e incorruttibile, che aveva promesso linea dura contro il terrorismo e la criminalità organizzata presenti in quegli anni a Torino. Le indagini sulla sua morte si orientarono in un primo momento battendo la pista terroristica, indirizzate anche da alcuni comunicati telefonici, poi risultati falsi, che rivendicavano l’omicidio prima come opera delle Brigate Rosse, N.A.R. e Prima Linea. Ma chi aveva necessità di depistare le indagini additando ai terroristi la responsabilità dell’omicidio Caccia?

Soltanto gli autori del crimine oppure un sistema di organizzazioni deviate più complesso, che veniva favorito dall’eliminazione di un magistrato come Caccia? In merito ai comunicati attribuiti alle Brigate Rosse, sappiamo da un’intercettazione telefonica del giugno 2009 tra il pm Olindo Canali e il giornalista Alfio Caruso, che un volantino contenente il testo del falso comunicato fu trovato durante una perquisizione presso l’abitazione milanese di Rosario Cattafi, uomo di raccordo tra organizzazioni criminali e servizi segreti, adesso in carcere con il regime 41 bis e testimone chiave nel processo della presunta

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trattativa Stato-mafia. Purtroppo del volantino di cui si fa cenno nell’intercettazione tra Canali e Caruso non si avranno più notizie e non comparirà mai negli atti del processo come eventuale fonte di prova. Tuttavia per comprendere quali contributi ai fini dell’indagine avrebbe potuto apportare l’analisi forense del volantino, ci siamo rivolti al grafologo ed investigatore privato Maico Turso. Gli abbiamo chiesto innanzitutto quali sono le indagini grafologiche da effettuare per poter verificare l’autenticità o la contraffazione di uno scritto. «Gli accertamenti che possono essere effettuati su di uno scritto sono molteplici — afferma il dott. Maico Turso —. Si va dalla semplice ispezione ictu oculi,

Il dott. Maico Turso

alle misurazioni grafometriche indicate dai vari metodi di applicazione in campo grafologico. Altra attività di indagine grafologica può essere effettuata attraverso l’utilizzo di fonti di luce a infrarosso che possono determinare differenti sovrapposizioni di inchiostri dello stesso colore, che ad occhio nudo sembrano vergati dalla stessa fonte. Ciò avviene sfruttando la risposta agli IR che ogni inchiostro dà in maniera univoca. Non ultimo l’utilizzo di microscopi

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tridimensionali che riescono a dare risultati che facilitano l’esecuzione degli accertamenti arrivando a conclusioni di certezza in termini scientifici». Non si tratta degli unici utilizzi possibili. «Tengo a precisare – continua il grafologo – che queste tecniche, oltre ad essere utilizzate sugli accertamenti del gesto grafico, o dei caratteri delle lettere dattiloscritte, possono essere utilizzate per analizzare le fibre della carta sulla quale il testo è vergato. Tali tecniche di indagini permettono di effettuare accertamenti sempre ripetibili a differenza dell’utilizzo di reagenti chimici che, pur raggiungendo in parte gli stessi risultati, potrebbero alterare i materiali tanto da non permettere più la ripetibilità dell’accertamento stesso». Nel caso specifico è dunque importante capire se e quanto l’eventuale analisi del volantino avrebbe potuto apportare informazioni utili alle indagini giudiziarie. Secondo il grafologo Maico Turso «sicuramente sarebbe stato uno strumento di valutazione in più nelle mani degli organi inquirenti. Compatibilmente con le conoscenze scientifiche e con gli strumenti di laboratorio di allora, si sarebbero potuti effettuare accertamenti sulla carta di cui il volantino era composto, oltre a tutti gli accertamenti da effettuare sugli

inchiostri e sui caratteri in presenza di dattiloscrittura o sul gesto grafico trattandosi di manoscrittura». Anche se non sapremo mai la verità sul falso comunicato, oggi a distanza di 33 anni dall’omicidio di Bruno Caccia, sembra accertato dalla Magistratura che a premere il grilletto fu soltanto la ‘ndrangheta, guidata dal boss Domenico Belfiore e che sarebbe stata eseguita da Rocco Schirripa. Tuttavia rimangono ancora numerosi punti oscuri su cui indagare, per fare ulteriore chiarezza sull’omicidio di un magistrato che non sarà mai ricordato abbastanza per il suo valore di uomo inflessibile votato al servizio dello Stato.

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IL GIRO D’AFFARI

DALLE CASE DA GIOCO AI CASINÒ ONLINE Se i fiumi di danaro non passano più dalle “vecchie” case da gioco

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Il gioco d’azzardo, con le sue regole e la sua ironia a volte beffarda, consente a chi ne è affascinato di entrare a far parte di un giro intrigante ma allo stesso tempo rischioso. Le case da gioco, meglio conosciute come casinò, in Italia sono solo quattro. Molti italiani vi trascorrono del tempo libero e, affascinati da questo luccicante mondo, mettono in gioco le proprie abilità assaporando il piacere del rischio. In Italia è vietato il gioco d’azzardo nei

luoghi non preposti e quindi gli unici casinò autorizzati sono il Casinò Di Campione (Lombardia), il Casinò di Saint Vincent (Valle D’Aosta), il Casinò di Sanremo (Liguria) e il Casinò di Venezia. La scelta di autorizzare certi luoghi al gioco d’azzardo è dovuta anche a condizioni politiche, economiche e geografiche. Questi casinò, infatti, sono posizionati in luoghi strategici e consentono ad alcune zone di incrementare l’economia e di evitare che

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DOSS

gli italiani vadano a ricercare queste forme di svago oltre confine. C’è da dire, però, che in Italia ci sono molti divieti infatti tanti preferiscono giocare oltrefrontiera, come in Slovenia, dove ci sono più di dieci case da gioco e meno impedimenti. Il gioco d’azzardo ha subìto, però, dei cambiamenti nel corso degli anni. Con Internet e con i mezzi di pagamento elettronici se ne sono sviluppati molti online negli ultimi tempi.

Casinò di Campione

Casinò di Venezia

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Si è creato così un nuovo mercato del gioco tanto che nella Finanziaria 2006 (Legge 266/2005 art. 535-536) è stata inserita una norma per bloccare l’accesso da parte degli utenti italiani ai siti che ospitano casinò online. Molti siti sono stati oscurati e i provider internet hanno reindirizzato i rispettivi domini su una pagina dei Monopoli di Stato. La loro legalizzazione online in Italia risale al 2011 quando Silvio Berlusconi decide di regolarizzare i siti


riguardanti i giochi da tavolo e le lotterie. Nel dicembre 2012, con il governo Monti, vengono rese legali anche le slot online. Si sviluppano così tanti mini casinò che attirano l’attenzione di diverse tipologie di giocatori. Dai dati AGIMEG (Agenzia giornalistica sul mercato del gioco) emerge un giro di affari che ha raggiunto 9,4 miliardi di euro nel 2015 per quel che riguarda le varie aziende da gioco, mentre sono 9,1 miliardi di euro i soldi inerenti le vincite complessive. In un anno i casinò online sono passati dai circa 249 milioni di euro del 2014, ai 327,5 milioni di giro di affari nel 2015. Come si legge dai dati dell’Osservatorio del Politecnico di Milano il settore è nettamente in crescita, con il gioco online che beneficia anche delle nuove tecnologie. D’altra parte, la digitalizzazione ha modificato tanti aspetti della vita quotidiana in ogni settore e non fanno eccezione i giochi online oramai supportati e disponibili con il semplice utilizzo di smartphone, pc e tablet. Tutto ciò significa un incremento economico per le aziende italiane e straniere che investono nel settore, ma

i ritorni economici sono alti anche per lo Stato, visto che i casinò online sono autorizzati dal Governo e sottoposti a regolare tassazione. Gli introiti che finiscono nelle casse dello Stato sono tanto alti quanto i numeri dei giocatori. Si tratta di un giro d’affari destinato a crescere sempre più, considerando l’apporto continuo della tecnologia e il coinvolgimento costante degli italiani e degli stranieri nei confronti del gioco d’azzardo.

Casinò di Sanremo

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LIBRO E PROGRAMMA TV

CONSIGLIATI

a cura di Mauro Valentini

IO HO UCCISO

Emanuele Cislaghi dà voce agli assassini Un punto di vista, il più sinistro, il più misterioso quando si devono trattare casi di cronaca nera o di violenza: il punto di vista dell’omicida. Ecco la scelta spiazzante ed intrigante di Emanuele Cislaghi. Il giovane autore lombardo ha scelto di raccontare l’orrore partendo proprio dai pensieri e dalle parole di chi nessuno ascolta, con un escamotage letterario che funziona benissimo, che avvince dalla prima pagina. Non sono interviste, sono proprio racconti in prima persona, creati dalla fantasia dell’autore che trasudano di pathos e di amore per il dettaglio storico delle vicende che via via scorrendo il libro si narrano, racconti creati da Cislaghi ma con un dettaglio ed una grande lettura della verità processuale. Io ho ucciso (GiveMeAChance Editoria Online) non è dunque un reportage banale e già letto, un prontuario di omicidi nella storia ma è l’accurata e l’immaginata confessione di ognuno, scritta con notevole piglio e letterata abilità da Cislaghi, che si insinua nei pensieri dell’assassino per mostrarci senza sconti ma anche libero da retorica chi e perché hanno agito, hanno ucciso. A corredo di ogni racconto una scheda che colloca quelle parole nel contesto noto della cronaca e così troveremo Erik Priebke, oppure ascolteremo le immaginate parole di Luigi Chiatti, il mostro di Foligno oppure il delirio di solitudine e di disperazione di Rina Fort, la belva di San Gregorio e tanti altri. «Persone che hanno lasciato una ferita inguaribile nella storia e nella coscienza dell’essere umano» scrive l’autore, ma anche e soprattutto un libro ricco di passione per la mente umana e che si legge tutto d’un fiato, scavando attraverso la memoria degli assassini i meandri di quella di ognuno.

Diritto di Cronaca,

la nuova rubrica di politica ed attualità in onda ogni martedì e giovedì su Teleromauno (CH. 271). Tante le tematiche già affrontate, dal caso Cucchi al clan dei Marsigliesi, fino alle inchieste su sanità, sicurezza e criminalità. Tutte le puntate sono disponibili sulla pagina Facebook di “Diritto di Cronaca”, condotte dal giornalista Giovanni Lucifora.

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TRASMISSIONE TV E RADIOFONICA

CONSIGLIATE

In televisione

a cura di Nicola Guarneri

PROFONDO NERO Considerato uno degli scrittori italiani più seguiti grazie alla sua formula narrativa che l’ha reso celebre, Carlo Lucarelli torna in onda dal 14 giugno alle ore 22:55 su Crime+Investigation con la seconda stagione di Profondo Nero. L’anno scorso la trasmissione televisiva aveva visto oltre un milione di spettatori unici appassionarsi ai casi di cronaca nera che più hanno caratterizzato la realtà italiana. Scritte da Carlo Lucarelli e dagli ex allievi di Bottega Finzioni (Francesca Gianstefani, Sara Olivieri, Francesco Tedeschi) con la supervisione e la collaborazione di Michele Cogo e Beatrice Renzi, la seconda stagione di Profondo Nero vuole puntare i riflettori su alcuni grandi casi di cronaca nera, dal caso Montesi al Mostro di Firenze, e sulle passioni e pulsioni che li hanno animati, dando voce non solo ai carnefici ma anche alle vittime.

In radio La Storia Oscura

Storia, crimine e criminologia su Radio Cusano Campus dal lunedì al venerdì dalle 13:00 alle 15:00 con “La Storia Oscura”, un programma curato e condotto da Fabio Camillacci. Conoscere la storia per capire l’attualità.

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L’INTRICATO CASO DELLA

“BARBAGIA

FLORES”

La speranza di risolvere il caso Fiori arriva da una nuova perizia balistica Sarà la nuova perizia balistica richiesta il 20 maggio a dare nuova speranza ai familiari di Rosanna Fiori, assassinata a colpi di fucile caricato a pallettoni davanti alla sede della sua impresa la “Barbagia Flores”? Un caso interessante che si inscrive nell’ambito

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dell’omicidio dell’imprenditore Francesco Giamattei, ucciso il 30 settembre 2001, tre giorni prima di quello della Fiori. Il Pm ha infatti imposto un approfondimento ulteriore della vicenda chiedendo che


L’imprenditore edile Francesco Giamattei, originario di Castelvenere, in provincia Benevento, sposato con quattro figli, era stato ucciso nelle campagne di Villagrande Strisaili all’alba del 30 settembre 2001 durante una rapina. L’uomo e il cognato si trovavano in auto quando tre uomini armati li avevano fermati, minaccianti e rapinati dei loro due fucili da caccia calibro 12. I tre spararono colpi di pistola e di fucile contro l’auto, guidata dall’imprenditore, per costringerlo a scendere insieme al cognato. Giamattei, ferito alla gamba sinistra dai colpi di arma da fuoco che trapassarono lo sportello, morì dissanguato in attesa dei soccorsi.

la Corte d’Assise Appello «disponga la riapertura dell’istruttoria dibattimentale e una nuova perizia», quindi il prossimo 17 giugno la stessa Corte assegnerà l’incarico al perito.

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I due fucili da caccia bottino di quella rapina, armi pulite, secondo gli investigatori servirono per l’assassinio di Rosanna Fiori. Proprio una perizia balistica era stata determinante per far rinviare a giudizio l’ex latitante Marcello Ladu, che in quegli stessi giorni era nella zona di Villanova Strisaili e sparò il colpo di pistola che ferì

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a morte l’impresario beneventano. La novità sta tutta nella nuova consulenza balistica della Polizia scientifica e nella rilettura della perizia autoptica, dimostrando che la vittima non fu raggiunta solo da colpi di fucile, come ricostruito all’epoca dei fatti, ma anche da un proiettile esploso da un revolver Zastava calibro .357 Magnum, lo stesso


che fu trovato addosso a Ladu quando fu arrestato a Nuoro, il 16 dicembre del 2001. Per il perito balistico Giulio Madeddu non esisteva però la certezza assoluta che il revolver .357 Magnum trovato a Ladu fosse quello che aveva esploso il proiettile trovato sul luogo del delitto. Inoltre il suo avvocato aveva rilevato come nel fascicolo del dibattimento non fosse mai stato allegato il frammento di proiettile recuperato. E così Ladu era stato assolto. E come lui erano stati assolti anche gli altri sei imputati per gli omicidi legati alla vicenda Barbagia Flores. Ma il Pm di primo grado, Nicola Giua Marassi, nel suo ricorso in Appello, il pm Pelagatti nelle sue richieste iniziali e l’avvocato di parte civile avevano insistito per una nuova perizia balistica. E la Corte ha accolto la loro richiesta. Dunque si riapre l’istruttoria di battimentale. Ma quale sarebbe il motivo che lega i predetti fatti di sangue? Una possibile risposta potrebbe trovarsi nella vita di Rosanna Fiori. Originaria di Sassari, la donna viveva da tempo in un clima di violenze e intimidazioni. Il 13 aprile del 1999 l’imprenditrice affermava che qualcuno volesse appropriarsi della ditta e il 29 aprile 1999

Microscopio comparatore utilizzato per analisi balistica

la donna aveva presentato una denuncia. L’inchiesta che seguì fu poi archiviata e le venne tolta la scorta. Le indagini successive avevano ipotizzato che per l’omicidio della donna vi fossero due mandanti: una ex dipendente, licenziata dalla stessa Fiori, Daniela Depau, e il suo compagno, Flaviano Stochino, contabile di Barbagia Flores. Marco Serra, disoccupato di Villanova e Marcello Ladu, sarebbe stato l’esecutore,

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mentre Gianluigi Depau, fratello di Daniela, avrebbe avuto il ruolo di istigatori. Il movente sarebbe stato l’odio di una dipendente ferita e il desiderio di impossessarsi di un’azienda. Per gli imputati il Pm aveva chiesto cinque ergastoli e due condanne a 10 e 16 anni, invece l’assoluzione pronunciata nel 2014 dai giudici del Tribunale di Cagliari aveva spiazzato tutti.

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Per ora l’ultimo colpo di scena è tutto per Marco Serra, l’uomo originariamente accusato di essere il killer: la Corte ha stralciato dal processo la sua posizione. Un perito nominato dalla Corte ne ha decretato l’incapacità di partecipare in modo consapevole al processo. Dunque Serra esce da questa vicenda e tutto torna nuovamente nelle mani della perizia balistica, con le indagini che potrebbero ripartire da zero.


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OMERTÀ E SEGRETI NEL CASO LOFFREDO La morte di Fortuna e del piccolo Antonio: quell’orribile silenzio rotto dai bambini di Caivano

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È il 24 giugno 2014 quando la piccola Fortuna Loffredo di 6 anni muore dopo essere caduta da un balcone di un palazzo del Parco Verde di Caivano in provincia di Napoli. La madre, Domenica Guardato, lancia subito un disperato appello: «Lei non si è buttata giù, l’hanno buttata». I dubbi della madre sono alimentati anche da altri riscontri oggettivi quali il mancato ritrovamento nei pressi del corpo della scarpa destra della bambina e, soprattutto, i riscontri agghiaccianti dell’autopsia, secondo i quali risulta che nei mesi precedenti la piccola era stata vittima di abusi sessuali. C’è ancora un altro terribile dato: nel 2013 dallo stesso edificio era precipitato un bimbo di quattro anni, Antonio Giglio. Il giorno della sua morte, Fortuna era andata a giocare proprio a casa della sorellina del bimbo deceduto. Con il passare del tempo prende sempre più corpo l’incubo di un mostro presente proprio nel palazzo del Parco Verde, ma tutti tacciono. Due anni dopo, laddove gli adulti rimangono chiusi nei loro silenzi, sono proprio loro, i bambini, vittime e protagonisti inconsapevoli, ad alzare la testa e a rompere il velo dell’omertà ribellandosi all’orrore che caratterizza le loro piccole esistenze.

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Tre piccoli aiutano gli investigatori a far emergere una terribile rete di abusi e pedofilia: secondo la ricostruzione dei magistrati, Fortuna è stata uccisa perché quel giorno si rifiuta di subire l’ennesimo abuso. Il 29 aprile 2016 viene arrestato Raimondo Caputo, detto Titò, con la terribile accusa di omicidio. L’uomo ha 44 anni, convivente di Marianna Fabozzi, madre dell’amica del cuore della bambina e madre anche di Antonio Giglio. L’uomo, accusato di omicidio e violenza sessuale, anche nei confronti altre due minori, si trovava già in carcere dal mese di novembre 2015, quando era stato fermato per abusi su una figlia di tre anni insieme alla convivente. È stata proprio l’amichetta del cuore di Fortuna, la figlia più grande di Marianna Fabozzi, a rivelare agli inquirenti di aver visto Caputo salire in terrazzo con lei prima di sentire l’urlo e il tonfo della caduta, affermando: «Gli dava i calci mentre lui tentava di violentarla. Poi l’ha buttata giù dall’ottavo piano». Dopo la notizia la madre di Fortuna, Domenica Guardato, punta il dito però

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anche contro la donna sua vicina di casa, Marianna Fabozzi. La stessa, per il Gip, come si legge nell’ordinanza di fermo di Caputo, non solo «non ha protetto la prole, ma ha cercato di fare in modo che il compagno la facesse franca». Con l’arresto di Caputo riemergono anche i fantasmi che avvolgono la morte del piccolo Antonio Giglio, avvenuta il 27 aprile 2013, e se ne richiede pertanto la riesumazione del corpo, con la convinzione che la sua morte non sia stata accidentale ma che sia maturata nello stesso contesto di quella di Fortuna. E mentre le indagini proseguono è di questi ultimi giorni un’ultima inquietante

rivelazione: Antonio Caputo fa sapere dal carcere che a gettare la piccola Fortuna dal balcone non è stato lui, bensì la compagna. Tuttavia, nell’incidente probatorio, con l’ausilio di una psicologa e in presenza del Pm, la piccola amica di Fortuna fa esplicito riferimento alla colpevolezza di Antonio Caputo, il quale nei momenti in cui abusava sessualmente della stessa le avrebbe più volte ripetuto di essere stato lui a violentare ed uccidere la piccola Fortuna. Ora contro Caputo si aggiungono altre persone ad accusarlo, come la 13enne che ha confermato le parole delle figlie di Fabozzi: sembra uno strazio senza fine.

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L’ORRIBILE “GIOCO” DEL SEGRETO

Approfondimento della psicologa forense Francesca De Rinaldis

Sono molti i dubbi e gli interrogativi che ruotano attorno alla tragica vicenda giudiziaria che ha portato in superficie l’esistenza di uno spaccato di realtà dal quale emerge con forza una sola certezza: la sofferenza dei bambini, vittime di chi, anziché amarli e proteggerli, li strumentalizza al solo scopo del raggiungimento del loro personale piacere, e resi schiavi di quei silenzi da cui genera, e di cui al tempo stesso si nutre, la violenza. In una società quale quella in cui viviamo che ama definirsi emancipata, 44

la Pedofilia e la violenza sessuale in genere, rimangono ancora un tabù fortissimo da scardinare. Se ne parla molto sì, ma soprattutto dopo che episodi come quelli di Caivano vengono alla luce e ci mostrano uno dei lati peggiori del comportamento umano. Molta strada ancora dobbiamo compire come società civile in tema di prevenzione, informazione e consapevolezza di ciò che genera, caratterizza e determina un abuso sessuale.


Colpiscono le parole della piccola amica di Fortuna Loffredo, sorella del piccolo Andrea Giglio. Alla domanda del Pm: «Quando avete visto questa cosa (gettare Fortuna dal balcone, ndr), mamma ti ha detto qualcosa? […] Per esempio “non dirlo a nessuno”, “manteniamo il segreto”, oppure “diciamolo a tutto il Parco Verde”?», la bambina risponde: «Che rimaneva un segreto…». Da queste parole emerge un dato di rilevanza centrale per la comprensione delle dinamiche che caratterizzano i comportamenti di abuso e violenza sessuale su minore: il mantenimento del segreto. Il patto segreto tra abusante e vittima è essenziale ai fini del mantenimento del comportamento di abuso: la piccola vittima si fida del suo abusante e ne subisce il fascino, proprio perché il più delle volte è una persona che conosce molto bene, una persona a lei cara o dalla quale dipende affettivamente, per cui trasgredire il segreto equivale a tradire l’affetto e la fiducia dell’adulto di riferimento, e perciò a sentirsi cattivi e non meritevoli di amore. Dunque, paura, vergogna, senso di colpa hanno un peso determinante. I bambini devono faticosamente tenere dentro di sé la consapevolezza di avere a che fare con emozioni contraddittorie dove amore e odio sono vissuti con la

stessa intensità. Il silenzio però spesso non riguarda solo la piccola vittima e il suo carnefice, vi si associa quello degli “spettatori”, spesso i familiari più vicini alla vittima e al carnefice, che sanno ma non possono e non vogliono dire, e quindi ignorano di sapere alimentando e in qualche maniera acconsentendo a che ciò continui ad accadere. A tal proposito, il caso della piccola Fortuna Loffredo, di Antonio Giglio e delle sue sorelline sono un esempio emblematico purtroppo di ciò che caratterizza il comportamento abusante. Ancora non sappiamo come giuridicamente saranno distribuiti gradi di colpevolezza e condanne, a soggetti che sono a vario titolo, tutti ugualmente coinvolti e responsabili della sofferenza delle piccole vittime che non hanno saputo e forse voluto proteggere.

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SEXTORTION:

LE ESTORSIONI

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ADOLESCENTI Una pratica molto diffusa tra i ragazzi ma ancora poco studiata: ecco come prevenire il fenomeno

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È una parola sconosciuta, una crasi, sta per “ricatto sessuale”, si tratta di uno dei pericoli più nuovi ed inquietanti del web. La cosa più preoccupante è che sta mietendo vittime tra i giovanissimi, tra i 16 e i 17 anni. È un fenomeno in crescita, da considerare e prevenire assolutamente, nell’ottica della tutela dei minori. Come avviene la sextortion? Come fa il minore a cadere in questa trappola? Innanzitutto definiamola: è un’estorsione a sfondo sessuale che è volta ad ottenere favori sessuali oppure denaro, tutto questo mediante l’utilizzo dello strumento informatico e della rete internet — soprattutto dei social network, delle app di messaggistica istantanea e delle

video chat — al fine di costringere la vittima a pratiche di tipo sessuali o al pagamento di somme di denaro per evitare la diffusione di immagini compromettenti. Ovviamente queste immagini sono state precedentemente acquisite in modo consensuale o sotto minaccia. Se ne distinguono due forme: un primo tipo di sextortion è la conseguenza, il risultato negativo del sexting tra pari, ossia lo scambio di materiale osé tra coetanei; il secondo, invece, viene agito da gang criminali, si tratta di un’estorsione di caratura, quindi, internazionale, che colpisce anche gli adulti. Secondo l’Interpol quest’ultima tipologia verrebbe messa a punto in questo modo:

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il ricattatore assume l’identità di un uomo o di una donna attraente, capace di adescare la vittima; dopo aver ottenuto la sua fiducia, il criminale registra filmati della vittima mentre compie atti sessuali, e subito dopo la minaccia di farli circolare tra gli amici o di pubblicarli su Internet a meno che non venga pagata una somma di denaro. In Italia stiamo venendo a conoscenza del fenomeno in tutte le sue sfaccettature solo da qualche anno: si riscontrano casi in cui alcuni ragazzi si spogliano in webcam o mandano video o immagini ad alcuni coetanei, al fine di avere in cambio

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altre immagini o video, sempre a sfondo sessuale, invece poi quelle immagini vengono utilizzate per ricattare la vittima ed estorcere così denaro. Sempre tra gli adolescenti, può avvenire che, dopo una relazione, uno dei due partner minacci di diffondere pubblicamente ad amici o sulla rete il materiale sexy che la vittima stessa aveva inviato in precedenza, per vendicarsi della rottura della storia, per estorcere denaro o per infangare la figura dell’ex. Questo perché gli adolescenti si scambiano foto come prova d’amore o per tenere viva la sessualità nella coppia,


non consci del pericolo insito nell’inviare ad un’altra persona immagini riguardanti la propria intimità e il proprio corpo. Oppure – e qui diventa ancora più pericoloso – è possibile imbattersi in casi in cui queste immagini di minorenni nudi o in atteggiamenti provocanti vengono intercettate da sex offender e trasmesse direttamente nel mercato pedopornografico. Al centro di questo reato si trova sempre l’intreccio tra cybersecurity e coercizione sessuale. Il problema di questo nuovo crimine sessuale dell’era digitale, alimentato da connessioni Internet onnipresenti e da un utilizzo sfrenato delle webcam, è il fatto che sia quasi interamente non studiato. Tale materia manca di una letteratura accademica. A parte rarissimi articoli scientifici che hanno dedicato energie significative al problema nel corso del tempo, e alcuni giornalisti che hanno trattato singoli fatti di cronaca, il fenomeno è stato in gran parte ignorato. Non ci sono ricerche complete che esaminano le domande più basilari che circoscrivono il problema: quanto sono comuni questi casi? Quali sono gli elementi chiave che li caratterizzano? Le nostre leggi sono adeguate ai fini delle indagini e del perseguimento di tale crimine?

La sextortion è purtroppo sorprendentemente comune. Il fenomeno si è manifestato inizialmente negli USA a partire dal 2010, per poi diventare pratica diffusa anche in Italia. Le denunce alla Polizia postale, infatti, sono passate da 400 nel 2013 a 1.700 nel 2015. Un aumento esponenziale. Le maggiori vittime sono i minori, principalmente di sesso femminile, ma aumentano anche di sesso maschile;

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la maggior parte sceglie di rimanere anonima e di non denunciare a causa della vergogna. Ma riportare quanto successo è il primo passo per cercare di risolvere la situazione e non trovarsi in un qualcosa di più grande e rischioso, difficile da gestire da soli, senza l’aiuto della famiglia e di esperti. Anche se a livello pratico è abbastanza semplice da descrivere, giuridicamente parlando, invece, sia a livello internazionale che nazionale, non esiste il reato di sextortion. Tale parola è uno

Esempio di chat con webcam

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slang utilizzato dalla pubblica accusa per delineare una serie di condotte criminali che in realtà non corrispondono esattamente ad un unico reato. Infatti, i casi di sextortion vengono perseguiti in base agli articoli di legge che puniscono la pedopornografia, altre volte le intrusioni informatiche, lo stalking o le estorsioni. Il termine, dato il recente sviluppo legato all’uso delle nuove tecnologie e i rischi connessi, manca, perciò, di una precisa e necessaria formulazione e regolamentazione legislativa.



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La lista dei “furbetti” che approfittano d acquisito nel 1992 da chi è affetto da d

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di un diritto disabilità

La Legge 104/92 dà diritto a permessi retribuiti per i quali il datore di lavoro può anche richiedere una programmazione preventiva. Entriamo nel dettaglio spiegando meglio di che cosa si tratta. Un lavoratore maggiorenne disabile in qualsiasi mese può usufruire di permessi retribuiti, i quali possono essere di due tipi: orari (due ore al giorno) oppure giornalieri (tre giorni nel mese, in maniera continuativa o frazionata). Possono comunque beneficiare del medesimo permesso anche lavoratori che hanno un familiare disabile a carico. Questa importantissima norma è stata pensata per garantire un minimo di assistenza a chi ha reale bisogno. Purtroppo come spesso capita anche in questi casi ci sono i cosiddetti “furbetti”, che usano (anzi, abusano) di una legge che tutela la fascia più debole della popolazione. Secondo un’attenta analisi

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e osservando le statistiche del M.I.U.R. (Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca) è emerso che il 13% degli insegnanti della scuola pubblica italiana si avvale della Legge 104 contro una media dell’1,5% dei dipendenti di aziende private. Questa notizia ha non poco insospettito i dirigenti, che hanno fatto partire controlli e verifiche. Per esempio nella sola Agrigento ben il 42% degli insegnanti ne usufruiva e così molti di questi alla fine, sono stati revocati. Il M.I.U.R. ha preparato un dettagliato elenco indicando regione per regione le varie percentuali e da qui si evince una diversità sostanziale tra il Nord, il Centro e il Sud dove quasi un insegnante su cinque usufruisce della Legge 104/92, ad eccezione del Piemonte dove invece questa Legge viene utilizzata poco e

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Il ministro dell’Istruzione, Stefania Giannini

niente. Il sottosegretario all’Istruzione Davide Faraone è stato molto duro in riferimento al rilascio delle certificazioni, così come ha detto durante un convegno: «I dati giunti al Governo sono allarmanti e sono rimasto scioccato su come è stato utilizzato lo strumento della 104». In particolare ha continuato dicendo: «È uno strumento di civiltà e di democrazia, ma quando ti capita che un terzo del personale scolastico ha la 104 […] storture come questa vanno assolutamente


corrette». Se da un lato è giusto che se si è disabile o si assiste un disabile si possa usufruire della Legge, dato che è nata proprio per questo motivo, dall’altro è corretto verificare i casi anomali per tutelare chi è in regola. È assurdo comunque che un diritto acquisito con fatica venga vanificato per colpa di persone senza scrupoli, che utilizzano permessi a loro non dovuti e si

debba così intervenire anche con sanzioni disciplinari e nei casi più gravi con il licenziamento. Il popolo dei cosiddetti “furbetti” è sempre all’erta. Speriamo solo che nel fare le verifiche non ci siano equivoci o incidenti tali che mettano a rischio il posto di lavoro di disabili veri, oppure di chi ha acquisto un diritto reale perché accudisce un familiare malato grave.

Roma, sede del M.I.U.R.

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