Cronaca&Dossier_N.9

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indice

del mese

4. Inchiesta del mese

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ARGO 16 E LA MANO DEI SERVIZI SEGRETI STRANIERI

8. Inchiesta del mese

STRAGE DI BOLOGNA: COSA ANCORA NON SAPPIAMO?

12. Inchiesta del mese

IL “LODO MORO” E QUELL'INDAGINE DA NON ARCHIVIARE

18. Sulla scena del crimine

QUELL'INTRECCIO TRA VATICANO, 'NDRANGHETA E MALAFFARE

24. Sulla scena del crimine

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L'IPOTESI DEL “TERZO UOMO” NEL DELITTO DI VEROLI

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30. Sulla scena del crimine

UNA STORIA MORBOSA DI SESSO E UN SUICIDIO ANOMALO

34. Stay behind

QUELLA STRUTTURA SEGRETA DELLA NATO E LA SPINOSA QUESTIONE DEI REDUCI

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38. Criminalistica

«ECCO COME CATTURAMMO GLI UOMINI DELLA “UNO BIANCA”»

44. Memorabili canaglie

L'INSOSPETTABILE PENSIONATO ACCUSATO DI ESSERE IL MOSTRO

48. Dossier da collezione

IL CASO EDOARDO AGNELLI E QUELL'EREDITÀ A RISCHIO

52. Dossier società

ADDIO VECCHIA FIAT

56. Storie di tutti i giorni

TRADITI E LASCIATI SOLI

60. Diritti e minori

QUEI MINORENNI PERDUTI NELLE CARCERI ITALIANE

64. Media crime

LIBRO, FILM, PROGRAMMA RADIO E TV CONSIGLIATI

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ANNO 1 - N.9 NOVEMBRE 2014

Rivista On-line Gratuita -------------------------------------------

Direttore Responsabile Pasquale Ragone

Direttore Editoriale Laura Maria Gipponi

Caporedattore Alberto Bonomo

Articoli a cura di

Nicoletta Calizia, Francesca De Rinaldis, Nicola Guarneri, Antonella Marchisella, Dora Millaci, Gelsomina Napolitano, Katiuscia Pacini,Paola Pagliari, Mauro Valentini.

Direzione - Redazione - Pubblicità

Auraoffice Edizioni srl a socio unico Via Diaz, 37 - 26013 Crema (Cr) Tel. 0373 80522 - Fax 0373 254399 edizioni@auraoffice.com www.auraofficeedizioni.com

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Registrato al ROC n°: 23491

Iscrizione reg. stampa n.1/2014 Tribunale di Cremona


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Il caso del velivolo schiantatosi al suolo nel 1973

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Argo Panoptes, il gigante dai cento occhi della mitologia greca che tutto vede. Il potere inestimabile di non conoscere confini di spazio e tempo con lo sguardo. Da questa similitudine metaforica nasce il battesimo di “Argo16”. Il Douglas C-47 Dakota dell’Aeronautica Militare italiana, protagonista di “una di quelle storie lì”. Sì, una di quelle storie nebbiose, dense d’intrighi internazionali, equilibri militari, intrecci economici e politici. Il “gigante” è impiegato in delicate attività militari pianificate dai servizi segreti italiani lungo i confini del paese. È il pomeriggio del 22 novembre 1973. Argo termina il suo volo da Roma atterrando sulla pista dell’aeroporto di Venezia. Solo la sosta di una notte per ripartire poi, alle prime luci del giorno, verso la base di Aviano.

La mattina seguente alle 7:00 l’equipaggio dell’aeromobile sta già effettuando il briefing prima del decollo. Ci sono tutti: il comandante Anano Borreo, il tenente colonnello Mario Grande, i marescialli Aldo Schiavone e Francesco Bernardini. Alle 7:30 in punto Argo 16 è pronto per il decollo, si muove. Le ruote di gomma scorrono nervose sull’asfalto, prima di staccarsi dal suolo per l’ultima volta, dando inizio alla fine. Arrivato alla quota di 2.500 piedi, un’esplosione. Poi lo schianto sullo stabilimento di Montefibre di Porto Marghera a pochi chilometri dall’aeroporto. È un disastro. Si parla subito di un terribile incidente. Una disgrazia. Una di quelle che, purtroppo, possono accadere a volte nei cieli.

Parti distrutte Douglas C-47 Dakota.

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Si piangono le vittime ma c’è chi non ha solo voglia di piangere. C’è tanta voglia di capire. Capire quale mistero mai svelato si nasconda dietro i fatti di Venezia e quella pista di decollo. La miccia di un “ordigno diplomatico” potrebbe avere un collegamento con i fatti risalenti ad un mese prima della caduta di Argo 16. Si rincorrono voci su presunti interessi libici coinvolgenti uomini dei servizi segreti italiani e terroristi palestinesi. Come racconta Ambrogio Viviani, Capo controspionaggio SID dal 1970 al 1974, furono esercitate pressioni da parte dei servizi segreti israeliani affinché avvenissero operazioni “particolari” sul territorio italiano. Solo anni più tardi si saprà la natura di tali azioni e la loro rilevanza nei rapporti strategici tra Paesi, con l'Italia ad oscillare tra politiche filo-atlantiche e accordi con Paesi arabi. È sulla base delle vibranti tensioni internazionali che anche i servizi segreti italiani cominciano a subodorare che dietro il disastro dell'Argo 16 Douglas C-47 Dakota.

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potrebbe esserci altro, un attentato ad esempio. Ma è proprio in nome dei presunti interessi internazionali che tutto deve restare segreto. Nel 1973 l’Aeronautica militare italiana apre un’inchiesta, che nel 1974 viene archiviata dalla magistratura semplicemente come un incidente. Ecco poi che nei primi anni '80 riemergono notizie e testimonianze che tornano a far parlare di un concreto attacco dei Servizi di Israele. È questa la molla che, nell'estate del 1986, porta la Procura di Venezia a riaprire il caso Argo 16. Il giudice istruttore Carlo Mastelloni ha l’arduo compito di trovare elementi validi che accertino la responsabilità israeliana nell’evento. Nella perizia del '74, richiesta dall'Aeronautica, si sostiene che la caduta di Argo 16 sia stata determinata dalla mancanza di strumentazione computerizzata durante le manovre e dalla collisione di un’ala contro un palo della luce dello stabilimento limitrofo (il Montefibre); ipotesi azzardata perché il palo della luce non sarebbe


potuto rimanere integro. La tesi del giudice Mastelloni, al contrario, sostiene che l'aereo, con tutta la strumentazione attiva, avrebbe impattato sul fabbricato del Centro Meccanografico di Montefibre. L’inchiesta presenta contraddizioni e falle di notevole portata. Ad accrescere la paura del tentativo di depistaggio interno sono i servizi segreti di Roma. Su richiesta del giudice Mastelloni di visionare le carte del fascicolo su Argo 16 in loro possesso, rispondono di non averne alcuno in merito al velivolo. Come se non bastasse, nel 1988, all’ennesima richiesta di informazioni al SID da parte del Giudice istruttore, il presidente del Consiglio De Mita sigilla la questione dietro lo spettro del segreto di Stato. Solo nel 1997, 22 ufficiali dell’Aeronautica vengono considerati colpevoli di nascondere la verità tramite falsificazione e sottrazione di informazioni compromettenti. Per la strage del “gigante” verranno accusati l’allora capo del Mossad

Zvi Zamir, il referente per l’Italia Asa Leven e alcuni funzionari in stretto contatto con il SID. L’inchiesta finirà poi nel nulla nel dicembre del 1999, soffocata ufficialmente tra le maglie di una tesi che non ha mai convinto: l’errore umano.

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Strage di Bologna: cosa ancora non sappiamo? Ombre e dubbi mai fugati sui fatti del 1980

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«La rete ci ha dato la linea per dare una notizia agghiacciante: poco fa un’esplosione ha fatto crollare parte della stazione di Bologna. Ci sono morti e feriti. La deflagrazione ha fatto crollare un tratto del fabbricato lungo 50 metri che ospitava il ristorante e la sala di attesa di prima e seconda classe». Quando alle 11:55 del 2 agosto 1980 Duccio Guida, del GR1, trasmette l’edizione straordinaria il popolo dei vacanzieri si ferma attonito. Ammutolita la gente si osserva in quel sabato di bagagli, di pinne, fucili e occhiali del primo grande esodo estivo, catapultati di colpo dentro un incubo, l’ennesimo della travagliata storia della Prima Repubblica. Appena 90 minuti prima, alle 10:25, l’orologio

della Stazione Centrale del capoluogo emiliano si è fermato, cristallizzato dal boato di 50 kg di tritolo che ha spazzato via in un lampo le vite di 85 persone ferendone per sempre, nel corpo e nella mente, altre 218. Quell’estate del 1980 si trasforma nella peggiore della nostra storia, la più misteriosa e sanguinaria; Bologna chiude con il suo carico di morte quei tre mesi iniziati con l’omicidio di Mario Amato, giudice senza scorta ucciso ad una fermata del tram il 23 giugno. Quattro giorni dopo l'attentato Amato un DC-9 esplode in volo, nei cieli di Ustica, partito proprio da Bologna, mentre il 18 luglio sui prati della Sila viene rinvenuto il relitto di un Mig con la livrea dell’aviazione libica e dentro i resti di un pilota

Panoramica stazione di Bologna dopo l'esplosione.

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Soccorsi alla stazione di Bologna dopo l'esplosione.

che sembra morto settimane prima. Quasi nessuno però associa questi eventi a Bologna, alle bombe, con un Paese rassegnato alla morte come arma di dissuasione al rinnovamento sociale. Non è cosa nuova, da piazza Fontana (1969) in poi, ma stavolta qualcosa in questa vicenda non torna. Sembra un’azione militare più che un fatto di ordinaria follia eversiva. Tutti sono convinti che i mandanti e gli esecutori siano le organizzazioni neofasciste eversive. Nessun dubbio, come dichiara alla Camera il

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presidente del Consiglio Francesco Cossiga appena due giorni dopo: «È ormai chiara la matrice di destra della strage». La magistratura sta al passo e il 26 agosto emette ben 28 ordini di arresto per strage contro il gotha del terrorismo nero, tra cui Francesca Mambro e Giuseppe Valerio (Giusva) Fioravanti. Eppure qualcosa non torna. Se ne accorge anche Licio Gelli, il Gran maestro della Loggia P2. Infatti appena letta la notizia degli ordini di cattura chiama a colloquio (neanche fosse un funzionario del Ministero) il dr. Elio Cioppa,


uomo del SISMI e affiliato alla P2, a cui dice: «State sbagliando tutto. La pista è quella internazionale». Ma qual è questa pista internazionale di cui si dice sicuro uno come Licio Gelli, esperto in tema di misteri e silenzi? Si susseguono ipotesi e congetture. Si lega la bomba ad una vendetta della Libia per un accordo stretto quello stesso 2 agosto '80 tra Italia e Malta; un'intesa commerciale che di fatto affranca quest'ultima da ogni dipendenza energetica con la Libia, rendendo quindi più vulnerabile e furiosa Tripoli. Gheddafi può aver ordinato una strage contro l’Italia proprio per quel giorno? Una bomba come rappresaglia, contando sul fatto che l’Intelligence italiana si adoperasse per coprirlo, non potendo mettere a rischio gli importanti affari aperti tra Libia e Italia con ENI e FIAT, tanto per far due nomi eclatanti? Eppure gli atti processuali continuano ad aver gli stessi nomi iscritti nel registro degli indagati. Per la precisione si tratta di Francesca Mambro, Giuseppe Valerio (Giusva) Fioravanti, Massimiliano Fachini e Sergio Picciafuoco. Il processo inizia nel 1987 e si conclude sostanzialmente dopo dieci anni, anche se varie sentenze su altri imputati saranno emesse fino al 2007. Un pregiudicato vicino al terrorismo nero, Massimo Sparti, racconterà che Fioravanti e Mambro si erano vantati giorni dopo del “gran botto” che avevano fatto a Bologna. La sua testimonianza piena di contraddizioni sarà ritenuta credibile; Sparti uscirà l’anno dopo di prigione perché malato gravemente eppure vivrà

altri 20 anni. Il figlio di Sparti dirà dopo la morte del padre: «Mio padre si è sempre vantato di avere le lastre di un'altra persona, relative a una malattia che in realtà lui non aveva». Per Giusva Fioravanti e Francesca Mambro arrivano le condanne in qualità di esecutori materiali (con l'ausilio di Luigi Ciavardini), mentre Licio Gelli e i funzionari del SISMI (Pazienza, Musumeci e Belmonte) sono condannati per depistaggio avendo favorito la pista internazionale per coprire quella interna. Fachini e Picciafuoco ne escono assolti. Per la Corte quella è una bomba come le altre, la prosecuzione della cosiddetta “Strategia della tensione”. Una delle tante. Francesco Cossiga.

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Il “ lodo Moro ” e quell'indagine da non archiviare 1973 -1980: il sangue innocente versato e gli indizi che portano oltre i confini nazionali

Esiste un filo che lega le tante, troppe stragi in Italia? Le verità processuali sembrano allontanare l'idea di un continuum, tralasciando forse elementi basilari per giungere alla verità. Sono finiti in carcere neofascisti, presunti depistatori e colpevoli, eppure non si ha mai la sensazione di essere prossimi all'esatta dinamica dei fatti trattati. Le varie piste interne, ovvero la ricerca dei responsabili delle stragi nel terrorismo nostrano, appaiono spesso lacunose, incomplete, insoddisfacenti. La strage di Bologna, ad esempio, si nutre ancora di dubbi nonostante i presunti assassini siano stati individuati e puniti con il carcere; nel caso “Argo 16” invece l'errore umano è un fardello difficilmente spiegabile alla luce delle opportune riflessioni del Giudice che si Aldo Moro nei giorni del sequestro.

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prigionia. Nel 2008 è addirittura l'allora presidente della Repubblica Francesco Le risposte alle stragi si Cossiga a parlarne, dunque dandovi tutti i troverebbero infatti negli crismi dell'ufficialità. Come spiega Giovanni accordi internazionali stretti Pellegrino, presidente della Commissione dall'Italia. Su tutti, il più Stragi dal 1994 al 2001: «Quel patto viene importante che ha influito in stipulato nell'autunno del 1973 durante modo rilevante nella nostra la Guerra del Kippur, tra il Ministero degli storia repubblicana è il Esteri italiano [Aldo Moro, ndr] e l'OLP [di cosiddetto “lodo Moro”, quel Yasser Harafat, ndr]. Il Patto prevedeva che che potremmo indicare come l'OLP non avrebbe compiuto attentati sul il vero patto segreto in grado suolo nazionale e noi avremmo consentito di spiegare anomalie, silenzi e la liberazione di guerriglieri palestinesi che indagini insabbiate. venivano catturati sul suolo nazionale». Una storia controversa, quella del lodo Moro, in linea con il periodo in cui è partorito. Solo un occupò dell'indagine. Non è allora casuale la anno prima della stipula, nel 1972, si erano recente notizia della possibile archiviazione, susseguiti attentati, dirottamenti aerei e stragi da parte della Procura di Bologna, della pista condotte dai palestinesi di George Habbash. che vedrebbe nel terrorismo internazionale Era stata l'Europa a pagarne il conto. il responsabile della bomba esplosa alla Il caso “Argo 16”, ad esempio, andrebbe stazione di Bologna. L'archiviazione sarebbe letto alla luce di quel patto segreto, fra gli l'ennesimo fallimento investigativo, figlio di interessi incrociati dei servizi segreti israeliani una logica che non guarda adeguatamente (Mossad) e libici, contrari alla linea morbida a quegli elementi storico-politici che hanno dell'Italia nei confronti di cinque terroristi arabi caratterizzato il nostro paese e che solo da fermati a Ostia il 5 settembre 1973, intenti alla alcuni anni iniziano ad acquisire il peso che gli preparazione di un attentato contro l'aereo spetta. israeliano della “EL AL” a Fiumicino. Sono Per nascondere cosa? Verosimilmente le gli stessi uomini del Mossad ad avvisare del responsabilità dei servizi segreti stranieri pericolo imminente, obbligando di fatto i servizi nell'organizzazione e nell'attuazione di alcuni segreti nostrani ad intervenire. Il 17 novembre attentati sanguinari avvenuti in Italia. per i cinque arabi la condanna è il carcere, Alla base delle bombe ci sarebbe la volontà ma dura poco. La pena è subito commutata di contrastare gli accordi del “lodo Moro”, in cauzione e di fatto riescono a farla franca, stretti dal Governo italiano con i paesi arabi, rilasciati dalle autorità. dispensando a quest'ultimi un trattamento di favore al fine di evitare che il conflitto israelopalestinese coinvolgesse anche l'Italia. Fili molto sottili legano quest'ultima vicenda L'esistenza del lodo Moro è già nota sin dal alla strage di Bologna del 1980. Ancora una 1978, quando lo stesso Moro vi fa riferimento volta il terrorismo che viene dai paesi arabi, nelle lettere scritte durante i 55 giorni di stavolta mischiato al terrorismo internazionale

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Si concretizza così il lodo Moro. Solo due dei cinque arabi finiscono nelle mani della Libia, costretta ad accontentarsi del magro “bottino”. Ad accompagnarli in Libia, passando per Malta, è proprio l'aereo Argo 16. Dalla sentenza e dal rilascio della maggior parte dei terroristi passano solo cinque giorni: poi avviene lo schianto del velivolo.

di matrice filo-palestinese. L'ultima inchiesta della Procura di Bologna si è incentrata sulle presunte responsabilità di Thomas Kram e Christa Fröhlich, dell'estrema sinistra tedesca, presenti a Bologna il 2 agosto e sospettati di avere avuto un ruolo nel trasporto di esplosivo da utilizzare per attentati in Europa. Dietro l'operazione vi sarebbe stata l'ombra di Carlos “lo Sciacallo”, com'è stato ribattezzato, terrorista di fama internazionale al quale Kram e Fröhlich erano legati. Pochi mesi prima della Strage, nel marzo del 1980, il SISMI aveva già segnalato che in Italia c'era il forte rischio di un'operazione di Carlos commissionatagli dal FPLP (Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina). Nonostante vari indizi quanto meno riconducibili a strani movimenti a Bologna di

Francesco Cossiga durante la presidenza della Repubblica.

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uomini appartenenti al terrorismo internazionale filo-arabo, le recenti indagini della Procura non hanno avuto alcuno sbocco utile, decretando l'ennesimo fallimento investigativo. Se da una parte appare improbabile che gli uomini di Carlos possano avere compiuto l'attentato dinamitardo, proprio in virtù del lodo Moro, dall'altra quella del neofascismo è una pista ancora troppo debole nonostante il terzo grado di giudizio e la sempre dichiarata innocenza professata dai condannati.

Non resta quindi che cercare altrove le responsabilità. E forse la verità è una via di mezzo. L'ipotesi più consistente è che dietro la strage di Bologna possa esservi l'ombra dei nemici giurati dei palestinesi, determinati sia a far saltare l'operazione fra FPLP e Carlos sia a lanciare l'ennesimo monito all'Italia affinché fossero abbandonate le protezioni stabilite dal lodo Moro. Così come per i fatti di Argo 16, allo stesso modo la strage di Bologna potrebbe avere oltre i confini nazionali i veri responsabili, addirittura fra i servizi segreti stranieri avversi alle politiche filo-arabe dell'Italia. Tutto ciò ben spiegherebbe i silenzi forzati, gli insabbiamenti e i depistaggi investigativi ai quali il nostro paese ha dovuto assistere inerme per decenni, nel nome di rapporti economici e di alleanze internazionali da preservare. Oggi però

L'ex leader libico, colonnello Gheddafi.

molti protagonisti di quella stagione di sangue sono morti e gli equilibri internazionali stanno via via modificandosi. Potrebbe forse realizzarsi quel cambio di passo al quale sono chiamate le Procure competenti territorialmente; una sorta di coraggio da recuperare. Invece di quelle vicende restano ancora i dubbi e un'indagine che va verso un'archiviazione che sembrerebbe avere l'amaro retrogusto di un'occasione perduta, con la sensazione di essere sempre lontani dalla verità, parola anch'essa troppo spesso distrattamente depositata sullo scaffale degli oggetti smarriti.

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Quell'intreccio tra

Vaticano, 'Ndrangheta e malaffare Un prete intercettato, mandanti, esecutori e potenti che ostacolano le indagini

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L’uccisione a Taurianova nel 2009 di Francesco Inzitari, 18 anni, figlio di Pasquale Inzitari, ha assunto sin da subito contorni assai complessi. Molti personaggi gravitano intorno a questa morte, ancora senza colpevole, a partire dal padre della vittima Pasquale Inzitari (ex esponente dell’Udc), arrestato e condannato per concorso esterno in associazione mafiosa, cognato di Nino Princi, imprenditore morto nel maggio del 2008 in seguito all’esplosione della sua auto. Princi, a sua volta, genero del boss della 'Ndrangheta Domenico Rugolo. Oggi spuntano anche le ombre del Vaticano e dei Servizi segreti grazie ad alcune intercettazioni. Il giovane Francesco già nel 2006 era stato accoltellato da un altro minorenne, imparentato con il presunto boss Teodoro Crea, in pieno centro paese, in circostanze che l'allora procuratore di Reggio Calabria, Giuseppe Pignatone, aveva definito «molto poco chiare». Teodoro Crea, 69 anni, era stato arrestato pochi giorni Prefettura di Reggio Calabria.

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Panoramica di Reggio Calabria.

prima, il 3 luglio, dopo una latitanza durata una decina d'anni. Crea era stato poi successivamente catturato mentre era in compagnia di Domenico Rugolo, 63 anni, suocero di Nino Princi, anch’egli sospettato di essere un boss della 'Ndrangheta. Nel 2009, invece, il figlio di Pasquale Inzitari viene raggiunto da numerosi colpi di pistola calibro 9 scendendo dalla propria auto mentre si recava in un locale per partecipare ad una festa di compleanno: il tipico proiettile da esecuzione di matrice mafiosa. Nessun testimone, ma nomi che

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ricorrono. Inzitari padre era stato arrestato una prima volta, proprio insieme al presunto boss Domenico Rugolo, nel 2008 quando era un esponente politico dell'Udc; poi ancora nel 2011 per scontare un residuo pena di 9 mesi di reclusione, essendo diventata definitiva la condanna a tre anni e quattro mesi di reclusione inflittagli dalla Corte d'Appello di Reggio Calabria. Infine, e siamo ad ottobre 2013, la DIA di Reggio Calabria gli ha confiscato beni per 60 milioni di euro, ritenuto dalla DDA imprenditore di riferimento delle cosche della piana di Gioia Tauro, nell’ambito


dell’“Operazione Saline" ed in particolare in relazione alla vicenda legata alla costruzione del mega centro commerciale il "Porto degli Ulivi", ubicato nel Comune di Rizziconi, realizzato dalla società Devin S.p.a. e di cui Inzitari era il dominus. Pasquale Inzitari, secondo l'accusa, sarebbe la mente imprenditoriale. Approfittando del proprio ruolo di vice sindaco ed assessore, attraverso il Consiglio comunale di Rizziconi avrebbe deliberato il cambio di destinazione d'uso dei terreni su cui sarebbe poi sorto il centro commerciale, area già acquistata a prezzo agricolo dal prestanome della cosca

Crea. I terreni sono passati quindi alla società Devin S.p.a., di cui Inzitari era socio, che vi ha costruito il "Porto degli Ulivi". È a questo punto dell'intreccio che si inseriscono anche il Vaticano e lo Stato. Infatti, tra le numerose intercettazioni effettuate per cercare di far luce sulla morte di Francesco, ne spicca una a Don Francone, prete nella parrocchia di Rizziconi. In una conversazione al cellulare il prete afferma di «conoscere sia l’esecutore che i mandanti». E in un’altra successiva, fatta con la Segreteria di Stato del Vaticano, con i servizi segreti e tale «monsignore Lo Giudice», rivela che potrebbe

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Crimine ai Raggi X a cura di Alberto Bonomo

esserci un “potente” che interferisce con le indagini. In tutto ciò si inserisce pure un'accorata lettera aperta, indirizzata circa un anno fa alle più alte cariche dello Stato, da parte dei 68 dipendenti della Nifral Sviluppo (al cui vertice c’è Maria Princi), una delle società finite nell’“Operazione Saline”. «Si può giudicare ed emettere una sentenza sulla base di concetti meramente personali - si chiedono polemicamente i dipendenti quasi dettati da un sentimento di invidia, da un desiderio di vedere il lento logorio di queste persone arse dal dolore e dalle frustrazioni personali? Può essere un’accusa quella di aver creato delle opportunità di lavoro e un futuro di certezze a tanta gente del luogo? Avere idee innovative per togliere questa ridicola etichetta di arretratezza della nostra terra? È un’accusa avere tutte queste idee per il solo fine di dare un futuro ai propri figli? Come fa la gente a non aver timore di collaborare? E questa la chiamate Giustizia?». Polemiche, intercettazioni, malaffare, poteri forti: in questa storia sembra esserci di tutto. Dietro l’uccisione di Francesco ci sarebbe in realtà una vendetta, una punizione di sangue del clan Crea nei confronti di Pasquale Inzitari che, con il cognato Nino Princi, avrebbe fatto sapere alla Polizia come catturare Teodoro Crea. La famiglia Crea dispone di relazioni romane molto forti, anche tra uomini dello Stato. Partono da qui i timori del prete e il susseguirsi di misteri attorno alla vicenda.

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Hanno suscitato grande scalpore le parole di Nicola Gratteri, procuratore aggiunto di Reggio Calabria. Pare che nel rapporto tra 'Ndrangheta e Chiesa si possano individuare diverse fasi: la prima è cronologicamente identificabile con la proclamazione del Regno d'Italia. In quel periodo la 'Ndrangheta è già oggetto di inchieste per reati di «associazione di malfattori» previsti nel codice sardo-italiano. Ad esempio, nel 1869 il Comune di Reggio Calabria viene sciolto per infiltrazioni mafiose e al contempo la Chiesa non riconosce il Regno d'Italia, perdendo di fatto il potere temporale dopo Porta Pia. La fase successiva coincide con il progetto di legge grazie al quale vengono fatti rientrare «gli americani», definiti anche «gli indesiderati», precedentemente emigrati. Da quel momento comincia uno strano susseguirsi di eventi di contaminazione. Tanto che i gangster iniziano ad organizzare feste patronali, a ristrutturare chiese, a farsi vedere pubblicamente accanto ai preti, con il chiaro intento di “sgraffignare” consenso sul territorio. Nel 1894 viene addirittura istituito il raduno al santuario della Madonna Polsi. Un evento in cui uomini di Chiesa ed esponenti della malavita si incontrano per tessere rapporti amicali. A quanto pare i preti erano un biglietto da visita per i mafiosi.


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L'ipotesi del “terzo uomo” nel delitto Di Veroli Nel libro “40 passi” nuovi retroscena sulle indagini e l'ipotesi della pista passionale Il caso di Antonella Di Veroli ha suscitato molto scalpore quando il 12 aprile 1994 viene ritrovato il cadavere della donna, commercialista di 47 anni, all'interno di un armadio sigillato con cura dall'assassino nell'appartamento della vittima, a Roma. Per compiere il delitto l'assassino le spara contro due colpi di pistola di un'arma calibro 6.35, mai ritrovata, ferendola gravemente; poi la chiude nell'armadio con un sacchetto di plastica in testa, uccidendola dunque per asfissia. Quando muore, la Di Veroli è avvolta in lenzuola e coperte, indossando soltanto un pigiama azzurro. Cronaca&Dossier intervista Mauro Valentini, autore del libro “40 passi. L'omicidio di Antonella Di Veroli” (Sovera Edizioni, 2014), per raccontare le pieghe di questa complessa vicenda, ad oggi annoverata fra i delitti irrisolti. Mauro Valentini.

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Come ogni giallo che si rispetti, anche questa storia inizia con indagini fatte male. Può spiegarci perché? «Partiamo dalla più clamorosa. Durante l'autopsia non vengono prese le impronte digitali della vittima. È già questo un primo elemento importante perché non è stato possibile distinguere, sin dall'inizio, le impronte appartenenti alla Di Veroli presenti sulla scena del crimine. Inoltre, sull'anta dell'armadio gli inquirenti trovano i segni di stucco, usato per sigillare le ante, e una macchia di sangue con

un'impronta di scarpa. Ebbene, quest'anta non viene repertata ma è solo fotografata. Eppure, nei giorni successivi gli inquirenti perquisiscono casa di Vittorio Biffani, prima sospettato e poi indagato, e sequestrano le scarpe. Ma qui avviene un altro clamoroso errore. Non notano una cassaforte; torneranno poi una seconda volta ma la sequesteranno senza usare i guanti. Un particolare non da poco visto che in quella cassaforte troveranno Residui dello sparo (RDS). Ma il mancato utilizzo dei guanti da parte dei Carabinieri finisce per inficiare il possibile indizio».

Analisi impronte digitali.

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che ha il porto d'armi e che era stato al poligono di tiro pochi giorni prima del delitto. Biffani invece non ha in quel momento alcun alibi convincente. Tanto più se si considera che lo sparo è avvenuto contro la Di Veroli utilizzando un cuscino per attutire il rumore, perciò proprio la mano sinistra dell'assassino sarebbe stata maggiormente coinvolta dai residui».

E qui c'è una sorpresa che ovviamente in questa sede non sveliamo.

Antonella Di Veroli.

Infatti nel libro si pone molto l'accento sulla prova dello Stub, ritenuta uno dei punti centrali di questa vicenda. Perché? «All'esame dello Stub ho dedicato un capitolo a parte nel libro. Ad entrambi i principali sospettati, Vittorio Biffani (fotografo) e Umberto Nardinocchi (commercialista che lavora con la Di Veroli), è stata eseguita la prova e sono risultati positivi. Il primo risulta positivo alla mano sinistra, mentre il secondo lo è alla spalla destra».

Eppure, la positività al test non è stata sufficiente a trovare l'assassino. «Infatti Nardinocchi spiega ai Carabinieri

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«Esatto. Nelle carte processuali che ho consultato c'è un vero e proprio colpo di scena che stravolge completamente le convinzioni della prima ora. Ha a che fare proprio con la prova dello Stub compiuta sui due imputati».

Però nel 1995 al processo finiscono Vittorio Biffani e la moglie, Alessandra Sarrocco, quest'ultima accusata di tentata estorsione e minaccia nei confronti della Di Veroli. «Alla base del rapporto complicato tra Biffani e Di Veroli vi è un debito non saldato. Antonella aveva prestato all'uomo circa 42 milioni di lire, mai restituiti, utilizzando quella circostanza per riavvicinare Biffani a sé. L'ipotesi sostenuta al processo è che Biffani avesse ucciso Antonella con la collaborazione della moglie».


Polvere di antimonio, una delle tre componenti dei RDS.

Invece nel 1997 e nel 1999, rispettivamente in primo e secondo grado, entrambi sono assolti... «Infatti non si trovano prove sufficienti a sostenere l'accusa».

Soffermiamoci proprio sulla figura di Biffani. Sappiamo che disponeva del NOS (Nullaosta sicurezza), concesso dai servizi segreti. Ciò ha destato molti sospetti. «Ho analizzato con attenzione la vicenda di Biffani e sono arrivato alla conclusione che in realtà lui non c'entri con la morte della Di Veroli. Anzi, da questa vicenda ne esce molto danneggiato anche economicamente. Dal

giorno in cui sui giornali compare la sua foto a tutta pagina per lui inizia un lento calvario. Sulla questione del NOS ho compiuto approfondite ricerche e, in realtà, non deve stupire che Biffani disponesse di tale permesso. In quanto fotografo talvolta aveva bisogno di permessi speciali per portare a termine il proprio lavoro. Dunque nessun mistero».

Tornando agli errori investigativi, crede possa esserci stato dolo da parte degli inquirenti? «No, a mio modo di vedere si è trattato soltanto di errori».

Nel libro si nota il desiderio di riscattare la figura della vittima. È così? «L'idea centrale è parlare di Antonella

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di

agone

ale R Pasqu

Di Veroli e di tutto il mondo che le girava intorno e non certo per amore di gossip. L'obiettivo del mio lavoro è metaforicamente ritirar fuori dall'armadio questa storia, per ridare alla vittima una dignità che penso sia andata perduta».

Crimine ai Raggi X a cura di Alberto Bonomo

Perché afferma questo?

«Perché dopo la morte di Antonella se ne sono dette di tutti i colori. Addirittura ad un certo punto anche la stessa bellezza di Antonella è stata messa in discussione, di fatto dando un'immagine di lei che non corrisponde alla realtà».

Ritornando per un attimo sulla scena del crimine, pensa che l'omicidio sia stato eseguito da almeno due persone? «No, secondo me ha agito una sola persona e per ragioni passionali».

Ha un'idea precisa su chi possa essere stato?

«Credo vi fosse un terzo uomo nella vita di Antonella; un uomo che quest'ultima aveva conosciuto forse solo di recente e per questo motivo nessuno era a conoscenza del loro rapporto. Potrebbe essere stato proprio il “terzo uomo” a ucciderla per motivi passionali. Dunque una presunta verità semplice alla base ma che, come purtroppo spesso accade, le iniziali indagini degli inquirenti fatte male hanno irrimediabilmente complicato».

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Successivamente all’esplosione di un colpo di arma da fuoco si realizza, intorno all’arma stessa, una nube costituita dai gas di propulsione. Questa nube è accompagnata sia dai residui combusti che non combusti delle cariche di lancio, nonché da altri residui di Bario, Antimonio e Piombo. Queste sostanze sono altamente volatili e, con ogni probabilità, sono capaci di disperdersi e scomparire già dopo il primo lavaggio, specie se eseguito con sostanze detergenti. Per tali motivi la procedura iniziale di prelievo dei residui da sparo è condotta mediante uno speciale tampone adesivo detto STUB (o tampone a freddo), costituito da un cilindro chiuso da due tappi (uno per la mano destra e l’altro per la sinistra) sui quali sono inseriti due portacampione in alluminio ricoperti da uno speciale nastro adesivo. Il prelievo delle particelle si effettua premendo ripetutamente il tampone nelle zone delle mani maggiormente esposte al deposito dei Residui da sparo (RDS) dette “zone elettive”, quali la superficie dorsale dell’indice e del pollice. L’analisi successiva, tendente a rilevare la presenza di RDS, comprende l’osservazione al microscopio elettronico a scansione (SEM) e l’analisi con microsonda a raggi x (EDX).


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uscia di Kati

Pacini

Una storia morbosa di sesso e un suicidio anomalo Dall’autopsia la possibile soluzione alla misteriosa morte di Giampiero Miglietta a pochi giorni dal processo

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Il giorno del compleanno è un giorno importante per la vita di ogni uomo. È un giorno in cui ognuno di noi, voltandosi indietro e guardando al passato, tira le fila della propria esistenza. Anche Giampiero Miglietta deve averlo fatto tanto che, proprio nel giorno del suo compleanno, dopo essere stato lasciato dalla fidanzata, si è impiccato nel carcere dove era rinchiuso con l’accusa di aver sparato, il 18 novembre 2013, insieme al cognato Tommy Maida, al commerciante ittico Vincenzo Del Prete a Borgo Hermada. Semplice suicidio o un omicidio ben architettato? Questa è la domanda che ronza in testa ai familiari del giovane, i quali sostengono con forza la seconda ipotesi poiché Giampiero aveva un problema di mobilità, sia al braccio che alla mano destra, che gli avrebbe reso impossibile tale disperato gesto. Questa è anche la tesi difensiva dell’avvocato di Miglietta, Maria Antonietta Castra, che sostiene che il proprio assistito non sarebbe stato in grado di sparare alla vittima proprio a causa dell’inabilità dell’arto. Ma che tipo di uomo era Giampiero? Un uomo fragile, specialmente da un punto di vista affettivo, che più volte aveva manifestato ad alcuni familiari il desiderio di farla finita tramite l’uso del veleno. Un uomo così fragile sentimentalmente che decide di attuare i suoi piani dopo avere ricevuto dalla fidanzata una lettera nella quale quest'ultima esprime l'intenzione di mettere fine alla loro relazione. E se il fil rouge di questa complicata vicenda si trovasse proprio all’interno di questa relazione? Due donne, due sorelle, che condividono il letto con lo stesso uomo, prima l’una e poi l’altra; una bambina, figlia di Miglietta e di una delle due sorelle, ora attuale compagna di Tommy Maida; una Lancia Y scura, auto usata per i sopralluoghi e per l’omicidio di Del Prete. Sono

questi alcuni dei nodi investigativi sui quali dovrebbe concentrarsi la Procura di Latina per analizzare a fondo e trovare le risposte sia sulla morte di Miglietta che sul suo coinvolgimento nell’omicidio a lui imputato. Coinvolgimento nel quale tornano in prima linea sia la madre della bambina di Miglietta e sia il suo attuale compagno, Tommy Maida, i quali hanno coinvolto con le loro dichiarazioni Giampiero nell’omicidio di Del Prete. Infatti solo il Maida ha ammesso di aver partecipato al delitto, fornendo molti dettagli sullo stesso, mentre il Miglietta si è sempre avvalso, durante gli interrogatori, della facoltà di non rispondere, dichiarando un alibi che però la Procura di Latina giudica falso. La compagna di Maida, ed ex di Miglietta, confidò agli investigatori, quando la Procura arrivò a lei grazie ad una segnalazione di un vicino di casa di Del Prete, che l’omicida di Del Prete sarebbe stato proprio Giampiero.

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articolo

uscia di Kati

Pacini

Crimine ai Raggi X a cura di Alberto Bonomo

Il vicino di casa riferì agli inquirenti di avere notato nella zona, due giorni prima del delitto, due uomini a bordo di una Lancia Y scura, auto di proprietà della compagna di Maida e in uso a quest’ultimo come dichiarato, in seguito, da Giampiero Miglietta. Interessante sarebbe anche approfondire sia il rapporto sentimentale che legava Giampiero alla sua attuale fidanzata e il silenzio di lei dopo le accuse mosse dalla sorella e dal cognato al suo compagno, sia i legami familiari all’interno di questa “famiglia allargata”. Così come andrebbero approfonditi la presenza di polvere da sparo sulle mani di Miglietta per l’omicidio di Del Prete e, per fugare ogni dubbio sulla sua morte, le impronte digitali presenti nella cella e sul lenzuolo che avvolgeva il collo di Giampiero e tutta la sua corrispondenza, sia quella inviata che quella ricevuta. Intanto per gli investigatori Giampiero si è suicidato e il suo cadavere è stato ufficialmente ritrovato, il 16 ottobre, dal suo compagno di cella al ritorno dall’infermeria, dove si era recato per farsi medicare una ferita. Il referto dell’autopsia, disposta dal pm Eleonora Tortora, ed eseguita lunedì 20 ottobre dal medico legale Gianluca Marella, potrebbe iniziare a chiarire qualche dubbio sull’intera vicenda, ma non su un dettaglio che manca. Dov’è la lettera di addio di Giampiero?

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Secondo alcuni dati allarmanti nel 2014 è aumentato il numero di suicidi nelle nostre carceri. Emilio Sacchetti, presidente della Società italiana di psichiatria, ritiene di vitale importanza effettuare controlli ancora prima che il detenuto entri in cella, in modo da scongiurare il gesto. Gli studi rivelano che 10.000 detenuti (16% della popolazione carceraria) soffrono di disturbi psichici. Il 40% dei decessi avvenuti dietro le sbarre è rappresentato da atti anticonservatori. Le patologie più diffuse sono i disturbi psicotici, la depressione, i disturbi di personalità. Il problema, a quanto riferisce il Dott. Sacchetti, si verifica in modo così massiccio poiché ad oggi non è stato ancora realizzato un vero censimento sulla presenza di soggetti con problemi psichiatrici all’interno delle carceri italiane. Le conseguenze vanno ovviamente a riflettersi sulla pianificazione dell’assistenza al detenuto. Da non sottovalutare l’aspetto formativo di chi opera all’intero degli istituti. Le carceri sono colme di giovani psichiatri che, seppur volenterosi, non sono provvisti di quel bagaglio professionale specifico per operare in contesti particolari come i penitenziari. Servirebbero quanto meno percorsi formativi mirati.


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uale di Pasq

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Ragon

Ecco come

« catturammo gli uomini della “Uno bianca”» L'importanza della conoscenza pratica delle armi nelle indagini forensi

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Prof. Martino Farneti.

L'importanza delle Scienze forensi è fin troppo evidente nelle dinamiche investigative. È per questo motivo che Cronaca&Dossier ha scelto di offrire ai propri lettori la rubrica “Criminalistica” grazie alla collaborazione del prof. Martino Farneti, direttore del corso pratico “Esperto in Balistica Forense e Scena del Crimine”, partendo dallo studio delle tracce per risolvere un crimine. Quella d'Italia è una storia ricca di episodi e di vicende che spesso diventano casi di studio per giovani studenti. È quanto accade per la famigerata storia della banda della “Uno bianca”, quando tra il 1987 e il 1994 in Emilia Romagna vi furono 23 omicidi commessi

dai fratelli Roberto, Fabio e Alberto Savi affiancati, in alcune delle azioni criminali, dai colleghi Pietro Gugliotta, Marino Occhipinti e Luca Vallicelli. Le vittime appartenevano ad estrazioni sociali le più diverse, quanto basta per spargere il terrore ovunque.

Cartucce .38, alias calibro 9 mm nella misurazione europea.

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uale di Pasq

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Ragon

Modello Fiat Uno.

Sin dai primi delitti la Polizia Scientifica di Roma fu interessata del caso, chiamata ad affiancare gli inquirenti emiliani, ben prima che nel 1994 a Rimini il magistrato Daniele Paci costituisse il pool d’investigatori per risolvere il caso. Da oggi la vicenda acquista un sapore particolare, motivo di studio per attività pratiche in ambito forense. Si tratta infatti di un caso utile a far comprendere ai giovani studenti l'importanza di conoscere le armi da fuoco e la loro applicazione nelle diverse vicende criminali che le vedono protagoniste. Per capire cos'è stato il caso della “Uno bianca” e perché oggi acquista rilevanza in ambito balistico, lo abbiamo chiesto al prof. Martino

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Farneti, all'epoca dei fatti Direttore della Sezione Indagini Balistiche della Direzione Centrale Polizia Criminale, competente su tutto il territorio nazionale. «Ho seguito la vicenda della “Uno bianca” del primo fino all'ultimo omicidio – racconta a Cronaca&Dossier il prof. Farneti – sulla base dell'esperienza che mi ero creato nell'ambito del maxi processo di Palermo. Quando avvenne il sequestro delle armi da essi detenute, fra centinaia e centinaia abbiamo individuato le pistole usate ricostruendo tutta la cronologia dei fatti avvenuti». Il prezioso lavoro investigativo e tecnicoscientifico, durato circa sette anni, è un esempio lungimirante dell'importanza di


conoscere, nei minimi particolari, la meccanica delle armi. «Nonostante gli uomini della Banda modificassero continuamente le caratteristiche strutturali delle armi utilizzate – continua il prof. Farneti – nel tempo rimaneva sempre un elemento fondamentale di confronto “positivo” che riconduceva sempre alle stesse pistole semiautomatiche». Ogni arma da fuoco lascia infatti caratteristiche per capire il modello, la marca e se è sempre la stessa impiegata in precedenti episodi delittuosi. Ma non è l'unica via per giungere all'identificazione. «Il luogo di fabbricazione – prosegue – ad esempio è uno dei punti partenza per ricondurre l'arma al suo possessore». In tale contesto non può di certo mancare la matricola, ovvero un codice alfanumerico simile ad una carta d'identità dell'arma che, anche quando abrasa, diventa un momento

fondamentale nell'ambito dell'indagine balistica. «Quando c'era un omicidio con l’impiego di cartucce in calibro 9 mm. x 21, i reperti trovati sulla scena del crimine mi venivano inviati a Roma – prosegue l'intervista –. Li analizzavo e li confrontavo con quelli già usati in più casi (poi associati alla “Uno bianca”). Quando poi sequestrarono le armi ai fratelli Savi, mi dedicai al confronto bossoli-armi per l'identificazione». Oggi il caso della “Uno bianca” conosce una seconda “vita”, destinato a diventare materia di studio storico ma anche un moderno caso da analizzare e trattato durante il corso professionale di “Esperto in Balistica Forense e Scena del Crimine”. Tutto ciò per formare una nuova squadra di efficienti investigatori attraverso l’analisi della scena del crimine e quanto attiene all'ambito giudiziario.

Strumento per la misurazione delle cartucce.

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list a n i m i cr articolo

uale di Pasq

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Ragon

l'importanza della pratica

La Balistica è una tra le Scienze più importanti in ambito investigativo, ma qual è l'impressione di chi per la prima volta affronta la materia sul campo? Lo abbiamo chiesto, con una breve intervista, ad Alessandra Carmen Puliafito, tra coloro che hanno preso parte al corso pratico “Esperto in Balistica Forense” diretto dal prof. Martino Farneti. Quando e com’è stato il suo primo approccio con un’arma da fuoco e con quali difficoltà? «È stato il primo giorno di corso e non ne avevo mai vista una da vicino. Solo al pensiero di toccarla mi tremavano le mani. Ma con l'aiuto del prof. Farneti, dei miei colleghi e con la loro professionalità, con spiegazioni precise e fondamentali sono riuscita ad impugnare l'arma con più tranquillità e a sparare i primi colpi sul centro del bersaglio».

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Quanto ha inciso, per quel che la riguarda, la conoscenza diretta di un’arma rispetto allo studio della stessa dal punto di vista puramente accademico? «L'approccio diretto, rispetto allo studio accademico di un'arma, è tutta un'altra storia. Studiarla va benissimo, ma mettere in pratica, vedere e provare direttamente quello che ti viene insegnato da esperti professionisti è un'emozione straordinaria. Anche le cose più difficili, riesco ad affrontarle con molta attenzione, precisione e praticità».

Pensa che quanto appreso le potrà risultare utile in ambito investigativo-forense?

E quali conoscenze ulteriori ha acquisito grazie a tali attività? «Ho acquisito conoscenze che prima ignoravo. Tutto riguarda la Balistica interna, esterna e terminale. Iniziando dal montare e smontare qualunque tipo di arma da fuoco, alla traiettoria percorsa dal proiettile, dalla Fisica al Diritto penale. Sono sicura che tutto quello che ho acquisito fino ad oggi e che ancora dovrò imparare, potrà superare i limiti che ancora oggi vediamo in questo ambito».

«Credo mi sarà utilissimo in ambito investigativo-forense. Sono stata positivamente impressionata dalle attività svolte, ritenendo il corso qualificato rispetto alle mie aspettative».

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eh stay b articolo

ind

isella

di Anto

arch nella M

QUELLA STRUTTURA SEGRETA DELLA NATO E LA SPINOSA QUESTIONE DEI REDUCI Indagine su Gladio, rete segreta nata 60 anni fa per combattere con le armi il pericolo rosso in Italia

Era il 18 ottobre del 1990 quando Giulio Andreotti, allora presidente del Consiglio, ammise l’esistenza di un’organizzazione segreta denominata “Gladio”, la “Stay behind” italiana, ingranaggio di un più vasto meccanismo che sarebbe sorto su ordine della NATO ai fini della difesa dal “pericolo rosso”. Gladio nacque nel 1956 (poi disciolta nel 1990) ed era solo una parte di un sistema di sicurezza molto complesso già in opera dal 1945. Inizialmente costituita da ex partigiani, Gladio aveva tra i fondamentali compiti quello di raccogliere informazioni, sabotare,

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propagandare e organizzare la guerriglia contro eventuali aggressioni da parte di eserciti stranieri. Operazioni che in seguito furono destinate a corpi speciali delle Forze armate, lasciando a Gladio la funzione di attivarsi nel caso di occupazione nemica. Il reclutamento del personale idoneo si basava inizialmente sulla scelta di ex partigiani e di soggetti rigorosamente selezionati ed accomunati da credenze anticomuniste. La fine di Gladio avvenne in concomitanza con le indagini svolte dal giudice veneto Felice Casson su eventi stragisti avvenuti in Italia, supponendo l’esistenza di una struttura


Il gladio sulla collina visibile da tutta Crotone.

parallela ai Servizi segreti, portandolo ad ispezionare l’archivio del Sismi. Dopo le dichiarazioni di Andreotti la vicenda infuocò l’opinione pubblica, la stampa ed il mondo politico, tanto da sfociare nella richiesta di impeachment contro l’allora presidente della Repubblica Francesco Cossiga. E non solo. I nomi dei civili che avevano fatto parte della Stay Behind italiana furono resi noti, nelle aule parlamentari e sulla stampa, delineando uno scenario non facile per gli ex componenti della struttura, ritrovatisi loro malgrado in un grande polverone mediatico per oltre un decennio. Nel 2001 la Corte di

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eh stay b articolo

ind

isella

arch nella M

di Anto

Altare della Patria.

Assise di Roma si è pronunciata a favore della legittimità di Gladio, tesi da sempre sostenuta da Francesco Cossiga. Ma chi erano i componenti civili di Gladio che avevano preso sulle proprie spalle il compito di entrare in azione, ad invasione avvenuta, creando movimenti di resistenza contro gli eserciti invasori? Perché si è ritenuto opportuno rendere noti i nomi dei 622 civili arruolati nella rete italiana di Stay Behind? E perché i fascicoli relativi ai 622 civili di

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Gladio furono conservati in un generico ed anonimo scaffale dell’archivio del Sismi? Il congedo con una raccomandata a firma dell’Ammiraglio Fulvio Martini è, ad oggi, secondo quanto affermano gli ex gladiatori «l’unica forma di riconoscimento al servizio prestato alla nazione». E soprattutto, oggi cosa resta di quell'esperienza? Il 4 febbraio 1994 è stata ufficialmente costituita l’“Associazione Italiana Volontari Stay Behind” non


riconosciuta, composta dai reduci di Gladio che, tra i vari scopi, si propone di «mantenere vincoli di solidale collaborazione con le Forze armate esaltandone l’opera di difesa della Patria e di servizio della pace», così come riportato nel sito internet ufficiale dell’Associazione. Ad oggi, i reduci civili di Gladio non hanno ottenuto il riconoscimento ufficiale di servitori dello Stato e chiedono di poterlo ottenere, in senso morale e non di natura economica, in qualità di ex appartenenti alle Forze armate. È proprio questo il cuore della questione. Il 18 febbraio 2014 è stata presentata una proposta di legge nella quale si enuclea, tra i punti salienti, che «il servizio volontario prestato come personale civile esterno, dai soggetti non inquadrati permanentemente nelle Forze armate, nella rete italiana dell’organizzazione clandestina nordatlantica “Stay Behind Nets”, sciolta dal Governo Italiano in data 27 novembre 1990, è equiparato al servizio prestato presso le Forze armate dello Stato, con esclusione di qualsiasi effetto ai fini retributivi, previdenziali e assistenziali». Il vero problema relativo al riconoscimento richiesto dall'Associazione è che attorno a Gladio esistono ancora troppe zone d'ombra che le inchieste esistenti non hanno del tutto diradato. L'ipotesi che la Rete possa avere avuto un ruolo anche solo in una delle operazioni militarmente nefaste sul territorio italiano o estero, rende molto complesso interrogarsi oggi se, quanti hanno preso parte a quell'esperienza, è giusto abbiano il riconoscimento auspicato. In sostanza, il loro è stato un servizio al

Paese, alla luce del ruolo ad essi delegato, oppure siamo dinanzi a soggetti che hanno seguito una logica estranea al contesto democratico vigente nel periodo di attività? C'è stata davvero la mano di Gladio dietro a fatti estremamente tragici della storia repubblicana italiana? In tutto questo discorso la chiave di volta potrebbe risiedere nel concetto di “segretezza”: una rete segreta, qual è stata Gladio, è implicitamente fuori dalle logiche di difesa di uno Stato? Si tratta di una questione non di poco conto quasi dal sapore ante litteram rispetto all'assenza di dibattiti sul tema, considerando che nei prossimi anni le inchieste sui cosiddetti “misteri italiani” continueranno ad interrogarsi sul ruolo reale degli uomini di Gladio e sulle modalità con cui questi ultimi verranno giudicati dal tribunale della Storia.

Equipaggiamento dei Legionari romani ai quali Galdio si ispira.

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articolo

di

ldis

e Rina

sca D France

L'insospettabile

pensionato accusato di essere

il Mostro Per la Corte d'Assise sarebbe Giuseppe Raeli il serial killer che ha terrorizzato Cassibile dal 1997 al 2004 44


Il 12 giugno 2014, dopo 12 ore di Camera di consiglio, i giudici della Corte d’Assise di Siracusa sentenziano che Giuseppe Raeli, pensionato di 74 anni, è il presunto serial killer di Cassibile. Raeli è stato giudicato colpevole di 8 omicidi e condannato all’ ergastolo con 2 anni di isolamento diurno. Inoltre l’uomo dovrà risarcire le parti civili con 120 mila euro. Raeli, fino a cinque minuti prima che la Corte entrasse in Camera di consiglio, ha ribadito di essere innocente e di non essere stato nei luoghi in cui si sono verificati i tentati omicidi e gli omicidi, ma gli elementi raccolti a suo carico nel corso delle indagini e gli accertamenti del RIS di Messina, sono stati decisivi per la sua condanna. La catena di sangue inizia il 24 maggio 1997, quando con una fucilata ad un fianco viene assassinato Gioacchino Franzone, 74 anni. Un paio di anni fa l'inchiesta su questo omicidio è stata archiviata come incidente: l'uomo sarebbe

rimasto vittima di una sorta di “trappola” che lui stesso avrebbe costruito, anche se questa tesi non ha mai convinto del tutto gli inquirenti. Non basta: sei mesi fa una delle figlie della vittima, Aurora Franzone, un'impiegata di 48 anni, diventa bersaglio di un atto intimidatorio, con alcuni colpi di fucile sparati contro il balcone di casa. Sempre nel 1997, la sera del 13 agosto, viene ucciso Rosario Basile, 42 anni, ragioniere commercialista, freddato mentre cena in veranda nell'abitazione dei genitori. Dieci mesi dopo, il 29 maggio 1998, a finire sotto i colpi di fucile del misterioso killer è una ex guardia giurata, Stefano Arcidicono, di 46 anni, assassinato davanti casa. Trascorrono quasi due anni prima che, il 25 aprile del 2000, il serial killer torni a colpire. La vittima questa volta è Giovanni Ficarra, di 68 anni, anche lui, come Basile, mentre cena in veranda con alcuni amici e familiari. Il 21 dicembre dello stesso anno viene assassinata

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articolo

di

ldis

e Rina

sca D France

davanti casa anche una donna, Maria Callari, di 29 anni, bracciante agricola. Una settimana prima del delitto la sua auto era stata incendiata. Il 31 luglio 2003, infine, due anziani coniugi, Sebastiano Tinè (65 anni) e la moglie Giuseppa Spadaro (58 anni), vengono uccisi a fucilate mentre prendono il fresco nella loro villa di Fontane Bianche, sul litorale siracusano. L'ultimo episodio collegato alla catena di delitti del serial killer, che ha operato tra il 1997 e il 2004, risale al 18 agosto del 2004 quando un venditore ambulante di frutta e verdura, Giuseppe Spada, di 47 anni, viene assassinato davanti al furgoncino con la sua merce. Gli agguati sarebbero avvenuti sempre nella stessa zona, tra Cassibile, Noto, Avola e Fontane Bianche, e con la stessa arma, un

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fucile calibro 12 caricato a pallettoni. Fondamentale per le indagini si è rivelata la collaborazione di una vittima, l'imprenditore locale Giuseppe Leone, scampata nel marzo 2009 alla furia omicida dell’uomo. Le modalità operative fanno ritenere che possa trattarsi del ”mostro” che tuttavia non era più entrato in azione da cinque anni. L’uomo riesce a sopravvivere e a fornire alle autorità un elenco delle persone considerate nemiche. Tra queste c’è anche Raeli. I rilievi del RIS fanno il resto. Già nel corso delle prime indagini gli inquirenti credono che gli agguati siano attribuibili alla mano di un unico serial killer e vengono fissati alcuni punti fermi che mettono in collegamento gran parte degli episodi analizzati. L’ultimo degli elementi, che consentono agli investigatori di


chiudere il cerchio attorno a Giuseppe Raeli, è il tipo di arma utilizzata dal killer per “firmare” i suoi agguati, un fucile calibro 12 caricato a pallettoni, mai ritrovato. Le indagini partono proprio dal ritrovamento di un bossolo sul

L’analisi dell’esperta, dott.ssa Francesca De Rinaldis (psicologa forense)

"U lupu”, Giuseppe Raeli, è un uomo normale, un incensurato pensionato cui nessuno potrebbe mai attribuire caratteristiche di mostruosità. L’uomo viene descritto dagli investigatori come una persona taciturna, schiva ma anche fredda, chiusa, rancorosa, minacciosa e vendicativa quando si interferisce con i suoi interessi economici, ma mai nessuno potrebbe pensare che sia in grado di uccidere a sangue freddo, con premeditazione e astuzia per quelli che per il senso comune appaiono solo dei futili motivi. Motivi che però non sono futili quando devono armare la mano di un serial killer che non può sottrarsi al suo imperante bisogno, alla sua missione: uccidere chi non lo rispetta.

luogo del tentato omicidio di Giuseppe Leone, del 15 marzo 2009. Analizzato dagli specialisti del RIS di Messina consente di accertare che è stato sparato con la stessa arma utilizzata già in altri agguati.

Sono otto le “missioni di morte” messe a segno con la stessa tecnica e la stessa arma, anche se apparentemente senza alcun collegamento tra le vittime. Il primo comune denominatore è sicuramente l’identico modus operandi che riflette un’intelligenza acuta ed un temperamento freddo e controllato. Il killer prima di sparare e uccidere tende alle sue vittime delle trappole che le costringe a venire allo scoperto per diventare dei comodi bersagli: tronchi o grossi massi lungo la strada per fermare le auto, cancelli chiusi con del filo di nylon in modo tale da obbligare la vittima designata ad uscire dall’abitacolo ed esporsi ai colpi, incendi appiccati ai mezzi o colpi di fucile contro finestre e facciate per far venir fuori i proprietari da casa. Gli agguati vengono tesi rimanendo al riparo dietro muretti o fitte sterpaglie in zone che consentono comode vie di fuga, attraverso quelle campagne che l’uomo conosce assai bene per via del suo vecchio lavoro di “palista”: puliva infatti i terreni con la pala meccanica e poi rivendeva la legna da ardere. L’interesse economico appare essere il movente di tutti gli omicidi. L’assassino ha sparato anche per crediti di poche centinaia di euro che le sue vittime non avrebbero saldato per delle forniture di legna o per delle contestazioni sull’effettivo quantitativo di materiale consegnato. Gli interessi economici, e soprattutto il mancato riconoscimento di sé, del suo lavoro e dunque del suo valore sono pertanto il filo conduttore di questa atroce storia.

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rneri

ua cola G i N i d lo

artico

Il caso

Edoardo Agnelli

e quell'eredità a rischio Il suicidio–omicidio del figlio di Gianni Agnelli è solo l’ultimo, misterioso caso che circonda la famiglia torinese

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Cavalcavia zona Fossano.

Edoardo Agnelli fu trovato morto la mattina del 15 novembre del 2000, ai piedi del trentacinquesimo pilone del ponte autostradale “Generale Franco Romano”, sulla Torino– Savona. Edoardo era un Agnelli atipico: 46 anni, non sposato, era sempre stato attratto dagli studi storico-religiosi. Pare anche che ad un certo punto della sua vita, in seguito all’incontro con l’ayatollah Khomeini, avesse deciso di convertirsi all’Islam. Simpatizzante delle teorie marxiste, in ambito economico era

un profondo critico del capitalismo. Secondo la verità ufficiale Edoardo uscì da Villa Frescot di primo mattino, attraversò i caselli di Fossano e Marene due volte tra le 9:00 e le 9:30 – come se stesse cercando il punto giusto. Parcheggiò l’auto a lato della carreggiata lasciando acceso il motore, si arrampicò sul parapetto e si lanciò per un volo di circa 80 metri che pose fine alla sua vita. Però, quando venne ritrovato cadavere, Edoardo portava ancora i mocassini ai piedi e le bretelle allacciate, particolari

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rneri

ua cola G i N i d lo

artico

Lingotto.

insoliti per un corpo che è caduto per 80 metri. Giuseppe Puppo, giornalista e scrittore, sottolinea questi ed altri dubbi nel libro Ottanta metri di mistero – La tragica morte di Edoardo Agnelli (Koinè Nuove Edizioni, 2009). Puppo evidenzia come sia inverosimile che nessuno abbia visto il giovane buttarsi, in un’autostrada in cui transitano 8 veicoli al minuto. Edoardo inoltre in quel periodo era claudicante e si serviva di un bastone per camminare: secondo i calcoli di Puppo avrebbe avuto bisogno di almeno due minuti per scavalcare il parapetto. Altrettanto strano è che sul cadavere non sia stata fatta alcuna autopsia. E i testimoni? Puppo non è il solo a parlare della tragica fine di Edoardo. Antonio Parisi ha scritto nel 2011 I misteri di casa Agnelli (Aliberti Editore) nel

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quale evidenzia, oltre ai dubbi già sottolineati da Puppo, la difficoltà di reperire informazioni tra gli abitanti di Fossano, paragonandola a Corleone e dichiarando che, durante un sopralluogo da lui compiuto in quei luoghi, la gente si mostrava ben poco disposta a concedere interviste. Secondo Parisi – e anche secondo Puppo – Edoardo sarebbe stato ucciso poiché non avrebbe rinunciato all’eredità di famiglia. Tutti i tentativi di inserirlo in qualche attività erano stati fallimentari, compreso un breve periodo nel Consiglio d’Amministrazione della Juventus, nel 1986. Così la famiglia aveva deciso di estrometterlo. Nelle settimane precedenti la morte, secondo ben tre diverse testimonianze raccolte da Puppo, qualcuno cercò di fargli firmare un


documento in cui, in cambio di ingenti somme di denaro e diverse proprietà immobiliari, avrebbe dovuto rinunciare ai suoi diritti di gestione della FIAT. Edoardo rifiutò sempre di firmare, forse siglando la sua condanna a morte. Il caso di Edoardo non è l’unico poco chiaro nella storia della famiglia. Parisi nel suo libro paragona gli Agnelli ad una monarchia. Piemontesi come i Savoia, hanno almeno altrettanti scheletri nell’armadio, come le misteriose morti dei genitori dell’Avvocato: il padre morì decapitato dall’elica di un aereo il 14 luglio 1935, esattamente 146 anni dopo l’inizio della Rivoluzione francese, mentre la madre morì in un incidente poco chiaro mentre pare si stesse recando in tutta fretta dal proprio amante, Curzio Malaparte. Anche Giorgio Agnelli, fratello di Gianni, morì in seguito ad un oscuro suicidio che richiama alla memoria il gesto di Edoardo.

In realtà, afferma Parisi, una testimonianza riuscì a trovarla: era quella di un pastore di mucche, che dichiarò di aver visto il cadavere di Edoardo già alle 8:00 del mattino. Una dichiarazione che avrebbe dovuto far scalpore e che invece è stata smentita dall’ex capo dei RIS di Parma, Luciano Garofalo, ritenendo la testimonianza «un tipico caso di autoinganno della memoria». Le fonti di queste ultime dichiarazioni? Vengono da un articolo intitolato Edoardo Agnelli, la verità sulla fine, pubblicato da nel settembre del 2010. Proprio dal prestigioso giornale torinese sarebbe quindi giunta la “verità” sulla morte di Edoardo Agnelli. Evidentemente qualcosa non quadra, in una strana commistione di interessi che non lascia dormire sonni tranquilli chi continua ad essere alla ricerca di quanto accaduto in questa strana storia. Fossano.

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articolo

di Ge

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ADDIO VECCHIA

FIAT

Gli ultimi 20 anni del colosso industriale nei numeri che hanno fatto la storia Tornando indietro nel tempo, non possiamo evitare di ricordare la rinomata FIAT (Fabbrica Italiana Automobili Torino). Il gruppo automobilistico rappresenta per l’Italia un pezzo di storia importante. Ci troviamo, infatti, nel lontano 1899 quando l'azienda viene fondata da un gruppo di imprenditori aristocratici che si insediano per la prima volta nell’ufficio dell’ing. Marchesi, in corso Re Umberto 11 a Torino. In quell’anno vengono prodotti 8 esemplari della prima automobile FIAT: la "3½ HP", copia della "Welleyes". Nel 1900, dal primo stabilimento di Corso Dante

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a Torino, escono 24 autoveicoli di questo tipo con una particolarità: l’assenza della retromarcia. Comincia così la produzione di una serie di automobili che consentono a molte persone di spostarsi facilmente da un luogo all’altro utilizzando confort sempre più avanzati, adatti a soddisfare le esigenze di ogni viaggiatore. Inizia solo nel 1916 la costruzione del Lingotto che, dal 1923 al 1939, diventa il quartiere generale dell’azienda automobilistica. Fino al 1953 la nuova sede è Mirafiori, poi per 43 lunghi anni si sposterà nella palazzina di Gianni Agnelli in Corso Marconi, dal 1996 nuovamente al Lingotto, per finire nel 2014 in Olanda. La FIAT oggi non è più in Italia e non è neanche

più FIAT, ma FCA. Ci siamo persi qualcosa? Il primo gennaio 2014, l'azienda acquisisce il pacchetto azionario di Chrysler Group e diventa FCA (Fiat Chrysler Automobiles). Il domicilio fiscale finisce nel Regno Unito, la sede legale in Olanda e le azioni ordinarie vengono quotate presso lo Stock Exchange di New York, con un'ulteriore quotazione sul mercato telematico della Borsa di Milano. Molti parlano di “internazionalizzazione”, ma questo cambiamento viene visto da tanti italiani come un fallimento. Cosa è accaduto negli anni? Uno studio della FIOM di Torino mette in evidenza il forte crollo finanziario e commerciale verificatosi dopo la punta

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massima di 240.000 vetture immatricolate nel gennaio del 1998. Da allora, le vendite cominciano a precipitare e FIAT Auto inizia ad accusare il colpo. Nel biennio 20002001 il Gruppo evidenzia perdite ingenti ed il bilancio presenta 35,5 miliardi di euro di debiti a fronte di 28,9 miliardi di attività finanziarie (crediti), con una differenza in cassa a fine marzo di 6,6 miliardi di euro. Nonostante la crisi finanziaria, il crollo degli acquisti e della produzione, c’è da dire però che la FIAT è stata una delle aziende più assistite dallo Stato italiano. Dai dati UILM emerge che la FIAT di Melfi, in Basilicata, e la FMA di Pratola Serra, in Campania, hanno goduto per ben dieci anni dell’esenzione dalle imposte sul reddito per

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le società meridionali. Non dimentichiamo poi gli “ammortizzatori sociali”: 1.228 miliardi di lire erano stati stanziati per la cassa integrazione, 700 miliardi pubblici erano stati spesi per prepensionare 6.600 dipendenti nel 1994 e altri 300 miliardi erano andati alle indennità di 5.200 lavoratori messi in mobilità. Nel 1997 altri 800 miliardi erano finiti nelle casse del Gruppo per gli incentivi alle rottamazioni, ma la situazione era ugualmente precipitata e l’azienda ora investe all’estero. Agli italiani, in particolar modo alla classe operaia, non resta che il ricordo di una fase storica ormai terminata e la speranza di non finire completamente sul lastrico.


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TRADITI e LASCIATI SOLI Sono ancora troppi i minori disabili che vedono servizi e diritti riconosciuti solo sulla carta

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Il 3 dicembre del 1981 è stata istituita la Giornata Internazionale delle Persone con Disabilità, così da promuovere una più diffusa ed approfondita conoscenza dei temi della disabilità, per sostenere la piena inclusione delle persone con tali problematiche in ogni ambito della vita e per allontanare ogni forma di discriminazione e violenza. Giornate come queste non trasformano però la realtà quotidiana, cambiando radicalmente il pensiero di discriminazione o indifferenza che esiste verso le persone disabili e, ancora di più, verso i minori. Nonostante tutto, servono eventi simili nelle nostre città per diffondere la cultura della sensibilizzazione, abbattendo l'emarginazione che tutt'oggi esiste, molte e

troppo volte dovuta alla non conoscenza. Momenti di questo genere ci aiutano infatti a porre al centro la dignità, l’autonomia, l’indipendenza, la libertà di scelta, la partecipazione e l’inclusione sociale, il rispetto e la valorizzazione delle differenze e la disabilità come parte della diversità umana. In tutta questa vicenda i minori sono quelli che hanno la peggio, poiché i bambini e i ragazzi con disabilità sono molto spesso invisibili nella società.Troviamo parecchie lacune tra i minorenni con inabilità e spesso sono al di fuori della portata dei servizi, con la conseguente riduzione delle opportunità di essere parte attiva all’interno delle loro comunità. Tantissimi sono i problemi che si riscontrano nelle scuole italiane

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per i ragazzi disabili. Eccone uno evidente, importante e sotto gli occhi di ogni genitore: secondo i dati più recenti forniti dal Ministero dell’Istruzione (MIUR) il numero degli studenti con disabilità nell’anno scolastico 2011/2012 è stato complessivamente di 215.590 unità mentre, nello stesso anno, gli insegnanti di sostegno sono stati solo 98.000, pertanto insufficienti per coprirne il fabbisogno. Inoltre, come se non bastasse, sono ancora molte le scuole che non hanno adeguato gli edifici abbattendo le barriere architettoniche. Non ultimo è il problema della preparazione, dell'esperienza e della competenza degli educatori. Più volte è capitato di ascoltare storie di bambini o ragazzi disabili che non vengono trattati adeguatamente rispetto alla loro patologia. Come sappiamo non tutti gli autistici sono uguali e lo stesso discorso vale per chi soffre di sindrome di Down. Pertanto vanno seguiti in maniera diversa. In questi casi occorre la sensibilità dell'adulto, oltre alla sua bravura d'insegnante. Sono ancora molti i genitori che si prendono carico personalmente del figlio accudendolo e che lottano in prima persona per riuscire ad ottenere i diritti che gli spettano. Che cosa sta facendo lo Stato per arginare questi disagi? Esistono leggi a tutela dei minori con disabilità? Sulla carta ci sono svariati servizi che aiuterebbero le famiglie, come per esempio trasporto a titolo gratuito dalla propria abitazione alla sede della scuola

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e viceversa, oppure soggiorni socio-riabilitativi organizzati in collaborazione tra Comune e ASL. Peccato che la realtà sia decisamente diversa. Troviamo Comuni che ribadiscono, loro malgrado, di non poter effettuare questi servizi per mancanza di fondi. Gli oneri e non solo finiscono sempre sulle spalle dei poveri genitori già provati dalla vita. Quanto poco basterebbe per alleggerire il loro pesante fardello, semplicemente non voltandosi dall'altra parte ma facendo, tutti, un piccolo gesto concreto.


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Emergono numeri importanti dai Rapporti diffusi tra il 2013 e il 2014

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La recente Legge n. 117 dell’11 agosto 2014, emanata dopo la condanna dell’Italia da parte della Corte Europea dei Diritti Umani, ha avuto un forte impatto sul diritto penale e sull’ordinamento penitenziario. Non solo perché reca disposizioni urgenti in materia di rimedi risarcitori in favore dei detenuti e degli internati che hanno subito un trattamento disumano – andando a violare così l’articolo 3 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali – ma anche perché ha apportato una modifica importante alle norme di favore previste dal diritto minorile sui provvedimenti restrittivi. Ha infatti esteso queste ultime a chi non ha ancora 25 anni e innalzato così il limite di età per scontare la pena in un carcere minorile dai 21 ai 25 anni. L’esecuzione di pene detentive

e alternative o misure cautelari viene ora disciplinata, perciò, dal procedimento minorile (D.P.R. 488/88) e affidata agli Uffici di Servizio Sociale per i Minorenni (USSM) fino ai 25 anni. Tale norma è stata finalizzata a fronteggiare e ridurre il problema comune in Italia a tutti gli Istituti Penali per Adulti: il sovraffollamento. Infatti attualmente i detenuti in Italia sono 58.925 contro una capienza di 49.797. Secondo i dati del Dipartimento per la Giustizia Minorile, al 15 ottobre 2014 in Italia sono 500 i ragazzi e le ragazze dai 14 ai 18 anni d’età detenuti negli Istituti Penali per Minorenni (IPM), di cui 248 stranieri. A questi numeri vanno aggiunti, dopo l’entrata in vigore della L.117/14, i “giovani adulti”: 275, di cui 108 stranieri. Nel 2013 gli ingressi sono stati invece 1.201, mentre

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1.252 nel 2012. Partendo dai dati del 2006 (1.362 minorenni detenuti) si nota così un decremento di ingressi nel circuito penale. Da II Rapporto sulla devianza minorile in Italia, realizzato a giugno di quest'anno dal Dipartimento per la Giustizia minorile in collaborazione con l'Unicef, emerge che sono sempre meno i minori che finiscono in carcere dopo aver commesso un reato. Il Rapporto registra anche un calo degli ingressi di minori nei Centri di Prima Accoglienza (che ospitano temporaneamente i minori arrestati, fermati o accompagnati a seguito di flagranza di reato) e un aumento di quelli collocati in Comunità, che sempre più si rivela una valida alternativa al carcere. In aumento il ricorso all'istituto della sospensione del processo e messa alla prova ai Servizi Minorili per lo svolgimento delle attività di osservazione, trattamento e sostegno: nel 2012 aveva interessato 3.368 casi, nel 2013 3.428 e nei primi mesi di quest'anno sono stati 1.416. In questo modo, si concepisce la detenzione come extrema ratio, da applicare solo per i reati più gravi o per casi di recidiva, dando maggiore spazio ed importanza alle misure alternative alla pena che hanno come scopo quello della rieducazione sociale e del reinserimento del minore (art. 27 della Costituzione Italiana). Ma come si svolge la vita all’interno di un carcere minorile italiano? L’IPM con il più alto numero di presenze giornaliere è quello di Casal del Marmo a Roma (138), seguito da Milano (126), Nisida in provincia di Napoli (circa 95) e Catania (92). Per quanto riguarda le tipologie di reato, i minori dell’area penale sono coinvolti prevalentemente nei reati di furto e rapina. Frequenti sono anche le violazioni delle disposizioni in materia di sostanze stupefacenti

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e i reati di lesioni personali dolose. Le giornate dei minorenni reclusi hanno un’organizzazione ben precisa: tutti si svegliano allo stesso orario, devono rispettare determinate regole, svolgono attività quotidiane e obbligatorie e frequentano le lezioni scolastiche e i corsi di formazione professionale. In genere, le uscite sono legate a determinati progetti a cui i ragazzi partecipano (per esempio spettacoli teatrali) oppure usufruiscono di permessi-premio per tornare a casa o svolgere attività culturali. Per i ragazzi stranieri, invece, sono previsti anche corsi di alfabetizzazione. Ogni ragazzo nel suo percorso detentivo e, soprattutto, riabilitativo viene seguito, all’interno della struttura, dagli educatori e da un’equipe multidisciplinare di esperti (psicologo, assistente sociale, criminologo, psichiatra). Spesso si tratta di ragazzi in fuga da un passato problematico, spesso segnato da condizioni familiari difficili, talvolta costretti a vivere nell'illegalità. Dai dati presentati e dalle storie di vita di questi adolescenti appare perciò evidente quanto sia fondamentale focalizzare l’intervento sul lavoro socio-pedagogico nell’area penale esterna al fine di ripristinare una nuova progettualità di vita del minore e garantire così il diritto alla dignità e ad un futuro di speranza.


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a cura di Mauro Valentini

Esecuzioni a distanza

La guerra elettronica e la morte digitale

Un Superpocket da 84 pagine piccolissimo e super tascabile, che ha la firma di William Langewiesche, giornalista americano corrispondente di guerra e scrittore. Esecuzioni a distanza (Edizioni Adelphi) racconta due punti di vista molto tecnologici della guerra (ancora in corso) in Afghanistan e cioè quella di un tiratore scelto e di un pilota di Droni. Ne viene fuori un libro che “smaterializza” l’eroismo militare e lo ricompatta dietro un mirino elettronico, dietro un joystick che comanda un aereo a distanza pronto a colpire dall’altra parte del mondo. Diviso in due parti bene distinte, il racconto di questi due “non eroi” accende in chi legge una riflessione sull'essere soldato in un’epoca che sembra di pace, ma che è ricca di guerra. È la storia del cecchino Crane, che decide di lasciare la Polizia ed entrare nell’esercito, trovandosi poi con un fucile in mano che riporta la scritta “Remember 9/11”, pronto a colpire uomini con la barba (saranno tutti talebani?) in Afghanistan. E sempre sui cieli dell’Afghanistan viaggiano i “Predator”, droni leggeri e carichi di armi, con il pilota seduto tranquillamente in una base militare a Las Vegas, che arriva alla base, timbra il cartellino, si connette da un pc ai suoi comandi per seminare bombe e mitragliate su obiettivi strategici, per poi riprendere la macchina e tornare a casa imprecando con gli altri ignari cittadini nel traffico. Una riflessione arguta e semplice nella sua drammatica modernità. Questi professionisti della morte supertecnologici, preparatissimi ma che come in un moderno Blade Runner sapranno riconoscere una bandiera bianca? Sapranno valutare chi colpire, scegliendo tra chi appare in azioni di guerriglia da chi semplicemente sta vivendo una vita diversa da quella di chi ha elaborato il software? Un libro che cambierà il modo di pensare la guerra, per sempre.

In televisione

Diritto di Cronaca, la nuova rubrica di politica ed attualità

in onda ogni martedì e giovedì su Teleromauno (Ch. 271). Tante le tematiche già affrontate, dal caso Cucchi al clan dei Marsigliesi, fino alle inchieste su Sanità, sicurezza e criminalità. Tutte le puntate sono disponibili sulla pagina Facebook di “Diritto di Cronaca”, condotte dal giornalista Giovanni Lucifora.

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Al cinema

Andiamo a quel paese Il titolo dell'ultima fatica della coppia comica Salvatore Ficarra e Valentino Picone potrebbe fuorviare lasciando intendere un film leggero. Invece Andiamo a quel paese, nelle sale da novembre, punta tutto sulla denuncia del malcostume politico e culturale italiano. È la storia di due disoccupati, Ficarra e Picone appunto, che decidono di lasciare Palermo per cercare fortuna Ficarra e Picone. nel paesino dove uno dei due è nato e dove la popolazione e perlopiù anziana. Allora Salvatore ha un'idea: vivere con la pensione degli abitanti, chiamandoli tutti a raccolta nella medesima abitazione e occupandosi di loro, ma gestendo in modo ambiguo le loro pensioni. Ma per i due ex disoccupati la disperazione è dietro l'angolo. Ben presto gli “ospiti” pian piano moriranno. La via d'uscita, a quel punto, sarà solo sposare una delle zie di Salvo, soluzione che quest'ultimo suggerisce e riserva all'amico Valentino. Come finisce il film è bene lasciarlo in sospeso, ma Andiamo a quel paese sembra essere una buona metafora della recente situazione economica che vivono milioni di persone, impossibilitate a vivere la propria esistenza da protagonisti e soggetti sempre più alle leggi imposte dal dio denaro, fra ruberie, furberie, corruzione e assenza di moralità.

In radio

Zone d'Ombra,

il programma radiofonico che racconta l'Italia più oscura tra misteri, casi irrisolti o ancora avvolti dalla nebbia. È ideato, scritto e condotto da Andrea Giachi e Davide Iaccarino e va in onda tutti i martedì dalle 20.00 alle 21.00 su Radioluiss.it. Da non perdere le puntate del 18 e del 25 novembre dedicate al mondo del crimine.

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