Cronaca&Dossier11

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Anno 2 - N. 11, Gennaio 2015

Cogne, 13 anni dopo

TENCO

Inchiesta sulle Forze dell’ordine in Italia

Il dramma dei padri divorziati

COME PANTANI La Procura di Imperia ha aperto un «nuovo fascicolo come atto dovuto» 1967, 2006, 2014: le 3 date storiche del caso Tenco


Indice

del mese

4. Inchiesta del mese

Luigi Tenco: 48 anni senza pace

8. Inchiesta del mese

«Atto dovuto». Il caso Tenco torna d’attualità

12. Inchiesta del mese

46. Dossier scienza

Strategie e interazioni sociali

50. Indagare se stessi

Le microespressioni facciali delle emozioni

54. Dossier società

Inchiesta sulle Forze dell’ordine in Italia

60. Storie di tutti i giorni

Il cantautore pericoloso

Le vite stravolte dei padri divorziati

18. Criminalistica

64. Diritti e minori

«L’accertamento sul bossolo non ha rispettato il protocollo»

24. Sulla scena del crimine Caccia all’uomo

30. Sulla scena del crimine Ucciso per gioco

34. Memorabili canaglie

I misteri del delitto di Cogne

40. Dossier da collezione

Un conto aperto con la coscienza

Il grooming. Sempre più minori adescati su internet

68. Media crime

Libro, film, programma radio e tv consigliati

ANNO 2 - N.11 GENNAIO 2015 Rivista on-line gratuita

--------------------------Direttore responsabile Pasquale Ragone

Direttore editoriale Laura Maria Gipponi

Articoli a cura di

Alberto Bonomo, Nicoletta Calizia, Alessia De Felice, Nia Guaita, Nicola Guarneri, Francesca De Rinaldis, Dora Millaci, Gelsomina Napolitano, Katiuscia Pacini, Paola Pagliari, Mauro Valentini.

Direzione| Redazione| Pubblicità Auraoffice Edizioni srl a socio unico Via Diaz, 37 - 26013 Crema (Cr) Tel. 0373 80522 - Fax. 0373 254399 edizioni@auraofficeedizioni.com

Grafica e Impaginazione Coppini Simone

Testi e foto non possono essere riprodotti senza autorizzazione scritta dell’Editore. Le opinioni espresse negli articoli appartengono ai singoli autori dei quali si intende rispettare la pina libertà di espressione Registrato al ROCn°: 23491 Iscrizione reg. stampa n.1/2014 Tribunale di Cremona


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: Nel 1967 moriva il celebre cantautore genovese: ecco come passò gli ultimi giorni

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Il treno che porta Luigi Tenco a Sanremo arriva a destinazione nel tardo pomeriggio di lunedì 23 gennaio 1967. Mentre si dirige in taxi verso l’Hotel Savoy il cantautore genovese ripensa agli ultimi cambiamenti della sua vita. Nonostante non sia un cantante “da Festival” ha accettato di partecipare alla competizione sanremese su consiglio della propria casa discografica, la RCA. Quest’ultima ha fatto di tutto per assicurare a Tenco il successo, affiancandogli una star internazionale come Iolanda Gigliotti, in arte Dalida. I due canteranno Ciao amore ciao, una delle canzoni meno tenchiane ma forse la più adatta (in seguito alla modifica dell’originale testo antimilitarista Li vidi tornare) a incontrare il favore del pubblico di Sanremo. Il giorno successivo Tenco spende il suo tempo tra la camera 219 dell’Hotel e il Casinò, dove si reca per le prove della serata che non risultano eccezionali. Prima di tornare in albergo passa la serata con alcuni amici: Giorgio Gaber, Lello Bersani, Lucio Battisti, Ninì Grappone e Sergio Modugno. Si discute del più e del meno, della musica e del fatto che la linea verde abbia perso energia. Tenco è un grande sostenitore della protesta e della lotta, per questo scrive con passione i suoi testi; l’esibizione è solamente un corollario, un strumento per un fine. Mercoledì 25 gennaio il cantautore

Luigi Tenco.

genovese segue l’iter del giorno precedente: si sveglia con calma e poi parte per il Casinò a tenere le prove. Non accade nulla di speciale, come la quiete prima della tempesta. Come quello strano incontro con l’ex-marito di Dalida, quel Lucien Morisse che secondo alcuni sarebbe invischiato con la mafia marsigliese. L’ultimo giorno di vita di Luigi Tenco inizia come tutti gli altri: si sveglia presto, fa colazione al Savoy e poi si dirige al Casinò per le ultime prove prima dell’esibizione serale.

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Terminate queste, incontra un amico di vecchia data, il musicista Roby Matano, che lo invita a giocare alla roulette insieme a lui. Matano descrive un Tenco molto pensieroso, assente, tanto che quando esce il suo numero nemmeno si accorge di avere vinto. Nonostante alcune speculazioni future, la somma vinta dal cantautore è irrisoria, l’equivalente di una cena fuori. Con la scusa della vincita Tenco si allontana dal tavolo della roulette e si dirige al bar del Casinò. Ordina del whiskey e poco dopo viene raggiunto dalla sua compagna d’esibizione, Dalida. Tra i due c’è stato qualcosa di più di una semplice amicizia, fin da quando la RCA li ha fatti incontrare nell’agosto precedente. I due discutono della serata e di affari privati prima che Tenco raggiunga Sergio Modugno, Piero Vivarelli e Gianni Ravera a cena. In realtà il cantautore mangia poco e nulla: per combattere l’ansia da palcoscenico ha ingerito diversi bicchieri di whiskey, oltre ad alcune pastiglie di Pronox. Alle 20:30 Tenco si presenta al Casinò e con grande disappunto scopre che lui e Dalida si esibiranno per ultimi, aumentando ancora di più il suo nervosismo. Cerca di dirigersi al bar quando viene

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bloccato da un amico, Paolo Dossena, che lo apostrofa in malo modo: «Tu sei un pazzo! Tieni una pistola in auto e non me lo dici nemmeno?». Tenco era arrivato a Sanremo in treno e aveva chiesto a Dossena di guidare la sua auto da Roma fino in Liguria. Nel tragitto era stato fermato dai Carabinieri e nel cercare i documenti si era ritrovato l’arma tra le mani, fortunatamente non notata dalle Forze dell’ordine. Tenco si scusa ma aggiunge alcuni particolari inquietanti: «Ho con me una pistola perché hanno già cercato di uccidermi due volte». Dossena resta frastornato dalla frase dell’amico e lo lascia al bar, con la sua grappe e i suoi pensieri per la testa. Dopo l’ennesimo bicchiere va in camerino a riposare in attesa dell’esibizione. Sono le 23:00 quando Tenco si ritrova ai

piedi del palcoscenico: il presentatore, Mike Bongiorno, lo incoraggia a salire ma Luigi è profetico. «Vado, canto e poi ho chiuso con la musica leggera». L’esibizione di Tenco è in linea con le prove: l’ansia unita ai troppi bicchieri di whiskey e al Pronox regala una pessima esibizione, con il cantautore genovese che attacca con ritardo rispetto all’orchestra. Mentre scende dal palco incontra lo sguardo truce di Dalida, con la quale nasce una vivace discussione nei camerini. Nonostante la buona esibizione della cantane italofrancese la canzone viene eliminata. Né il pubblico né la commissione ripescano Ciao amore ciao e così l’avventura di Tenco a Sanremo termina già dopo la prima serata. Irato per i meccanismi del Festival e per

Dalida.

Lucio Dalla.

Mike Bongiorno.

una commissione che non lo ripesca, il cantautore genovese sgomma con la sua auto vero l’Hotel Savoy. Raggiunge la sua camera e scrive fitto un biglietto di protesta contro la musica e il sistema discografico italiano, annunciando contemporaneamente il suo addio alle scene e alla carriera da autore: il resto è storia. Tenco viene ritrovato morto nella sua stanza alle 2:00 circa. È stato fatale un colpo di pistola alla testa. Il commissario Molinari avverte l’Ansa che «Tenco si è suicidato» ma i dubbi sulla morte del cantautore sono tuttora irrisolti.

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«Atto dovuto».

Il caso Tenco torna d’attualità D

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Julio Cortàzar in un suo famoso romanzo scrive: «Qualsiasi tentativo di spiegazione viene meno per una ragione che chiunque è in grado di capire, ed è che per definire e intendere bisognerebbe porsi fuori dal definito e dall’intellegibile» ed è da queste parole che vogliamo partire per analizzare ed evidenziare non la verità assoluta, bensì arpionare ogni elemento che ci conduca verso il non falso. L’analisi compiuta, sui dati certi, comincia proprio la notte del 27 gennaio 1967. Sarebbe incosciente affermare che tutto fu gestito con la cura scrupolosa che ci si aspetta in un caso di omicidio, a prescindere che il cadavere nella stanza 219 dell’Hotel Savoy di Sanremo fosse di Luigi Tenco o di Mario Rossi. Analizzando il modus operandi della Squadra investigativa, diretta dal commissario Molinari, ci si rende da subito conto di come ogni attività sia

stata condotta con una superficialità disarmante. Il cadavere, ad oggi non è chiaro il motivo, è subito trasportato all’obitorio prima di eseguire tutti i rilievi del caso (quelli fotografici, ad esempio, per dirne una). Un fatto gravissimo, che va ben oltre la negligenza. Un virus che ha contagiato ogni fase successiva dando vita a incredibili voragini investigative, lacune procedurali e grotteschi punti di domanda. Una stanza d’albergo sommariamente descritta e una semplice ispezione esterna della vittima, nessuna autopsia e un cadavere con i piedi sotto il cassettone della stanza. Quale incomprensibile motivazione, in un caso del genere, può essere presupposto concreto per sorvolare su un accertamento così importante foriero di risposte? Sandro Ciotti circa la percezione dello sparo racconta: «Lo sparo della pistola di Tenco non lo sentì nessuno. Neppure io che occupavo la camera accanto alla sua [...]». Tantomeno non si può non parlare del presunto biglietto d’addio che si scoprirà viziato, giacché ritrovato in una terza stanza e quindi con scarso valore probante. Misteriosa rimane ad oggi anche l’ora della morte. Qualcosa sembra non tornare ma, accertata, avallata e diffusa di fretta e furia la tesi del suicidio, il corpo sarà consegnato alla famiglia per i funerali mettendo fine a ogni possibile tentativo di porre domande.

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Sala autoptica prima dell’intervento sul cadavere.

Luigi Tenco si è suicidato con la sua Walther PPK 7.65 che regolarmente deteneva: è così e basta. Nell’estate del 1967, sull’onda della tesi suicidiaria, il caso va incontro all’archiviazione. Ma nel dicembre 2005 ecco la notizia che in pochi si aspettavano. A 38 anni di distanza dalla tragedia, il procuratore della Repubblica di Sanremo, Mariano Gagliano, comunica la riesumazione del cadavere di Tenco. Un esame autoptico e balistico risponderà, una volta per tutte, ad alcuni interrogativi che circondano la vicenda. Nel febbraio

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del 2006 a poche ore dall’esame autoptico, senza il quadro completo dei risultati, non sembrano esserci dubbi per gli addetti ai lavori, a partire dal medico legale Dott.ssa Vincenza Liviero della Polizia Scientifica che parla subito di suicidio «oltre ogni ragionevole dubbio» solo perché si scopre, in quella sede, l’esistenza di un foro d’uscita. Alle sue parole faranno eco quelle del procuratore Gagliano poco dopo: «Tutto conferma il suicidio con quell’arma. Il caso Tenco per me è un caso chiuso». Sembra un copione già letto. Rapidamente e con poche parole è confermata la vecchia tesi del suicidio. Si dovrà aspettare poi il 2009 per avere l’ufficialità della nuova, e forse ultima, archiviazione del caso Tenco. Contro ogni pronostico la storia non andrà così. Nel 2013 due giornalisti, Pasquale Ragone e Nicola Guarneri, saltano fuori con nuove informazioni, prove e documenti impressi nero su bianco all’interno del libro Le ombre del silenzio (Castelvecchi Editore). Nel gennaio del 2014 Ragone deposita presso la Procura di Roma la relazione tecnica Richiesta di verifica dell’accertamento balistico circa la morte di Luigi Tenco con il fine ultimo di far riaprire il caso richiedendo un nuovo accertamente del bossolo

trovato nella stanza di Tenco, perché lì vi sarebbero tracce di un’arma diversa rispetto alla Walther PPK-L detenuta dal cantautore. La Procura di Roma invia per competenza la relazione alla Procura di Imperia chiamata a valutare partendo dall’accertamento balistico sul bossolo trovato sulla scena del crimine nel 1967 e, lì, la notizia che nessuno si sarebbe aspettato: analizzati a fondo i documenti prodotti, si decide di aprire un nuovo

fascicolo «come atto dovuto» per verificare quanto scritto nella Relazione tecnica. Il caso ritorna in cima alle notizie di attualità e, dopo un servizio del giornalista Alessandro Gaeta a Tv7, si scatena l’ira dell’ex procuratore Mariano Gagliano che si affretta a dire all’Ansa che nel 2006 tutto venne svolto in modo impeccabile. Sono invece tanti i punti che non tornano nell’indagine del 2006, oggi tutti all’attenzione della Procura di Imperia. Imperia.

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Il cantautore pericoloso

Alla base del delitto una pistola che non sparò e un’inquietante pista militare Nell’estate del 2006 la Polizia Scientifica consegna i resoconti sugli accertamenti svolti sia su quel che restava del cadavere di Tenco, sia sulla pistola del cantautore e sul biglietto ritrovato nella stanza 219. Ma prima che ciò accada, i media hanno già sentenziato da mesi con la parola “suicidio”, ribadendo un concetto affermato con troppa fretta e poca cautela dall’allora Procura di Sanremo. Oggi quegli stessi media, dalla Rai all’Ansa fino ai principali quotidiani nazionali, invocano la riapertura del caso facendo notare le tante, troppe incongruenze, fra prove evidenti e un’intrigante pista che spiegherebbe il delitto.

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prof. Martino Farneti (di cui si parlerà nelle prossime pagine), richiesta dagli autori della controinchiesta Le ombre del silenzio, si scopre invece che su quel bossolo vi sono i segni di una Beretta 70, arma che nulla ha a che vedere con quella di Tenco. Si tratta di un punto fondamentale per le indagini perché, se così fosse, ci sarebbero gli estremi per riaprire il caso come omicidio. Beretta 70 cal. 7.65.

LE PROVE DEL DELITTO 1

L’arma, prova regina Nel Verbale ufficiale del 27 gennaio la Polizia afferma di avere trovato, sulla scena del crimine, «un bossolo e un proietto». Alla riapertura del caso, nel 2006, la Polizia andrà alla ricerca del proiettile e del bossolo (venduto all’asta nel 1968) perché in grado di determinare l’arma che esplose il colpo mortale nel 1967. Troverà però solo il bossolo. Il proiettile, infatti, era già stato distrutto nel 2002 dopo che il nuovo proprietario (il terzo, in ordine di tempo) l’ebbe consegnato alla Questura più vicina per disfarsi di un oggetto ritenuto inutile. Analizzato su richiesta della Procura di Sanremo, la Polizia Scientifica determina che su quel bossolo vi sono i segni della Walther PPK-L 7.65 di Luigi Tenco. Grazie alla consulenza del

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Il silenziatore Dalla consulenza del prof. Farneti emergono dei segni piuttosto marcati sull’impronta lasciata dall’arma che ha esploso il colpo mortale. Questi segni sono tipici dell’utilizzo di un silenziatore (che è usato soprattutto in ambito militare e nei delitti di mafia) giustificati dalle pressioni in gioco e dai meccanismi che intervengono per silenziare l’arma. A lasciare intendere l’uso di un silenziatore vi sono però anche gli esami istologici eseguiti al foro d’entrata sulla salma di Tenco nel 2006. La presenza di «particelle incombuste fino nella dura madre» (come scrive il Dott. Luca Tajana che eseguì l’autopsia) si verifica proprio con l’utilizzo di un silenziatore. Non esistono inoltre testimoni che quella notte affermano di avere sentito uno sparo che, se fosse avvenuto, sarebbe stato certamente udito considerando l’ora tarda e il silenzio in Hotel.

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3 Quella mano non sparò

Dall’analisi Stub effettuata nel 2006, la Polizia Scientifica determina che sulla mano destra del cantautore (quella che avrebbe premuto il grilletto) vi sono soltanto due particelle di antominio. Per la Polizia è la dimostrazione che a premere il grilletto è stato Tenco. Invece la presenza di queste particelle è assolutamente normale se la vittima era nei pressi dello sparo. Al contrario, un solo elemento (l’antomonio) e non tre come di regola (piombo, bario e antinomio) suffragano ulteriormente la tesi dell’uso di un silenziatore, il quale ha la caratteristica di trattenere le particelle che fuoriescono dall’arma, dunque giustificando le esigue quantità.

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Le fratture anomale Nel 2006 il medico legale Dott. Tajana, che effettua l’autopsia su Tenco, individua una frattura all’altezza della mastoide destra (appena dietro l’orecchio). Secondo il Dott. Tajana è dovuta allo sparo e alla successiva caduta. Ma si tratta di una contraddizione rispetto all’ipotesi della Polizia Scientifica, la quale colloca Tenco in posizione da seduto al momento dello sparo, dunque con un impatto modesto. Tanto più se si

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considera che il cadavere di Tenco viene ritrovato a terra, su un tappetino di stoffa, che avrebbe altrimenti attutito la caduta. Invece la frattura si spiegherebbe più facilmente con un colpo inferto allo stesso Tenco da qualcuno alle sue spalle, al fine di tramortirlo e simulare il suicidio.

nota la lucidità di Tenco venire sempre meno con l’andar delle righe. Come ha potuto scrivere un biglietto con riferimenti precisi se non era lucido? Da qui l’ipotesi che in realtà Tenco possa essere stato “drogato” e che il testo gli sia stato suggerito, lasciando il biglietto con frasi ambigue per usarle poi come prova del suicidio. Il delitto Tenco è avvenuto nella stanza 219 dopo avere tramortito la vittima e dopo averla indotta alla scrittura di un biglietto equivoco. È questa la verità che emerge dall’ultima controinchiesta sul caso, con nuove prove al seguito poste all’attenzione della Procura di Imperia.

Esempio accademico di foro d’uscita alla cranica. teca

5 Le rivelazioni del biglietto

Verso le 5:00 del mattino del 27 gennaio 1967, la Polizia afferma di avere trovato, nella stanza di Tenco, un biglietto con firma dello stesso. Sarebbe questa la prova del suicidio. Nel 2006 la Procura dispone accertamenti sul biglietto per dichiararne la paternità. Si determina così che la scrittura è di Tenco. Ma è una risposta non esaustiva. Dalla consulenza del Dott. Vincenzo Tarantino fornita agli autori de Le ombre del silenzio emerge che quel biglietto mostra i segni di “dispercezione”, effetto che si ottiene dopo avere assunto varie sostanze. Inoltre, nella parte finale dello scritto si

LE RAGIONI DEL DELITTO 6

delle consegne dei codici sarebbe stato Tenco. Le prove sarebbero nel foglio matricolare del cantautore, dimostrante la mancanza di registrazione del suo viaggio in Argentina nel dicembre del ‘65 ottenuto tramite favori militari. Per ricambiare la cortesia del permesso di recarsi in Argentina per fini musicali, Tenco si sarebbe prestato alla consegna. L’ipotesi è stata oggetto di verifica nel suddetto libro e, con stupore, i dati forniti da Di Stefano circa il foglio matricolare gli danno ragione, tanto più che l’intervista risale ad un periodo nel quale tale documento non era ancora di dominio pubblico. Come faceva Di Stefano a conoscere quelle informazioni? È il primissimo passo di una lunga indagine.

Luigi Tenco.

Un’ipotesi “lontana nel tempo”

Nel 2008 gli autori del libro Le ombre del silenzio si imbattono in un’intervista molto strana a tale Giovanni Di Stefano, noto legale di Saddam Hussein e Slobodan Milosevic. L’avvocato parla di servizi segreti, codici trasportati da un Continente all’altro grazie a coperture possibili tramite uomini dello spettacolo. E parla di un golpe, quello dell’estate del ‘66, in Argentina, che avvenne per spodestare il governo Illia anche con il supporto logistico di paesi come l’Italia grazie a un non precisato passaggio di informazioni riservate. Uno dei tramiti

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schietto: «Non lo so, non ho idea di chi possa avercela con me».

8 Le carte riservate sul caso «Due auto hanno tentato di Borghese 7 Nel 2013 gli autori della predetta buttarmi fuori strada»

Nella seconda metà del 1966 è Luigi Tenco stesso a confessare al fratello e ad un amico che da qualche tempo c’è qualcuno che vorrebbe fargli del male. A novembre ‘66 due auto avevano tentato di buttarlo fuori strada nei pressi di Santa Margherita Ligure. Da lì la decisione di comprare la Walther PPK-L 7.65, una pistola piccola da tenere in auto. Ma le minacce non avrebbero finito di inquietarlo. Due settimane prima di Sanremo di nuovo due auto a spingerlo fuori strada. Da quel momento ha molta paura, confesserà al Festival all’amico Paolo Dossena, tanto che chiede a quest’ultimo di portagli l’auto a Sanremo, preferendo così viaggiare in treno. Non è forse casuale che le minacce inizino in concomitanza con la decisione di lasciare il mondo della canzone perché «stanco di fare il pagliaccio su un palcoscenico», a detta dello stesso Tenco. Nel dire addio alle scene pare avesse intenzione di fare una conferenza stampa, così come poi trapelerà a Sanremo dopo l’eliminazione dal Festival. Ma se così fosse stato, perché minacciarlo tentando addirittura di ucciderlo? Alla domanda postagli da Dossena, Tenco risponde

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controinchiesta sul caso Tenco pubblicano i risultati delle ricerche effettuate sulla documentazione esistente sulla vicenda Borghese presso gli archivi. Si scopre così che vari nomi presenti in quelle carte sono gli stessi che si trovano anche nella vicenda Tenco. È in quel contesto che si svelano gli interessi di soggetti appartenenti all’eversione di destra con l’Argentina, al fine di ottenere fondi per il golpe da attuare in Italia. Emerge il nome di un importante Generale chiamato in causa nella vicenda Borghese (e poi prosciolto) con la cui nipote proprio Tenco ebbe una liaison, il che giustificherebbe i permessi e l’espatrio “facile” in Argentina; il nome e i contatti, fra gli appunti del braccio destro di Borghese, di un militare che si occupò della leva di Tenco nel 1965. Ma soprattutto l’attenzione si concentra sui legami tra uomini di Borghese e l’apparato manageriale che permise a Tenco di andare in Argentina nel 1965, occupandosi della documentazione per partire e, guarda caso, con delega a cercare fondi proprio in Argentina intrattenendo rapporti con soggetti lì presenti.

IL TENTATO GOLPE BORGHESE Per golpe Borghese si intende il tentativo, messo in atto nella notte tra il 7 e l’8 dicembre 1970, di riovesciare il governo democratico in Italia e rimpiazzarlo con una Giunta militare in grado di guidare il Paese. Il piano prende il nome dal suo ispiratore, Junio Valerio Borghese, ex comandante della Decima Mas, che quella notte sarebbe stato alla guida di militari appartententi a vari Corpi dello Stato. L’8 dicembre gli uomini di Borghese entrano addirittura nel Viminale ma all’ultimo minuto giunge l’ordine di annullare il piano. Nel marzo del 1971 cominceranno le prime indagini della Magistratura per fare luce sull’accaduto. Dopo tre gradi di giudizio tutto finirà in una bolla di sapone, passando alla storia come «quattro vecchietti» mossi dalla troppa nostalgia per il passato ventennio fascista. Negli ultimi anni si sono susseguite varie ipotesi sulle ragioni del tentato golpe, ipotizzando accordi fra Borghese e Cosa Nostra, nelle intenzioni delegata a supportare il piano, fino a tirare in ballo la massoneria, la CIA e il presunto bene placito del Governo americano all’operazione.

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«L’accertamento sul bossolo non ha rispettato il protocollo: va ripetuto» Quelle impronte sul bossolo che portano verso l’ipotesi delittuosa e all’uso di un silenziatore L’importanza delle Scienze forensi è fin troppo evidente nelle dinamiche investigative. È per questo motivo che Cronaca&Dossier ha scelto di offrire ai propri lettori la rubrica “Criminalistica” grazie alla collaborazione del prof. Martino Farneti, direttore del corso pratico “Esperto in Balistica Forense e Scena del Crimine”, partendo dallo studio delle tracce per risolvere un crimine.

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Intervista al prof. Martino Farneti, per più di 30 anni al servizio della Polizia di Stato occupando ruoli di rilievo al suo interno, fino a collaborazioni eccellenti con FBI, Scotland Yard e in particolare con Falcone a Palermo per la lotta alla mafia. Nel caso Tenco il suo contributo ha permesso di scoprire le inefficienze della Polizia in merito alla Balistica e la sua consulenza, fornita agli autori della controinchiesta Le ombre del silenzio, ha permesso di richiedere alla Procura nuovi accertamenti. Prof. Martino Farneti.

In seguito alla visione dei documenti sulla comparazione dei bossoli T (Test, sparato dalla PPK-L di Tenco dopo 39 anni) e R (Reperto, trovato nella stanza 219), è d’accordo con i risultati della Polizia? «Si osservano diversi errori di base in merito ai confronti svolti fra il bossolo Test ed il bossolo in Reperto. È procedura riconosciuta dalla comunità scientifica internazionale che gli accertamenti balistici, perché siano validi, debbano aver seguito un preciso protocollo di lavoro e criteri di confronto ben determinati. Nei confronti balistici, esaminati e riportati nella relazione tecnica sviluppata dal personale della Sezione Indagini Balistiche della Polizia Scientifica (ERT), non sono riportate le fotografie che riguardano l’indicazione delle caratteristiche di classe e d’individualità d’arma osservate sui bossoli Test, prodotte dalla pistola PPK-L in calibro 7.65 mm. Browning matricola 517600, arma regolarmente detenuta da Luigi Tenco, rinvenuta sulla scena dell’evento occultata parzialmente sotto il bacino di quest’ultimo. Inoltre, nelle didascalie a corredo di ciascuna foto è mancante l’indicazione di un punto di riferimento comune, per i due elementi a confronto, quale ad esempio la posizione dell’espulsore o la posizione dell’estrattore in relazione ad un quadrante di orologio. Il principio del confronto balistico si basa infatti

sul “confronto positivo” solo quando le impronte di classe e d’individualità d’arma, su elementi dello stesso calibro, sono ripetitive per posizione e forma. Questi confronti, di conseguenza, non avendo rispettato alcun protocollo internazionale, non possiedono alcun valore probatorio. Dall’esame delle foto che riguardano i confronti fra le impronte lasciate dall’espulsore sul piano del fondello dei bossoli Test e Reperto, si rileva addirittura una differenza nella morfologia delle due impronte di classe».

Dai rilievi sul bossolo emergono “segni” che indicano l’uso di un silenziatore? «Ad una attenta osservazione si evidenzia immediatamente come la morfologia dell’impronta lasciata dell’espulsore sul piano del fondello del bossolo in reperto sia particolarmente evidente, come se l’arma che ha deflagrato la cartuccia fosse stata munita di “silenziatore”. La notevole quantità di gas che permane più a lungo nella

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canna dell’arma, quale conseguenza del montaggio di un silenziatore, produce sul piano del fondello del bossolo, da parte dell’espulsore, una più evidente e marcata impronta. Premesso quanto sopra ritengo che tutto l’accertamento balistico debba essere rifatto, con personale più qualificato, proprio al fine di non avere dubbi circa l’arma che ha deflagrato la cartuccia il cui bossolo è stato indicato come “Reperto”».

Cosa può dire in merito alla connessione tra sparo e ferito al foro d’entrata rinvenuta sul cadavere? «Nel caso di impiego di un silenziatore non si produce una ferita stellare sulla cute, manca la pressione istantanea, ma siamo in presenza di una pressione più bassa ma costante e soprattutto vi è anche un lancio di feccia (residui

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carboniosi) che seguono il proiettile come la coda di una cometa, residui che si vanno a posizionare proprio sotto i tessuti circostanti il foro di entrata. Non ritengo che nel caso di un omicidio con un’arma silenziata lo sparatore di ponga tanti problemi circa la distanza di sparo fra la parte terminale del silenziatore e la cute; quello che si preoccupa, casomai, è l’inclinazione da dare alla traiettoria del proiettile al fine di far capire che si tratta di un suicidio e non di un omicidio».

posizione eretta o in posizione seduta. Nel caso della morte di Luigi Tenco la traiettoria del proiettile è da destra a sinistra, dal davanti verso il dietro e marcatamente dal basso verso l’alto, quindi un percorso molto anomalo che

lascia concreti dubbi circa un’azione di suicidio, oltre a mettere in evidenza la difficoltà, da parte di un suicida, di sparare un colpo con una pistola semiautomatica con quella particolare direzione». Nanoparticelle.

La traiettoria dello sparo è compatibile con un suicidio? «Per quanto riguarda la traiettoria percorsa dal proiettile all’interno della scatola cranica, di norma in coloro che si suicidano con una pistola semiautomatica, si osserva che il tramite è da destra verso sinistra (o da sinistra verso destra, se mancino) con un tramite abbastanza orizzontale rispetto al piano ove si trovano in

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Caccia all’uomo Avrà finalmente un nome certo l’assassino di De Valiere?

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È la notte tra il 9 e il 10 marzo 1999 quando il 49enne muratore Federico De Valiere viene trovato nudo in bagno, ucciso a coltellate, nella sua casa di Falcade. Un caso forse destinato a finire nel novero degli irrisolti, se non fosse che pochi giorni fa la Corte d’Assise d’Appello di Venezia, riunita nell’aula bunker di Mestre, ha annullato la sentenza di assoluzione per insufficienza di prove nei confronti del marocchino Mohammed Aziz Moulay, emessa nel luglio del 2009 dal Tribunale di Belluno. Gli atti del processo, quindi, torneranno al gip di Belluno. Il nome di costui era emerso poiché era amico di De Valiere e qualcuno sussurrò che tra i due ci fosse un legame omosessuale. Dei testimoni, poi, riferirono agli inquirenti di aver visto il 38enne marocchino proprio in compagnia della vittima. Dai rilievi

effettuati in casa del De Valiere, in effetti, vennero trovate una decina di lattine di birra, accanto al lavello con i piatti sporchi della cena consumata prima dell’omicidio, il che faceva ipotizzare che la vittima non fosse stata sola. Ma oltre a questo non fu possibile andare, sino al 2006. Dal 2004 esisteva infatti l’Afis, la banca dati del Casellario Centrale d’Identità. Qui si trovò un riscontro con le impronte del marocchino, schedato per piccole segnalazioni di Polizia. Il Ris di Parma riuscì a trovare un riscontro proprio dalle impronte rilevate sulle lattine di birra trovate nella cucina di De Valiere, impronte però non databili e quindi non riconducibili con certezza alla notte dell’omicidio. Furono anche rinvenute tracce di sangue, attribuite ad “ignoto 1”, insieme a quello della vittima. “Ignoto 1” è certamente un uomo con

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gruppo ematico A, ma oltre ciò non è possibile stabilire. Perciò è più che mai necessario ritrovare Mohammed Aziz Moulay. Di lui si sa che era operaio alla Ceramica Dolomite, poi nel 2000 per un po’ fu ospite del parroco di Trichiana, quindi abitò in via Garibaldi a Belluno. Nel 2002 andò a chiedere il permesso di soggiorno alla Questura di Belluno rilasciando le proprie impronte digitali, fatto che la difesa ritenne importante: se Moulay era l’assassino, perché tornare in zona, andare in Questura e fornire le proprie impronte digitali? Forse perché nel 2002 ancora il suo nome non era emerso, quindi non aveva nessun motivo per avere timore? Nel 2005 è ancora nel Bellunese da amici ad Alano di Piave. Le ultime tacce di lui risalgono al 2006 a San Bonifacio nel Veronese. Da quella data, il marocchino fa perdere le proprie tracce, infatti non fu possibile notificargli né la misura cautelare della custodia in carcere, né gli atti del processo a suo carico. Aziz, poi, ha ben 3 alias con età molto differenti, che spaziano dai 40 ai 32 anni (per cui addirittura avrebbe potuto essere minorenne all’epoca dell’omicidio). Adesso dove si trova? È forse tornato in Marocco?

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Belluno, Palazzo dei Rettori.

Per la precisione, non c’è la prova che l’abbia saputo. È stato lo stesso Procuratore generale a sollevare l’eccezione di nullità, quindi gli atti tornano al Gip di Belluno.

L’assassino di Federico De Valiere avrà finalmente un volto ed un nome certi, oppure rimarrà uno dei tanti, troppi, casi italiani irrisolti? Falcade.

La Corte d’Assiste di Belluno lo assolse per insufficienza di prove, ma ora Aziz Moulay ricompare alla ribalta come possibile indagato del caso De Valiere. Non sarà una caccia all’uomo facile e bisognerà vedere se e come il Gip di Belluno deciderà di procedere. Il caso comunque va riaperto, poiché l’uomo, difeso dall’avvocato d’ufficio Roberta Resenterra, è irreperibile e quindi non ha mai saputo di essere prima indagato e poi imputato.

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Ucciso per “gioco” È caccia al terzo uomo implicato nell’omicidio di Giorgio Gobbi

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Range Rover.

Un alone di mistero circonda la morte di Giorgio Gobbi, rinvenuto cadavere venerdì 5 dicembre 2014 nel bagagliaio della sua Range Rover in un parcheggio di un centro commerciale in via San Leonardo a Parma. Giorgio, scomparso da casa da mercoledì sera e ritrovato grazie al sistema satellitare installato sulla sua vettura, è stato ucciso con due colpi di pistola: uno al volto e uno all’addome. Una modalità che richiama alla mente le esecuzioni mafiose e che si sposa egregiamente con il passato del Gobbi, implicato molto spesso in loschi giri, è il primo pensiero di chi lo conosce bene. Infatti Giorgio, orfano di padre in tenera età, conduce una vita poco

ligia al dovere rimanendo implicato in furti e altri affari tipicamente gestiti da ambienti malavitosi. Nel suo passato anche un tentato omicidio, nel 2003, fuori il Bar Centrale, per il quale è stato arrestato Carlo Bernardi Pirini, 33 anni, di San Giovanni in Croce, incensurato e titolare del bar. Il motivo del tentato omicidio è stato ricondotto alla gelosia per una donna contesa. Ma il passato del Gobbi sembra non essere per gli inquirenti l’unica pista da battere. Dal sopralluogo sulla scena dell’evento sembra che l’omicidio sia stato commesso in un luogo diverso da quello in cui è stata ritrovata l’auto. L’indagine, seguita dal procuratore

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di Parma, Antonio Rustico, cerca di ricostruire le ultime ore di vita di Gobbi, partendo proprio dal sistema satellitare della sua vettura e dai tabulati del suo telefonino. Entrambi necessari per ricostruire il tragitto effettuato dal Gobbi, prima di essere ucciso. Altri indizi vengono ricercati tra le immagini delle telecamere del centro commerciale e tra quelle dei punti di accesso alla zona.

Accanto alle indagini viene svolta, all’Ospedale Maggiore di Parma, l’autopsia sul cadavere di Giorgio, la quale conferma che la morte è stata provocata da colpi di arma da fuoco, forse di un fucile da caccia, sparati

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da distanza ravvicinata. Grazie alle ottime indagini effettuate, la fitta nebbia che avvolge la morte del Gobbi si dissolve dopo pochissimi giorni, quando gli inquirenti individuano e arrestato Luciano Bonazzoli, cognato della vittima, con l’accusa di omicidio premeditato. Omicidio consumato, secondo le indagini dei Carabinieri, nell’azienda di prevenzione infortunistica “Luma” di Viadana, di cui il Bonazzoli è uno dei soci titolari, e organizzato in ogni dettaglio, tanto che, lo stesso, non solo ha spento le telecamere di videosorveglianza dell’azienda ma, per avere la certezza di essere solo con la vittima, ha pensato di allontanare i dipendenti offrendo loro un pranzo per festeggiare una sua presunta vincita al superenalotto. Il movente del delitto scaturisce proprio dall’ambiente dei videopoker. Infatti l’omicida, schiavo del gioco d’azzardo, ha pensato bene di vendere i gioielli e gli orologi del cognato per saldare un debito accumulato. Il problema è sorto nel momento in cui il Gobbi ha chiesto di riavere indietro i monili. Il Bonazzoli, temendo una reazione forte e sconsiderata da parte del cognato, ha quindi organizzato l’omicidio. La strada intrapresa da questa vicenda sembra sconvolgere tutti gli abitanti dei paesi interessati poiché Luciano Bonazzoli è conosciuto da tutti come uno dalla vita normale. Un uomo comune, che

abita con la moglie e le due bambine in una villetta a schiera nel paese natale a Gottolengo, socio-imprenditore di una piccola azienda affermata e conosciuta nell’ambiente imprenditoriale locale, situata nella zona industriale Gerbolina di Viadana. In verità tutti sapevano ed erano testimoni del vizio del Bonazzoli, poiché tutti i compaesani lo vedevano spesso giocare alle slot nei bar del paese, ma nessuno immaginava che egli potesse fare una cosa del genere. Nonostante l’incredulità dei compaesani, Luciano Bonazzoli ripete davanti al gip Alessandro Conti la confessione già rilasciata al pm Andrea Bianchi e agli inquirenti che hanno condotto l’indagine sull’omicidio di Giorgio Gobbi, assumendosi la responsabilità del delitto e dichiarando di aver agito perché non sapeva come restituire al cognato gli oggetti a lui affidati. La versione dei fatti convince in parte gli investigatori che continuano a scavare all’interno di questa complicata vicenda. Le ulteriori indagini condotte dai Carabinieri portano perciò al fermo

di una seconda persona, Roberto Infante, 50 anni di Viadana, ritenuto responsabile, insieme a Bonazzoli, dell’omicidio e dell’occultamento di cadavere. Secondo la ricostruzione degli inquirenti l’Infante avrebbe avuto il compito di trasportare, dopo il delitto, la Range Rover con il corpo del Gobbi nascosto nel bagagliaio, fino a Parma per poi parcheggiarla presso il centro commerciale Le Torri, dove ad attenderlo ci sarebbe stato il Bonazzoli con l’autovettura di Infante. Ma le indagini non si placano nemmeno dopo questo secondo fermo: gli inquirenti sono sia a caccia dell’arma del delitto che di un terzo uomo rilevato dalle riprese delle telecamere di sorveglianza di un’azienda situata di fronte alla Luma. L’arma del delitto viene rinvenuta, fatta a pezzi, dopo pochi giorni dai sommozzatori nelle acque del Diversivo a Soave, del terzo uomo invece ancora non si hanno notizie.

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I misteri del delitto di Cogne A 13 anni dalla morte di Samuele, la Franzoni ai domiciliari

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Il 30 gennaio 2002, a Montroz (frazione di Cogne), viene ucciso il piccolo Samuele Lorenzi, di appena 3 anni. Alle 8:28 di quella mattina è la madre, Annamaria Franzoni, a telefonare al 118 dopo avere accompagnato il figlio maggiore a prendere il pulmino per la scuola. Al rientro in casa ritrova suo figlio Samuele riverso sul letto matrimoniale, con del sangue che fuoriesce dalla bocca. Annamaria Franzoni, vedendo le condizioni del figlio, ipotizza un aneurisma cerebrale. Poco prima della chiamata al 118, alle 8.27 circa, la donna telefona al medico di famiglia, la Dottoressa Ada Satragni, che è la prima persona ad arrivare sul luogo del delitto. La Dottoressa ritiene che le profonde ferite presenti sulla testa del bambino possano essere state provocate dal pianto disperato del piccolo che scopre di essere rimasto solo in casa. È lei stessa poi a lavare la testa ed il viso del piccolo Samuele sporchi di sangue e, nonostante le condizioni avverse del tempo, lo porta fuori dalla casa e lo adagia su una barella ricavata con un cuscino. I soccorritori del 118 arrivano poco dopo con un elicottero, poiché intorno è tutto pieno di neve, e subito si rendono conto che le ferite frastagliate sulla testa del piccolo sono state provocate senza alcun dubbio da un atto di violenza. I Carabinieri sopraggiungono per i sopralluoghi di rito nell’abitazione e

Cogne.

le indagini portano al ritrovamento e al sequestro del pigiama della donna. La casacca è ai piedi del letto, sotto le lenzuola, mentre i pantaloni sono seminascosti sotto un risvolto del letto del bambino. Gli zoccoli vengono ritrovati nel bagno, risposti in ordine. Sia il pigiama che gli zoccoli presentano macchie di sangue. Alle ore 9:55 del 30 gennaio 2002 il cuore di Samuele smette di battere. Anche le mani del bambino sono ferite, forse dovuto all’estremo tentativo di difendersi dalla furia dell’assassino. L’autopsia rivela chiaramente la causa della morte: il piccolo è stato colpito almeno 17 volte sulla testa con un corpo contundente. La perizia del Tribunale stabilirà che il bambino doveva essere morto in un lasso temporale compreso tra i 5 e i 17 minuti. La perizia viene effettuata con il cosiddetto metodo BPA (Bloodstain Pattern Analysis) individuando che

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Analisi traccia ematica.

l’aggressore indossava gli zoccoli e il pigiama. Alla luce dei fatti accaduti, i primi sospetti cadono su Annamaria Franzoni. A sua difesa, i consulenti di parte sostengono che le macchie di sangue sul pigiama potrebbero essere dovute al fatto che questo si trovava sul letto al momento dell’aggressione. Ma ciò non risparmia alla Franzoni la condanna a 30 anni di reclusione in primo grado, con rito abbreviato, per l’omicidio del figlio Samuele.

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La difesa sostiene che l’assassino, dopo aver visto la donna uscire di casa insieme al figlio maggiore, si sia introdotto in casa con un movente di natura sessuale o di rapina. Trovato il piccolo Samuele nel letto, l’assassino perde il controllo e lo colpisce mortalmente. Poi, nel lasso di tempo di otto minuti scompare senza lasciare alcuna traccia di sé. Tuttavia non vi sono segni di forzatura né sulle porte di casa, né sulle finestre. Nessun oggetto di valore viene sottratto dall’abitazione, la borsa di Annamaria Franzoni, lasciata in casa, non presenta alcuna traccia di manomissione. Secondo l’accusa invece, la donna indossa il pigiama al momento del delitto: sulle maniche della casacca ci sono, oltre al sangue, frammenti di materia cerebrale e ossa appartenute alla piccola vittima. Nessuna traccia, dentro o fuori la casa, riporta ad un intruso che si è prima intrufolato, poi allontanato di corsa (negli 8 minuti, durante i quali Annamaria Franzoni accompagna il figlio Davide al pulmino). Nel successivo giudizio d’Appello, terminato il 27 aprile 2007, la pena viene ridotta a 16 anni. Gli avvocati difensori della signora Franzoni ricorrono in Cassazione, e in attesa della sentenza la donna resta libera per decisione dei giudici. Nella sentenza d’Appello Annamaria Franzoni viene ritenuta perfettamente sana di mente nel momento in cui ha commesso il delitto.

La Cassazione, il 21 maggio del 2008, non ha mosso osservazioni sulla ricostruzione dei fatti della Corte d’Appello e i giudici ravvisano la prova della colpevolezza dell’imputata in due fattori concomitanti: l’assenza di altre ipotesi plausibili e la gravità degli indizi a carico dell’imputata, pur permanendo molti punti oscuri nella vicenda e concludono asserendo che, esclusa la colpevolezza di terzi e del marito, «l’unica realistica e necessitata alternativa residuale è quella della responsabilità della sola persona presente in casa nelle fasi antecedenti la chiamata dei soccorsi». Il 5 settembre 2012 Annamaria Franzoni vede respinta la propria richiesta,

avanzata per mezzo dei suoi legali, di avvalersi degli arresti domiciliari. Il 10 dicembre 2013, ripropone la richiesta al Tribunale di Sorveglianza di Bologna. È in questo contesto che viene ordinata l’ultima perizia psichiatrica, quella che, riguardo al rischio di recidiva della madre di Cogne, sostiene che la donna sia «socialmente pericolosa». Nel giugno 2014 viene depositata l’integrazione della perizia, richiesta dal Tribunale di Sorveglianza di Bologna, in base alla quale per la mamma di Cogne c’è la possibilità di risocializzazione, dentro ma anche fuori dal carcere, e il 26 giugno 2014 il Tribunale di sorveglianza le concede i domiciliari.

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IL PARERE DELL’ESPERTA, DOTT.SSA FRANCESCA DE RINALDIS (PSICOLOGA FORENSE) Tanti esperti hanno cercato di capire il perché dell’efferatezza di tale omicidio, il perché dietro le azioni della mamma di Cogne. L’indirizzo è stato da subito quello della ricerca di possibili cause psicopatologiche che potessero giustificare il fatto, dividendo da subito non solo gli esperti ma anche e soprattutto l’opinione pubblica investita dal clamore della vicenda. La prima perizia, effettuata nell’ormai lontano 2003, stabilì la capacita di intendere e volere al momento del delitto e l’imputabilità della Franzoni. La Corte d’Appello nel 2007 sentenzia, a carico della Franzoni, e lo conferma poi nel 2008 la Cassazione, la presenza di uno stato passionale momentaneo, uno stato crepuscolare orientato, che non ha alterato né la consapevolezza, né la volontà dell’imputata. Lo psichiatra, prof. Ugo Fornari, uno dei protagonisti della saga processuale di Cogne, nonché uno dei massimi esperti europei di omicidi d’impeto, ha l’onestà di ammettere che il quesito attorno al quale è sempre girato tutto, ovvero se la

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madre di Samuele fosse sana di mente o meno, non ha ancora una risposta certa. Infatti egli, che da sempre si oppone alle conclusioni della prima perizia, sostiene: «Non è possibile rispondere al quesito relativo alle condizioni di mente di Annamaria Franzoni al momento del fatto per cui è indagata, in quanto mancando una confessione, non è possibile ricostruire “criminogenesi” e “criminodinamica”». Ad oggi il “mistero” di Annamaria Franzoni è stato definitivamente risolto, ma solo nelle aule di Tribunale, perché le motivazioni delle Corti giudicanti non hanno mai trovato l’accordo degli esperti che hanno seguito la vicenda da vicino e interagito con Annamaria Franzoni, né convinto fino in fondo gran parte dell’opinione pubblica, suddivisa fin da subito tra colpevolisti ed innocentisti, i quali, questi ultimi, non hanno mai saputo e potuto rassegnarsi all’idea che il volto del male potesse vestire i panni di una mamma. Sta di fatto che l’uccisione del piccolo Samuele Lorenzi è il caso di figlicidio che più degli altri, nell’ultimo ventennio, ha avuto un così forte impatto sociale e mediatico: moltissimi programmi televisivi e talk show, come forse mai

prima di quella data, si sono occupati dell’efferato omicidio spingendosi fino ai particolari più nascosti e inediti della vicenda dedicandovi ore ed ore di programmazione. Quando è accaduto il fatto rappresentava quasi una novità assistere a ciò a cui oggi siamo più abituati: un processo mediatico che spesso diventa influenzante, se non pericolosamente fuorviante, per la decisione delle Corti. Oggi l’attenzione mediatica sui fatti di cronaca nera in generale, e dell’omicidio in particolare, specie se in danno di bambini e minori, è altissima tanto che fatti come quello di Cogne spesso vengono strumentalizzati e spettacolarizzati rischiando di perdere di vista il reale significato del lato patologico che sottostà nelle relazioni affettive che si concludono così tragicamente.

Dott.ssa Francesca De Rinaldis.

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«Un conto aperto con la coscienza»

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La storia di Mario Tuti, rivoluzionario d’eccezione

Il geometra del Comune di Empoli, Mario Tuti, quel 24 gennaio del 1975 se l’aspettava la visita della Polizia. Due giorni prima avevano arrestato due componenti del “Fronte nazionale rivoluzionario” che lo stesso Tuti aveva fondato qualche anno prima. Luciano Franci e Piero Malentacchi erano stati sorpresi mentre andavano nel deposito di esplosivo del “Fronte”, pronti a far saltare la Camera di Commercio di Arezzo. Se lo aspettava Mario Tuti, 29 anni ma già una carriera politica vivace, prima con il MSI poi sempre più a destra, extraparlamentare si diceva, ma lui con il suo gruppo si era spinto più in là, non solo nelle posizioni ma anche nelle azioni criminali.

Si rifaceva alla Repubblica Sociale il suo Fronte, non voleva asservirsi ai golpisti con la puzza sotto il naso e i soldi in Svizzera, loro erano i rivoluzionari. Quei tre poliziotti erano lì per lui, non c’erano dubbi, accidenti a Franci e a quella sua mania di scrivere tutto, anche i numeri di telefono, nella sua agenda. Il brigadiere Leonardo Falco, gli appuntati Giovanni Ceravolo e Arturo Rocca suonano alla porta di Mario Tuti, occorre controllare questo geometra, perché ha una collezione d’armi da far concorrenza ad un’armeria. Tuti si innervosisce. Si insospettisce Ceravolo, lascia i fogli delle licenze in mano al suo superiore Falco e scende

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per chiedere via radio informazioni. Qualcosa non va come deve andare, Tuti di colpo estrae una pistola e spara. Falco muore sul colpo, Rocca rimane ferito gravemente. Tuti aspetta Ceravolo che torna in casa e spara anche a lui. Lo uccide senza pietà, del resto, si sarà detto mentre premeva il grilletto, se mi chiamano “caterpillar” nell’ambiente neofascista un motivo ci sarà. Lascia i tre poveri agenti a terra e fa perdere le sue tracce. Scappa Tuti, coperto e protetto da una rete di complici insospettabili, lo cercano tutti. Eppure, prima di riparare in Francia fa in tempo a metter una carica di esplosivo nei pressi di Incisa Valdarno che per poco non fa strage dei presenti. Processato in contumacia e condannato all’ergastolo viene arrestato in Francia con una brillante operazione congiunta qualche mese dopo. Caterpillar continuerà negli anni la sua brillante carriera di criminale anche dal carcere di Novara dove viene rinchiuso, uccidendo nel 1981, insieme all’altro fascista Pierluigi Concutelli, un certo Ermanno Buzzi, un pesce piccolo della galassia del terrore ma che stava rivelando qualcosa di importante riguardo alla strage di piazza della Loggia.

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Come si possa lasciare insieme nell’ora d’aria uno come Tuti insieme a Concutelli e a Buzzi rimane un mistero. Del resto Concutelli ne ucciderà addirittura un altro di detenuto scomodo, un anno dopo, sempre durante l’ora d’aria, sempre a Novara, sempre tra la sorpresa generale. Rinchiuso nel supercarcere dell’Asinara, Mario Tuti nel 1987 guida una delle rivolte carcerarie più lunghe e feroci, accumulando così un’altra condanna. Successivamente ottiene la semilibertà nel 2004, nonostante un curriculum che farebbe rabbrividire i detenuti di un braccio della morte in Oklahoma. Lavora per una associazione di giorno, e di notte rientra in carcere. «Con la giustizia credo di aver saldato il mio conto - ha dichiarato in una recente intervista -. Il carcere cambia radicalmente le persone e, anche se non amo definirmi pentito, oggi non sono socialmente pericoloso e non mi ritengo neppure una persona malvagia.

Con la mia coscienza, però, il conto è ancora aperto. Non ucciderei più, ma ciò non mi consola. Provo un dolore profondo e incancellabile per ciò che ho commesso». Ma cosa resta alle famiglie colpite, ai morti causati da questo pseudorivoluzionario che ha travolto come un caterpillar tutto e tutti arrecando dolore e morte? Una voce su tutti si leva forte e dignitosa, quella di Anna Falco, figlia del Brigadiere ucciso da Tuti quel 24 gennaio di 40 anni fa. Anna colpisce al cuore con lucidità e senza troppi fronzoli, colpisce al centro esatto della questione: «Un elenco troppo

lungo di uomini di diversa estrazione professionale sono morti per difendere quell’ambiente e costume democratico nato nel Dopoguerra nel quale trovano fondamento quelle norme di equità, di giustizia e di clemenza, in virtù delle quali la pena di morte è stata abolita e anche a criminali quali il Tuti, dichiarati nemici di tale patto di civiltà ma destri e pronti a reclamarne le tutele, è concessa la speranza, per non dire l’assoluta certezza, di rivedere le mura della propria casa».

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Strategie e interazioni sociali

Studi e testi ad hoc contro autismo e schizofrenia

«Gioire della gioia che si può trovare negli altri, è il segreto della felicità» George Bernanos

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Riuscire a comprendere e immedesimarsi nelle emozioni di chi ci circonda, commuoversi dinanzi ad una storia con un finale felice o triste, che non riguardi necessariamente un familiare o un amico di lunga data, anche di uno sconosciuto incontrato per la prima volta pochi istanti prima: si tratta di una capacità innata chiamata empatia. Tutti noi la possediamo, ma ciò che ci rende diversi è il livello di empatia che mostriamo nei confronti degli altri: quanto siamo in grado di leggere le sensazioni di una persona e provare a nostra volta le stesse identiche emozioni? Alla base dell’empatia non ci sono solo le cosiddette “emozioni di pancia”, ossia quelle provate di getto in una data circostanza, ma sono responsabili diversi processi mentali assai complessi che subentrano quando diviene necessario capire quali siano i comportamenti più efficaci da adottare in determinate circostanze. L’abilità di capire gli stati mentali degli altri è un punto fermo della Teoria della Mente (TOM), una capacità che

entra in gioco sin dai primi momenti dell’infanzia. Progressivamente i bambini diventano abili nel rivolgere il loro sguardo non tanto verso l’azione meccanica con l’obiettivo di imitarla, ma verso l’intenzionalità dell’azione stessa al fine di capire il gesto e provare a imitarlo perfettamente. Successivamente si acquisiscono abilità più complicate quali riuscire a capire il gioco della finzione, fino ad arrivare alla piena capacità di mentalizzare gli stati d’animo altrui, attorno al compimento dei quattro anni di vita. La Teoria della Mente è connessa con la teoria del “cervello sociale”, secondo la quale le persone che riescono a stabilire un maggior numero di rapporti sociali con altri individui sono quelle che mostrano un’abilità maggiore nel mentalizzare gli stati emozionali altrui; da qui emerge l’ipotesi che molti disturbi del neuro sviluppo, tra cui il deficit di attenzione e iperattività, i disturbi dello spettro autistico e altri disordini che insorgono più tardivamente quali la schizofrenia e il disturbo bipolare, sorgano in relazione ad una ridotta empatia. Riguardo alla relazione tra situazione sociale ed empatia, uno studio recente pubblicato in seguito alla collaborazione tra due gruppi di ricerca francesi, uno dell’INSERM e l’altro del CNRS, ha dimostrato come la nostra capacità di capire gli stati mentali degli altri sia

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necessariamente attivata dalla vicinanza di altri individui e non con strumenti quali il computer. Per questo motivo si può affermare che è il contesto sociale a determinare le nostre azioni. Dalla ricerca emerge che un individuo è in grado di attivare strategie comportamentali diverse a seconda se si trovi o meno con altri individui o da solo con il computer. Ciascuno dei 26 volontari scelti per il test erano sottoposti a due diversi giochi con l’algoritmo di calcolo del computer: il primo, un classico nascondino e il secondo un gioco con la slot machine.

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dovere competere con altre persone per vincere mette in azione una serie di pensieri strategici, attivati dalla teoria della mente, che conducono a risorse vincenti. Dal punto di vista neurobiologico le aree cerebrali che sembrano essere principalmente attive in corrispondenza di pensieri e azioni strategiche, come nel lavoro di Daunizeau, sono la corteccia prefrontale mediale nota per essere la porzione del cervello con funzioni esecutrici e lo striato, implicato nella motivazione.

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Entrambe le aree mostrano come principale neurotrasmettitore la dopamina, che sembra essere l’elemento di guida di certe azioni. Comprendere i meccanismi alla base dei processi decisionali e della capacità di percepire gli stati mentali altrui, non solo può rappresentare un passo in avanti per la comprensione di quella splendida macchina che è il cervello, ma può aiutarci anche a capire cosa non funziona in corrispondenza di diverse patologie quali autismo, schizofrenia e disturbi dell’interazione sociale.

Nel primo gioco, il volontario era convinto di essere affiancato da altri 4 volontari virtuali che competevano con lui per il gioco del nascondino, mentre nel secondo gioco l’individuo volontario era solo contro il computer nell’affrontare il gioco della slot machine. Nel primo caso sono stati registrati molti più successi, considerati inequivocabili visto che si trattava dell’algoritmo di calcolo del computer, da parte dei soggetti volontari quando il contesto era non sociale. Ciò dimostra che la sola convinzione di non essere l’unico nello sfidare il computer ma di

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Le microespressioni facciali delle emozioni: L'analisi per analizzarle, capirle e interpretarle Al di là degli studi effettuati e delle teorie che si sono sviluppate attorno alle espressioni facciali, tutti gli studiosi sono concordi nel sostenere l’universalità della comunicazione espressiva delle emozioni. Esse sono tutte involontarie, mai decise a priori.

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Quando un’emozione emerge, si generano degli impulsi nei muscoli facciali; tali impulsi possono essere bloccati nel momento in cui si stanno verificando, ma non si può prevedere in alcun modo il momento in cui si verificheranno.

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Diversi studiosi (Porter/Ekman/ Friesen) hanno potuto dimostrare che, quando stiamo simulando una certa emozione, azioniamo muscoli che non attiveremmo se l’espressione in questione fosse sincera, e viceversa. Per rispondere a svariati quesiti riguardanti i legami esistenti tra le microespressioni facciali, l’esperienza emotiva ed i processi comunicativi sono state messe a punto, a partire dagli anni Sessanta, numerose tecniche di rilevazione e di analisi delle espressioni facciali. Le tecniche che si concentrano sul volto, quale elemento predominante, si suddividono in studi di giudizio e in studi di misurazione. I primi riguardano le informazioni veicolate dal comportamento facciale, dalle emozioni che ne possono derivare. I secondi si concentrano in prevalenza sulla rilevazione dei movimenti, ossia sugli aspetti che non prendono in considerazione ciò che vuole essere comunicato con il comportamento facciale. Gli indirizzi di tali studi si suddividono a loro volta in due gruppi: quelli basati sulla riflessione teorica e quelli fondati sull’anatomia muscolare del volto. I primi puntano all’identificazione delle combinazioni di movimento facciale, associate ad

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emozioni particolari, quelle “universali” (felicità, tristezza, rabbia, disprezzo, disgusto, paura, sorpresa) ma non permettono di misurare l’intensità del comportamento e non danno giustificazione ad azioni diverse da quelle precostituite, quali prototipi di determinati stati emotivi. Il secondo approccio è basato sulle azioni della muscolatura facciale in risposta a stati emotivi provati. Di questa categoria di sistemi di valutazione fa parte il Facial Action Coding System (F.A.C.S.) elaborato da Ekman e Friesen. In questo sistema ogni movimento singolarmente rilevabile è stato indicato come unità d’azione, che assegna un punteggio soltanto alle unità o combinazioni di unità d’azione che la teoria considera segnali emozionali.

Tra i vari sistemi di analisi e misurazioni delle espressioni facciali elaborate fino ad ora, il F.A.C.S. è considerato dagli studiosi il più comprensivo, completo e versatile.La mimica del viso segnala sfumature e sottigliezze che il linguaggio non riesce a fissare in vocaboli. Le microespressioni sono la più irrefrenabile tra le fonti che, nel viso, possono far trasparire emozioni nascoste. Esse passano sul viso in meno di un quarto di secondo e sono tipicamente incastonate nei movimenti facciali propri del discorso e sono seguite nella maggior parte dei casi da

all’esperienza soggettiva. Il secondo sistema, denominato comportamentale, riguarda invece le manifestazioni motorie dell’emozione, come le modificazioni dell’atteggiamento posturale e dell’espressione facciale. Infine, vi è il livello fisiologico, prevalentemente rappresentato delle modificazioni fisiche, come l’aumento della sudorazione delle mani o le modificazioni del ritmo respiratorio. L’espressione facciale osservata viene dissezionata, decomposta nelle specifiche AU che hanno prodotto il movimento.

una mimica di mascheramento. Ai fini dell’analisi dell’espressione facciale delle emozioni, si analizzano, quindi, i segnali rapidi che attuano variazioni della forma degli occhi, delle sopracciglia, della bocca e delle labbra.Tre sono i diversi livelli o sistemi di risposta attraverso i quali si manifesta l’emozione: il primo sistema, detto psicologico, comprende i resoconti verbali relativi

Si osserva la registrazione sia al rallentatore sia fermando le immagini, per determinare l’emozione coinvolta nell’espressione. È determinata anche la precisa durata di ogni azione, ogni asimmetria bilaterale e la congruenza col verbale. L’analisi così effettuata è descrittiva delle emozioni e non interferisce con l’analisi delle emozioni.

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Inchiesta sulle Forze dell’ordine in Italia Quando gli agenti sono costretti ad autofinanziare le attività Il rispetto dei diritti e delle norme di ordine pubblico costituisce la base del nostro ordinamento giuridico. Per far sì che la legalità non venga calpestata, ci sono degli organismi incaricati di far rispettare quelle norme che garantiscono la tutela dell’individuo e della quiete pubblica. Un ruolo fondamentale è svolto dalla Polizia di Stato e dai Carabinieri che, insieme al Corpo Forestale, alla Guardia di Finanza e alla Polizia Penitenziaria, rappresentano le Forze dell’ordine.

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Esse hanno l’obbligo di garantire l’osservanza e il rispetto della legge. Nell’ultimo periodo, complice la crisi economica e di valori, i reati sono in aumento e la gestione dell’ordine è sempre più difficile. Nonostante ciò, il Governo decide di apportare dei tagli a questi corpi. La riorganizzazione del sistema sicurezza, che rientra tra gli obiettivi principali del governo Renzi, ipotizza, ad ottobre 2014, la riduzione delle Forze dell’ordine da cinque a due. La motivazione può essere racchiusa in due parole: spending rewiew. Accorpando Forestale e Penitenziaria nella Polizia e collegando la Guardia di Finanza con i Carabinieri, il risparmio che si otterrebbe è di circa 2 miliardi di euro. La cifra è notevole, ma tagli così grossi possono mettere a repentaglio la sicurezza pubblica e l’efficienza dei servizi?

Il Tempo, attraverso dati numerici, mostra quello che il Viminale ha rivelato ai sindacati di polizia. Tra le unità più colpite abbiamo la Polstrada che di 407 presidi ne conserverà 373. Altre riduzioni riguarderanno la Polizia Ferroviaria: di 212 presidi ne resteranno attivi 163. Brusca trasformazione anche per la Polizia Postale, fortemente impegnata contro il cybercrime, fenomeno in aumento negli ultimi anni. Di 101 presidi, solo 27 continueranno ad esistere. Nell’ambito del progetto di razionalizzazione si prevede una riduzione anche per la Polizia di Frontiera (da 67 a 40) e per la Polizia a cavallo (da 15 a 4). Verranno eliminati 4 dei 49 presidi operativi dei nuclei artificieri: due considerati inutili perché poco operativi e altri due esistenti solo su carta. Chi ha controllato, negli anni, il funzionamento di questi nuclei che ora sono ritenuti eccessivi?

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Per quanto riguarda i Carabinieri, dal 2005 ad oggi, sono stati soppressi 345 reparti e unità organizzative. Altrettanto drastici sono stati i tagli alla Guardia di Finanza, dal 2009 sono venuti a mancare 72 reparti. La carenza organica prevista per il 2015 è di 10.300 militari. Per la restituzione attendono circa 18 mesi, ma intanto continuano a svolgere un lavoro rischioso e di grande utilità sociale. Queste difficoltà mettono in risalto gli sprechi che si sono susseguiti negli anni senza alcun controllo. Le nuove generazioni stanno pagando, più delle altre, i disastri provocati da

coloro che per molto tempo si sono cullati sugli allori, contribuendo a sprecare denaro pubblico senza ritegno. Poi incredibilmente, all’improvviso, compare la spending rewiew con il giusto obiettivo di ridurre la spesa pubblica. Si sottovaluta, però, il rischio burnout dei lavoratori e della società.

Il segretario generale del “Sindacato Italiano dei Lavoratori della Polizia di Stato”, in occasione di scioperi e proteste, ha evidenziato i disagi che alcuni poliziotti vivono giornalmente in Italia. Spesso, gli agenti si ritrovano ad anticipare i soldi per blitz o interventi perché non ci sono fondi per effettuarli. In queste circostanze sono costretti a pagarsi le spese di trasporto, vitto e, se serve, anche l’alloggio.

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In Italia il numero dei matrimoni è in continuo calo, questo però non vuol dire che lo stesso accada per le separazioni. Secondo un’indagine Istat sono molte le famiglie con figli che si dividono e questo comporta un accrescimento di nuovi poveri: stiamo parlando dei padri. Ecco che si apre il sipario e scorgiamo un mondo per alcuni ignoto, per altri fin troppo conosciuto. Più del 66% degli uomini, dovendo provvedere al mantenimento della moglie e dei figli, si ritrova con solo un terzo dello stipendio per poter vivere. Cosa che crea non poche difficoltà. Non riuscendo ad acquistare neppure i beni di prima necessità, li troviamo in fila nelle mense della Caritas, nei dormitori comunali, se non letteralmente “buttati” nelle proprie auto.

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Vite stravolte da un divorzio, che in numerosi casi hanno portato anche a forti depressioni, sfociate in episodi di suicidio. Per questo motivo sono nati centri di ascolto dove è possibile avere un po’ d’aiuto. Presso l’Associazione Padri Separati Onlus, ad esempio, è possibile usufruire di consulenza legale grazie ad uno sportello amico e a molti altri servizi. Un altro conosciuto in tutta Italia è la Casa dei Padri Divorziati, che fornisce una serie di prestazioni alle persone che si trovano a vivere l’esperienza della separazione. Quando un matrimonio termina sappiamo che è quasi sempre l’uomo ad abbandonare la casa e questo rappresenta già il primo grosso problema da affrontare. Inizia così un calvario non solo

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economico, ma anche di disagio psicologico. Per non parlare del rapporto con i figli, che nella maggioranza dei casi cambia radicalmente: più della metà dei padri intervistati ha denunciato un peggioramento nella qualità del legame che aveva. Un caso emblematico è quello del signor G.M., libero professionista, che è stato molto disponibile raccontandoci la sua drammatica storia. Dopo diversi

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Arriviamo all’aspetto economico della questione. Al signor M. viene intimato di versare un mantenimento di 200 euro al mese, più rivalutazione annua con arretrati di un anno, inoltre un risarcimento danni di 4.000 euro per ingiurie. Gli viene pignorato il conto in banca rovinandolo completamente; in questo modo non riesce neppure più a pagare i finanziamenti che aveva in corso. Ad oggi il signor M. è ridotto sul lastrico, in arretrato con tutti i pagamenti, anche delle banali utenze o del bollo auto. Immaginate quindi il dolore di

quest’uomo, che non solo si scopre tradito dalla donna che amava, ma anche dalla Giustizia italiana che gli volta le spalle. E come contorno, è privato non solo della dignità interiore, ma anche materiale. Questo è il quadro dei nuovi poveri in Italia. Padri e mariti, che dopo una vita di sacrifici finiscono per elemosinare un tetto o un pasto caldo. Allontanati dagli affetti più cari come possono essere i figli, che adesso li vedono con occhi differenti; non più i loro eroi, ma esseri caduti da rifiutare e allontanare. Scena del celebre film Divorzio all’italiana.

anni di matrimonio (ben 34) il signor M. è stato denunciato dalla moglie per presunti maltrattamenti e violenze, e con la richiesta della separazione. Arrivati in tribunale però si scopre che la moglie aveva iniziato una sorta di relazione via web con un giovane di soli 23 anni, spacciandosi per una coetanea. A quel punto l’uomo viene scagionato dall’accusa di violenza in famiglia, ma condannato per ingiurie verso la sua ex.

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Il grooming Sempre più minori adescati su internet 64

Notizia di qualche giorno fa: un uomo di 53 anni è stato arrestato con l’accusa di adescamento di minori online tramite internet e di violenza sessuale nei confronti di una ragazzina di 14 anni. L’uomo avrebbe adescato su Facebook la minore, avrebbe avuto alcuni incontri con la ragazza e ci sarebbe stato anche un rapporto sessuale. A denunciare l’accaduto la madre della minorenne, la quale avrebbe trovato delle foto ambigue della figlia, inviate all’uomo negli ultimi mesi. Dalle indagini è emerso che il 53enne avrebbe fatto anche alcuni regali alla minore: un cellulare e delle ricariche telefoniche. Purtroppo, sempre più spesso leggiamo di bambini e adolescenti adescati online da predatori sessuali. Ma cosa è l’adescamento?

L’adescamento online, meglio conosciuto con il termine inglese grooming, è un processo seguito dal pedofilo per condurre un minore all’abuso sessuale. Infatti, lo scopo del predatore è ottenere l’accesso ad un bambino e costruire una relazione con quest’ultimo al fine di riuscire ad ottenere un rapporto sessuale. Questo processo di solito inizia con una ricerca, da parte dell’adulto, di alcuni siti specifici con l’obiettivo di individuare un minore vulnerabile. Online è facile per gli adescatori nascondere l’identità, in quanto i bambini e i ragazzi spesso chattano o diventano “amici” di persone che non conoscono. Accade troppo spesso sui social networks, nelle chat rooms e nei siti di giochi virtuali.

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L’approccio può essere molto veloce oppure richiedere giorni, settimane, mesi. Una volta individuato il bambino, lo scopo degli adescatori è costruire un legame emotivo con il minore per ottenere la sua fiducia. Ma come fanno? Facendo finta di essere qualcuno che non sono, per esempio dichiarando inizialmente di essere loro coetanei, facendo finta di avere hobbies o interessi in comune, offrendo consigli e comprensione, facendo regali, dando attenzioni al bambino, proponendo uscite o viaggi, facendo false lusinghe per portare il bambino a fidarsi di loro, usando i segreti e l’intimidazione. L’adescamento, inoltre, può assumere diverse forme. Da un primo contatto che può includere avances sessuali - si arriva fino ad una serie di eventi sempre più insidiosi che si susseguono nel tempo. Vediamo quali sono. I pedofili non sempre hanno come target un particolare bambino: inviano messaggi espliciti o immagini a centinaia di minorenni. Dopo che hanno adescato un minore e hanno ottenuto la sua fiducia, i pedofili rafforzano il rapporto isolando il bambino dai famigliari e lo portano a dipendere da loro.

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E ricatteranno il minore o lo faranno sentire nella vergogna o colpevole, affinché non racconti a qualcuno dell’abuso subìto. Per cercare di arginare e contrastare lo sfruttamento e l’abuso sessuale dei minori è intervenuta la giurisprudenza internazionale e poi quella italiana. Il termine grooming, infatti, entra nel Codice penale italiano grazie alla Convenzione del Consiglio d’Europa, fatta a Lanzarote (Spagna) il 25 ottobre del 2007. Con la Legge 1 ottobre del 2012, n. 172, l’Italia ha ratificato la Convenzione di Lanzarote e ha inserito l’adescamento di minorenni (art. 609-undecies), anche

attraverso l’utilizzazione della rete internet. Per questa nuova fattispecie di reato la pena prevista è la reclusione da 1 a 3 anni. Ma per fronteggiare questo fenomeno così subdolo e turpe che può colpire tutti i bambini indistintamente, è fondamentale partire dalla prevenzione. In che modo? Partendo dalla famiglia. Una maggiore capacità di comunicazione e di dialogo tra genitori e figli insieme ad una più intensa condivisione delle esperienze vissute può costituire la migliore tutela per i minori dai pericoli e dalle insidie, non solo del mondo reale ma anche della rete.

Quando l’adescamento online avviene, i bambini possono essere persuasi o forzati a inviare o postare immagini sessuali esplicite di loro stessi, prendere parte ad attività sessuali via webcam o smartphone, avere conversazioni sessuali via sms o online. I pedofili possono arrivare a minacciare di inviare le foto, i video o le copie delle conversazioni ai famigliari o ai loro amici a meno che non prendano parte ad altre attività sessuali. I predatori possono introdurre i “segreti” come mezzo per controllare o minacciare il bambino.

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LIBRO E PROGRAMMA TV PROGRAMMA CONSIGLIATI RADIOFONICO E FILM Nelle librerie a cura di Mauro Valentini Le Apparenze

La distorta verità e la giungla romana Fabio ha una vita piatta, noiosa e anonima. È lì ad arrovellarsi intorno ad un matrimonio finito in pezzi insieme alle sue sicurezze di padre e di uomo. Poi una ragazza bellissima e misteriosa che cade sul suo pianerottolo lo costringono ad emergere dai suoi pensieri, ma quello è solo l’inizio perché da lì in poi, senza che quasi se ne renda conto, Fabio diventa il mostro di Roma, il ricercato numero uno con una accusa terribile sulle spalle. Ma poi davvero tutto quello che sembra è realtà? Davvero i morti sono morti? Davvero cercano proprio lui? Claudio Bianconi confeziona un noir agile ed essenziale, una storia che si inerpica con maestria in quei misteri e sottoboschi collusi e collosi del malaffare romano e non solo, raccontando come una vita anonima possa rimanere schiacciata da poteri (e potenti) forti, ma al tempo stesso affrancata dal suo piatto grigiore. Il protagonista scappa terrorizzato soprattutto da quello che i media stanno scrivendo di lui, la sua reputazione calpestata in un attimo, il nulla attorno ed un solo amico ad aiutarlo alla ricerca anche lui di una strada per uscire da un incubo Kafkiano, in un susseguirsi di colpi di scena. Le parole di Bianconi scorrono leggere eppure incalzanti evidenziando una capacità narrativa che non può non lasciare traccia in chi legge; i personaggi di contorno sono quasi un libro nel libro e meriterebbero una vita propria, tracciati come sono con abilità da pochi colpi di pennello e di penna. E così conosceremo il Colonnello glaciale e misterioso, il Bisonte, un energumeno violento e asservito, e poi i due scassinatori che sembrano esser usciti da un film di Mario Monicelli, beceri istrionici eppur così “professionali”. Una lettura piacevole dunque di un libro, edito da Perrone, che ha il Premio letterario Walter Mauro con questa motivazione che sottoscriviamo: «Per la capacità di costruire una trama misteriosa che ben si adatta al genere giallo/noir, riuscendo al tempo stesso a restituire una perfetta ambientazione romana».

In televisione

Diritto di Cronaca, la nuova rubrica di politica ed attualità in onda ogni martedì e giovedì su Teleromauno (CH. 271). Tante le tematiche già affrontate, dal caso Cucchi al clan dei Marsigliesi, fino alle inchieste su sanità, sicurezza e criminalità. Tutte le puntate sono disponibili sulla pagina Facebook di “Diritto di Cronaca”, condotte dal giornalista Giovanni Lucifora.

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CONSIGLIATI

Al cinema

Kingsman- The Secret Service Un agente segreto alle prese con un caso d’eccezione che potrebbe cambiare la sua carriera e il desiderio di far sì che il proprio nipote diventi il nuovo James Bond: sono questi i due binari sui quali viaggia KingsmanThe Secret Service. Diretto da Matthew Vaughn e con attori del calibro di Colin Firth, Michael Caine e Samuel L. Jackson, l’opera cinematografica presenta una trama avvincente. Sono tre i misteri attorno ai quali ruota l’affascinante avventura dell’agente segreto, con accanto il nipote Gary in un crescendo di abilità: dalla distruzione di una città intera ad un segreto oscuro proveniente dall’Everest, passando per una serie di rapimenti di varie stelle del Cinema. Proprio i rapimenti riserveranno brutte sorprese ai due protagonisiti, fra inganni e menzogne in un mondo nel quale difendersi diventa sempre più complesso.

In radio

Zone d’Ombra, il programma radiofonico che racconta l’Italia più oscura tra misteri, casi irrisolti o ancora avvolti dalla nebbia. È ideato, scritto e condotto da Andrea Giachi e Davide Iaccarino e va in onda tutti i martedì dalle 20.00 alle 21.00 su Radioluiss.it. Da non perdere le puntate del 3 e del 10 febbraio dedicate al mondo del crimine.

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