Anno 2 - N. 12. Febbraio 2015
Gli aggiornamenti sui casi italiani pi첫 scottanti, dal caso Moro al caso Orlandi passando per le grandi stragi nazionali
Indice
del mese
4. Lettera aperta del Direttore 5. Inchiesta del mese Un anno di Cronaca&Dossier: come sono cambiati i casi trattati? 12. Sulla scena del crimine L’ altra verità sulla morte di Matteo Vaccaro 18. Sulla scena del crimine Dal terriccio sotto il cadavere la possibile verità per Roberta 22. Sulla scena del crimine La Cassazione salva Gregorio Procopio e il delitto Provenzano resta impunito 26. Memorabili Canaglie Setta Criminale. L’ orribile storia delle “Bestie di Satana” che ha sconvolto l’Italia 32. Stay Behind I misteri vaticani tra verità ufficiali e dietrologie. 40 anni di intrighi
36. Dossier da collezione Mino Pecorelli, 36 anni senza verità 42. Dossier Società Il lato sconosciuto delle Difesa italiana 48. Storie di tutti i giorni Quando la rinascita economica del turismo passa per i disabili 50. Diritti e minori Bambini e nuovi media: un rapporto fatto di luci e ombre 52. Media Crime Libro, film, programma radio e tv consigliati
ANNO 2 - N. 12 FEBBRAIO 2015 Rivista on-line gratuita -----------------------------Direttore responsabile Pasquale Ragone Direttore editoriale Laura Maria Gipponi Articoli a cura di: Alberto Bonomo, Nicoletta Calizia, Alessia De Felice, Nicola Guarneri, Francesca De Rinaldis, Dora Millaci, Gelsomina Napolitano, Katiuscia Pacini, Paola Pagliari, Mauro Valentini Direzione | Redazione | Pubblicità Auraoffice Edizioni srl a socio unico Via Diaz, 37 - 26013 Crema (CR) Tel. 0373 80522 - Fax 0373 254399 edizioni@auraoffice.com Grafica e impaginazione Simone Coppini Testi e foto non possono essere riprodotti senza autorizzazione scritta dell’Editore. Le opinioni espresse negli articoli appartengono ai singoli autori dei quali si intende rispettare la piena libertà di espressione. Registrato al ROC n. 23491 Iscrizione reg. stampa n. 1/2014 Tribunale di Cremona
DIRET L E D P E R TA A A R LETTE
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Lettera aperta del Direttore
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Direttore Responsabile Cronaca&Dossier, Pasquale Ragone.
Il 15 febbraio 2014 il primo numero di Cronaca&Dossier vedeva la luce ed oggi, ad un anno esatto, siamo qui a ricordare dodici mesi di storie, indagini e dossier. Il nome della nostra testata nasce proprio dalla volontà di porre al servizio dei lettori fatti di cronaca nera e vicende legate a tante pieghe oscure che hanno caratterizzato il nostro Paese, le quali spesso si intrecciano con la politica. Vale la pena ricordare il “caso” trattato nel numero 1, dedicato a Rino Gaetano per fare chiarezza sulle voci che vedevano nella sua morte un complotto massonico ordito ai suoi danni, rivelando invece che, come sempre, la verità è molto semplice, a tratti tanto banale quanto tragica. Già quel primo numero era stato una sorta di manifesto delle intenzioni giornalisticoinvestigative di Cronaca&Dossier, perpetrate nei mesi successivi trattando il caso di Pier Paolo Pasolini, la tragica vicenda personale e di Stato di Aldo Moro, e così via con Ustica, Erba, Orlandi, Pantani, Garlasco, Bologna, fino alla triste vicenda dei giovani Matteo Vaccaro e Luigi Tenco. Ancor più che raccontare storie attuali o remote, la nostra sfida è stata ed è quella
di portare avanti un’idea, un nuovo modo di vedere l’impegno sia giornalistico sia investigativo. È per questo che è stata coniata la definizione di “Giornalismo forense”. Durante tutto il 2014 molti lettori ci hanno scritto chiedendoci di definire la sua declinazione, soprattutto nel panorama della cronaca nera italiana. Ebbene, a quelle domande la risposta si trova già subito nello slogan che accompagna Cronaca&Dossier sin dagli esordi: la realtà fa notizia. Sì, perché la pubblicazione del nostro periodico contiene implicitamente la sfida aperta a quel “sensazionalismo” che può a buon ragione essere considerato una sorta di tumore del giornalismo nostrano. La ricerca spasmodica del clamore, della storia ad effetto, del colpevole a tutti i costi, del gossip tinto di giallo e dunque di quella che deve apparire come “la notizia” per eccellenza, nella nostra prospettiva diventa un esercizio tanto inutile quanto dannoso. Cronaca&Dossier è il primo mensile di Giornalismo forense in Italia perché pensiamo che la cronaca nera vada trattata mettendo assieme la capacità di ricerca, caratteristica del giornalismo investigativo, con la capacità di approfondimento e di analisi, che è tipica della criminologia. La fusione di entrambi produce spesso l’assassinio (è il caso di dirlo) della pratica del sensazionalismo, concentrandosi invece su quegli elementi tecnici che contraddistinguono un’indagine, ma dando la percezione che il mistero e il clamore non sono ingredienti essenziali affinché una storia meriti di essere raccontata. A nostro modo di vedere è già la realtà nuda e cruda, senza alcun bisogno di essere “gonfiata” o stravolta, ad essere di per sé notizia meritevole.
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DIRET L E D P E R TA A A R LETTE
TORE
Chi ha avuto la cortesia di seguirci lungo tutto il 2014 e inizio 2015 sa bene che, oltre ai casi da copertina, molto spazio è stato dedicato a quelle vicende poi risolte dagli inquirenti grazie agli strumenti che le Scienze forensi oggi permettono; oppure a quei casi dove un miglior utilizzo della Scienza avrebbe potuto dare un contributo importante se non addirittura risolutivo. Il tutto però sempre raccontato con quella verve giornalistica che si dota di un linguaggio semplice e accessibile affinché tutti ne possano usufruire. Eguale spazio è stato concesso all’attualità (su tutte, le nostre storiche rubriche Sulla scena del crimine, Dossier società, Diritti e minori e Storie di tutti i giorni), all’importanza di non perdere mai di vista il nostro passato recente (principalmente con le rubriche Dossier da collezione, Memorabili canaglie), alla necessità di interrogarsi sulle pieghe meno definite della nostra società (con Stay behind) e infine all’esigenza di comprendere sempre di più ciò che siamo, ponendo interrogativi su cosa sia l’individuo e cosa lo spinga ad essere quel che è nella società contemporanea (introspezione
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sottolineata dalle rubriche Dossier scienza e Indagando se stessi). Nell’occasione dell’anniversario della nascita, Cronaca&Dossier ripubblica in via del tutto speciale alcuni degli argomenti che più di altri hanno fatto scalpore nelle rubriche Stay behind e Dossier da collezione perché maggiormente in grado di raccontare e spiegare parte delle tragedie che hanno colpito l’Italia negli ultimi decenni. La sfida prossima è confermarci e proseguire nel solco tracciato, orgogliosi di essere al servizio dei lettori che già ci seguono, per altro molto numerosi e sparsi in più di venti Paesi nel mondo dagli Stati Uniti al Giappone, e per quelli che verranno. Da parte nostra è ancora più vivo il desiderio di offrire la nostra prospettiva, il nostro modo di leggere le storie che trattiamo, intenti e vigili a non lasciarci andare alla “notizia facile” e ad analisi banali e “scandalistiche”, sicuri che quando si racconta in modo serio e scientifico è già la realtà ad essere notizia.
Direttore Responsabile Pasquale Ragone
Un anno di Cronaca&Dossier: come sono cambiati i casi trattati? Le nostre otto storie da copertina che più di altre hanno interessato l’opinione pubblica
Pasolini, tracce di DNA (Cronaca&Dossier n.2) a cura di Alberto Bonomo Era il 26 aprile 1976 quando il Tribunale per i minorenni di Roma, considerando Pino Pelosi pienamente capace di intendere e volere, emetteva a suo carico condanna di reclusione a 9 anni e 7 mesi per l’omicidio nei pressi dell’idroscalo di Ostia dello scrittore Pier Paolo Pasolini, avvenuto il 2 novembre 1976. Trascorsi poco meno di 40 anni dal tragico delitto Cronaca&Dossier a marzo ne aveva ricostruito l’atmosfera spettrale della scena criminis e i lunghi anni trascorsi tra congetture, accuse e false verità. Oggi, sebbene la storia non sembra cambiata di molto da quella sentita e risentita, il mistero dietro l’uccisione di Pasolini è vivo più che mai. Appartengono a cinque diversi individui le tracce di DNA ritrovate recentemente sui vestiti del poeta e cosa ancora più interessante: nessuna apparterrebbe a Pelosi. Quest’ultimo è stato ascoltato dal pm Minisci della Procura di Roma, confermando la sua totale innocenza e ribadendo la presenza di altri individui, che materialmente, dopo un agguato, malmenarono a morte Pier Paolo Pasolini. A dire la verità, sin da subito, addirittura dalle fasi finali del processo
Le ultime su Ustica (Cronaca&Dossier n.4) a cura di Alberto Bonomo Quando il 27 giugno 1980 il puntino luminoso che segnava la posizione del Dc-9 Itavia scomparve dai radar del centro controllo aereo di Roma erano da poco trascorse le 21.00, “nessuno” avrebbe immaginato che quell’istante avrebbe rappresentato il prologo di una storia, a tratti irreale, tra le più controverse e manipolate del nostro paese. La verità a poco a poco giunge a riva trascinata dalla corrente e con essa le responsabilità di chi quella sera scatenò il disastro. Leggendo un documento redatto dai servizi segreti italiani nel 2000 è possibile oggi scoprire che sui cieli italiani volavano anche aerei militari americani ma non solo quelli. Gli Stati Uniti mentirono clamorosamente quando affermarono di non avere mezzi impiegati sopra il Mediterraneo. Ci sono delle intercettazioni radio e conversazioni telefoniche a confermarlo. Tra le ultime novità sul caso merita menzione il maxi risarcimento che, ad inizio ottobre, il giudice monocratico di Palermo,
del ‘76 s’ipotizzo fermamente la possibilità che l’atto fosse stato realizzato con la complicità di più individui e la stessa tesi fu ribadita dallo stesso Pelosi mai considerato davvero attendibile e sincero. Le minacce sopportate dal giovane e le pressioni ad opera dei veri artefici del massacro sono state a suo dire le uniche ragioni a spingerlo verso la menzogna e l’auto colpevolezza: «Uno di loro è venuto da me, me le avevano già date, e mi ha detto: “Inventati qualcosa, se dici qualcosa famo fuori te e tutta la famiglia tua”. E pure in galera me lo ricordavano, erano detenuti questi, quando mentivo mi dicevano “bene così”. Non mi hanno mai mollato». Non un punto ma solo una virgola per questa storiaccia tutta italiana. Anche a distanza di cent’anni, anche senza la possibilità di punire i colpevoli sarebbe sufficiente una piccola dose di verità al profumo di giustizia. Ora però si va verso l’achiviazione.
Sebastiano Ciardo, ha confermato condannando i ministeri della Difesa e dei Trasporti a pagare una somma che ammonta a 5 milioni e 637.199 euro, a favore di 14 familiari ed eredi di sei vittime: Annino Molteni, Erica Dora Mazzel, Rita Giovanna Mazzel, Maria Vincenza Calderone, Alessandra Parisi e Elvira De Lisi. Inoltre, recentemente due ingegneri della Federico II di Napoli, Agostino De Marco e Leonardo Lecce, hanno presentato su richiesta dell’avvocato Daniele Osnato (difensore di alcune vittime) una simulazione 3D della traiettoria della caduta dell’aereo sviluppando un nuovo percorso ipotetico scientifico. Secondo la loro ricostruzione l’aereo cadde in acqua integro senza esplodere in aria (come si crede ad oggi): «L’aereo potrebbe aver impattato contro una possibile forza d’urto contraria che lo avrebbe fatto sobbalzare dalla sua rotta originale; a quel punto l’aereo avrebbe iniziato ad avvitarsi su se stesso e poi sarebbe precipitato pressoché integro verso la superficie del mare». Quale nuova verità porterà la corrente?
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E L MES E D A IEST Emanuela Orlandi e il ritorno di Ali Agca (Cronaca&Dossier n.5) a cura di Mauro Valentini «Sul caso di Emanuela Orlandi il Vaticano sa tutto. Per questo tace. Il fratello di Emanuela, Pietro sa molte cose che anche il Vaticano sa, per questo sta combattendo, mica penserete che è un pazzo paranoico? Emanuela è viva, sarà nascosta in qualche convento, ma il Vaticano non rivelerà mai questo segreto». Quando Emanuela Orlandi scompare quel 22 giugno del 1983, Mehmet Ali Agca è detenuto nel carcere di Rebibbia, dove deve scontare l’ergastolo per «tentato omicidio di Capo di Stato estero». Eppure della vicenda Orlandi ha sempre detto di sapere molte cose. E le dice anche ora. Il 15 dicembre 2014 rilascia un’intervista all’Ansa, annunciando che vorrebbe venire a visitare la tomba di Wojtyla, omaggiando l’uomo che lo ha ascoltato, l’unico forse che lo ha preso sul serio. Nessuno percepisce cosa sta meditando, come sempre. «Non è attendibile», ha sempre dichiarato la Procura di Roma che ha indagato sull’attentato al Papa e indaga sul caso Orlandi.
Erba, una storia senza certezze (Cronaca&Dossier n.6) a cura di Mauro Valentini «Ma cosa vuoi confessare Olli. Non siamo stati noi!». La strage di Erba ha cambiato il paese. Per sempre. Lo ha costretto ad interrogarsi sul corto-circuito relazionale che ci ha assalito in questi ultimi decenni, una commistione letale di intolleranza razziale e disprezzo di ogni regola di convivenza civile. Il vicino è un nemico, disturba il paradossale modus vivendi di un luogo chiamato condominio. Disturba la voglia di solitudine. Olindo e Rosa sono da sei mesi usciti dall’isolamento diurno, corollario della pena all’ergastolo con cui sono stati condannati come esecutori della strage dell’11 dicembre 2006. Per i tre gradi di giudizio sono loro i colpevoli. Hanno confessato il delitto, il testimone unico sopravvissuto alla mattanza li ha riconosciuti, c’è
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Poi puntuale come un orologio svizzero, un mese fa Agca entra in Italia con un passaporto falso, in barba ai controlli di confine, facendosi fotografare in Piazza San Pietro il 27 dicembre scorso con un mazzo di fiori in mano, con tanto di “selfie” sulla tomba di Giovanni Paolo II e interviste “in esclusiva” a tutti. Eppure «non è attendibile» e con un provvedimento lampo, mai visto così rapido nella storia della Giustizia italiana, viene espulso nonostante l’opposizione della famiglia Orlandi, mai ascoltata in questi 31 anni e non ascoltata neanche ora. «La Procura lo convochi, è assurdo espellerlo senza interrogarlo», protesta Pietro Orlandi. Niente da fare. «Non è attendibile». Eppure il coinvolgimento di Agca è paventato anche da un indagato che invece è ritenuto molto attendibile dalla Procura: Marco Fassoni Accetti. In un memoriale egli lo cita apertamente come contatto con l’organizzazione che a suo dire è coinvolta nel rapimento. Eppure, «non è attendibile». una traccia minuscola del sangue di una delle vittime sul montante lato guida della Punto di Olindo. Punto. Soprattutto i coniugi Romano hanno un movente: Raffaella ed il piccolo Youssef disturbavano, facevano rumore. Paola, la mamma di Raffaella e la signora del piano di sopra, Valeria, si sono trovate lì per caso e peggio per loro. Mario Frigerio, il sopravvissuto, è stato solo fortunato. Si fa per dire. I tre gradi di giudizio sono stati concordi e fermi, sono stati loro senza dubbio. Anche se quella confessione è abnorme, manca un tassello fondamentale: come hanno fatto a scappare da quell’inferno i due attempati e corpulenti coniugi se non sono passati dal portone, già invaso di fumo e di persone? Ma c’è il riconoscimento di Frigerio, quello è drammaticamente dettagliato, oggi però testimone deceduto. Seppur con fatica per le ferite mai rimarginate, Mario, dopo qualche giorno in cui ha raccontato di un aggressore molto alto, olivastro, agilissimo e con gli occhi scuri ricorderà di colpo che quell’assassino era Olindo. Quella macchia sul montante dell’auto c’è, infinitesima traccia a dispetto di litri di sangue versati innocentemente, una piccola traccia. Solo quella. Rosa e Olindo, ma come avete fatto?
Pantani, ancora incongruenze (Cronaca&Dossier n. 7) a cura di Alberto Bonomo La Procura di Rimini ha scandagliato attentamente i fondali oscuri in cui affonda la storia di Marco Pantani dal 14 febbraio 2004. Nonostante i numerosi tentativi della famiglia per portare a galla la verità, evidente ai loro occhi, ad oggi non è stato possibile accertare in giudizio la tesi dell’omicidio. Dopo una prima archiviazione del caso nel 2011 la battaglia a suon di perizie sembra apertissima. Indiscrezioni parlano di una probabile nuova archiviazione da parte della Procura, anche se quest’ultima avrebbe ricevuto da poco un nuovo studio presentato dall’avv. De Rensis e condotto dal laboratorio “4en6” di Brescia. Un gruppo di esperti specializzato che ha operato come consulente in altre procure, in casi come quello dell’omicidio di Yara Gambirasio. Lo studio analizzerebbe il video e le foto realizzate dalla Polizia Scientifica quel sabato 14 febbraio 2004 nella stanza del residence Le Rose, in cui fu ritrovato il corpo di Marco Pantani. Attraverso i dati raccolti sarebbe emerso che una grossa pallina di pane
Bologna e la pista rossa internazionale (Cronaca&Dossier, n.7 e 9) a cura di Alberto Bonomo Il frastuono della deflagrazione alla stazione di Bologna rimbomba ancora oggi dopo aver attraversato più di un trentennio. La bomba che esplose il 2 agosto 1980, alle 10:25, uccidendo 85 persone e ferendone 218 non ha mai smesso di uccidere. Sì, perché ancora oggi nessuna di quelle vittime ha avuto giustizia. Parliamo dell’atto terroristico più raccapricciante della storia repubblicana. Cronaca&Dossier ha più volte ricordato questo triste caso analizzando le varie piste ad oggi aperte. La giustizia al tempo individuò tre colpevoli. I neofascisti: Giuseppe Valerio Fioravanti, la moglie Francesca Mambro, e Luigi Ciavardini. I tre si dichiarano sempre innocenti ammettendo di aver responsabilità in altri omicidi ma non in quella mostruosità. Oggi a distanza di 35 anni si prova a chiudere il cerchio. È di alcuni mesi fa lo scalpore mediatico suscitato dalla sentenza definitiva che ha condannato Giuseppe Valerio Fioravanti e Francesca Mambro al risarcimento di 2 miliardi, 134 milioni e 273 mila euro, nei confronti della
e cocaina, presente in molte foto accanto al cadavere, non apparirebbe palesemente interessata da versamenti ematici, tali da ritenere probabile, l’ingestione prima e il rigurgito emorragico dopo, della stessa ad opera della vittima (come sostenuto fino ad oggi dai consulenti del Pm). Il mistero s’infittisce per le testimonianze degli infermieri intervenuti d’urgenza sul posto quella sera (mai ascoltati prima peraltro), dalle quali risulta che le palline non erano presenti accanto al corpo del ciclista. La difesa è fermamente convinta che tutti gli interessamenti ematici presenti su Pantani non siano stati prodotti da spasmi antecedenti la morte, bensì da un evidente trascinamento operato da terzi, presenti in quella stanza maledetta. La Procura di Rimini, in attesa della seconda perizia condotta dal Dott. Franco Tagliaro (lo stesso aveva precedentemente escluso la costrizione nell’ingestione della cocaina), avrà l’arduo compito di verificare la logicità delle ricostruzioni presentate dalla difesa. La storia continua. Presidenza del Consiglio e del ministero dell’Interno. La decisione presa dal giudice Francesca Neri ha cristallizzato la responsabilità dei due ex N.A.R. ma non le ipotesi complottiste. Di certo non lascia impassibili la lettera scritta dal terrorista Carlos, indirizzata all’avvocato Gabriele Bordoni, in cui lo stesso sostiene che i responsabili dell’esplosione vanno ricercati in “Gladio” e nell’Intelligence militare statunitense. Nella missiva una frase appare emblematica: «I giovani neo-fascisti devono essere innocenti». La lettera è stata consegnata al giudice per le indagini preliminari Bruno Giangiacomo, il gip di Bologna a breve deciderà sulla richiesta di archiviazione presentata lo scorso 30 luglio dal sostituto procuratore Enrico Cieri vecchio sostenitore della cosiddetta pista palestinese, l’unica che riuscirebbe meglio a spiegare le ragioni di una strage così efferata e la presenza, a Bologna in quei giorni, di uomini legati al terrorismo rosso.
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E L MES E D A IEST Garlasco la condanna dopo le assoluzioni (Cronaca&Dossier n.8) a cura di Mauro Valentini «Guarderò Chiara e le dirò: ce l’hai fatta!». La mamma di Chiara Poggi sorride con pudore dopo la sentenza del 17 dicembre 2014 che, ribaltando quella che nel gergo giuridico viene detta “doppia conforme” di primo e secondo grado ha condannato Alberto Stasi a 16 anni per quell’omicidio. La Procura Generale, accogliendo gli appunti mossi dalla Cassazione, ha rimandato il nastro dei processi indietro, verificando alcuni punti che poi si sono rivelati fondamentali per una condanna seppure ai più apparsa troppo lieve per un delitto così efferato.
Ripartiti da zero, dunque. Ed allora ecco che la camminata di Stasi ora è ritenuta incredibile e anomala. Per Alberto è impossibile che non si sia sporcato le scarpe. Secondo i Giudici aveva un altro paio di scarpe quella mattina, uccide Chiara poi torna a casa con la famosa bici nera, getta i vestiti (e le scarpe), poi va dai Carabinieri inventando quella storia del ritrovamento. L’omicidio di Garlasco passerà
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alla storia, qualora venisse confermata la condanna in Cassazione, per il paradosso di avere un imputato colpevole di non avere lasciato tracce sul luogo del delitto. Alberto racconta infatti una storia che non sta in piedi. Non può essere entrato nella casa, non può quindi avere visto Chiara morta. Quindi non racconta la verità. Ma la domanda che ci si pone è proprio questa: che necessità aveva Alberto, dopo aver ucciso Chiara alle 09:30 del mattino, di inventare una storia come quella che ha raccontato? Poteva benissimo rimanere a casa, chiamare i Carabinieri da casa e dire candidamente che la sua fidanzata non rispondeva al telefono, non sarebbe stato un suo problema, qualcuno l’avrebbe trovata. Condannato perché non può esser stato lui a ritrovarla.
Ma può esser stato lui ad ucciderla. E poi c’è l’enigma della bici, dei pedali scambiati. Ma anche qui ci si chiede: perché Alberto scambia i pedali delle due bici invece di disfarsene? Possibile che questo ragazzo così colto, metodico e con il vizietto del porno sia così maldestro da sbagliare ogni azione successiva all’omicidio, anche quella più elementare?
La linea della fermezza e il “lodo Moro” (Cronaca&Dossier n.9) a cura di Mauro Valentini
«Bisogna pur ridire a questi ostinati immobilisti della DC che in moltissimi casi scambi sono stati fatti in passato, ovunque, per salvaguardare ostaggi, per salvare vittime innocenti». In quella lettera del 27 aprile 1978, Aldo Moro sente il peso della condanna a morte imminente e cerca di alzare il tiro, tentando di scardinare la “linea della fermezza”. Moro accenna ad un “Lodo” segreto che poi avrebbe preso il suo nome in quanto fautore. È denominato così, avrebbe poi svelato Cossiga anni dopo, perché concedeva al “Fronte popolare per la liberazione della Palestina” transito e logistica in cambio della salvaguardia del territorio da attacchi terroristici. Chissà se le B.R. si siano rese conto di questo suo estremo tentativo di scardinare la resistenza degli irreprensibili amici di partito, chissà se quella lettera abbia segnato
la fine di ogni speranza. «È tempo di aggiungere che, senza che almeno la DC lo ignorasse, anche la libertà in un numero discreto di casi è stata concessa a Palestinesi. Per parare la grave minaccia di ritorsioni e rappresaglie capaci di arrecare danno alla comunità». Più esplicito di così, Aldo Moro non poteva essere. Questa lettera viene recapitata alla redazione de Il Messaggero il 29 aprile, dieci giorni esatti prima dell’assassinio avvenuto il 9 maggio. Mino Pecorelli, argutamente ne legge il messaggio intrinseco e sul suo O.P. Scriverà: «Lo Stato italiano ha progressivamente abdicato a favore del nulla. Il vuoto di potere è stato riempito da un superpotere occulto.» Per Pecorelli dunque, la partita è oltre le BR. È internazionale, con il KGB che manovra l’ala dura dei palestinesi del Fronte in un intreccio in cui l’Italia accondiscende alfine di evitare il ricatto stragista arabo. «Ci interessa dimostrare come pulluli di spie il suolo della penisola», concludeva il giornalista «e come nulla in passato sia stato fatto per circoscrivere questo pericolo». Mino Pecorelli verrà ucciso un anno dopo Aldo Moro. Oggi di questa storia resta una Commissione chiamata a fare luce e la Procura di Roma che ha già rivolto pesanti accuse («concorso in omicidio») nei confronti del consulente Usa, Steve Pieczenick, inviato dall’Amministrazione americana nel 1978 ad aiutare il ministero dell’Interno italiano per le indagini sul sequestro. Fra testimoni e smentite, in realtà non ci si attende molto dalla nuova indagine se non almeno porre qualche punto fermo in questa vicenda e di riflesso nella Storia del Paese.
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SULLA
CRIM L E D SCENA
lberto lo di A
INE
o
Bonom
artico
L’altra verità sulla
morte
di Matteo Vaccaro Interviene la difesa di un imputato nell’acceso dibattito sull’attendibilità delle prove Intervista in esclusiva per Cronaca&Dossier al prof. Gianfranco Marullo, consulente per la difesa di Francesco D’Antonio, imputato nell’intricato caso della morte del giovne Matteo Vaccaro. La notte del 31 gennaio 2011 Matteo fu raggiunto da un colpo di pistola al cuore esploso durante un “regolamento di conti” al Parco Europa di Latina. In manette finirono Alex Moroni, Francesco D’Antonio, Paolo Peruzzi, Matteo Ciavarino Fabrizio Roma e Gianfranco Toselli. In primo grado tutti colpevoli, in Appello la storia cambia. Nell’attesa che si pronunci la Cassazione, e dopo avere raccolto il parere dell’accusa nel numero 10 di Cronaca&Dossier, ecco la verità della difesa. Prof. Gianfranco Marullo.
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quella capacità di reggere agli interrogatori della Polizia o davanti alla prospettiva di lunghi anni di carcere e finiscono per confessare immediatamente come di fatto è avvenuto. Un “codice d’onore” esiste nelle grandi organizzazioni criminali, perché, se si parla, si rischia la vita; o in ambienti criminali di un certo spessore, che non vogliono essere tacciati di “infami”. Qui parliamo di un gruppo di ragazzi che, per un pessimo senso di rivalsa, si sono rovinati la vita mettendo in atto una sorta di sfida con conseguenze disastrose. Più che una scelta pianificata, organizzata, ci si trova di fronte ad una sorta di scontro da “branco” deciso all’ultima ora. Basti pensare che per alcuni di loro, l’interesse, fino a mezz’ora prima, era tutto dedicato alla partita di calcio del Latina. Appena vengono arrestati, cosa che avviene poche ore dopo, rilasciano immediate dichiarazioni su come si erano svolti i fatti. Lo sparatore fa addirittura trovare la pistola. Quindi non vedo assolutamente un “codice d’onore”».
La vittima, Matteo Vaccaro.
Ritiene verosimile che i ragazzi del gruppo legato a Francesco D’Antonio abbiano presenziato all’incontro senza sapere nulla dell’arma da fuoco? «Come giustamente ha sottolineato la Corte d’Appello non è possibile provare il fatto che gli altri fossero a conoscenza che uno di loro era armato. La stessa dinamica dei fatti, per esempio, il brevissimo tempo in cui tutto accade, con la fuga immediata dopo gli spari, lasciando addirittura le macchine parcheggiate, potrebbe dimostrare come il gruppo non aveva previsto l’uso di un’arma. Ricostruendo le posizioni dei vari soggetti nel luogo dove è avvenuto il fatto, lo stesso sparatore avrebbe tranquillamente potuto colpire uno dei suoi amici. Quindi se si è a conoscenza che uno è armato, si evita di mettersi su un’eventuale possibile linea di tiro». Quali radici ha il “codice d’onore” che vige in casi come questo? «Io non parlerei di “codice d’onore” proprio perché si parla di ragazzi che fanno gli sbruffoni fuori, ma poi nei momenti in cui finiscono dei guai non hanno certo
È stato provato, al di fuori di ogni ragionevole dubbio, che l’arma della vittima non ha mai sparato. Nella ricostruzione dei fatti quanto incide, a suo modo di vedere, questo particolare? «Poco o niente alla fine. Sulla scena è stata trovata una pistola giocattolo appartenente, almeno dalle testimonianze, alla vittima. Una pistola priva del contrassegno che la fa identificare come arma giocattolo: il famoso tappo rosso. Da lontano poteva sembrare vera. Anche il solo fatto di averla mostrata o di fare il gesto di puntarla, potrebbe avere scatenato lo sparatore. Secondo i vicini che hanno telefonato alla Polizia, e ci sono le registrazioni della Sala Operativa della Questura, sono stati sentiti numerosi colpi di pistola, come fosse “far west” quindi più dei tre colpi sparati di cui si ha certezza. Si potrebbe quindi dedurre che ci fossero altre armi, in quel momento. Potrebbe aver sparato qualcun altro mai identificato?». Pensa che le pene inflitte e le deduzioni logicogiuridiche che hanno costruito l’impianto accusatorio siano verosimili? «Purtroppo c’è un ragazzo che ha perso la vita per una sciocchezza. Questo è il dato drammatico di tutta la vicenda da cui non si può prescindere. In assenza di testimoni oculari estranei ai due gruppi, ci si è dovuti accontentare di una ricostruzione dei fatti basata solo sulle deposizioni di chi era presente. Questo non ha certo aiutato a chiarire tutti i dettagli
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SULLA
CRIM L E D SCENA
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dell’evento. I giudici hanno optato per un’accusa di omicidio volontario e quindi si sono regolati di conseguenza. Quello che andava chiarito erano le singole responsabilità e quindi la partecipazione volontaria e cosciente di tutti i partecipanti. La Corte di primo grado aveva optato per un pieno accordo di tutti e quindi una loro completa responsabilità. La Corte d’Appello ha valutato diversamente le singole responsabilità, e quindi ha modificato la sentenza. Ha confermato, seppur riducendole a 15 anni, le pene per i principali imputati in base al fatto che non si poteva parlare di spedizione punitiva, di un gruppo verso l’altro, ma di uno scontro tra due gruppi pianificato precedentemente. Ha assolto gli altri dal reato più grave ovvero il concorso in omicidio, condannandoli comunque a pene inferiori, perché non si poteva stabilire a priori che tutti fossero a conoscenza del fatto che uno di loro era armato. Tutti condannati quindi, nessuna assoluzione come qualcuno fintamente vuol far credere. Giudico, al di fuori di tutto, una sentenza più consona per come si sono svolti i fatti».
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Si è detto che le prove raccolte (testimonianze) siano state ritenute non idonee o sufficienti per stabilire un serio giudizio sulla colpevolezza o meno degli imputati. A tal proposito Cronaca&Dossier rettifica quanto scritto nel precedente servizio dedicato al caso Vaccaro (n. 10 di dicembre), precisando in questa sede che Renato Pugliese organizza, tra De Masi e i fratelli Vaccaro, l’incontro presso la propria abitazione per fare da paciere e chiarire l’accaduto e non anche l’incontro avvenuto al Parco Europa. Lei, in qualità di criminologo, cosa pensa dell’approssimazione investigativa degli inquirenti, più volte evidenziata nel caso in questione? «Partiamo da un primo dato. L’evento avviene in un parco pubblico e i partecipanti dei due gruppi si allontanano immediatamente dopo gli spari. Gli amici del Vaccaro verso il pronto soccorso, gli altri fuggono disordinatamente. Quindi la scena rimane completamente vuota. E qui dovevano essere fatti accurati rilievi, cosa fatta in maniera approssimativa. La zona viene transennata solo per poche ore, tanto
che non è mai stato possibile repertare il proiettile che avrebbe colpito il Vaccaro. Sarebbe bastato usare un “georadar” per verificare la presenza o meno del proiettile sulla scena del crimine. Non viene fatta nessuna ricostruzione balistica, lasciando dubbi sulla direzione del colpo, la distanza e soprattutto la posizione dello sparatore. All’ospedale i vestiti della vittima non vengono sequestrati. Le registrazioni audio della Sala Operativa della Questura arrivano in aula solo grazie all’impegno della difesa, eppure erano importanti per identificare i testimoni. Arrestati i componenti del gruppo nell’immediatezza dei fatti, ulteriori indagini scientifiche sono state giudicate inutili».
l’accusa non riesce a dimostrare la colpevolezza fino in fondo, le Corti giudicanti ne dovrebbero prendere atto. Invece anche di fronte a grandi perplessità si arriva comunque ad una condanna. Una norma di civiltà giuridica del Digesto Giustinianeo era la formula “in dubio pro reo”, ormai completamente dimenticata».
E dunque secondo Lei si porrebbe un problema oggettivo di valutazione? «Esatto. Se le prove sono state acquisite in modo erroneo, o non sono sufficienti, dovrebbero essere eliminate dal processo, anche se poi l’impianto accusatorio crolla. Invece succede il contrario, si continuano a mantenere in piedi prove insufficienti, anche sbagliate, pur di arrivare ad un giudizio di colpevolezza. In molti casi si va avanti a teoremi, forzando la realtà dei fatti. Se
Latina, Piazza del Popolo.
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Dal terriccio sotto il cadavere la possibile verità per Roberta Nella tragica fine della 19enne calabrese novità importanti sembrano venire dall’esame del DNA
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Come ogni anno, a luglio, un estivo caldo afoso riempie le giornate dei cosentini; come ogni anno chi può si trasferisce sulla ventilata costa a Mitisci di Falconara. Il 26 luglio 1989 papà Franco Lanzino e mamma Matilde partono da Falconara insieme a Roberta (19 anni) per dirigersi a Cosenza per fare un po’ di rifornimento. Passano la giornata allegramente insieme e, prima di ritornare nella casa estiva, mamma Matilde persuade Roberta a ritornare al mare con il proprio motorino così da essere più libera negli spostamenti estivi. Insieme hanno deciso la strada da percorrere e insieme hanno stabilito che Roberta sarebbe partita per prima seguita a breve distanza dai genitori. Ma a volte il destino, barbaro e crudele, impedisce che tutto vada come deve, e così i genitori di Roberta per una sosta imprevista per prendere frutta e fare rifornimento di acqua, perdono quel poco tempo necessario affinché accada la tragedia. Quando arrivano a casa, Roberta non c’è. Subito papà Franco e mamma Matilde corrono a cercarla insieme a molti volontari che, durante tutta
la notte, battono per ore tutta la strada di campagna che divide Cosenza da Falconara. Anche i Carabinieri, dopo tante insistenze da parte dei genitori, cominciano a cercarla. Alle 6:30 del mattino Roberta viene ritrovata priva di vita nelle campagne calabresi. Sul corpo della giovane donna, di appena 19 anni, sono evidenti segni di pugni, ferite di coltello e del liquido seminale. Morte per soffocamento a causa delle spalline conficcate in gola durante una violenza sessuale con brutali sevizie: questa la causa della morte stabilita durante l’autopsia. Le indagini dei Carabinieri iniziano subito tra molte difficoltà fino al 2007 quando l’inchiesta sembra prendere la giusta direzione grazie alle rivelazioni di Franco Pino, pentito della ‘ndrangheta cosentina, che avrebbe fornito informazioni sulla morte di Roberta durante la sua detenzione nel carcere di Palmi. Grazie a queste dichiarazioni, il pm Domenico Fiordalisi ha accusato dell’omicidio l’agricoltore Francesco Sansone, 46 anni. Lo stesso Sansone, durante la chiusura dell’indagine, risiedeva già in carcere per scontare
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una pena di 30 anni di reclusione poiché ritenuto responsabile di due omicidi, compiuti tra il 1989 ed il 1990, ed entrambi ricollegabili alla morte di Roberta. In uno di questi Sansone avrebbe assassinato Rosaria Genovese, sua ex fidanzata, morta per strangolamento e poi gettata in un pozzo poiché colpevole di aver rivelato alcuni particolari dell’omicidio; nell’altro Luigi Carbone, scomparso il 27 novembre 1989, complice di Sansone nel delitto Lanzino. Ma nonostante le precise accuse, il processo è andato a rilento negli anni, molti i testi che non si sono presentati alle udienze e molti non silenzi hanno riempito l’aula del tribunale presieduta dal giudice Antonia Gallo. Molti anni sono passati dall’accusa mossa a Francesco Sansone per l’omicidio di Roberta, ma la Procura non ha ancora chiuso il fascicolo. Perché? Forse oggi a 26 anni dal delitto non vi sono ancora colpevoli certi per l’omicidio di Roberta Lanzino. Forse i molti depistaggi, forse le innumerevoli prove e i molti campioni misteriosamente scomparsi, forse le piste non battute e le molte persone implicate non consentono di mettere la parola fine a questa vicenda. Solo oggi il RIS di Messina, incaricato dalla Corte d’Appello, avrebbero isolato del liquido seminale dal terriccio repertato sotto il cadavere di Roberta estraendone il profilo DNA dell’assassino. Ma quel
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DNA estratto non corrisponde a quello dell’unico accusato per l’omicidio di Roberta, Francesco Sansone. Ora la verifica non solo sarà ripetuta su Sansone, ma è già stata effettuata anche sui familiari di Luigi Carbone, il presunto complice di Sansone, attraverso la quale servirà stabilire l’eventuale corrispondenza. E intanto il giallo della Fiat 131 che, secondo una testimone, seguiva Roberta nelle campagne che conducono a Torremezzo la sera della tragedia, non è stato risolto. Dopo 26 anni da quella drammatica giornata di luglio l’assassino o gli assassini di Roberta non hanno ancora un volto.
Crimine ai Raggi X a cura di Alberto Bonomo
Anche in questo caso la Scienza ha sconfitto il tempo. Sono tantissimi i casi d’interesse giudiziario e penale in cui sono richieste indagini di questo tipo per l’identificazione personale. Nel liquido seminale, oltre gli spermatozoi, sono presenti altri elementi corpuscolati come ad esempio le cellule desquamate delle vie urinarie o i leucociti, fondamentali proprio nei casi d’identificazione personale attraverso l’esame del DNA, anche nei casi di azoospermia (un maschio che non ha livelli misurabili di spermatozoi nel suo sperma è associato a livelli di fertilità nulli.) Il protocollo
da seguire nei casi di prelievo su vivente è molto differente dal modus operandi utilizzato nei casi di prelievo su vecchie tracce essiccate. In quest’ultimo caso è necessario accertarsi, attraverso esami specifici e l’analisi al microscopio, della presenza di spermatozoi nella traccia. Una volta accertata la natura umana del liquido seminale trovato si potrà passare alla fase in cui si ricercheranno le caratteristiche genetiche del soggetto. È possibile identificare nello sperma e nel liquido seminale alcuni marcatori genetici fondamentali per l’identificazione. Uno di questi è la fosfoglucomutasi, enzima particolarmente resistente all’invecchiamento.
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Clamorosa assoluzione nonostante mafia e sangue
La Cassazione salva Gregorio Procopio e il delitto Provenzano resta impunito 22
«Roberto Provenzano il 28 maggio del 2005 compra un dolce semifreddo in pasticceria. Rincasa intorno alle 19:00 e lo mette in frigo. Poi prepara un piatto di penne al pomodoro e cena. Quella sera non esce ma si sdraia sul letto a guardare la tv, è in boxer. Forse qualcuno bussa alla porta del suo appartamento di Ponte Felcino, lui apre, sulla porta non c’è nessun segno di effrazione. Poi va in bagno e prima di sciacquarsi la faccia accende una sigaretta, fa un paio di tirate e l’appoggia sul portasapone. Mentre l’acqua del rubinetto scorre, il suo assassino gli spara un colpo, uno solo, alla tempia. Un omicidio premeditato, un regolamento di conti». Così si leggeva negli articoli di cronaca, appena avvenuto il fatto. La storia ha avuto il suo incredibile epilogo i giorni scorsi, in seguito al pronunciamento della Corte di Cassazione, ma andiamo con ordine. La vicenda apparve, da subito, intricata. Mai chiarito completamente il movente dell’omicidio del muratore: forse per una questione legata alla droga, non aver restituito le somme di denaro incassate con uno dei carichi che gli erano stati affidati. Provenzano temeva per la sua vita e lo confidava, proprio in una telefonata prima di morire, a tale Giuseppe Affatato: «A me hanno detto che è arrivata la comanda da là sotto Pino» e ancora, «c’è chi si è messo in giro e va dicendo a destra e sinistra tante storie su di me, no?». Nel 2005 l’unico nome emerso come responsabile dell’uccisione del muratore era stato quello di Gregorio Procopio, che si era sempre dichiarato
estraneo all’omicidio e per due volte assolto, in primo e secondo grado a Perugia. Recentemente, in seguito alle inchieste “TrolleySottotraccia” del ROS di Perugia su un traffico di cocaina dalla Calabria all’Umbria, sono stati individuati anche i mandanti, gli organizzatori e gli esecutori materiali del fatto di sangue ed emerge proprio il nome di Giuseppe Affatato, 59 anni, divenuto pure testimone di giustizia. Egli sarebbe stato uno dei mandanti dell’omicidio Provenzano, infatti ancora nel settembre 2013 avrebbe ricordato ai complici che «eventuali “sgarri” nei pagamenti della droga costavano un “colpo in fronte”, come avvenuto al Provenzano». Inoltre vi era Antonio Procopio, 46 anni, tra i promotori e organizzatori del gruppo che si dedicava all’approvvigionamento di cocaina, nascosta proprio nei trolley trasportati ogni 15 giorni a bordo di pullman di linea e prelevati a destinazione dai complici. Venivano usate frasi in codice per far sapere che la droga era arrivata a Perugia ed era pronta per essere spacciata: «Dobbiamo andare dal dottore», «sono pronte le patate rosse». Articolate le operazioni che hanno portato a far luce su questo importante traffico: operazione denominata “Quarto Passo”. Il 14 gennaio 2015 sono state eseguite 21 ordinanze di custodia cautelare emesse su richiesta della Procura Distrettuale Antimafia di Perugia, nell’ambito appunto delle indagini denominate “Trolley-Sotto Traccia”, svoltesi in Umbria, Calabria e Lazio, tra Perugia, Terni, Catanzaro, Prato, Roma e
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Crotone. Gli arresti sono stati spiccati per traffico di droga, detenzione e porto di armi da guerra (15 persone) e per l’omicidio di Roberto Provenzano (6 ordinanze). Il gruppo di calabresi che aveva riorganizzato l’associazione criminale era la prosecuzione del clan già capeggiato dai pregiudicati Salvatore Papaianni (40 anni), Vincenzo Bartolo (49 anni) e Francesco Elia (42 anni, che nei primi anni 2000 gestivano il traffico di droga a Perugia) e che avevano decretato l’omicidio di Roberto Provenzano reo di non aver rispettato gli accordi con il sodalizio. Le indagini di “Sotto Traccia” sono state inoltre portate avanti grazie alla rivisitazione e la rivalutazione degli atti e delle intercettazioni di un’altra indagine, denominata “Acroterium”, conclusa dal ROS nel 2007. A questo punto, l’omicidio Provenzano aveva mandanti ed esecutori e assumeva toni molto complessi, se riferiti al giro che l’associazione mafiosa aveva messo in piedi, estremamente radicato nel tessuto economico e sociale umbro. I sei indagati erano quindi oltre a Gregorio Procopio, il cugino Antonio, l’albanese Guasi Platon, 42 anni, e Francesco Elia che, per gli inquirenti, sarebbero entrati in azione la notte dell’omicidio prestando supporto logistico a Gregorio Procopio, incaricati di controllare gli spostamenti di Provenzano. Istigatori sarebbero stati, invece, Salvatore Papaianni, Vincenzo Bartolo e Giuseppe Affatato. Nel marzo del 2014, poi, una testimone protetta raccontava ai Pm di Perugia: «Antonio Procopio, in occasione del ritrovamento del cadavere di un calabrese trovato a Ponte Felcino mi diceva che era stato l’autore affermando testualmente “in questo c’è il mio zampino”, mi diceva che i Carabinieri non avevano capito niente perché l’esecutore dell’omicidio era stato Gregorio e lui stesso aveva fatto scomparire l’arma... Mi spiegava che l’omicidio era stato necessario per problemi legati ad una partita di stupefacente arrivata dalla
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Calabria e c’erano stati dei problemi di spartizione del territorio». Dalle nuove indagini era emerso che prima dell’omicidio, intorno alle 19:00, Salvatore Papaianni e Vincenzo Bartolo avevano raggiunto Gregorio Procopio. Chiare le parole, grazie alle intercettazioni ripulite con le nuove tecniche: «Papaianni: Ah compare no no no... ammazza a questo va... Bartolo: Spara spara Bartolo: Vogliamo sapere quando hai finito tutto. Procopio: Chiaro! Papaianni: La pistola la trovi tu». Nei giorni precedenti, Procopio si era poi successivamente rivolto all’albanese Guasi “Toni” Platon durante una breve telefonata: «Basta che vieni tu, però. Tu solo vieni, perché se mi dice certe cose mi dispiace spararlo. Ci sei tu, ci sparo, ma se non vieni tu no». Tutto pareva quindi trovare finalmente una spiegazione, ma ecco il colpo di scena: il 20 gennaio la Cassazione ha deciso. Il ricorso presentato dalla Procura Generale di Perugia è stato dichiarato inammissibile, quindi Gregorio Procopio è innocente e, malgrado i nuovi elementi investigativi emersi dalle intercettazioni, non potrà più essere processato per il delitto di Roberto Provenzano. «Ne bis in idem». E questa pare proprio essere la definitiva, incredibile, parola fine per questa morte.
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Nei casi di lesione cranica prodotti dall’utilizzo di un’arma da fuoco, il foro d’uscita potrà presentarsi sotto varie forme, perché sotto stretta correlazione alle proprietà dinamiche del proiettile (circolari, ovalari, piccole fenditure lineari). Specificatamente in relazione alle ferite prodotte a contatto diretto, fra vivo di volata e cuoio capelluto, noteremo le classiche ferite stellari. Le sue dimensioni, invece, variano in relazione al foro d’entrata secondo uno schema mutevole. Nella quasi totalità dei casi il
foro d’uscita è caratterizzato dall’estroflessione dei margini, con i fori d’uscita più grandi di quelli d’entrata. In particolare risulterebbe che l’eventualità specifica di un foro d’uscita maggiore dipenda essenzialmente dalla probabile diminuzione di stabilità del proiettile che, perdendo il movimento rotatorio al momento dell’attraversamento dei tessuti, devia o si capovolge creando anche fenomeni contusivi; come anche la deformazione cui lo stesso va incontro durante l’attraversamento del tramite intrasomatico. A seconda della distanza di sparo si ha l'infissione di particelle trimetalliche nella nicchia del foro d'entrata.
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Setta criminale L'orribile storia delle “Bestie di Satana” che ha sconvolto l'Italia
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È la notte fra il 23 e il 24 gennaio 2004 quando, in uno chalet nei boschi di Golasecca, un piccolo centro del Varesotto, viene barbaramente uccisa a colpi di pistola e badile la 27enne Mariangela Pezzotta, con il tentativo di seppellirne il corpo in una serra poco distante. Colti quasi in flagranza di reato, per l’omicidio sono subito arrestati il suo ex fidanzato, Andrea Volpe, 30 anni, e l’attuale fidanzata di questi, Elisabetta Ballarin, 19 anni. Le prime indagini seguono la pista del disagio e della devianza giovanile, fatto di droghe, alcool e sesso estremo dei due arrestati e del loro giro di amicizie. L’arresto dei due contribuisce però soprattutto a dare nuovo slancio alle indagini, peraltro mai interrotte, circa la scomparsa di due giovanissimi frequentatori del gruppo di Andrea Volpe: Fabio Tollis, di 16 anni e Chiara Marino, di 19 anni. I due giovani, la sera del 17 gennaio 1998 si trovano con alcuni amici in un pub di Milano, che era solito frequentare anche Volpe. Intorno alle 23:30 escono dal locale dicendo che sarebbero andati a telefonare, ma da quel momento non si hanno più loro notizie. I corpi senza vita sono ritrovati il 28 maggio 2004 in una fossa nei boschi nei pressi di Somma Lombardo, in provincia di Varese. Nei mesi successivi si registra una notevole ondata di arresti: dei tre omicidi sono accusati Volpe, già in carcere, e Nicola Sapone, accorso sul luogo del delitto di Mariangela Pezzotta su richiesta dell’amico Volpe. Oltre a quest’ultimo e Sapone, per l’omicidio dei due giovani sono arrestati Pietro Guerrieri, Mario Maccione, Eros Monterosso, Paolo Leoni e Marco Zampollo, mentre Elisabetta Ballarin è accusata per il solo omicidio della Pezzotta. Non finisce qui, poiché accanto alle uccisioni dei tre (Mariangela Pezzotta, Fabio Tollis e Chiara Marino) spuntano altri due casi di morti sospette. Si tratta di Andrea Ballarin di 22 anni, trovato impiccato nel cortile della scuola media che aveva frequentato il 7 maggio 1999, e Andrea Bontade di 19 anni, che lo stesso anno, muore in auto poche ore dopo un incontro con Sapone, il quale verrà accusato poi
Da sinistra dall’alto Volpe, Sapone, Guerrieri, Zampollo, Leoni, Monterosso, Tollis, Frigerio, Marino.
di averlo indotto al suicidio. Entrambi appartenevano al gruppo di Volpe e Sapone. Le indagini portano alla scoperta di satanismo giovanile del quale fanno parte tutti gli arrestati e anche gli stessi Fabio Tollis e Chiara Marino. Il gruppo satanista si costituisce in maniera informale intorno al 1995 col nome di “Bestie di Satana” e raccoglie al suo interno proprio i protagonisti, autori e vittime, di questi fatti di cronaca: giovani residenti fra il basso varesotto e l’alto milanese, coinvolti soprattutto in questioni di droga e appassionati interpreti di una frangia estrema del filone hard, black o death rock. Infatti, dall’analisi dei diari di alcuni dei coinvolti, emerge l’interesse per tematiche e ritualità di genere occultistico e satanico. Sono i familiari della stessa Chiara Marino a raccontare che la ragazza nella sua stanza aveva allestito un altarino, con candele nere, un telo con una stella a cinque punte e la riproduzione di un grosso piede di caprone e un teschio. Non solo, uno degli accusati, Mario Maccione, è ritenuto essere un medium da parte degli alti membri del gruppo che lo credono “posseduto” dai demoni durante la celebrazione dei riti messi in atto dal gruppo.
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La stessa uccisione di Fabio Tollis e Chiara Marino appare come l’epilogo di un rituale satanico: la sera della scomparsa i due sono colpiti con armi da taglio e corpi contundenti, gettati uno sopra l’altro in una buca scavata alcuni giorni prima da Pietro Guerrieri. Nel mese di febbraio del 2005 si celebra, con rito abbreviato, il processo a carico di Volpe, Guerrieri e Maccione. Il processo si conclude con la condanna a 30 anni per Andrea Volpe, che dal carcere decide di collaborare con la giustizia e a 16 anni per Pietro Guerrieri. Assolto invece Mario Maccione, accusato di associazione a delinquere ma giudicata indimostrabile. Tuttavia il 5 aprile 2005, presso la Procura dei Minori di Milano, ha inizio il processo con rito abbreviato a carico di Mario Maccione e Massimo Magni, che al momento dell’uccisione di Fabio Tollis e Chiara Marino sono appena 16enni. La sentenza dell’11 aprile 2005 vede la condanna a 19 anni per Maccione, che si vede
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poi ridurre la pena in Appello a 16 anni, e l’assoluzione per Magni che invece in Appello viene condannato a 9 anni. Il 21 giugno 2005 si apre infine il processo in Corte d’Assise per tutti gli altri imputati, che si conclude il 31 gennaio 2006 con la condanna a due ergastoli con tre anni di isolamento diurno a Nicola Sapone, 26 anni a Paolo Leoni e Marco Zampollo, 24 anni a Eros Monterosso e 24 anni e 3 mesi a Elisabetta Ballarin. La sentenza d’Appello conferma poi le condanne di primo grado per Sapone, mentre acuisce la pena per Leoni, Zampollo e Monterosso. Unico sconto per la Ballarin, che vede la riduzione della pena di un anno. Il 25 ottobre 2007 le Sezioni penali unite della Corte di Cassazione confermano il giudizio emesso dalla Corte d’Appello di Milano il precedente 16 giugno nei confronti di Andrea Volpe, che vede una riduzione della pena da 30 a 20 anni di reclusione rispetto al processo celebratosi con rito abbreviato.
IL PARERE DELL’ESPERTA, DOTT.SSA FRANCESCA DE RINALDIS (PSICOLOGA FORENSE) Una setta è per definizione «un gruppo minoritario di persone che professano una dottrina politica, filosofica, religiosa in contrasto o in opposizione a quella riconosciuta o professata dalla maggioranza». Secondo recenti stime in Italia sarebbero operative più di un migliaio di sette. Gli adepti, o membri di tali gruppi minoritari, sono spesso giovani attratti sia dall’irrazionale, sia dal conflitto con l’autorità e dall’anticonformismo che ne deriva. Ciò che caratterizza questi gruppi è la richiesta di incondizionata obbedienza, segretezza ed omertà da parte degli adepti, le tecniche illegittime spesso usate per ottenere tale affiliazione, la destabilizzazione mentale prodotta dai meccanismi psichici coinvolti che portano sovente gli adepti ad agire contro se stessi, contro le leggi e contro i loro cari fino a determinare addirittura omicidi e suicidi collettivi. I leaders di questi gruppi possono usare a scopo coercitivo tecniche ipnotiche, intimidatorie, violenze, somministrazione di sostanze stupefacenti e altre pratiche illegali. Una tecnica comune è il love-bombing, attraverso la quale si fa leva sulle mancanze affettive e sulla debolezza emotiva di persone depresse o recentemente traumatizzate, offrendogli di sviluppare quel senso di appartenenza alla setta che è in grado di restituire gioia,
amore e cura. Con l'abolizione del reato di plagio, nel 1981, da parte della Corte Costituzionale non viene più favorita l'individuazione e la repressione dei gruppi satanici che perseguono, al pari di altre sette distruttive, il reclutamento degli adepti con le sofisticate tecniche del lavaggio del cervello. Guardando invece ai rapporti tra satanismo e crimine, si osserva che non è un caso che la pista del satanismo spunti spesso in molteplici casi investigativi e di cronaca nera per i vari reati commessi. Le aberranti pratiche a carattere sessuale, che normalmente vengono svolte all’interno delle congreghe sataniste, spesso degenerano in veri e propri sacrifici umani che possono prevedere anche l’abuso rituale dei bambini. Nella nostra legislazione non esiste una definizione di crimine satanico propriamente detta. Tuttavia, il credo satanista può tradursi in una serie di condotte perseguibili dalla legge, come ad esempio l’omicidio, il maltrattamento, la violenza sessuale di gruppo, la violenza privata, la circonvenzione di persone, l’offesa alla religione dello Stato. La vicenda delle “Bestie di Satana” può essere fatta rientrare in quello che in gergo viene definito “satanismo acido” ossia una forma di satanismo tardo-adolescenziale, cui l’adepto si avvicina per consumare droghe di vario genere, fra le quali anche l’alcool. L’effetto manipolatorio e condizionante di tali sostanze è anche funzionale ad ottenere il consenso e la sottomissione degli adepti, che, motivati da un forte bisogno di adesione al gruppo, sono spinti a costruire una nuova identità sulla base della dottrina salvifica e dei bisogni della setta.
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I misteri vaticani tra veritĂ ufficiali e dietrologie
40 anni di intrighi Dalla vicenda Rucker al caso Estermann, passando per Calvi e Sindona
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Il banchiere Roberto Calvi.
«Chiarire un mistero è indelicato verso il mistero stesso» è un celebre aforisma che forse calza bene per storie che sembrano scritte da narratori di sorprendente fantasia e vitalità drammaturgica. Tuttavia tali storie, nel bene e nel male, costituiscono una parte della nostra realtà. La Santa Sede, depositaria della fede cattolica per secoli, è diventata un luogo di segreti sfociati poi nelle leggende più abiette. Ricordiamo, ad esempio, quanto si è potuto apprendere a proposito dei Templari, dell'Opus Dei, oppure in merito ai tesori del Vaticano, allo spionaggio internazionale, fino agli scandali contemporanei dei preti pedofili e delle banche vaticane. Il Vaticano è stato teatro di misteri e di fatti, alcuni ancora avvolti da aloni di incertezza, che in certi casi hanno alimentato le penne di intellettuali coraggiosi e lungimiranti e al contempo sono divenuti terreno fertile per le tante fantasie e immaginazioni connesse a tali vicende. Il primo che si ricordi in tempi più recenti è datato 8 aprile 1959, quando Adolf Rucker ferisce con colpi d’arma da fuoco Robert Nunlist, prima di rivolgere la medesima arma contro se stesso. Si tratta rispettivamente di una guardia svizzera in congedo e del suo ex comandante. Ma quello del 1959 è nulla in confronto a quanto avviene il 25 settembre del 1978, con l'improvvisa scomparsa di Albino Luciani, eletto Papa con il nome di Giovanni Paolo I, deceduto dopo soli 33 giorni dall'elezione al soglio pontificio.
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La versione ufficiale addebita il decesso del Papa ad un infarto del miocardio, ma numerosi punti oscuri della vicenda sono esplicitati in varie teorie e ipotesi. Alcune incongruenze tra le testimonianze e la versione ufficiale hanno favorito il dilagare di ipotesi alternative. Queste ultime vertono principalmente su fattori di turbamento psicologico, morale e relazionale di Luciani, elencati come difficili rapporti con la curia e scarsa armonia all’interno della famiglia pontificia. La dietrologia più acclamata è quella riportata dal giornalista britannico David Yallop, secondo la quale la morte del Pontefice sarebbe da attribuirsi ad un avvelenamento ad azione cardiaca. Il movente del delitto sarebbe da ricercare in ambienti massonici deviati, scontenti riguardo la
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volontà espressa da Luciani di riformare lo Ior, allora diretto da Paul Marcinkus, per il quale auspicava trasparenza. Dal 1978 in poi si assiste a un exploit di fatti angoscianti direttamente o indirettamente legati al Vaticano. Emblematico è quanto avviene il 13 maggio del 1981 in piazza San Pietro, quando durante la consueta udienza papale, Giovanni Paolo II è gravemente ferito: un primo proiettile lo colpisce al ventre, mentre il secondo giunge di striscio al gomito. L'attentatore è subito braccato dalla folla: si tratta del turco Mehmet Ali Agca, musulmano appartenente all’organizzazione terroristica di estrema destra Lupi Grigi. Altro anno, altro intreccio: il 18 giugno del 1982
il corpo senza vita di Roberto Calvi, banchiere dell'Ambrosiano, è rinvenuto sotto il Blackfriars Bridge a Londra, impiccato ad un traliccio. I moventi di questa morte ruoterebbero attorno a vari interessi, tra cui quelli della mafia, della P2, dello Ior e della politica. Divenuto Presidente dell’Ambrosiano nel 1975, nel corso del tempo Calvi crea un impero usufruendo principalmente delle entrature possedute in Vaticano. Il suo potere diventa essenziale per la buona riuscita di varie operazioni, tra cui il riciclaggio di denaro sporco e traffici d’armi per la guerra delle Falkland, fino al finanziamento di Solidarnosc (il Sindacato Autonomo dei Lavoratori). Non è mai stato chiarito fino in fondo il ruolo della Santa Sede nella vicenda. Il 22 giugno del 1983 è il giorno in cui scompare Emanuela Orlandi. Nel 2008 giungono le dichiarazioni di Sabrina Minardi, ex compagna del boss della Magliana Enrico De Pedis. Da esse si apprende che Emanuela sarebbe stata rapita dalla banda della Magliana e in un secondo momento uccisa. Il caso della Orlandi è rimasto tuttora irrisolto con nuovi risvolti attesi dalle parole del presunto testimone Marco Fassoni Accetti. Il 22 marzo del 1986 si consuma un altro giallo, quando il noto finanziere Michele Sindona muore per avere ingerito un caffè al cianuro mentre è rinchiuso nella propria cella, all’interno del carcere di Voghera. Ma si tratta davvero di suicidio? Finanziere potentissimo in rapporti con importanti uomini politici italiani e americani, a seguito delle numerose vicende che lo vedono coinvolto Sindona fa di tutto per ottenere l'estradizione negli Stati Uniti. L'avvelenamento, secondo l'ipotesi più acclamata, sarebbe stato l'ennesimo tentativo per ottenere i domiciliari. A completare la triste lista di attentati, morti e scomparsi è quanto accade nel 1998. Come nel 1959, a chiudere il cerchio è una Guardia Svizzera, Alois Estermann, comandante del Corpo a difesa del Pontefice. È il 4 maggio quando si scopre il cadavere di Estermann nel piccolo salotto del suo appartamento. A fargli tristemente compagnia ci sono i corpi senza vita della moglie Gladys Meza Romero e del vicecaporale Cedric Tornay. Cosa è accaduto? Omicidio-suicidio sarà la risposta della Santa Sede, dovuto a una promozione rifiutata.
A fare fuoco contro Estermann-Romero sarebbe stato il giovane Cedric Tornay, rivolgendo poi l'arma contro se stesso. La ricostruzione ufficiale non convince, ma mai si arriverà alla piena luce sull'accaduto. Intrighi, congiure, ipotesi: troppi misteri per uno Stato così piccolo.
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MINO PECORELLI 36 ANNI SENZA VERITA’ Dopo sette lustri l’omicidio del giornalista di OP è ancora avvolto dal mistero: tra condanne, pentiti, smentite e assoluzioni, l’assassino di Pecorelli non è ancora stato identificato
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C’erano anni in cui il giornalismo era ancora una vocazione. Anni in cui la parola scritta poteva fare la differenza e l’inquinamento dell’informazione era una locuzione ancora da inventare. Carmine ‘Mino’ Pecorelli era un giornalista sagace e intuitivo come pochi. Talvolta le sue previsioni rasentavano la magia, tanto che in certe circostanze si suppose che fosse un ricattatore: l’ipotesi venne smentita seccamente al momento della sua morte. Pecorelli era titolare solo di un appartamento a Roma e per mantenere Osservatore Politico era costretto a chiedere continue sovvenzioni pubblicitarie a personaggi di spicco, una condizione economica non paragonabile a quella di un personaggio uso al ricatto. Tra le sue “doti” comparirà anni dopo anche l'iscrizione alla Loggia P2. Il debutto di OP come rivista è sintomatico della grande intuitività di Pecorelli. Dopo aver lavorato al periodico Nuovo Mondo d’Oggi, nell’ottobre del '68 fonda OP, un’agenzia di stampa che tratta scandali, retroscena e intrighi del mondo politico e militare. L’agenzia diventa un punto di riferimento per tutti gli addetti del settore, che cercano di leggere tra le righe dei comunicati per intuire le previsioni del sagace giornalista.
Come un fulmine a ciel sereno, nel marzo del '78 Pecorelli cambia faccia a OP: nonostante non abbia i mezzi economici necessari, l’agenzia diventa un periodico cartaceo acquistabile in qualunque edicola.
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Il debutto è giornalisticamente sensazionale. Pecorelli attraverso le righe della neonata rivista annuncia che il 15 marzo accadrà qualcosa di gravissimo in Italia: sbaglia solo di un giorno. Il 16 marzo 1978 è ricordato nel Belpaese per la strage di via Fani. Le Brigate Rosse compiono un vero e proprio massacro terroristico uccidendo
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la scorta di Aldo Moro e sequestrando il politico, esponente di spicco della Democrazia Cristiana. Per tutti i 55 giorni del sequestro, OP si occupa del caso arrivando a rivelazioni sconcertanti (come la falsità del “Comunicato numero 7”) e in seguito all’assassinio di Moro pubblica tre lettere inedite scritte dall’ex premier durante i giorni della sua prigionia. Come e più di prima, Pecorelli prende di mira Giulio Andreotti. lo stesso periodo durante il quale giungono alla tipografia di OP 30 milioni di lire, per mano del braccio destro di Andreotti, Franco Evangelisti. Il numero successivo, del 6 febbraio 1979, avrebbe dovuto pubblicare un titolo clamoroso: «Tutti gli assegni del Presidente». Invece non arriverà mai in edicola. La carriera nell’editoria di Pecorelli dura poco più di 365 giorni: il 20 marzo del 1979, mentre esce dalla sede di Osservatore Politico, viene raggiunto da quattro colpi di pistola (tre alla schiena e uno alla bocca, segnale indicatore del movente dell’esecuzione).
I proiettili rinvenuti sul luogo del delitto (calibro 7,65) sono di marca Gevelot, molto difficili da reperire anche nei mercati clandestini. Si scoprirà anni più tardi che la stessa tipologia di proiettili è
presente anche nello scantinato del ministero della Sanità, dove si troverà un vero e proprio arsenale nascosto al servizio della criminalità. La svolta nelle indagini arriva solo nel 1993, con le dichiarazioni del pentito Tommaso Buscetta che rivela ai magistrati di Palermo come l’omicidio del giornalista sia stato commissionato proprio da Andreotti. L’ex premier viene assolto nel 1999 per non aver commesso il fatto, ma nel 2002 la Corte d’Assiste d’appello di Perugia condanna, tra gli altri, Andreotti e il boss malavitoso Gaetano Badalamenti a 24 anni di reclusione in quanto mandanti dell’omicidio. La sentenza viene annullata senza rinvio dalla Corte di Cassazione il 30 ottobre del 2003, scrivendo la parola fine sull’iter giudiziario di Andreotti e rigettando l’omicidio di Mino Pecorelli nell’incertezza più assoluta.
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Un’indagine su com i criteri di nel corso de Il Ministero della Difesa, come tanti altri dicasteri, affronta spese sempre più ampie. Più passano gli anni e più i bilanci ministeriali raggiungono valori esorbitanti. C’è da dire, però, che l’obiettivo trasparenza, anche in previsione della riduzione del debito nazionale, assume oggi un ruolo fondamentale per la gestione della spesa pubblica, consentendo ai
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cittadini di essere al corrente dei bilanci e dei costi. Difatti, da gennaio 2015, i documenti contabili di tutta la pubblica amministrazione dovranno essere omogenei, confrontabili e aggregabili. Questo dovrebbe rappresentare un passo in avanti considerando che in passato, analizzando i bilanci pubblici, è stata rilevata spesso una scarsa qualità di informazione.
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Il problema più evidente riscontrato negli anni passati, nell’ambito della Difesa, è l’aggregazione di diverse spese senza la precisazione dei costi destinati ai singoli obiettivi di una stessa categoria. Ad esempio, nel 1983, il bilancio della Difesa riporta le spese che l’Italia sostiene per la Nato. Per tale voce sono previsti 81 miliardi di euro (rispetto ai 57 dell’anno precedente) ma non viene specificata la ripartizione di questi fondi. Come sono stati distribuiti? L’Istituto di Ricerche Internazionali “Archivio Disarmo”, in riferimento alle spese militari, ci mostra nella tabella 1 gli stanziamenti per armi, materiale bellico e infrastrutture militari sul totale degli stanziamenti per la Difesa (esclusa l’arma dei Carabinieri) nel periodo 1980-1983. I risultati sono aggregati e non specificano i tipi di materiale bellico. Oggi, invece, come sono ripartite le spese della Difesa? È cambiato qualcosa? Nel 2015 è prevista una spesa di
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5 miliardi di euro per i nuovi armamenti. La legge di Stabilità prevede un budget di 18 miliardi di euro. Questa cifra verrà stanziata per nuovi aerei, elicotteri, navi e carri blindati. Ci saranno finanziamenti anche per le forze terrestri e i satelliti spia. Una serie di spese riguarderanno il ramo militare e dovranno essere specificate nel dettaglio. Tuttavia, ancora oggi, a distanza di anni si evidenziano problematiche relative alla cattiva gestione delle risorse. Un esempio è quello dei lavoratori costretti ad autofinanziarsi per svolgere il proprio lavoro. Sembra un paradosso, ma c’è un forte dislivello nella ripartizione delle risorse. Si passa dall’acquisto di materiali e mezzi potenti all’assenza di fondi per retribuire nella giusta misura le risorse umane impiegate nella Difesa. L’esempio più banale è quello del poliziotto o di qualsiasi altro agente costretto a lavorare in condizioni economiche disarmanti.
Degno di attenzione è anche l’episodio messo in evidenza in questo ultimo mese. Nella Gazzetta Ufficiale del 2 gennaio 2015 è stato pubblicato il risultato dell’appalto per l’acquisto di 2000 rotoloni di panno carta da parte del Ministero della Difesa al modico prezzo di 34.300 euro, Iva esclusa. I controlli sono stati effettuati dalla Corte dei Conti e l’unica ditta che ha partecipato alla gara ha offerto uno sconto di oltre 6.000 euro, difatti il Ministero aveva stanziato 40.983 euro iniziali. Questa e tante altre vicende ci fanno riflettere sui forti dislivelli economici esistenti in Italia.
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Quando la rinascita economica del turismo passa per i disabili Turismo accessibile a tutti, nell'Italia che si adegua al resto del mondo
Quando si parla di migliorare la qualità della vita delle persone disabili, della loro integrazione nella società, non dobbiamo dimenticare anche il tempo libero e le vacanze. Nei Paesi dell’Unione Europea, così come in America e in altri Stati esteri, troviamo strutture alberghiere attrezzate, mezzi di trasporto adeguati, musei, teatri e cinema accessibili ai portatori di handicap. Altrettanto devono esistere nella nostra bella Italia.
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Il 5 dicembre 2014 a Bruxelles presso la sede del Comitato economico e sociale europeo, che fornisce consulenza alle maggiori istituzioni dell’UE, si è tenuta una conferenza sul tema del turismo accessibile. Gli aspetti più importanti affrontati sono stati: servizi, patrimonio culturale, soluzioni tecnologiche e per finire partnership. Partendo dal presupposto che i disabili non sono un mondo a parte, ma parte di questo mondo e che come tutti hanno bisogni da soddisfare, essi rappresentano una fascia considerevole nel mercato del turismo accessibile. Basti sapere che tra Europa e Stati Uniti le persone sulla sedia a rotelle sono più di settanta milioni. Se solo il 3% di loro volesse visitare il nostro Paese, avremmo ben oltre due milioni di turisti. Insomma questo è un mercato nuovo, in forte crescita, ma che dev’essere ancora ben strutturato. Per questo motivo in Italia, nell’ultimo anno, sono nate alcune associazioni che propongono eventi culturali e non solo, collaborando con le Istituzioni, per promuovere “progetti” d’integrazione sociale per i disabili. Per quanto queste Onlus cerchino di offrire informazioni utili e aggiornate testando magari loro stessi i servizi proposti, per un disabile è ancora molto difficile trovare soluzioni per un turismo accessibile. Innanzitutto perché non in tutte le città d’Italia troviamo alberghi convenzionati o meglio preparati ad accogliere una persona sulla sedia a rotelle. Lo stesso dicasi per
ristoranti, musei, luoghi di culto, spiagge. In Italia non esiste ancora una mappatura esatta ed esauriente di tutti i luoghi “turistici” dove un disabile si può recare, nonostante le tante associazioni che si stanno muovendo in tal senso. Il problema comincia già dal viaggio. Nel nostro Paese per prendere un treno, una persona che usa la sedia a rotelle deve prenotare il posto due giorni prima e vedere se su quel convoglio ci sono posti riservati ai disabili. Per non parlare del “semplice” autobus. Quanti nella vostra città sono quelli accessibili e quindi attrezzati con la pedana? E quanti funzionanti? Come si fa a sapere queste cose? A chi bisogna rivolgersi? Purtroppo come si può ben notare, il solo fatto di uscire dalla propria abitazione e voler fare un giro in città, per un disabile non è cosa facile. Lo stesso discorso vale per i locali: la maggior parte non solo non ha le pedane d’entrata, ma neanche i bagni accessibili ad un disabile. Cose banali che rendono in Italia una persona esclusa dalla vita sociale. In Europa, così come in America, al contrario sono decisamente molto più avanti perché le Istituzioni hanno adeguato le città in maniera tale che tutti, e dico tutti, possano godere degli stessi piaceri e diritti. Il cammino qui da noi è ancora lungo, ma non impossibile. Basta solo buona volontà e comprendere che una persona resta tale, che sia in piedi o seduta
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BAMBINI E NUOVI MEDIA: un rapporto fatto di luci e ombre Gli aspetti positivi dell'Information Technology e la prevenzione dai rischi della Rete tramite la New Media Education
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Ogni anno, dal 2004, a febbraio si celebra il Safer Internet Day, la Giornata mondiale che viene organizzata da due Associazioni internazionali, Insafe e Inhope, per promuovere un sicuro e responsabile uso di Internet e delle nuove tecnologie da parte dei bambini e degli adolescenti di tutto il mondo. Il Safer Internet Day 2015 è stato celebrato il 10 febbraio scorso e lo slogan della campagna è stato «Let’s create a better internet together». Ma qual è il rapporto tra i bambini e i Nuovi Media e in che modo possiamo creare un Internet migliore? Negli ultimi 15 anni l’uso di Internet e delle nuove tecnologie da parte dei giovani è cresciuto in maniera esponenziale, tanto che Marc Prensky (scrittore statunitense, innovatore nel campo dell’educazione e dell’apprendimento) nel 2001 ha introdotto il concetto di «nativi digitali» - volendo contrapporre i ragazzi agli adulti, definiti invece «immigrati digitali». Anche le Istituzioni europee hanno cominciato a parlare di E-generation per denominare quella fascia di adolescenti che vive nell’era dell’Information Technology e dell’Information Communication Technology, ossia un’epoca caratterizzata da nuovi e molteplici strumenti di comunicazione altamente tecnologici. Con l’avvento del digitale e dei Nuovi Media come Internet e il cellulare, i media tradizionali sono stati surclassati perché obsoleti e limitati nelle loro funzioni, mentre sempre più le nuove tecnologie vengono scelte per informarsi, comunicare, interagire con persone di tutto il mondo e per pubblicare contenuti creativi. L’internauta, con l’ingresso nel Web 2.0, assume un ruolo attivo - da spettatore diventa attore - non ricerca e consulta soltanto come faceva prima, ma arriva a produrre, venendosi così a creare un elevato livello di interazione tra sito e utente (blog, forum, chat, Wikipedia, Youtube, Google+, Wordpress, Tumblr e soprattutto i Social networks quali Facebook, Twitter, Instagram). Se, però, da una parte, Internet presenta moltissimi aspetti positivi: soddisfa importanti esigenze quali quelle di apprendere, di esprimersi, di scambiare idee, di socializzare con altri utenti, abbatte le barriere spaziali, esclude le intermediazioni permettendo di comunicare direttamente con chiunque e dappertutto; dall’altro, se non utilizzato responsabilmente, può trasformarsi in un “luogo” pericoloso e pieno di insidie per bambini e adolescenti. Oggi i Nuovi Media, infatti, sono spesso collegati al problema della sicurezza e alla necessità di protezione
da possibili rischi. Tra i principali pericoli connessi alla Rete troviamo l’esposizione a contenuti non idonei alla loro età oppure violenti, razzisti, incitanti all'odio o alla valorizzazione dell’estrema magrezza; il grooming (l'adescamento on line da parte di adulti); videogiochi che istigano all’aggressività; la visione di materiale pornografico e pedopornografico; il sexting (invio di messaggi/foto/video a sfondo sessuale); il cyberbullismo (molestie, aggressioni e derisioni da parte di coetanei sulla Rete); l’Internet addiction e la dipendenza dagli smartphone (uso eccessivo di Internet e cellulare); problemi relativi alla privacy (furto di identità e conseguente creazione di falsi account); il flaming (comunicazione violenta e offensiva tesa ad accendere liti virtuali) e infine il rischio di scaricare inconsapevolmente virus informatici o di rimanere vittime di truffe. Ma come intervenire sul rapporto tra bambini e Nuovi Media? Limitare l'uso di Internet e delle nuove tecnologie in modo coercitivo sarebbe infruttuoso e porterebbe il minore a sentirsi escluso dal mondo esterno. Il miglior modo, in un’ottica di prevenzione, si basa, invece, su una dimensione educativa che tenga conto dei bisogni e dei diritti dei più piccoli, tra cui quello alla partecipazione ai diversi contesti del quotidiano. Ciò comporta un adeguamento delle misure educative, tanto che si parla di New Media Education: occorre educare il bambino ad una maggiore responsabilità, andando così a creare le condizioni affinché si possa difendere da solo. Educare non vuol dire, infatti, solo proteggere e prevenire, ma cercare di costruire le fondamenta per l’autonomia e il senso critico dei soggetti. Solamente così sarà possibile garantire una crescita ed uno sviluppo positivo dei minori.
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LIBRO E PROGRAMMA TV CONSIGLIATI Nelle librerie a cura di Mauro Valentini
Il mistero del bosco
Pino Nazio racconta il delitto di Arce
Jacopo è un giornalista d’inchiesta, Lorenzo un uomo misterioso. Che lavoro faccia Lorenzo non è dato saperlo ma lui sa tante cose sui misteri del nostro Paese. Jacopo vuole scoprire come è andata veramente la storia di Serena Mollicone, la ragazza di Arce uccisa con fredda determinazione anni fa. Lorenzo conosce chi sa bene le pieghe di questa storia: si chiama Lucrezia, vive a Sora, ha qualcosa di scottante tra le mani, qualcosa che aspetta solo di esser portata alla luce e Jacopo è la persona giusta per farlo. Lucrezia passa il testimone a Jacopo, ora tocca a lui. Questo è l’avvincente prologo de Il mistero del bosco: l’incredibile storia del delitto di Arce (Edizioni Sovera), scritto da Pino Nazio, giornalista Rai da sempre impegnato nella cronaca e nei misteri giudiziari; una storia vera, quella di Serena, raccontata dall’autore con la tecnica del No – Fiction Novel, termine di genere coniato per i famosi libri di Truman Capote e Tom Wolfe. Personaggi creati dalla mente dell’autore ma inseriti in una vicenda (purtroppo) tutta vera. Ed è attraverso questo escamotage letterario che il racconto si dipana, disegnando prima la vita difficile di Serena e della sua famiglia, del papà Guglielmo, uomo e padre ammirato ed innamorato di questa figlia speciale e poi dopo la sua morte coriaceo ed appassionato nella ricerca della verità. Quella verità che è ad un passo dalla soluzione ma che ancora non si svela nella sua interezza. Nazio ha stile e misura da grande narratore, sa cogliere le sfumature investigative ed ha grande sensibilità. Ne viene fuori un libro avvincente e sorprendente, prezioso nella documentazione, ma che si legge come un romanzo giallo. Un “mistero del bosco” che partendo da quel bosco incrocerà le vite di Carmine, il carrozziere processato e assolto, del Brigadiere Tuzzi, che molto ha visto e sentito ma che non potrà più raccontarlo e del comandante Mottola, fulcro sinistro di questa vicenda umana e dolorosa che Nazio racconta con grande sapienza.
In televisione
Diritto di Cronaca, la nuova rubrica di politica ed attualità in onda ogni martedì e giovedì su Teleromauno (CH. 271). Tante le tematiche già affrontate, dal caso Cucchi al clan dei Marsigliesi, fino alle inchieste su sanità, sicurezza e criminalità. Tutte le puntate sono disponibili sulla pagina Facebook di “Diritto di Cronaca”, condotte dal giornalista Giovanni Lucifora.
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PROGRAMMA RADIOFONICO E FILM CONSIGLIATI Al Cinema Mommy
Nel Quebec del futuro, promotore di una legge che permette di ricoverare minori affetti da deficit in strutture psichiatriche, la 46enne Diane Despres (interpretata da Anne Dorval) decide di entrare nel centro di recupero dov'è Steve (interpretato da Antoine-Olivier Pilon), 15enne affetto da deficit di iperattività e attenzione. È lì da quando il padre è morto, forzatamente portato nella struttura. Il ragazzino è vispo al punto da creare non pochi problemi al personale del Centro. L'ultimo episodio, prima dell'arrivo di Diane, è la violenza perpetrata nei confronti di un suo compagno, con bruciature al viso. Ma la donna non si scompone dinanzi all'aggressività senza freno del ragazzo e decide ugualmente di condividere tempi e spazi con Steve. Il film, diretto da Xavier Dolan, gioca molto sul rapporto, spesso morboso, tra madre e figlio. Almeno fino a quando non entra in gioco Kyla, un'insegnante che intrattiene Steve mentre Diane è al lavoro. L'apparente tranquillità che inizia pian piano a farsi strada si interrompe con la richiesta di un cospicuo risarcimento per danni provocati da Steve al compagno sfigurato. L'interesse, nei confronti di Diane, da parte dell'avvocato che difende la causa per conto di Steve, provocherà le ire del 15enne e altre azioni aggressive per un crescendo drammatico.
In radio
Zone d'Ombra, il programma radiofonico che racconta l'Italia più oscura tra misteri, casi irrisolti o ancora avvolti dalla nebbia. È ideato, scritto e condotto da Andrea Giachi e Davide Iaccarino e va in onda tutti i martedì dalle 20.00 alle 21.00 su Radioluiss.it. Da non perdere le puntate del 17 e del 24 febbraio dedicate al mondo del crimine.
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