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mobydick

SUPPLEMENTO DI ARTI E CULTURA DEL SABATO

Storie e fantasie sul grande condottiero

GIULIO CESARE

di Pier Mario Fasanotti

orte al tiranno: una frase che ha attraversato la storia e ha creato miti. Ma occorre fare molti distinguo. Non tutte le pugnalate o le raffiche di mitra che hanno decretato la morte dei dittatori hanno elevato questi a personaggi simbolici. Il caso del romeno Nicolae Ceausescu è un puntino nero nella grande ondata che ha travolto il comunismo europeo, e per lui non si ha nemmeno una vaga simpatia, pur vedendo nelle foto sue e di sua moglie la smorfia del dolore, un misto di stupore e disgusto. Oliver Cromwell, probabilmente avvelenato nel settembre del 1658 e non vittima della malaria, è inghiottito dalla storia dell’Inghilterra, malgrado il dramma di tinte shakesperiane che si è consumato a Londra sia tale da far credere il contrario: la salma del Lord Protettore fu riesumata nell’Abbazia di Westminster e sottoposta al nero cerimoniale dell’esecuzione postuma, vendetta di Carlo II e di una monarchia restaurata. Il corpo fu gettato in una fossa comune, mentre la testa, infilata in un palo, fu esposta per oltre vent’anni. Un monito severamente macabro. Stessa sorte toccò a Riccardo III, fatto impiccare dal successore Enrico VII poi riesumato e lanciato nel fiume Soar. Ci sono poi altre morti tragiche che si avvinghiano alla memoria collettiva e ancora oggi creano imbarazzo politico, ideologico e umano. È il caso di Benito Mussolini, appeso a piazzale Loreto a Milano dopo essere stato trafitto da proiettili sul lago di Como. Attorno al duce cadavere s’affollano leggende, vince comunque il senso dello strazio, indicato quale somma vergogna per un popolo prima ossequiente poi brutale. Il dictator vittima di congiura, l’immagine per eccellenza che racchiude ambizione personale, dedizione allo Stato e orrore di morte è Giulio Cesare.

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Dittatore sì, ma democratico. Il mito del “princeps” che usava il potere non per sé ma per Roma, che ha appassionato Shakespeare, Marx e Gramsci, continua a essere alimentato. Da una mostra e da nuovi libri. Di Manfredi, Canfora e Canali

EROE BIPARTISAN 9 771827 881004

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ISSN 1827-8817

Parola chiave Avidità di Gennaro Malgieri Kings of Leon leggende in erba di Stefano Bianchi

NELLE PAGINE DI POESIA

Ovidio e Alcione inesauribile fonte di Roberto Mussapi

Orson Welles il grande illusionista di Orio Caldiron Ben Stiller fa terra bruciata di Anselma Dell’Olio

Le rivelazioni di Lisette Model di Marco Vallora


giulio cesare eroe

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bipartisan

Manfredi racconta il suo libro

alerio Massimo Manfredi è tante cose: professore universitario (ha insegnato anche all’estero), archeologo, saggista, romanziere, sceneggiatore per la tv. Esperto di storia greca e romana ha scritto decine di libri. È l’italiano più venduto all’estero, corteggiato da vari registi, anche se finora nessuno di questi ha valorizzato sullo schermo i suoi scritti: L’ultima legione (film uscito nel 2007) è risultato mediocre, soprattutto se confrontato al suo omonimo romanzo. Che è il penultimo. L’ultimo uscirà ai primi di novembre e s’intitola Le Idi di marzo (Mondadori). È la primavera del 44 a.C., viene pugnalato, con 23 colpi di lama, Giulio Cesare, l’uomo che voleva dare un nuovo assetto al dominio di Roma. «La sua morte è un thriller pazzesco», ci dice Manfredi. C’è una misteriosa congiura. Ci sono personaggi importanti, come Antonio e Cicerone, dinanzi ai quali ci si chiede: «Ma da quale parte stavano?». «Il tema - aggiunge lo scrittore emiliano (abita a Piumazzo) - è di incredibile attualità perché affronta la scelta tra una forte limitazione delle libertà civiche con un reggitore fermo e affettuoso e le libertà repubblicane permeate di sangue e di perpetui conflitti. È successo in America a causa del terrorismo: la dignitas è questa, sta proprio nella soluzione del problema, ossia guidare senza tiranneggiare. L’impero non era un’idea di Cesare. La sua dittatura perpetua era una magistratura straordinaria. Lui sosteneva: non bisogna aumentare gli onori,

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ma diminuirli. E dava fastidio. Sapeva bene che l’unico re dei romanzi era Giove». E Bruto, suo probabile figlio naturale? «Cesare ne dà un giudizio esemplare: “Non sa che cosa vuole, ma la vuole fortemente”. Bruto è un personaggio non molto strutturato, tanto è vero che si è fatto guidare da Cassio». E dopo quelle pugnalate davanti al Senato? Manfredi ricorda una frase di Cicerone: «Coraggio da leoni, cervello da bambini». Ma esiste un’ipotesi che ha del romanzesco sulla fine del dictator? «Antonio - spiega Manfredi - era pazzo di Cleopatra e condizionato dalle sue mire dinastiche. Lei, la regina, lo voleva rex, ma non capì mai la mentalità romana. Anche se era una gran donna». Non dimentichiamo, aggiunge l’autore del libro (un thriller documentatissimo): «Antonio, che dominava l’Oriente, di cui subiva il fascino, era una figura ellenistica ante-litteram. È un mancato sovrano bizantino. Prima del tempo, è ovvio. Abile il politico-condottiero Antonio quando implora il Senato: no, non buttate il cadavere di Cesare nel Tevere, lasciatemi seppellirlo. Era mio amico, dice. E legge il testamento. Una furbizia: conosceva già il contenuto». P.M.F.

Le Idi di marzo sotto forma di thriller

segue dalla prima Non è un caso che di lui si continui a parlare e a scrivere. Da pochi giorni si è aperta al Chiostro del Bramante (a Roma) una mostra intitolata Giulio Cesare. L’uomo, le imprese, il mito: riunisce per la prima volta documenti archeologici provenienti dai maggiori musei dell’Italia e del mondo, accanto a capolavori d’arte (Michelangelo, Rembrandt, per esempio). Il prossimo anno ci sarà a Cividale del Friuli (nel castello Canussio) un grande convegno, «Cesare. Riformatore o visionario?». Ai primi di novembre uscirà Le Idi di marzo, romanzo storico (edito dalla Mondadori) di Valerio Massimo Manfredi il quale s’interroga sulla congiura di Bruto e Cassio e delinea, con narrazione appassionante, il profilo di quel princeps che usava il potere non tanto per sé quanto per una Roma che stava diventando potenza sovranazionale.

Cesare, del quale noi e i nostri figli continuiamo a leggere la prosa limpida dei Commentari, di sapore «attico», affascina e si pone in un certo senso come eroe bipartisan, lodato da personaggi di spicco che in altri campi ideologici sono in contrasto. L’antichista Luciano Canfora, autore di

MOBY DICK e di cronach

di Ferdinando Adornato

Direttore Responsabile Renzo Foa a cura di Gloria Piccioni

Giulio Cesare, il dittatore democratico (Laterza editore), è convinto che la persistenza del mito cesariano sia dovuta al fatto che il condottiero-scrittore appartenga sia alla destra che alla sinistra: «Se da un lato Cesare è diventato il simbolo del potere monarchico pur volendo rimanere dictator, dall’altro è l’uomo dei nuovi equilibri sociali. Affascinò Marx, a sua volta conquistato dal monumento che gli eresse Theodor Mommsen nella sua Storia di Roma, come affascinò Napoleone III, autore di una Histoire de Jules César. Fu tenuto in considerazione da Antonio Gramsci, una delle grandi menti del Novecento che nei Quaderni distinse fra un “cesarismo progressivo”(quello di Napoleone Bonaparte) e uno “regressivo” (di Napoleone III). Ma anche Gramsci, come parte della cultura di sinistra, comprende la necessità di una grande figura che egemonizzi le classi sociali in lotta, che indichi una via di uscita dalla guerra civile strisciante». Cesare è diventato anche figura altamente letteraria se pensiamo alla tragedia di Shakespeare nella quale l’orazione funebre di Antonio intreccia e sublima la perfidia e l’amicizia. Per Luca Canali, esperto di storia antica, latinista e narratore, «in Cesare non c’è nulla di mitico, tutto è raziona-

Progetto grafico di Stefano Zaccagnini Impaginazione di Mario Accongiagioco Società Editrice Edizione dell’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma Tipografia: edizioni teletrasmesse Editrice Telestampa Sud s.r.l. Vitulano (Benevento)

le. La rivoluzione cesariana è la logica maturazione di tutte le precedenti esperienze rivoluzionarie tendenti ad affermare esigenze spesso non soltanto particolari, ma corrispondenti allo Stato nel suo complesso, in contrasto conl’irrazionalità e l’angustia dell’organizzazione sociale e statale tradizionali».

Una razionalità che comunque ha del visionario dato che il sogno di Cesare era quello di allevare novi homines e affidare loro la macchina burocratica di quello che era, de facto, già un impero. L’analisi fatta recentemente da Canali è altra cosa rispetto al tono del suo stesso libro Ventitrè colpi di pugnale (Piemme editore). Il sottotitolo tradisce la dimensione mitica: Diario segreto degli ultimi giorni di Giulio Cesare. L’autore non raggiunge certo le vette letterarie della Yourcenar delle Memorie di Adriano, ma si pone su quella scia. Ci sono pagine intense, dove la profonda cultura storica fa solo da sfondo a una narrazione «pura». È un Cesare malinconico, il suo, che avverte la vigilia di un atto fatale e raduna le sue memorie di uomo, tra interrogativi e piacere dell’evocazione. In alcune pagine il dictator si stacca dalla sua contemporaneità per addentrarsi in immagini

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e considerazioni che paiono scritte oggi o l’altroieri. Come molti sanno, il condottiero che domò la Gallia e la Britannia ed ebbe, all’ultimo, ragione dei rivoltosi nella battaglia di Munda (Spagna) dando prova di eccezionale coraggio, era un dongiovanni. Alla familiarità con il mondo femminile univa - e non era scandalo a quei tempi esperienze omosessuali (famosa la sua liaison con il re di Bitinia). Passando in rassegna non i legionari ma i ricordi più teneri, Cesare sostiene che «la sessualità, vissuta con perfetto equilibrio delle parti, può diventare una sorta di linguaggio universale, al di sopra delle nazioni e delle razze: l’esatto contrario della guerra». Certamente un passo azzardato che fa eco al «facciamo l’amore e non la guerra». C’è però, nel libro di Canali, anche il Cesare politico che si rende conto che conservare a tutti i costi l’impianto repubblicano di Roma «è opera da imbalsamatori». E poi spunta inevitabilmente l’ambiguo profilo di Cicerone: «Ho definitivamente capito - fa dire lo storiconarratore a Cesare - che quell’uomo avrebbe firmato anche subito, se avesse potuto, la mia condanna a morte». Anche Cicerone farà una brutta fine. Ma sarà una morte che non lo riscatterà dall’alone di antipatia che l’ha sempre accompagnato.

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parola chiave

acrifichiamo ogni giorno consistenti porzioni della nostra libertà sull’altare dell’avere. E naturalmente riteniamo per questo di essere più liberi dal momento che facciamo coincidere, impropriamente, l’estensione della libertà con il maggior possesso di beni. Neppure ci sfiora il pensiero che essere liberi è una dimensione spirituale che poco o niente ha a che fare con la materialità cui siamo dediti nel soddisfare il nostro istinto predatorio. Ed è così che un po’alla volta ci abbrutiamo lasciandoci abbacinare dall’accaparramento di averi verso i quali maturiamo una sorta di idolatria. L’avidità è uno segni distintivi del nostro agire in un tempo nel quale soltanto chi più ha conta. In effetti non ci si ferma davanti a nulla. Si guarda davanti e si scorgono praterie da cavalcare senza mai chiedersi fin dove spingersi. Spesso nella corsa si travolge ogni cosa: affetti, amori, dolori. Ma che importa se il fine è la potenza a portata di mano. Prendere tutto ciò che si può e fino a quando si può. È questa l’etica che sta mandando il mondo a rotoli. Non so se la finanza sia una manifestazione demoniaca in sé, ma l’uso che se ne fa lo è di certo poiché i miraggi che diffonde annichiliscono chiunque, tanto coloro che la usano ritenendo di essere immuni dalle sue deviazioni e tanto coloro che vengono usati incapaci di comprendere fin dove può portare la «gioia» di possedere a discapito, evidentemente, di altri che per questo saranno inevitabilmente vittime sfruttate.

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Il sistema è apparentemente innocuo. Ma solo apparentemente. In realtà è perverso come tutto ciò che si costruisce nell’incuria di ciò che viene sottratto agli altri, ai più deboli, ai meno protetti. Si distruggono così patrimoni onestamente accumulati da generazioni perché da essi si pretende di più; si devastano aree del Pianeta poiché le risorse naturali vengono considerate a disposizione di chi vuole arricchirsi e sarebbe un peccato per loro non farlo; si tengono in cattività popolazioni facendo crescere dentro di esse bisogni e necessità che mai si sarebbero sognate di avere; si accrescono interessi soltanto come espressione di una volontà di potenza da esercitare stando in poltrona. Nei giorni in cui l’avidità si mostra nuda e fragile come mai lo è stata nel tempo della modernità, abituata a viaggiare sulle autostrade telematiche ed elettroniche, noi tutti ci sentiamo più deboli ed esposti, poiché nel corso del tempo abbiamo maturato, magari inconsapevolmente, la certezza che nulla avrebbe potuto far cambiare il corso delle cose e la nostra economia, le nostre abitudini elementari, i nostri stili di vita si sarebbero dovuti conformare chissà per quanto tempo ai diktat degli gnomi della finanza i quali, oltretutto, ci gratificavano con le briciole che cadevano dal loro tavolo e imbandivano mercati lussureggianti a nostra completa disposizione tanto da indurci a pensare che il benessere sarebbe stato infinito. All’improvviso abbiamo scoperto che non è così. E la nostra debolezza si è rivelata come una malattia infantile: spaventati stiamo raccogliendo le nostre improvvise insicurezze sperando di salvare il salvabile, mentre, a livelli più alti, a quegli stessi livelli dove è stata programmata la catastrofe, si pensa, con la disinvoltura degna delle canaglie, come mutare indirizzo, come far convivere le esi-

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AVIDITÀ È uno dei segni distintivi del nostro agire in un tempo nel quale conta soltanto chi più ha. Ma prendere tutto ciò che si può, fino a quando si può, senza riguardi per nessuno, sta mandando il mondo a rotoli. A questo abbiamo immolato la nostra libertà...

Basta sacrifici al dio avere di Gennaro Malgieri

Inutile rincorrere manovre di aggiustamento o espedienti tecno-finanziari insufficienti a sanare il senso di insicurezza nel quale stiamo precipitando. Occorre sostituire all’angoscia del possesso la sobrietà. E rivoluzionare le coscienze con una nuova cultura dello spirito genze della produzione reale con quelle del profitto, in che modo restituire a chi ne è stato spogliato le risorse cui ha diritto. E si dice che il mondo di domani non assomiglierà affatto a quello che abbiamo conosciuto negli ultimi decenni. Pauperismo? Non è questa la ricetta per abbattere le storture derivanti dalla religione dell’avidità. Ma la sobrietà, sì. E se ci fossero Stati tali da non soggiacere alle logiche del liberismo selvaggio, del capitalismo più ottuso, dell’ingordigia di pochi, non si limite-

rebbero a intervenire con le risorse di tutti per sostenere i sistemi bancari, ma attuerebbero riforme, nella sfera personale, tali da indurre a una educazione, in linea con il diritto naturale, soprattutto le giovani generazioni abbagliate dal mito della ricchezza facile, dei consumi inutili, dello sperpero delle risorse. Ma l’avidità ha prodotto un altro fenomeno che si tende a nascondere o, quando si palesa, lo si addebita soltanto a qualche delinquente che trasgredisce la legge pe-

nale sul punto: l’usura. Siamo proprio certi che il sistema mondiale della finanza non sia imputabile di questo orrendo delitto non perseguibile a livelli planetari? Sostanzialmente l’usura è una tassa prelevata sul potere d’acquisto senza riguardo alla produzione, spesso neppure considerando la possibilità di produrre: la banca dei Medici fallì per questo. E oggi? Oggi la storia non la legge più nessuno. Speriamo che qualcuno in queste ore di disperazione legga almeno la poesia. E in particolare un Canto di Ezra Pound, a dimostrazione che i poeti sono più avanti degli economisti e dei politici. Il poeta americano scriveva: «Con usura nessuno ha una solida casa/ di pietra squadrata e liscia/ per istoriarne la facciata,/ con usura/ non v’è chiesa con affreschi di paradiso/ (…) con usura/ la lana non giunge al mercato/ e le pecore non rendono/ peggio della peste è l’usura/ (…) Usura arrugginisce il cesello/ arrugginisce arte e artigianato/ tarla la tela nel telaio, nessuno/ apprende l’arte di intessere l’oro nell’ordito/ (…) Usura soffoca il figlio nel ventre/ arresta il giovane drudo,/ cede il letto a vecchi decrepiti,/ si frappone tra i giovani sposi/ contro natura/ Ad Eleusi han portato puttane/ Carogne crapulano/ ospiti d’usura».

L’usura è figlia dell’avidità. Estirpando questa si estirpa quella. Ma c’è qualcuno, nel deserto dove non fiorisce la pietà e neppure l’interesse alla sopravvivenza sembra che non spunti tra dune pietrificate, capace di comprendere che non è più tempo di manovre d’aggiustamento, di espedienti tecno-finanziari, di rattoppi, ma di rivoluzione delle coscienze il cui compimento dovrebbe risolversi in una nuova cultura, la cultura dello spirito? È questa, alla prova dei fatti, la vera forza dell’ordine naturale sulla quale modellare l’economia di tutti, un’economia includente e non escludente, legata al merito e all’intelligenza, umana, perfino troppo umana (non sarà mai troppo), creatrice di forme non soltanto di sostentamento, ma di magnificenze tali da segnare un’èra nuova. L’economia del reale, insomma, quella che fa produrre e vendere e scambiare e conoscere. Ho incontrato, tempo fa, dispersi nomadi in un deserto attorno a un fuoco attenti a far bollire il tè. Un po’ di formaggio di capra, qualche oliva, due datteri. E poi la musica; una musica malinconica eppure esaltante donataci da suonatori che mai avevano studiato l’armonia: ce l’avevano nel cuore. Sopra di noi il cielo che, con il passare delle ore, diventava sempre più azzurro fino a diventare blu, quasi nero punteggiato da stelle. Qualcuno raccontava storie che non capivo, con la leggerezza di chi tramanda brandelli di vita ai più giovani. Wall Street non esisteva. E non esistevano molte altre inutili cose a cui abbiamo sacrificato la nostra civiltà di esseri liberi.Talvolta ritorno con la memoria a quell’esperienza, ma non vorrei mai rinunciare a quello che sono. Eppure il mondo in cui vivo mi è più estraneo del mondo dei nomadi che cinque volte al giorno pregano il loro Dio e lo ringraziano del pochissimo che hanno. Non so se sono felici. Certo l’angoscia del possesso non li tiene prigionieri e godono della notte, delle storie, della musica, dell’amore e di un bicchiere di tè sorseggiato ai margini della disperazione occidentale.


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cd

musica

Kings of Leon leggende in erba di Stefano Bianchi ltro che fratelli-coltelli (più un cugino di primo grado).Va talmente d’amore e d’accordo, la Followill Family, da essersi trasformata in Kings Of Leon, la rockband più incensata del momento. I fratelli Caleb (voce e chitarra), Matthew (chitarra) e Nathan (batteria), con l’aggiunta di Jared che è il cugino bassista, arrivano dal Tennessee e hanno in comune due Leon: il padre dei brothers e il nonno del cugino. Il primo, pastore pentecostale, è colui che li ha cresciuti on the road a bordo di un’auto. Macinavano chilometri, infilandosi addirittura nelle ghost town alla ricerca di anime da salvare. Papà Leon declamava sermoni e loro si godevano la musica che girava attorno al profondo Sud. Tant’è che Caleb Followill, oltre ad avergli «dedicato» il nome del gruppo con somma approvazione di fratelli e cugino, ancora oggi gli rende merito: «Lo dobbiamo a lui - ha dichiarato - se prima di ogni concerto preghiamo e cantiamo gospel. E per quanto mi riguarda, mi rivolgo a Dio quotidianamente, prima di ogni pasto, ringraziandolo per ciò che ho».Vale a dire un bel gruzzolo di rock pimpante. Non dico da viverci di rendita ma quasi, a sentire i sinceri complimenti di U2, Bob Dylan e Pearl Jam che li hanno avuti come supporter ai loro concerti. Il wall of rock, per

A

il benedetto quartetto, non fa rima con drugs ma si fa spesso e volentieri pizzicare dal sex. D’altronde, per Caleb, voce sanguigna che in più passaggi ri-

in libreria

ROCK: LA COMPILATION IDEALE

corda Steve Winwood, nessuno è perfetto. Neppure il più devoto. E perfino Gesù si mise a frequentare prostitute e peccatori per redimerli. Quindi, non a

caso, il brano di punta di Only By The Night, quarto album registrato a Nashville, s’intitola Sex On Fire e ha tutta l’aria di tramutarsi in un classico del genere fra quei suoni passatisti, sudisti e roots che già caratterizzarono Youth And Young Manhood (2003) e Because Of The Times (2007) solleticando paragoni con la Allman Brothers Band e Tom Petty & The Heartbreakers. Strategicamente, il disco si apre e si chiude con due ballate: Closer, dalle rarefatte atmosfere sostenute da un ossessivo «wah-wah» chitarristico; e dall’intensa, polverosa Cold Desert. In mezzo, increspature e momenti di quiete. Rock arrembante e intimismi. Sorprende, ad esempio, la spontaneità con cui questi «under 30» padroneggiano il groove acuminato e quasi heavy metal di Crawl, riempiendolo di guizzi d’adrenalina che definirei «ledzeppeliniana». E come sbrigano con facilità il crescendo ritmico e le ardite costruzioni melodiche di Manhattan, per poi impreziosirsi sul filo della country music con Revelry e concedersi di buon grado al passo sincopato di I Want You mettendo in mostra un bel blues. Che Caleb, Matthew, Nathan e Jared vogliano prima o poi sgomitare fra le leggende del rock, è assodato. Lo dimostrano Use Somebody e Be Somebody, così smaccatamente e grandiosamente U2. Siano umili, però. Altrimenti, a cosa saranno servite le prediche di Leon? Kings Of Leon, Only By The Night, Rca/Sony Bmg, 20,60 euro

mondo

NUOVO ALBUM DEGLI AEROSMITH

riviste

IL RITORNO DEL MENESTRELLO

I

n tempi in cui le compilation degli i Pod appassionano un numero crescente di persone, orientarsi in una discoteca ideale non è cosa da poco. Almeno per i neofiti, che si avvicinano a questo genere di intrattenimento grazie alle nuove tecnologie. Rock! Come comporre una discoteca di base di Piero Negri Scaglione (Einaudi, 206 pagine, 13,00) traccia un percorso che se-

S

teven Tyler ne aveva fatto brevemente cenno. Ma adesso sull’argomento è tornato il chitarrista Brad Whitford. Il frontman - come riportato da Rockol all’inizio dello scorso settembre aveva riferito che qualcosa stava bollendo nella pentola degli Aerosmith, adesso il suo compagno di gruppo aggiunge interessanti particolari. E, a giudicare da quanto detto dal rocker, in pratica

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ob Dylan non è uno di quei musicisti che scrive dieci canzoni come se fossero sassolini. Come ogni grande songwriter è una miniera in continua evoluzione che produce e inventa. E al momento di mettere insieme un disco, sceglie quanto può starci dentro. Ogni scelta è dolorosa soprattutto nelle condizioni conflittuali in cui sono cresciuti Oh Mercy e Time Out Of Mind ed ecco quindi che Tell Tale Signs, in

Come comporre una discoteca di base (con l’aiuto di Piero Negri Scaglione e Franco Brizi)

La conferma è arrivata dal chitarrista della band: «Ancora pochi ritocchi, poi l’uscita a breve»

Su “Buscadero” di ottobre la recensione dell’ultimo disco dell’intramontabile Bob Dylan

gue cronologicamente la storia del rock attraverso gli album, i capofila delle varie tendenze, le pietre miliari. Tutte tessere di un mosaico fatto di stili diversi e proposte contraddittorie. Il tutto ordinato in centosessanta schede che disegnano, appunto, una collezione di base sufficiente a comprendere e parlare il linguaggio del rock, le sue tematiche, i suoni... Volendo poi arricchire la compilation, vale la pena consultare anche Rock. 500 dischi fondamentali di Franco Brizzi (Giunti, 224 pagine, 16,00 euro), una guida agli album assolutamente fondamentali per conoscere il pianeta rock e i satelliti che gli ruotano attorno.

occorre solamente mettere un po’ a posto le canzoni e poi il nuovo album sarà pronto. «Abbiamo già registrato parecchie cose per il nuovo album», ha riferito a fonti musicali statunitensi il musicista. «Dobbiamo solamente tornare in studio per apporre i tocchi finali, poi sarà pronto. Speriamo di farlo in fretta». Anche se, a questo punto, il lavoro non uscirà entro la fine del 2008 come invece si era supposto qualche mese fa. La prossima uscita della formazione di Boston, assieme dal 1970, sarà la prima di studio da Just push play del 2001: Honkin’ on Bobo del 2004, infatti, era composta in larga misura da cover.

uscita in questi giorni, è l’occasione per ricucire qualche ferita. Sulla rivista musicale Buscadero i particolari dell’ultimo lavoro del menestrello del folk con l’idea originale della produzione. Una versione di due cd, una versione con un solo cd, una versione deluxe con tre cd, una versione con quattro Lp su vinile a 180 grammi, un singolo acquistabile solo sul suo website. Una varietà segno della confusione dei tempi attuali, ma forse anche una modo per arrivare a tutti, dal neofita al più scafato dei dylanisti. Ma arrivati a questo punto è chiaro che Tell Tale Signs serve a capire quanto il Bob Dylan dentro e attorno all’America viaggia ancora e sempre like a rolling stone.


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zapping

Se il fratello di Noel SI TINGE I CAPELLI di Bruno Giurato ai come in questo periodo si sente la mancanza della rubrica Chissenefrega, del giornale satirico Cuore. Oggidì che l’informazione ci esce anche dalle tasche dello zainetto, ci scuote il vibracall, ci insegue con i socialnetwork come Twitter la priorità di chi campa la giornata e non vuole rischiare la schizofrenia è dimenticare, scordare. La priorità è il Chissenefrega. Anche in campo musicale. Si prega di non prendere chi scrive per un volgare qualunquista. Chi scrive ha provato a interessarsi a una notizia come «Noel degli Oasis: “Mio fratello si tinge i capelli”», ma, non occupandosi di prodotti tricologici, non ne ha avuto apprezzabili ritorni. Chi scrive rimane bensì colpito da un titolo come «In vendita, in 3000 copie, una statuetta di Jimmy Page», ma l’effetto di meraviglia dura poco. Per non parlare di «Chrissie dei Pretenders e Julian degli Strokes aprono ristoranti», notiziona imperdibile dato che, come si può leggere in apertura dell’articolo trovato su www.rockol.it: «Non è certo una novità che pop e ristorazione vadano a braccetto». Pop e ristorazione? Questa è l’apertura di una fetta d’immaginario, un tracciante di sinapsi inedite. E perché non folk e aeromodellismo? Jazz e agopuntura? World music e costruzione di canne da pesca in fibra di vetro? Heavy metal ed enteroclismi? Il breve giro in un mondo in cui tutto fa notizia ci riporta alla mente una frase di William Blake: «se le porte della percezione fossero aperte tutto apparirebbe come in realtà è; infinito». E posto che l’ossessione del web è realizzare il diabolico precetto del poeta (e profeta) inglese possiamo tornare a lidi più rozzi, piccini e qualunquisti: al chissenefrega.

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jazz

teatro

Il segreto di Lina che fa brutti sogni di Enrica Rosso ufficiale: il Fondo unico per lo spettacolo verrà decurtato di 100 milioni; vale a dire che dai 480 stanziati nei mesi scorsi, si passerà nel 2009 alla cifra di 380 milioni di euro. L’Italia è in crisi. Non la creatività. La stagione che si annuncia lancia chiari segnali di vivacità. In quest’ottica il Premio Extracandoni costituisce la possibilità di dare concretezza alla nuova drammaturgia italiana: selezionando testi di particolare pregio, contribuisce in modo significativo alla divulgazione dell’opera creando un’immediata rete produttiva e distributiva.Tutto questo è reso possibile grazie alla sinergia di sette importanti teatri italiani che in primis si impegnano a mettere in scena e a offrire ospitalità all’opera migliore. Lo spettacolo inaugurale del Piccolo Eliseo Patroni Griffi nasce proprio da qui. Lina, quella che fa brutti sogni è prima di tutto una scrittura teatrale vincente. L’autore Massimo Salvianti ne parla come di una storia che si è fatta strada da sola, indipendente da un progetto, un raccontare che ha preso forma senza forzature, forte delle memorie emotive accumulate negli anni in cui ha lavorato nelle carceri e nei centri per anziani. All’apparente semplicità e naturalezza dell’esposizione dei fatti si contrappone una scenografia cruda, scarnificata, immediatamente raggelante. Nuda, ma estremamente sofisticata, che si deforma seguendo l’andamento dei ricordi, cambiando la prospettiva di chi guarda. Diciamo una scena sensibile. In questo istituto da trent’anni vive Lina, in balia delle sue tempeste interiori, che si palesano, a tratti, nelle nevrosi, nei tic: quel tenersi stretta per resistere agli attacchi del nuovo dottore (un basagliano doc), così gentile ed educato, che non urla mai, ma neanche le dà le sue amate pillole che la fanno dormire; o almeno un po’di corrente ogni tanto. Il dottore vuole sempre parlare e sapere tutto; proprio non vuol capire che la povera Lina è «cecata nel cervello… non si ricorda». Lei si esprime in un italiano povero, sporcato dal dialetto napoletano, lui è sinceramente coinvolto ma pacato: praticamente perfetto. Due universi. Poi quando lei non ce

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la fa a sostenere il dialogo, quando la schermaglia diventa troppo pressante, arriva la crisi che la fa tremare come una farfalla moribonda ed è allora che i ricordi si intromettono e si fondono, si sovrappongono alla realtà e la poverina viene sballottata come un fuscello, sopraffatta dai cattivi pensieri che non le danno tregua; ma il dottore non molla, insiste ancora, la mette alle strette e Lina crolla. Sarà la complicità femminile con l’algida infermiera, come se la sua presenza ne evocasse un’altra, ben più importante, a convincere la paziente a lasciarsi definitivamente trasportare dall’onda del passato. E come sostiene Sigmund Freud «la ri-

mozione è uno stadio preliminare della condanna, qualcosa che sta a metà tra la fuga e la condanna». (È lo stesso regista, Pierpaolo Sepe, a ricordarcelo nelle note di regia). Fulvia Carotenuto è attrice generosa e camaleontica e si porta dentro come un tarlo il suo segreto, manifestando un certo pudore nell’espressione della malattia, ben sapendo che ruoli come questo sono vincenti e guadagnano gloria a chi li interpreta quando non vengono troppo ostentati. Il resto della compagnia segue con perizia una regia attenta a ogni dettaglio.

Lina di Massimo Salvianti, Teatro Piccolo Eliseo fino al 2 novembre, Info: 06/488721- www.teatroeliseo.it

Trovesi all’opera con Puccini, Rossini & Co.

di Adriano Mazzoletti unedì scorso la prestigiosa casa discografica Ecm ha distribuito in tutto il mondo il nuovo disco di Gianluigi Trovesi: Profumo di Violetta, dove Violetta è Violetta Valery. Anche Trovesi, musicista versatile per le sue qualità di strumentista e per i contenuti musicali della sua intera opera registrata, si è ispirato, come recentemente Rava e Sellani, ad arie del repertorio lirico di Monteverdi, Pergolesi, Verdi, Puccini, Rossini e Mascagni. Le pagine più riuscite: Violetta e le altre firmata da Marco Remondini e Largo al Factotum dove il violoncello distorto ricorda l’analoga versione di Mike Westbrook nel suo Rossini del 1987, ma ancor più ciò che fece Jimi Hendrix a Woodstock con l’inno americano. Il sassofonista e clarinettista bergamasco, nel corso della ormai sua

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lunga carriera - debuttò al Festival di Bergamo nel 1970 - si è espresso in contesti differenti con prevalenza delle situazioni libere, ricche di notazioni ironiche. Questo è il novantesimo album, fra quelli realizzati a suo nome o come ospite, della sua ricchissima discografia. Primo alto nell’orchestra di musica leggera della Rai di Milano, clarinettista e sassofonista in complessi di libera improvvisazione, poi in duo con il fisarmonicista Gianni Coscia, impegnato nella rivisitazione di temi popolari, i mo-

menti salienti della sua vita musicale sono assai diversi da quelli dei dilettanti suoi contemporanei che nei bui anni Settanta, avevano invaso il jazz italiano. «Pseudocontestatori e pseudoproletari, pauperisti da operetta», come erano stati definiti da Franco Fayenz. Quel periodo è ormai definitivamente tramontato e la «melodia» ha preso il sopravvento sulle «non regole» del free-jazz made in Italy e in questo senso Trovesi è stato un antesignano. In Profumo di Violetta, utilizza, come è

sua consuetudine, l’intera famiglia dei clarinetti e il sassofono contralto. Accompagnato dalla Filarmonica Mousiké, un’orchestra di strumenti a fiato e percussioni diretta da Savino Acquaviva, che chiamare «banda» sarebbe oltremodo riduttivo, e i solisti Marco Remondini, violoncello elettronico, Fabio Brignola flicorno e Stefano Bertoli batteria e percussioni, Trovesi presenterà il disco al prossimo Festival del Jazz di Treviso. Egli «ha raggiunto la propria maturità espressiva relativamente tardi. Ma oggi il suo stile di compositore e la sua voce strumentale lo collocano al livello dei musicisti che hanno praticamente definito il concetto di un ”jazz europeo”ispirato alla tradizione americana senza esserne una sua pedissequa imitazione». Gianluigi Trovesi, Profumo di Violetta, Ecm


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narrativa

Desiati Romanzo di formazione sulle rive del Taras

rivedere le spoglie di quella che era stata una donna giovane e bella morta misteriosamente. Aperta la bara c’è il sussulto, dentro non vi sono né ossa né capelli semplicemente non c’è più il corpo. Ecco, il corpo di Annalisa, sparito sottratto rubato trafugato, è quello stesso che una decina di anni

di Maria Pia Ammirati arte da una scena surreale il terzo e ultimo romanzo di Mario Desiati, Il paese delle spose infelici. In una mattina dal sole tiepido di marzo del 1990 un gruppo di operai, fermi per la sosta del pranzo, seduti sui muretti, ammutolisce a quello che sembra un miraggio collettivo, l’avanzare verso le poche acque del fiume Taras, di una giovane bellissima donna. È una sposa che avanza nell’acqua vestita di tutto punto, con le sue scarpe e il lungo vestito bianco. Le vesti leggere si allargano nell’acqua e lei incede sorridendo. Gli uomini si spogliano velocemente e si precipitano per salvarla, o meglio per tirarla via dal fiumiciattolo forse più nell’intento di preservarle il vestito e l’acconciatura da sposa. Del fatto si parlerà in paese per anni, d’altra parte nel paese delle spose infelici è questa un’immagine forte ma decisamente di segno opposto. Così come l’immagine che chiude il romanzo risulta di un realismo brutale e in maniera coerente e strutturale con la storia. Siamo infatti a gennaio al cimitero dove ai primi del mese i becchini riesumano le salme morte da cinque anni per trasferirne le ossa. Al momento di aprire la bara di Annalisa, uno dei personaggi del romanzo, una piccola folla si assiepa attorno agli operai: sono in attesa di

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libri

prima aveva fatto il bagno nelle acque del Taras. Un percorso da surrealtà a realismo che può più facilmente farci entrare nella pelle di questo vertiginoso romanzo di formazione di uno dei nostri più promettenti scrittori. E per entrare nella pelle è bene sapere che si tratta di pelle femminile, di corpi femminili che si intrecciano nelle storie e negli incontri del protagonista e dei suoi sodali e compagni d’avventure. Le donne sono al centro del romanzo a cominciare certo dal titolo, ambiguo, difficile da interpretare, citazionista, un titolo più volte spiegato dall’io-narrante come leggenda ma anche come l’indicatore di un luogo dove una corrente di follia e di disadattamento sociale colpisce naturalmente prima le donne, che accedono a matrimoni per forza, rese vittime di famiglie faticose e non volute. Ma la sostanza di questo romanzo sta nella formazione violenta e feroce che fanno i tre protagonisti, allenati al microcosmo di una provincia dove l’asfittico della diceria, della spavalderia, dell’imbroglio, della sfaccendatezza la fanno da padroni. La provincia meridionale degli anni Novanta all’ombra di una città, Taranto, dove nasce e ascende l’astro del precursore dell’antipolitica, Giancarlo Cito, le cui gesta televisive vengono ampiamente riportate alla memoria. I giovani non sono macchiette pasoliniane ma reali tipi di una certa provincia, povera e arretrata per taluni versi, ipermoderna per altri. Un’educazione violenta che ha i suoi simboli migliori in Zazà e Annalisa, un galeotto e una donna continuamente oltraggiata dal paese. In questa parabola il finale è schiacciante, tutti sono caduti o falcidiati: droga, violenza, malattia, galera, resta in piedi solo Veleno, che impara a sue spese quanto le dicerie e le voci possano avvelenare il mondo. Mario Desiati, Il paese delle spose infelici, Mondadori, 229 pagine, 17,50 euro

riletture

La parola di Dio e quella di Quinzio

di Giancristiano Desiderio erto, quelle ottocentoventi pagine sono un boccone difficile da buttare giù per qualsiasi lettore, anche per il cosiddetto «lettore forte», quello che legge tanto e un po’di tutto. Tuttavia, bisogna riconoscere che la scrittura di Quinzio sulla Scrittura è sempre stata una prosa non solo affascinante, ma anche semplice nella sua essenzialità. Questo suo Un commento alla Bibbia - edizione Adelphi del 1995, la terza - è il monumento che la sua fede ha eretto alla Speranza. Ma è anche un capolavoro di intelligenza, arte e cultura. In origine il Commento fu pubblicato in quattro volumi tra il 1972 e il 1976. Poter avere quei singoli libri è un’impresa non da poco. Ma anche rin-

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tracciare l’unico volumone di ottocento paginette potrebbe costare qualche problema. L’iniziativa, però, di accorpare tutto il Commento in un tomo rende l’idea del successo e del valore dell’interpretazione di Quinzio. Proprio qui risiede il significato di un’opera certamente non unica. Cosa fece, infatti, Sergio Quinzio commentando i libri del Libro? Li lesse e rilesse. Come possiamo fare anche noi e come volti noti stanno facendo in queste settimane su RaiUno. Questa la forza elementare e straordinaria del Commento. La sua originalità non risiede in una particolare perizia filologica, né nello sposare questa o quella dottrina. Anzi, con convinzione si oppone nettamente a un modo di intendere la Bibbia dove «si cela nel linguaggio scientifico degli interpreti la

nostalgia del sacro, e nel loro linguaggio fideistico lo scetticismo». Quinzio non vuole guardare alla Bibbia con occhi moderni e non può guardare il mondo della Bibbia con «gli occhi dell’antico israelita, per il quale le Scritture erano il linguaggio materno»: quegli occhi «non possiamo fabbricarceli». Né moderno né antico, né profano né sacro: l’unica possibilità è «andare oltre a sacro e profano». La chiave interpretativa è: «La genesi si compie per mezzo dell’apocalisse». Ogni parola delle Bibbia passa attraverso innumerevoli interpretazioni: «La parola di Dio è vivente e feconda in ogni suo minimo frammento, può divinamente generare nuova verità». La modernità restringe il senso della Bibbia a ciò che è verificabile e accertabi-

le. Ma il senso vero della Bibbia - la capacità della Parola di rigenerarsi - rimane al di là di ogni verifica. Questo è il cuore della lettura di Quinzio. Poi si potrà accettare o meno la sua personale esegesi apocalittica, ma l’idea di sottrarre la lettura e l’interna intelligenza della Scrittura alla scienza moderna e alle varianti dottrinali è un gesto tuttora valido. «L’opera di Dio - scrive Quinzio - anziché compiersi dispiegandosi felicemente nei giorni della creazione, per il mistero d’iniquità si compie nei millenni che precipitano verso la catastrofe apocalittica, e questa vicenda consiste in una continua crescita dell’orrore e insieme, per il bisogno di consolazione che suscita, della tenerezza, nel Signore come nel piccolo resto che separa la sua speranza».


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narrativa/2

Némirovsky, il sangue e la provincia francese di Mario Bernardi Guardi bbandona ghetti e quartieri ricchi di Kiev, la Némirovsky del Calore del sangue, lascia «cani» e «lupi» che si studiano, si inseguono, si azzannano, pur se uniti nelle comuni radici della Diaspora e condannati al comune destino dell’Olocausto, mette da parte album di famiglia, madri egoiste e ossessionate da bellezza e giovinezza che sfioriscono, emigré fuggiti dal bolscevismo e approdati sulle rive della Senna con un «immaginario» sovraccarico di emozioni e contraddizioni, ebrei alla deriva ed ebrei all’arrembaggio; mette da parte tutto questo che è intimamente «suo» (benché accu-

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filosofia

sata di essere «un’ebrea antisemita» e di collaborare a fogli filotedeschi, Irène sarà deportata e morirà ad Auschwitz nel 1942) e racconta la provincia francese. Profonda e piena di oscurità, col «rimosso» tenuto a bada dall’ipocrisia benpensante e ben costumata, i vecchi immemori della loro giovinezza e del divampante calore del sangue, i giovani che ostentano compunta ammirazione per le «virtù» patriarcali, salvo poi, lasciarsi travolgere da quegli

stessi «errori» che gli adulti hanno sapientemente occultato. Anche nelle loro gravi «conseguenze». Che ora però tornano a prender corpo e ad affacciarsi prepoalla tentemente tranquilla esistenza quotidiana, esigendo, se non una tardiva riparazione, per lo meno una «attenzione». Perché c’è un destino che corre e ricorre. Si chiama «sangue», sangue che non è acqua, ma carne, viscere, passioni, e può affiorare tumultuoso, senza controlli, arman-

do cuori e mani. Fino al delitto. Smascheratrice per eccellenza, la Némirovsky rovista nei panni sporchi della provincia e, grattando la superficie, «svela». Non giudica, non si sente innocente. Sa che cos’è il calore del sangue, lei stessa lo ha assecondato. E il paese del Morvan, Issy-l’\u0116vêque, dove ambienta la storia, lo conosce bene. È così bella quella campagna, ma quanti nidi di vipere! E quella gente, così solida, così chiusa… Ma anche così selvaggia. Con quel fuoco che viene da profondità ancestrali e cova sotto la cenere finché torna a bruciare. Irène Némirovsky, Il calore del sangue, Adelphi, 155 pagine, 11,00 euro

La violenza? Nasce dal rifiuto della Metafisica di Renato Cristin l binomio «metafisica e violenza» è uno dei luoghi più frequentati dal bel mondo filosofico contemporaneo: dal post-strutturalismo francese al post-francofortismo tedesco, dal post-pragmatismo anglosassone al post-marxismo italiano. Denunciare la violenza della metafisica sembra irrinunciabile per chiunque voglia inserirsi nel salotto filosofico buono. Ma se è vero che spesso banalità retorica e strumentalismo ideologico accompagnano queste indagini, è anche vero che sul piano teoretico ed etico il problema sussiste e meriterebbe attenzione autentica, come quella che si trova in alcuni dei saggi di un volume a più voci promosso da Carmelo Vigna, il quale suggerisce di «riflettere un poco prima di

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società

accusare la metafisica di violenza». I postmodernisti e i filosofi del pensiero debole, «nipotini» (ma un po’ illegittimi) di Nietzsche, tacciano la metafisica di violenza senza riconoscere che è invece il loro impianto teorico a essere violento e che il dialogo da loro proposto è falso, poiché da un lato tematizza solo la cosiddetta alterità ed esclude tutto ciò che riguarda l’identità, e dall’altro lato ricorre a un «comodo espediente retorico»: «l’avversario demonizzato come violento è rifiutato come interlocutore». È vero, come precisa Antonio Pieretti, che la metafisica si situa al di là delle regole «della logica formale e della scienza empirica», ma ciò non significa che essa eserciti violenza, almeno non più di quanto faccia l’empirismo logico, oggi rinnovato nella corrente della filoso-

fia analitica, che vuole «applicare i propri canoni a ciò che per definizione si colloca al di fuori del suo ambito di competenza». In questo senso, Gianfranco Dalmasso disloca la questione sul piano del rapporto fra voce e scrittura, mostrando la tensione che si è riversata sulla storia della civiltà occidentale, mentre Eugenio Mazzarella propone, ricorrendo a Heidegger, un «programma metafisico stazionario», che conferisca stabilità teorica entro l’esperienza della storicità: «progredire in una forma di vita che resti nella sua autoriconoscibilità per noi». Attenzione, dunque: la violenza non deriva dalla metafisica, ma cresce con l’affermarsi delle forze che la rifiutano. AA.VV, Metafisica e violenza, Edizioni Vita & Pensiero, 273 pagine, 23,00 euro

Come vincere il “silenzio da immagine” di Livia Belardelli er vedere l’anima non servono gli occhi. L’anima altrui si sente, più che vederla, si vive più che descriverla». Mauro Marcantoni, sociologo e giornalista, non vedente dal 1994, si rivolge a chi legge e pone un’ulteriore domanda dal tono quasi inquietante: «davvero non ti vedo?». Nel suo libro I ciechi non sognano il buio, indirizzato a vedenti e non, racconta la sua e le esperienze di altri ottanta ciechi che ce l’hanno fatta. Giornalisti, avvocati, sportivi, cantanti che si sono realizzati nel lavoro e nella vita costruendo la propria normalità «puntando su ciò che si possiede, i quattro

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sensi, e non su ciò che manca: la vista». Se è vero che nel buio della cecità l’eccezionalità diventa drammatica consuetudine è vero anche che al di là del muro c’è un mondo da conquistare e che, lo dimostrano queste testimonianze, si può conquistare raggiungendo la meta della piena realizzazione.

Marcantoni si propone di illuminare il cammino dei non vedenti, per allontanare la tentazione di vittimismo in cui è facile annegare, svelando strategie e fornendo consigli per superare gli ostacoli non solo della cecità ma anche del pregiudizio. Un libro «pedagogico» rivolto non soltanto ai ciechi ma anche a chi vive con loro. Non sono gli aveugles di Baudelaire, «simili a manichini», «strani come sonnambuli», «terribili nel viso» ma persone in grado di raggiungere la propria autonomia e avere successo. Dunque un modo per indicare anche ai vedenti come rapportarsi con il «silenzio da immagine», a non cadere nell’imbarazzo, in quel disagio occulto che porta spesso a percepire il cieco come

una «non dimensione», un’entità da ignorare per paura di non saperla gestire. Parafrasando il titolo viene da chiedersi, se non sognano il buio cosa sognano i ciechi? Sognano che quella «mano sul cappello», da ciò deriva la parola handicap nello slang inglese dei ragazzi di strada, svantaggio da infliggere al giocatore che commette fallo, resti solo un inizio sfavorito ma non il persistente leit motiv di tutta un’esistenza. «Essere campioni in salita è una questione di carattere più che di condizioni di partenza» assicura Marcantoni. Mauro Marcantoni, I ciechi non sognano il buio, Franco Angeli, 238 pagine, 22,00 euro

altre letture Attraverso

l’alimentazione si può comprendere la struttura sociale e simbolica di una società e il rapporto degli individui con il proprio corpo: almeno questo è il tentativo di Labirinti di gusto. Dalla cucina degli dei all’hamburger di McDonald (edizioni Dedalo, 200 pagine, 15,00 euro), il saggio di Chiara Platania che indaga il complicato intreccio tra negazione della corporeità, mortificazione dei piaceri e dei desideri ed esaltazione della fisicità, tra controllo di sé e controllo sociale. L’impatto simbolico del cibo, del pasto, del banchetto si è sempre ripetuto nelle narrazioni del mondo. Ma oggi scivoliamo quasi senza accorgercene, verso una vera e propria depravazione sensoriale, evidente nell’impoverimento dei sapori e nella standardizzazione del gusto.

La serie storica di dati di cui ormai disponiamo ci dice che siamo in presenza di un cambiamento del clima e la maggioranza degli scienziati ritiene che le cose siano, in buona parte, di natura antropica. C’è ancora discussione invece sui tempi, i ritmi e l’entità del riscaldamento globale. Piccola lezione sul clima di Kerry Emanuel (Il Mulino, 98 pagine, 9,00 euro) illustra i punti essenziali della questione climatica: quanto sono attendibili i modelli revisionali, come gli scienziati sono giunti a individuare il fattore umano nella naturale variabilità climatica, gli effetti negativi del sensazionalismo mediatico e di una certa strumentalizzazione politica, la necessità di un’inversione di rotta a fronte di un pericolo reale. All’alba del 28 dicembre 1908 una violentissima scossa di terremoto rade al suolo la città di Messina, cancellando dalle carte geografiche una delle più belle e prospere città del Regno d’Italia. L’Alba nera (Fazi editori, 450 pagine, 18,00 euro) è il romanzo di Mario Falcone che racconta i mesi precedenti la catastrofe, a partire dal giorno di Ferragosto, quando l’intera città si ferma per la festa della Vara. Falcone dipinge l’affresco di un mondo che ci sembra oggi vicinissimo, coi suoi scandali e la sua corruzione, i suoi intrighi e i suoi vani affanni e le mille storie personali destinate a essere inghiottite da un’apocalisse che, sola, rappresenterà un’occasione di riscatto e rinascita morale per i pochi sopravvissuti.


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ritratti

ORSON WELLES

IL 30 OTTOBRE DI SETTANT’ANNI FA ANNUNCIAVA ALLA RADIO L’ARRIVO DEI MARZIANI, CAUSANDO UNO SHOCK COLLETTIVO CHE È UN CASO ANCORA APERTO NELLA STORIA DEI MEZZI DI COMUNICAZIONE. DA “QUARTO POTERE” A “IT’S ALL TRUE”, ASCESA E CADUTA DI UNA LEGGENDA DEL CINEMA

Il grande illusionista di Orio Caldiron i parlo dal tetto del Palazzo della Radio, New York. Le campane che sentite suonano per avvertire la gente di evacuare la città all’avvicinarsi dei marziani. Nelle ultime due ore circa tre milioni di persone hanno preso la strada per il Nord. Il viale Hutchison River è ancora aperto al traffico. Evitare i ponti per Long Island, impraticabili senza speranza.Tutte le comunicazioni con le rive del Jersey sono state interrotte dieci minuti fa. Non ci sono più difese. Il nostro esercito annientato. Artiglieria, aviazione, tutto distrutto. Questo potrebbe essere l’ultimo comunicato. Staremo qui fino alla fine». La guerra dei mondi - che finisce con l’agghiacciante annuncio dalla Columbia Broadcasting - va in onda il 30 ottobre 1938, alla vigilia di Halloween. Nessuno dello staff si aspetta il clamore che la trasmissione susciterà. Il radiodramma adatta il romanzo di fantascienza di H.G. Welles con una tecnica di radio nella radio in cui le news si alternano all’intrattenimento. L’annunciatore interrompe un programma musicale avvertendo che si sono registrati elementi di turbamento sul pianeta Marte. Ma siamo solo all’inizio. Nei minuti successivi la trasmissione diventa sempre più allarmante e catastrofica fino al momento in cui, dall’ultimo piano della sede della radio a Times Square, il reporter descrive con le sue ultime energie la distruzione di New York. Nel silenzio assoluto si sente a pochi secondi dalla fine un radioamatore che chiede: «C’è qualcuno in ascolto?». Sembra che più di un milione e mezzo di americani si siano spaventati sul serio lasciandosi andare a comportamenti irrazionali e a scene isteriche, fuggendo in automobile o av-

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gruppo di tecnici straordinari (tra i quali sta a sé Gregg Toland, il grande direttore della fotografia che sa tutto delle nuove tecniche e non teme la sfida della sperimentazione più audace) deve molto alle condizioni eccezionali in cui il ragazzo prodigio del teatro e della radio è messo in condizione di lavorare nel mondo del cinema. Senza il costante sostegno della direzione Rko probabilmente il film non sarebbe mai stato realizzato. Sin dalla sua prima apparizione pubblica del maggio 1941, Quarto potere ha uno straordinario successo di critica che ne fa in assoluto il film più acclamato dalla stampa americana. Sembra incredibile, ma quella che oggi viene considerata una delle opere fondamentali della storia del cinema fino all’ultimo aveva corso il rischio di non arrivare neppure nelle sale. Se durante la lavorazione (blindatissima) tutti sanno che il cittadino Kane s’ispira, almeno in parte, a William Randolph Hearst, ma sono tenuti a mantenere il segreto, nelle anteprime per i giornalisti non si può continuare a nascondere il contenuto effettivo del film. Nonostante aggiustamenti, autocensure, depistaggi, la storia di Charles Ford Kane, la sua megalomania, l’arroganza, la mania dell’accumulo, il castello-mausoleo all’insegna del kitsch più sfrenato tra gondole, campi da golf e scimmie in gabbia, pesca a piene mani nella irresistibile ascesa del settantasettenne magnate dei mass media, che tra giornali, riviste e stazioni radiofoniche controlla una gigantesca catena di mezzi d’informazione, servendosi della manipolazione spregiudicata delle notizie e di metodi clamorosamente scandalistici. Louella Parsons, una delle grandi

Per “Citizen Kane” gli fu concesso un controllo artistico senza precedenti. Ma dopo il flop di “L’orgoglio degli Amberson” e il fallimento del film commissionatogli dal governo brasiliano, nessuna major gli ha mai più dato carta bianca vertendo i vicini che il mondo stava per finire, creando sovraffollamenti e ingorghi. Lo shock collettivo fa della trasmissione un caso ancora aperto nella storia dei mezzi di comunicazione di massa. Nelle interviste dell’indomani, Orson Welles non sa se deve scusarsi per il deplorevole incidente o ringraziare per l’inatteso trionfo. Senza volerlo, è diventato da un giorno all’altro un terribile manipolatore di dimensioni planetarie.

Non sorprende che l’anno successivo si lasci catturare da Hollywood firmando un contratto con la Rko come produttore-regista-sceneggiatore-attore. La più piccola delle major lo convince assicurandogli un controllo artistico senza precedenti negli annali dell’industria cinematografica, compreso il diritto al montaggio finale in un’epoca in cui la logica degli studios lo esclude tassativamente. Quarto potere, oltre all’apporto fondamentale di un

pettegole di Hollywood e corrispondente dei giornali di Hearst, è infuriata perché sin dall’inizio ha fatto il tifo per il film, senza accorgersi che parla del suo capo. Le sue minacciose telefonate ai dirigenti della Rko avviano una accesa campagna intimidatoria in cui l’ostracismo alle produzioni della casa si alterna al ricatto nei confronti dell’intera industria cinematografica, accusata di assumere rifugiati e immigrati. Le testate più allineate si rifiutano di ospitare la pubblicità del film, ma smettono di attaccarlo nei loro editoriali quando si accorgono di contribuire involontariamente alla sua affermazione. La strategia più subdola è quella di Louis B. Mayer della Metro che, anche a nome di altri produttori, propone a George J. Schaefer di rimborsare alla Rko l’intero costo del film purché sia subito distrutto. Se l’avessero chiesto al consiglio di amministrazione, la sorte del film sarebbe stata segnata, ma il tentativo fallisce perché Schaefer è l’uomo che ha volu-

to Welles a Hollywood. Si tiene per sé la proposta della controparte, nonostante la protesta diffamatoria prosegua, è convinto che la proiezione di Quarto potere nelle maggiori città americane gli renderà giustizia.

Le previsioni si avverano. Orson Welles stravince. Non è da tutti debuttare a ventisei anni con un capolavoro che continua ancora oggi a fare discutere. La stessa scelta di prendersela con uno degli uomini più famosi e più potenti del mondo si rivela una scorciatoia verso la celebrità, con cui il favoloso personaggio è già da tempo in buoni rapporti. Il secondogenito dell’eccentrica coppia del Midwest (la madre è una nota pianista, il padre un inventore che vive di rendita) passa i suoi primi anni in un clima eccitante e caotico. Le visite degli amici importanti si alternano alle occasioni mondane, i concerti e gli spettacoli teatrali agli scontri tempestosi dei genitori che molto presto divorziano. Orson, è una sua battuta, impara a leggere a cinque anni sui testi shakespeariani della madre e a fumare a dodici i sigari del padre. La morte della madre è un trauma che lo segna profondamente. Se ne va con lei, giovane, bella e dinamica, una parte della sua infanzia all’insegna della musica. Nonostante sia già un ottimo violinista, da quel momento non toccherà più uno strumento. Quando ha quindici anni gli muore anche il padre, cui lo legava un rapporto di cameratismo e di ammirazione maturato nei numerosi viaggi fatti insieme in giro per il mondo. Maurice Bernstein, un medico di Chicago, amico di famiglia, per qualche anno gli fa da tutore. Il periodo più felice della sua adolescenza lo trascorre alla Todd School di Woodstock, Illinois, una scuola moderna e innovatrice, dove le eccezionali qualità di un ragazzo superdotato sono incoraggiate. La passione per il teatro esplode in una serie di spettacoli in cui è adattatore, regista, scenografo, attore. Subito dopo il diploma, lascia gli Stati Uniti per l’Irlanda. A sedici anni entra nella compagnia del Gate theatre di Dublino, con cui rimane per un paio di stagioni, apparendo in ruoli sempre meno marginali e sperimentandosi nella messinscena di numerosi spettacoli. Ritornato negli Stati Uniti, è già un professionista con le credenziali necessarie per entrare in compagnie importanti nelle quali s’impegna in lunghe tournée, dove sfoga il suo spirito zingaresco di vagabondo. L’approdo del lungo apprendistato è l’avvio con John Houseman del Federal theatre di NewYork che, nel clima fervido e trascinante del New deal rooseveltiano, allestisce alcuni spettacoli anticonvenzionali. Il più noto è il Macbeth di ambientazione haitiana con gli attori truccati da neri. Ma ancora più decisivo è il decollo del Mercury group, la compagnia stabile di trentaquattro membri che, rilevato un vecchio teatro all’angolo fra Broadway e la


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Da sinistra in alto, in senso orario, Orson Wells alla Cbs; alla conferenza stampa per “La guerra dei mondi”; la mitica immagine di “Citizen Kane” ; alla prima di “Quarto potere”; due immagini del grande regista quarantunesima strada, diventa per parecchi anni il suo principale punto di riferimento. La messinscena del Giulio Cesare, in abiti moderni con sfoggio di saluti fascisti e allusioni alle oceaniche adunate naziste, è il grande successo della nuova formazione, osannato dalla critica per la sua spregiudicata efficacia.

Nel frattempo è iniziata per Orson Welles l’avventura della radio, che nel giro di pochi anni diventa una sorta di vorticosa immersione, in cui rimbalza da un programma di divulgazione storica a un serial poliziesco, da un dramma a un feuilleton a puntate. In una disperata corsa contro il tempo passa da un piano all’altro della Cbs, entrando nelle minuscole cabine di registrazione per dire in fretta alcune battute e precipitarsi subito in un altro programma. La singolare capacità di affabulazione, esaltata dalle modulazioni di una voce vibrante e ipnotica, e l’abilità della messinscena, in grado di sfruttare al meglio le risorse del suono e della

ticato perché non aveva fatto il servizio miliare, vede nell’impresa sudamericana un’occasione per riscattarsi mettendosi al servizio di una nobile causa in tempo di guerra. La stessa Rko non è contraria, anche perché la Commissione si impegna a finanziare almeno in parte il progetto. La situazione è però complicata dal sovrapporsi degli impegni. Si sbarazza subito della regia di Terrore sul Mar Nero, il thriller di scarso interesse impostogli dallo studio, passandola a Norman Foster e riservandosi un piccolo ruolo d’interprete. Ma all’inizio del 1942, concluse le riprese di L’orgoglio degli Amberson, non può rimandare oltre l’avvio del film sudamericano. Orson Welles, più ambasciatore culturale che visiting director, arriva a Rio giusto in tempo per filmare in technicolor il carnevale, che il governo brasiliano propone sin dall’inizio come uno degli argomenti obbligati del progetto. Nel frattempo è in ansia per la sorte di L’orgoglio degli Amberson, di cui non riesce a seguire il montaggio come avrebbe

“It’s all true”, film incompiuto, è apparso sullo schermo otto anni dopo la morte del regista. È un’opera commovente e straordinaria che racconta i ritmi e l’avventura umana dei “jangadeiros”, i pescatori più poveri del mondo musica, animano oltre un’ottantina di adattamenti letterari tratti da drammi, commedie, romanzi, in cui William Shakespeare sta accanto a Charles Dickens, Robert Louis Stevenson a Bram Stoker, Alexandre Dumas a Victor Hugo,Thorton Wilder a Ernst Hemingway. Scrittori del passato e narratori contemporanei, grandi dimenticati e autori per tutte le stagioni alimentano un’autentica biblioteca popolare di radiodrammi, che arrivano al pubblico attraverso il magnetismo di uno straordinario narratore di storie per il quale l’invisibilità rappresenta una sfida in più nel grande gioco di un mezzo dalle inesplorate potenzialità. Quando nell’ottobre del ’41 sta girando L’orgoglio degli Amberson, Orson Welles viene contattato dalla Commissione per gli affari panamericani, che gli chiede di realizzare un film in Brasile per promuovere le buone relazioni tra i due paesi e riaffermare la presenza degli Stati Uniti in un continente in cui i nazisti hanno trovato un qualche seguito. Cri-

voluto. Se ne occupa, tenendosi il più possibile in contatto con lui, il futuro regista Robert Wise. Nonostante moltiplichi le indicazioni precise e vincolanti su cosa fare, a migliaia di chilometri di distanza dalla moviola la sua inquietudine è ampiamente giustificata. Il film, dopo alcune disastrose anteprime, viene distribuito senza grande pubblicità in due sale di Los Angeles con risultati sconfortanti. Si dice che trent’anni dopo, vedendolo per caso alla televisione, il regista non abbia potuto trattenere le lacrime. L’avventura sudamericana sembra avere trovato la strada giusta con la scoperta del samba, di cui Welles s’innamora fino al punto da dedicarle una parte rilevante in It’s All True (così si chiamerà il film brasiliano) destinato a ripercorrere la storia, le origini, i ritmi di una musica popolare dalla forte sensualità e dal profondo ruolo sociale. Ma quando comincia a filmare nelle favelas, in cui è nato il samba, il governo brasiliano comincia ad accorgersi che il progetto va

allontanandosi sempre più dai limiti turistici in cui aveva sperato di contenerlo. L’altro episodio su cui punta molto è la ricostruzione del viaggio dei quattro jangadeiros che, sfruttati dagli intermediari cui vendono il pesce, affrontano il viaggio da Fortaleza, nell’estremo Nord, fino a Rio a bordo delle zattere fatte di sei tronchi e una vela, un viaggio straordinario lungo l’intero paese alla fine del quale sono per tutti degli eroi popolari. Il presidente brasiliano è costretto a riceverli e a soddisfare le loro richieste.

Alla Rko è tempo di bilanci. Ci si accorge che i budget stanziati per L’orgoglio degli Amberson e per It’s All True sono stati ampiamente superati, mentre gli incassi di Quarto potere non si avvicinano affatto ai costi. Le prime riprese del carnevale di Rio inviate a Hollywood (un dirigente della produzione le definisce «un mucchio di selvaggi che saltano su e giù») non fanno che aumentare le perplessità e accelerare i cambiamenti al vertice ormai nell’aria. George J. Schaefer viene licenziato. Welles è richiamato dal Brasile con la troupe. Si capisce già come andrà a finire. Ma un gruppo di fedelissimi, formato dal producer Richard Wilson, un operatore e un paio di tecnici, invece di ritornare a Hollywood, rimane con Welles e utilizza i pochi soldi che restano per continuare a filmare per altri due mesi il viaggio dei pescatori. Orson, che non ha mai visto il materiale girato, la ricorderà come un’esperienza straordinaria e terrificante. Soltanto nel 1993, otto anni dopo la morte del regista, It’s All True appare miracolosamente sullo schermo del New York film festival con il sottotitolo Based on an Unfinished Film by Orson Welles. Il materiale del misterioso «film incompiuto», riapparso per una serie di circostanze fortuite, è stato pazientemente montato seguendo per quanto possibile il progetto originario dell’autore, da Richard Wilson, Bill Krohn e Myron Meisel. Si tratta di un film straordinario, in cui il grande illusionista s’incontra con lo scenario incandescente della realtà, con l’avventura umana dei pescatori più poveri del mondo, regalandoci un’opera bellissima e commovente, che, nella sua apertura antropologica alle culture e alle etnie di un altro mondo, non ha precedenti nella storia del cinema mondiale. Certo, un film che gli costa moltissimo perché, nei mesi successivi a Quarto potere, il flop di L’orgoglio degli Amberson e il fallimento di It’s All True, alimentano la leggenda iettatoria del genio irresponsabile che non rispetta i budget e lascia i film a metà. Nessuna major gli darà più carta bianca.


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tv

Donne assasine P simpliciter deludente

web

di Pier Mario Fasanotti

er varie settimane strombazzato tra un programma e l’altro (su Fox crime, Sky) il serial Donne assassine, iniziato da pochi giorni, si è mostrato deludente. A meno di sperare in un riscatto. Ma temo che non ci sia, visto com’è strutturato. Il primo episodio ha affrontato il tema della gelosia. Più propriamente dello stalking, termine ormai di largo uso per indicare l’ossessione di un uomo o di una donna nei confronti di un presunto innamorato - di solito del tutto ignaro e completamente innocente - o dell’amante, ugualmente presunto, del coniuge. Scatta il meccanismo della persecuzione, che ha origine in un disturbo psicotico. A confrontarsi drammaticamente in un crescendo di tensione sono state nel primo episodio Claudia Pandolfi e Sandra Ceccarelli. Quest’ultima nei tormentati panni della moglie che vaneggia sugli adulteri del marito e sceglie compulsivamente una vittima, una vicina di casa. Punti forti della vicenda: il volto della Ceccarelli che si trasforma a poco a poco in furia, la tensione crescente, l’abilità dell’attrice di modificare il suo sguardo: un po’ triste e depressa, un po’ Erinni scatenata, a volte assente a volte meticolosamente determinata. Facile intuire come andrà a finire. Ed è per questo che l’attenzione si incentra sullo svolgimento, un po’ come accade nel meccanismo poliziesco della inverse detection (indagine capovolta: parte dall’individuazione del colpevole e procede nella ricerca dei meccanismi criminali e dell’individuazione delle cause: tenente Colombo docet). I buchi nella sceneggiatura non sono pochi, anche se spesso trovano conferma nella cronaca nera e quotidiana. C’è uno psicologo che è presenza molle, così leggiadro tra una diagnosi che gli sfugge e i rimedi che suggerisce (farmaci di sedazione). C’è il poliziotto che di fronte a

games

video

un’allarmatissima Pandolfi si rifugia nell’indifferenza burocratica e archivia il caso prima di esaminarlo. C’è un marito che sembra non accorgersi di quel vulcano nevrotico che alberga nella moglie e che dà segni di imminente eruzione. Pare messo lì a fare da comparsa, con un’ingenuità che non sfiora l’imbecillità, semmai entra a piè pari nel campo dell’idiozia impotente. L’episodio è stato tratto da un fatto vero, del quale garbatamente non si dice nulla nei titoli di coda. Ma son convinto (non occorre una laurea in Psicologia) che la realtà cui trae ispirazione la sceneggiatura sia stata ben più complessa della sua trasposizione televisiva, che soffre di stereotipi al limite del burattinesco genere che, come sdanno i bambini, banalizza simpliciter). Donne assassine appartiene al filone televisivo ansiogeno. Su questo argomento è intervenuto Fedele Confalonieri, gran timoniere delle reti Mediaset riferendosi al seriale Crimini bianchi. Assai modesto ed effettivamente allarmistico. In questo senso ha ragione. Non l’ha invece se parla in generale, come già qualcuno parlò della «cattiva immagine» che l’Italia dà di sé al mondo con sceneggiati sulla mafia (La piovra in primis e forse anche la Sicilia criminale e omertosa del commissario Montalbano). Ma che si dovrebbe fare? Ispirarsi al realismo socialista in tinta rosa e descrivere un paese che organizza gare per fioristi, tenzoni tra i virtuosi del lavoro, squarci sul mondo del volontariato e basta? Ho una paura: che si blocchi sul nascere una nuova (ipotetica) riduzione televisiva di Delitto e castigo di Dostoevskji. La cronaca nera è più forte del grande capolavoro della letteratura mondiale? Non ci sono solo Pippi calzelunghe, Peter Pan e i film di Frank Capra. A questa stregua I ragazzi della via Pal farebbero piangere troppo: da cassare sul nascere.

dvd

TORNA LO YOUTUBE DELL’ASTRONOMIA

UN CALCIO VOLANTE DA ACTIVISION

PAUL NEWMAN IN FORMATO DELUXE

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iparte Coelum Stream, il sito internet che si propone come vero e proprio crocevia nella condivisione delle realizzazioni video degli appassionati, frutto della collaborazione tra Coelum Astronomia e il progetto Virtual Telescope. Il portale, fanno sapere i curatori, aspira a diventare un «riferimento nella raccolta e proposta di materiali e contributi video a contenuto astro-

S

pesso le trasposizioni videoludiche dei film hollywoodiani lasciano con l’amaro in bocca i cosiddetti hardcore gamers (proprio come i remake hollywoodiani dei videogame più famosi deludono regolarmente gli appassionati di cinema). Ogni tanto, però, ci si trova di fronte - se non a un capolavoro - almeno a una piacevole sorpresa, come nel caso di Kung Fu Panda, svi-

l suo crimine: l’anticonformismo. La sua condanna: i lavori forzati. Torna, ma in formato Deluxe, il grande Paul Newman di Nick mano fredda, il detenuto solitario che non riesce a sottostare alle regole arbitrarie del penitenziario nel quale vive. «Dài a un attore un buon copione e lui ti solleverà il mondo», commentò all’epoca l’attore, decretando il film come la migliore sce-

Di nuovo online “coelum.com”, vero e proprio punto di riferimento degli appassionati dei cieli

Il platform “vecchio stile” di Kung Fu Panda non fa rimpiangere il film di Dreamworks

Dal 4 novembre torna il grande attore di “Nick mano fredda” con un nuovissimo trailer

nomico». Grazie alle più moderne tecnologie, infatti, Coelum Stream trasmette teleconferenze sui temi caldi dell’astrofisica, abbinate all’astronomia osservativa. Gli incontri sono a cura dello staff scientifico del Virtual Telescope. «Auspichiamo che diventi uno strumento al servizio della comunità e della diffusione della cultura scientifica, esorcizzando l’ingiusta convinzione che la scienza sia gelida e noiosa, grazie all’evidente bellezza delle meraviglie del Cosmo e al contributo degli utenti», ha commentato l’astrofisico Gianluca Masi, responsabile del progetto e direttore di Coelum Stream.

luppato da Luxoflux e distribuito da Activision per quasi tutte le piattaforme (Playstation 2 e 3, Xbox 360, personal computer, Nintendo Wii e Ds). La meccanica di gioco è semplice. E questo lo rende adatto anche ai bambini di una fascia d’età particolarmente bassa (almeno 3 anni, comunque). Kung Fu Panda è, in tutto e per tutto, un platform vecchio stile, ma realizzato con una grafica 3d davvero accattivante e «infarcito» con una quantità sufficiente di puzzle ed enigmi tale da garantirne una longevità superiore alla media. Consigliatissimo, naturalmente, a tutti i fan (giovani e meno giovani) del film.

neggiatura letta negli ultimi anni. E c’è una buona ragione se la sceneggiatura risulta così autentica: il co-autore Donn Pearce aveva passato due anni della sua vita ai lavori forzati. Newman è poi brillantemente affiancato da un solido gruppo di caratteristi impegnato a interpretare i ruoli degli altri detenuti, tra cui spicca George Kennedy, premiato con l’Oscar per la sua interpretazione di Dragline. Il nuovo dvd Deluxe sarà disponibile nei negozi a partire dal prossimo 4 novembre (prezzo: 26,99 euro) e comprenderà il nuovissimo trailer della pellicola più la possibilità di scegliere il doppiaggio tra quattro lingue.

I


cinema Ben Stiller MobyDICK

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stile e gergo afro. Ecco un altro bersaglio del film: cantanti hip hop miliardari, con linee di abiti ghetto-chic e bevande energetiche schifose, che ambiscono a trasformarsi in Attori Importanti. Nessuno finora ha criticato Downey, ma come ha detto qualcuno: «Non vorrei vedere questo film seduto accanto a Spike Lee».

fa terra bruciata di Anselma Dell’Olio na buona commedia, una commedia che fa ridere, è rara e preziosa come un forziere di rubini. È tale la fame di buon umore, che anche i film che aspirano a deliziarci, riuscendovi solo in parte, sono ben accetti. È il caso di Tropic Thunder, opera seconda dell’attore-regista-autore Ben Stiller. Il suo debutto Zoolander (2001) è una parodia del film politico Va’ e uccidi (1962) e del mondo della moda, che dà un senso nuovo all’espressione fashion victim. È un film di culto: vuol dire pochi soldi al botteghino e molti ammiratori tra gli addetti ai lavori. Per la verità uscì nelle sale americane a ridosso dell’11 settembre, la gente era stordita e usciva poco di casa. Ben Stiller è doppio figlio d’arte: i suoi genitori Anne Meara e Jerry Stiller sono attori comici sulle scene da cinquant’anni (spesso lavorano con lui) con un’onorata carriera anche come il duo comico «Stiller & Meara», ospiti fissi in tutti gli spettacoli di varietà televisivi, finché il genere non è sparito alcuni decenni fa. (In America. In Italia possiede vita eterna.)

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Ben, quarantenne ebreoirlandese, svezzato dai migliori comici in circolazione, non s’accontenta di ricalcare modelli classici. Per la sua vena comica estrema, si è coniato il termine scorched earth (terra bruciata). In Tropic Thunder si fa terra bruciata anche in senso letterale. Se in Zoolander Stiller si è limitato a sbertucciare un solo film di genere e un solo ambiente, qui spara sui film di guerra, specie quelli sul Vietnam; sulle star palestrate degli action movie (Stallone, Schwarzenegger e altri) che camminano lungo il viale del tramonto e sono in cerca di riscatto con un film «nobile»; sugli Attori Assoluti e aspiranti tali, disposti a qualsiasi tortura per entrare nella parte e nella Storia del cinema; sui film per cerebrolesi (le associazioni di categoria non hanno gradito) cucinati ad hoc da attori «seri» a caccia di Oscar; sui film scorreggioni in cui si ride sulle funzioni intestinali; sulle star di film scorreggioni in cerca di riscatto professionale; sui produttori di Hollywood repellenti e venali; sui reduci grandi invalidi che scrivono film sulle loro esperienze in guerra; e forse qualcos’altro che è sfuggito in tanta abbondanza di bersa-

gli. Forse troppi. Meglio non perdere l’inizio del film. Sono tre trailer o «prossimamente» fittizi, che presentano i tre attori principali e i generi che li hanno resi famosi e scontenti, ognuno dei quali è un mito vivente: Stiller è la star d’azione in declino (e nella vita è campione d’incassi e socio fondatore del frat pack, giovani attori comici di successo che si comportano come matricole ricche e sfrenate); Jack Black (frat pack pure lui) è il campione di scorregge Jeff Portnoy; dare un cognome ebreo al personaggio è tipico delle veroniche stil-

È un assalto ben riuscito alla diligenza del buongusto “Tropic Thunder”, dove l’attore e regista spara su tutti: sui film di guerra, specie quelli sul Vietnam, sulle star palestrate, sugli Attori Assoluti. Con un intento: destabilizzare continuamente il pubblico leriane per schivare accuse di razzismo, dato che sfotte il filone di film scatologici di Eddie Murphy, ma pure quelli che hanno fatto la fortuna di Black stesso, come Nacho Libre, infinitamente superiori ma molto scostumati pure loro: un terreno scivoloso. E poi c’è Downey. Da quando Robert Downey Jr. (Kirk Lazarus) è sobrio e in forma, non sbaglia un colpo: Iron Man, Zodiac, Charlie Bartlett, Guida per riconoscere i tuoi santi. Toglie il fiato e incanta in qualsiasi genere. Lazarus è un australiano biondo con gli occhi azzurri che per fare un afroamericano nel film di guerra si è sottoposto a trattamenti chirurgici per cambiare letteralmente il colore della pelle, ha lenti a contatto

scure e una parrucca riccia nera. Si prende assai sul serio («Io non leggo i copioni, i copioni leggono Me»), e non abbandona la calata nera nemmeno durante le pause: «Smetterò quando avrò girato gli extra per il dvd». Downey è spaventosamente bravo, in una performance da funambolo in cui parte fondamentale del «divertimento» è l’attesa della scivolata fatale nel cattivo gusto offensivo e senza rimedio (sempre sfiorata). Come assicurazione sulla vita, Stiller gli ha messo vicino un attore nero autentico, nel ruolo del rapper cinefilo Alpa Chino (Brandon T. Jackson). Alpa Chino ha il ruolo di anticipare i commenti del pubblico di colore: canzona Lazarus per la sua imitazione non sempre aggiornata di

Ecco la trama: una troupe di Hollywood arriva in un paese tropicale per girare un epico film sulla guerra in Vietnam che gratificherà gli ego del cast di prime donne e del regista inglese Damien Cockburn (Steve Coogan). Il protagonista è Trugg Speedman (Stiller), più muscoli che cervello, che spera di salvare la carriera traballante. La prima battuta da insider è: «Dopo cinque giorni di riprese, il film è un mese indietro sulla tabella di marcia». Il produttore, un irsuto tonante scimmiesco volgarone che minaccia di ritirare i finanziamenti e richiamare tutti quei vanitosi spendaccioni in patria, è interpretato da un irriconoscibile attore famoso e popolare. Mai sospettato di avere un penchant per il comico, la star (non la nominiamo, visto che il suo nome compare solo nei titoli di coda, anche se si può intuirlo dagli indizi che seguono) nemmeno qui dimostra di averlo, se non nell’essersi prestato a un gioco tanto estremo e rischioso. È un’interpretazione (la seconda dopo Magnolia) in cui il divo crea un personaggio totalmente diverso da quello abituale, ossia un giovanotto di belle speranze, a volte un po’ scaltro (Rainman e Jerry Maguire) ma sempre amabile. Qui fa paura e anche parecchio schifo, rischiando (e qualcosa di più) la caricatura, un tantino vieta, del giudeo assatanato di denaro e potere. Il regista Cockburn (è un cognome autentico, significa «bruciore di pene») decide di ignorare gli ordini del produttore e d’inoltrarsi nella giungla: gli attori reciteranno, ripresi da camere nascoste tra la vegetazione insieme con le maestranze. Per prima cosa il regista salta su una mina, con effetti splatter di budella semoventi: a loro insaputa sono incappati in una vera guerra tra narcotrafficanti. Ci mettono un po’ a capire che la morte del regista non è un trucco. Ma la trama non interessa tanto; la mira degli autori è di andare oltre, di destabilizzare il pubblico continuamente: per ogni risata ci sono almeno quattro sussulti per sventato disastro d’intenzioni. L’assalto alla diligenza del buon gusto è ben riuscito, ma forse perché doveva pure recitare, Stiller non ha saputo controllare e integrare tra loro i talenti feroci (e qui solisti) di cui si è giustamente circondato. Se sopportate di sentirvi a disagio per concorso in terra bruciata, è da vedere.


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poesia

Ovidio e Alcione, inesauribile fonte di Roberto Mussapi ublio Ovidio Nasone (43 a.C.-17 d.C.) è uno dei grandissimi poeti che vissero a Roma nell’età di Augusto, uno squadrone irrepetibile: Virgilio, Lucrezio, Orazio, Catullo, Properzio, Tibullo. E appunto il supremo Ovidio. Dal suo libro delle meraviglie Le metamorfosi, le Mille e una notte dell’Occidente, scaturiscono fiabe che raccontano la nascita del mondo nelle sue forme molteplici: tutto, i boschi, i fiumi, le rocce, gli alberi, gli animali, ognuno degli esseri del mondo è nato da un evento, da un mito. Il mito non è quindi un’interpretazione ingenua, popolare della realtà, ma il racconto esatto del prodigio con cui la natura si manifesta. Una sorta di incessante metamorfosi anima tutta la realtà, un’anima instancabile ne forgia le forme e le figure. Tra queste Alcione, che diverrà emblema della poesia stessa, nonché simbolo supremo dell’immensa poesia delle metamorfosi e del suo autore, che funge da inesauribile fonte in tutta la grande letteratura d’Occidente, da Dante a Shakespeare, da Marlowe a Goethe.

P

Alcione, la donna che per amore si tuffa in mare verso il cadavere del marito affogato, ed è con lui mutata in bianco uccello di mare, è il simbolo della potenza generante della poesia, nella sua essenza più pura, che la vede indissolubile dall’amore e dalla preghiera. Il marito della giovane Alcione, il re Ceìce, decise di partire per mare, diretto verso Claro per consultare l’oracolo di Delfi. Una serie di eventi luttuosi e oscuri presagi lo sconvolgeva, e aveva bisogno dell’illuminazione dell’oracolo. Quando comunicò la sua decisione alla moglie, la giovane donna oppose subito un rifiuto drastico. All’inquietudine del re che cercava le parole dell’oracolo, la moglie oppose una anche più intensa ossessione, fondata sul presagio che quel viaggio per mare avrebbe comportato la rovina per l’amato Ceìce, e quindi per se stessa. L’uomo non cedette ai pianti, alle suppliche della donna, salpò, e dopo poche ore di navigazione una violenta tempesta si scatenò, sconquassando e facendo a pezzi la nave, sommergendo con le sue immense ondate urlanti gli uomini precipitati in mare. Ceìce morì gridando il nome di Alcione, ma l’acqua salata soffocò quel nome impronunciato. Sappiamo che Alcione a lungo continuò a pregare per la salvezza del marito, finché per volontà superiore il dio Sonno, le svelò, in sogno, quanto era accaduto. La morte di Ceìce era doppiamente crudele: la sua nave era partita contro il volere della moglie, quindi contro la sua stessa famiglia. Inoltre il suo cadavere giaceva insepolto nel fondo del mare, e la mancanza di sepoltura era la condizione più funesta e atra per l’anima di un morto. Il mare violato da un

viaggio contro natura, se natura è la volontà della moglie di chi parte, e natura divina hanno i suoi presagi, il mare che si vendica di un atto in disarmonia con il fato e le sue predizioni, opera poi un miracolo straordinario, una vera e propria rigenerazione, ripristinando dalla morte e dal naufragio una nuova vita, in forma modificata, ma piena nella sostanza quanto era stata la vita perduta dall’uomo affogato pronunciando il nome della donna amata, soffocato dai gorghi salmastri. Sappiamo che Alcione, disperata, ormai fuori di sé e desiderosa soltanto di morire, per raggiungere il marito in qualunque terra si trovi, corre sulla spiaggia dove

ALCIONE E CEÌCE E ormai lo vedeva accostarsi sempre più a riva, ora lo riconosceva, era il marito! «È lui!» Urlò straziandosi il viso, la chioma e la veste, e tendendo le mani tremanti verso Ceìce disse: «Così, marito carissimo, così sventurato mi ritorni?» C’era un molo aggettante sul mare, edificato dall’uomo frangeva le onde fiaccando in anticipo gli slanci dell’acqua. Alcione balzò su quel molo, miracolosamente? Volava, e battendo l’aria leggera con ali nate in quell’attimo sfiorava, povero uccello, la cresta delle onde, e mentre volava la sua bocca mutata in becco sottile crepitò in un verso di pianto, un lamento. Poi come raggiunse il corpo freddo ed esangue abbracciando con le ali neonate le amate membra, invano le coprì di baci col duro becco. Sentì, Ceìce, quei baci, o fu solo un effetto del moto delle onde se l’uomo parve sollevare il viso? Dubitavano, a terra. Ma li aveva sentiti, e per grazia degli dei commossi furono tutti e due mutati in uccelli. Il loro amore rimase e sempre li tenne avvinti allo stesso destino, e il patto coniugale non si sciolse nemmeno nella nuova forma di bianchi uccelli. Si accoppiano e fanno dei piccoli, e d’inverno per sette giorni tranquilli Alcione cova serenamente in un nido sospeso a picco sul mare. Ovidio da Le metamorfosi (Traduzione di Roberto Mussapi)

per l’ultima volta aveva abbracciato e baciato Ceìce, supplicandolo di non partire. E che da quella riva vede affiorare, lontano, il cadavere enfio e irriconoscibile di un affogato. Sappiamo che è mossa da un incontenibile moto di compassione e amore per il corpo ignoto, che gli si rivolge dicendo «Io prego per te e ti amo come se tu fossi colui che amo, in nome di chi ti ha amato e perduto».

Sappiamo che il cadavere, avvicinandosi per effetto della marea, rivela, pur enfiato e massacrato, il volto di Ceìce, che Alcione riconosce l’uomo per cui aveva avuto compassione senza sapere chi fosse, che corre sulla roccia sporgente sul mare, si butta per condividere l’affogamento e la morte del marito comunque ritrovato, che mentre cade in mare il suo corpo si alleggerisce e le sue braccia si mutano in ali, e che lo bacia, disperata, e il bacio della sua bocca ormai fatta becco lo ridesta, lo sveglia dalla morte, e il marito riapre gli occhi, anch’egli modificato in bianco uccello marino, vivo. Volano, tornano a riva, nidificano, l’amore ha ricostituito la coppia in una nuova forma di bianchi alati, c’è stata una metamorfosi, ma la morte non ha avuto dominio. È un miracolo del mare, di cui i due divengono angelici, volanti messaggeri, nel mare ha avuto luogo la rigenerazione. Il mare è la manifestazione vivente della parte enigmatica, perennemente inafferrabile della realtà: specchiante in quiete e in condizione adatta di luce, occultante quando ci si inoltra, liquido e muscoloso al contempo, capace di cullare come nella dolcezza prenatale e di schiantare e distruggere. La culla che fa riscoprire a Walt Witman il respiro dell’universo, l’incanto dei notturni, le tempeste, da Shakespeare a Defoe, da Stevenson a Melville, da Coleridge a Verga, i naufragi tragici, da quello originario e protratto di Ulisse a quello di Gericault, il mare mostra l’ordine imperscrutabile, capriccioso, spesso iroso e furibondo del mondo. Ma nelle sue acque si trova, dissolta in chissà quale goccia salmastra, la pozione della salvezza, della rinascita, il segreto del ritorno: è un ritorno la storia di Ulisse, a Itaca, l’isola petrosa, è un ritorno la Tempesta di Prospero, dove tutti si perdono, e quando sono totalmente dispersi, a poco a poco iniziano a ritrovarsi, fino a una riconciliazione totale: riconciliazione dei personaggi che adombra una rigenerazione del mondo. Il mito raccontato da Ovidio ci offre un meraviglioso esempio della doppia natura del mare, terribile e distruttivo con la tempesta e causa di affogamento, ma anche luogo di rinascita prodigiosa. Luogo magico, non causa: la causa, è chiaro, è l’amore che non accetta la perdita di chi si ama.


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il club di calliope

UN POPOLO DI POETI

Sotto ai sassi, a rapida distanza, in lunghe e strette scatole di legno e banditi per sempre dalla mente dei congiunti, giacciono gli amati, che una mano acciaiata trascinò per i piedi nelle acque di marzo o per i capelli fuori dalla macchia sulla piana ardente di un monte calvo e magro. Qualcuno, atrabiliare, piantata la notte nel cuore e scrutata con freddezza la solitudine degli esseri, sempre in questi luoghi torna a udire il rilancio del grido tra i macigni, gli adescamenti dei cinghiali nel profondo valle e sulle creste acerbe aguzza la raffica del vento. Qualcuno che ha nella bocca una lingua incomprensibile e gli occhi trafitti dalla forza delle cose. Che un essere superiore o inferiore, retto o nocivo, comunque barbuto, rapido e irremovibile ascolti il canto disperato dei superstiti e lo trasfonda ai figli che imparino a modulare la mente al lutto irreversibile aprendo le proprie tempie a una memoria illesa.

Fa luce, ti prego, fino all’anima se lo vuoi rischiara queste tenebre, inazzurra il tormento che hai creato ricama d’oro la sorte spesa invano; aggiungi vita muta il lamento in canto, sono obliato da me stesso un gorgo oscuro; ho ancora un grido murato sulle labbra e fango stigio disciolto nelle vene; dammi parole di pietra da non dire, l’approdo al sole è un cunicolo mortale. Piero Buscioni

È lei inesorabile solitudine, la sento nelle gesta umane, mi avvolge le membra come il vento caldo del deserto mi entra nell’anima, mi blocca il cuore e l’onesto pensare solitarie appaiono le pareti domestiche, solitario il quotidiano incedere, solitaria la compagnia di me stesso, la mente vaga nell’essenza delle cose orfana della tua presenza, sono rinato primitivo uomo solo e consapevole. Solitudine Fabio Clerici (da Dedicato a te, Kimerik Edizioni)

Roberto Bartoli «Un popolo di poeti», che ogni sabato esce sulle pagine di Mobydick, è dedicata ai lettori. Chi voglia inviarci versi inediti, troverà accoglienza nella nostra rubrica. L’indirizzo al quale spedirli è: liberal Mobydick, Via della Panetteria 10, 00187 Roma

RONDONI E LA FORZA INCANDESCENTE DELLA PAROLA in libreria

è un’impressione viva nel leggere i lavori di Davide Rondoni, con più accentuata intensità aprendo le pagine degli ultimi due, il saggio Il fuoco della poesia (Rizzoli, 220 pagine, 9,20 euro) e la raccolta di poesie Apocalisse amore (Mondadori, 156 pagine, 14,00 euro), impressione che deriva dal constatare una comune tensione riflessiva volta alla ricerca di una risposta alla domanda, di sapore leopardiano, «che fa il mondo» e, quindi, «che fa la poesia». Perché Rondoni ha stretto una capitale relazione tra mondo e poesia, secondo un’abitudine quasi del tutto scomparsa ormai nei nostri orizzonti letterari. A questo stato di cose oppone un deciso scarto, facendo leva sul magistero di Mario Luzi e trasfondendo tutta la sua esuberante energia cantando, in versi come in prosa, «qualcosa pari alla vita» (Luzi, per l’appunto). Nel Fuoco della poesia si

C’

di Francesco Napoli alternano prosa e versi, suoi e di altri grandi poeti, con i quali si affrontano temi alti, come quello del «tramandare il bello», per poi scagliarsi, a riguardo, contro quel qualcosa che «è successo per cui molti si stanno abituando all’orrore, e perdono familiarità con la bellezza»; si punta l’indice verso la scuola, incapace di avvicinare gli studenti a Dante quando

gli italiani che hanno l’adolescenza addosso», inquieta come quella del Sessantotto ma da questa distante, a suo modo di vedere, perché sta cercando di sostituire il famoso tutto e subito con «il Tutto ti vuole. E ti vuole bene». Bisogna allora convincersi con lui che «l’intellettuale vero è quello che sente un richiamo nel mondo» e in

Consapevole presenza nel mondo e riconosciuta grandezza dell’alterità di Dio, nel saggio “Il fuoco della poesia” e nella raccolta di versi “Apocalisse amore” «piazze o basiliche e palasport si riempiono intorno ad attori di ogni specie che leggono di Beatrice, di Ulisse, di Bernardo»; o si scende nel prosaico, nella premiopoli editoriale «un orgasmo retorico. Una fantastica pacchianata». C’è poi un occhio attento verso la nuova generazione. Anche Rondoni si sente padre di «fi-

questo mondo vive. Volendo forzare si potrebbe sintetizzare affermando che con pasoliniana passione e testoriana ideologia letteraria (e Pasolini e Testori sono senz’altro altre due stelle del suo universo di riferimento), Rondoni cerca di stanare l‘uomo contemporaneo e lo fa lanciandosi nel fuoco della mondanità, in senso

strettamente etimologico, convinto che la poesia, e il poeta, giustificano così la loro azione. Lo stesso fuoco del titolo, infine, in Apocalisse amore appare in tanti suoi isotopi semantici. L’occhio allora cade su una sequenza significativa di due sezioni differenti: «indovinando con il radar del suo/ tormento i fuochi» (Oriana a N.Y.), «vedo bruciare/ nel suo occhio concentrato e chiaro» (Passeggeri 2), «la riva di luce diamante, esaudita di azzurri/ brucia/ le ore sui quadranti» (Un momento...) e, infine, «sta male la moglie/ ha sussurrato in tempo/ la fiamma che mi accompagnava» (E cosa c’è alla fine...). Ma a bruciare di continuo in Rondoni è la «parola», sia essa declinata in versi che in prosa, quale forza incandescente, con un fuoco la cui scintilla si genera dalla pietra focaia dell’essere umano e della sua consapevole presenza nel mondo con quella della riconosciuta grandezza dell’alterità di Dio.


arti Le rivelazioni di Lisette Model MobyDICK

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mostre

on dirà molto al pubblico nostrano il nome di Lisette Model, che non a caso viene mostrata accompagnata dai suoi allievi, alla sua «scuola» diffusa, che vanta nomi molto più celebri, e talora alla moda, come Larry Fink, Bruce Weber, Eva Rubinstein (la fotografa del vuoto e dell’esistenza errante, ex-attrice e ballerina, convinta che ogni scatto del mondo fosse un autoritratto traslato e riflesso di lei). E soprattutto il nome più rappresentativo, ben più noto e scandaloso, di Diane Arbus, la fotografa dei malati di mente, dei nani e giganti d’America, dell’America reazionaria e feroce, nel profondo Sud. Che cosa significhi «scuola» è difficile definirlo, perché si tratta più d’un discepolato, per devozione o emulazione a contatto, che non una vera filiazione didattica diretta.Tranne per Larry Fink, che si è sempre qualificato quale suo «allievo» eletto e ha scritto un affettuoso testo introduttivo al volumone che accompagna la mostra (tutto è esagerato ed extra-size, in Lisette Model) e per Gary Schneider, il cantore dei nudi, sudafricano d’origine, che per vari anni stampò quale tecnico d’ufficio le immagini fortunate della Model, sino alla morte di lei, nel 1983. Longeva e socievole, tenne comunque, per tutta la sua tarda esistenza, una sua «scuola» atipica, in cui più che insegnare davvero la tecnica, insegnava approci alla vita: come trasformare la realtà in icona memorabile. E i suoi «corsi», che avevano titoli stravaganti, tipo: «Il ruolo della macchinetta nella fotografia d’oggi» (come la tecnologia più moderna muta i rapporti fotografici col mondo e con l’istantaneità) oppure «Fotografare New York e la sua gente». Arrivata tardi alla fotografia, Lisette, nata a Vienna nel 1901 (nella Vienna di Freud e di Loos, ove l’ornamento veniva considerato un vizio e la fotografia una sventura giornalistica, una lebbra inevadibile, per lo meno per Karl Kraus), ama soprattutto la gente e quella vuole incaponirsi a placcare, secondo anche quanto testimoniò la sua amica e fotografa, d’ambito assai diverso, più documentaristiconeorealista, Berenice Abbot: «Non conosco altro fotografo che abbia fotografato così intimamente le persone. I suoi personaggi sono bersagli diretti della sua visione d’artista». Tenerissima e feroce tende le sue reti capziose sulle spiagge di Nizza e di Co-

N

di Marco Vallora ney Island, i mostri abbronzati della Promenade des Anglais e i mutanti riduplicati del nascente consumismo-turistico americano. Inquadrature insolite, tagli sbilenchi, il corpo dell’altro (in tutti i sensi) sempre in primo piano, secondo un’ottica quasi caricaturale, che esalta le deformità e sorride con noi, accanto alla proverbiale cicciona entusiasta, in riva al mare, che è la sua icona più conosciuta. E brinda con un sorriso disteso alla sua flaccida obesità, accarezzata maliziosamente dall’onda, che ha smesso d’essere simbolista. Pappagorge, rughe, smorfie, difformità, jazz-club e spiagge gremite: questi i temi privilegiati della Model, che dopo una decina d’anni formativi di Francia, e certo uno sguardo inevitabile e connivente con Cartier-Bresson, si rifugia in America, ove conquista subito la ribalta popolare. Esule, va a proporsi come tecnico di camera oscura

“Fifth Avenue” (1944) di Lisette Model

alla rivista newyorkese Pm: ma l’art director, Ralph Steiner, con fiuto, dopo aver dato uno sguardo sommario alle immagini che lei trascuratamente porta sotto braccio (ma ben sapendo che la celebrità è sempre in agguato), intuisce che è molto meglio rinunciare a un tecnico preparato per acquisire invece un maestro dell’immediatezza, che «fotografa con tutto il corpo», come asseriva uno slogan felice. E così Pm divulga le sue sorprendenti fotografie, di folli cacce sulle spiagge iperboliche d’America. Mostri del quotidiano, convenevoli da cicisbei fuori tempo, arte d’appostamento e ricerca critica del taglio fotografico. «La fotografia è l’arte più facile, il che la rende forse la più difficile», amava spiegare ai suoi allievi e, ribaltando le prospettive: «Il soggetto sei tu, l’oggetto è la vita». Vitalista, ma con misura: «non scattare la foto finché l’esperienza non ti fa sentire in imbarazzo». Esiste un pudore dell’immagine, che costantemente Lisette omaggia e trascende, trasgredisce e corona. Le sue figure non sono fantasmi rubati, ma «criminali» della banalità quotidiana, che le vengono incontro, invece di sottrarsi, con fare guardingo e complice stupore. E così lei ribadiva: «Il mio scopo non è lo sfruttamento, ma la rivelazione». Motto che anche Diane Arbus, diana cacciatrice nelle riserve della follia e delle cliniche-lager, avrebbe potuto far suo. C’è anche lei, in mostra, con alcuni scatti, a dire il vero non tra i memorabili. Ma ci sono pure altre belle immagini di concerto e di dialogo, di Bruce Cratsley, per esempio (pure lui archivista, premiato alla fotografia, con la complicità di Peter Hujar, che è stato uno dei modelli prediletti della Model). Di Elaine Levinstein, di Rosalind Solomon (che andava a «lezioni private» da Lisette Model, allargando la propria «visione») di Elaine Ellman. Molte donne-pioniere, dunque, come si vede. Tra i volti immortalati, quelli soprendenti di Kenneth Clark, storico dell’arte, di Louis Armstrong (in mutande, nel camerino), della scrittrice e storica dell’arte anglo-fiorentina Violet Trefusis: un mucchietto d’ossa risucchiate, nell’elegante rifugio di Villa dell’Ombrellino.

Lisette Model e la sua scuola, Roma, Museo di Trastevere, fino al 2 novembre

autostorie

Gli inglesi? I più sportivi... Parola di Dei

di Paolo Malagodi questo punto posso dire con orgoglio e senza nessunissima modestia di aver fatto moltissimo per lo sport italiano, di aver creato dei campioni a cui nessuno si sarebbe mai sognato di affidare una macchina per poter correre. Io invece sì, in quanto avevo la possibilità di far provare le macchine a Modena, che erano le macchine della scuola di pilotaggio, ma erano delle vere vetture da corsa per cui potevamo anche individuare i piloti che si comportavano meglio». Una dichiarazione che, posta in un quiz, difficilmente verrebbe risolta anche svelando che il periodo cui è riferita si pone a cavallo del 1960. Può, anzi, essere che il richiamo a Modena faccia sviare verso Enzo Ferrari o Adolfo Orsi,

«A

proprietario in quegli anni della Maserati, mentre l’autore della frase è un «romano de’ Roma». Quanto può esserlo chi, nato nella capitale, ha trascorso l’infanzia nel caffè-tabaccheria di proprietà della madre, in Piazza dei Cinquecento, dove sostavano numerosi i taxi e «a forza di vedere le manovre che facevano quando si spostavano, mi ero convinto di sapere guidare anche io». Come amava ricordare Guglielmo Dei, detto Mimmo, creatore e presidente della «Scuderia Centro-Sud» che dal 1954 al 1965 ha avuto un ruolo di primo piano, anche con gare di Formula 1, nello sport automobilistico italiano e internazionale. Un personaggio che non trova, forse, il giusto spazio nella memoria di tanti, ma al quale va attribuito il merito di aver saputo individuare e lanciare molti piloti di talento, tra cui Luigi Mus-

so e Lorenzo Bandini; facendo altresì debuttare nel 1958 la prima donna, Maria Teresa de Filippis, che abbia calcato la scena della Formula 1. Vicende che Mimmo Dei ripercorre in chiave autobiografica (Dei ex machina, Fucina editore, 96 pagine, 15,00 euro), con singolare e coinvolgente stile nel narrare di una passione per i motori che lo portava, appena conseguita nel 1929 la patente, a frequentare «l’officina dei fratelli Giannini che preparavano delle vetture da corsa». Permettendo al giovane di iniziare a gareggiare con successo, sino ad approdare alla Maserati; marca della quale Dei otterrà nel 1951 la rappresentanza, firmando a garanzia 80 milioni di cambiali, presto onorate come i successivi impegni per la scuderia: tanto da portarlo a concludere «che la mia vita è sempre stata una grande avventu-

ra e potrei definirmi non un commerciante, un corridore o uno sportivo, ma un inventore perché ho inventato sempre il danaro senza possederlo». Come quello occorrente a una squadra di pilotaggio su monoposto da corsa che, per contrasti con l’Automobil Club di Roma, non potè contare sulla pista di Vallelunga, trasferendosi all’autodromo di Modena (ecco chiarito l’iniziale busillis!) grazie a sostegni commerciali che, negati in patria, furono trovati oltre Manica. «E io feci - annota Dei - il contratto sia con la Bp sia con la Dunlop che mi riforniva gratis 500 gomme all’anno e mi dava anche gratuitamente tutte le gomme per le corse alle quali partecipavo. Se io ho seguitato a fare le corse per undici anni, non per un anno, lo devo solo agli inglesi che sono gli uomini più sportivi che io abbia mai conosciuto».


MobyDICK

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architettura

Il complesso parrocchiale del Gesù Redentore di Modena, progettato da Mauro Galantino: l’interno della chiesa

Lo spazio liturgico negli anni Duemila di Marzia Marandola entre a nessuno verrebbe in mente di costruire gli uffici di un ministero come gli Uffizi fiorentini, nell’immaginario collettivo l’architettura di una chiesa è rimasta, più di ogni altra tipologia, ancorata ai modelli antichi che, presenti quasi in ogni città e paese italiano, sono capolavori la cui vitalità trascende l’abisso del tempo e della storia. L’immagine architettonica che associamo a una chiesa è declinata da facciate sontuose con frontoni timpanati, campanili svettanti, cupole ariose o imponenti tiburi: elementi che rendono immediatamente riconoscibili gli edifici chiesastici del passato, ma che non possono essere replicati identicamente nelle nuove chiese. Il complesso parrocchiale del Gesù Redentore di Modena, progettato da Mauro Galantino, riesce nella complessa impresa di allestire uno spazio nel quale lo slancio spirituale e l’invito alla preghiera si trasmettono attraverso un linguaggio architettonico contemporaneo. Nel 2001 Galantino è vincitore di un concorso a inviti bandito nel 2000 dalla Conferenza episcopale

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design

italiana (Cei) per l’arcidiocesi di Modena-Nonantola. Situato nella periferia sud di Modena, il nuovo complesso parrocchiale, consacrato lo scorso 4 maggio, occupa un lotto rettangolare che si dispiega lungo corso Leonardo da Vinci. Qui prospettano nell’ordine: gli ambienti parrocchiali, con l’alto volume scatolare e traforato del campanile in primo piano; il piano assolato del sagrato pavimentato; il fronte laterale della chiesa, i cui volumi, nitidamente intagliati, sono intaccati dai tagli quadrangolari e fessurati delle finestre e dallo sbalzo stereometrico che sostiene la ieratica croce. In continuità con il fronte laterale della chiesa si sviluppa il volume austero e prosciugato della casa di accoglienza con le abitazioni dei religiosi. Prospettante sul sagrato, l’ingresso alla chiesa è segnalato da un portale monumentale in pietra scura, il cui montante esterno si prolunga sul terreno, in una sorta di recinto che delimita l’area di rispetto del complesso. All’esterno, dove le eleganti volumetrie sono esaltate dall’intonaco bianco che riveste la struttura in cemen-

illenovecentoquarantacinque. Popoli e paesi escono stremati dal più grande conflitto armato della storia. Il sangue non scorre più ma la tensione tra Est e Ovest continuerà ancora per mezzo secolo. Il nuovo campo di battaglia è quello politico, militare, spaziale, ideologico e tecnologico e sarà storicamente definito «guerra fredda». Le super potenze e i rispettivi alleati si contendono il futuro del mondo mentre lo stesso mondo vuole dimenticare il passato, rinascere e costruire una diversa qualità di vita. Est e Ovest alimentano e sostengono the cold war attraverso ingenti investimenti nel campo scientifico e industriale. Berlino, tagliata in due, diventa l’epicentro e il simbolo della nuova era. I monumentali palazzi costruiti sulla Stalinallee di Berlino est, destinati ai lavoratori comunisti e i «moderni» edifici residenziali realizzati a Berlino ovest, progettati da Le Corbousier, Gropius e Niemeyer, diventano vetrina e simbolo della contesa tra le due superpotenze. Artisti, architetti e designer saranno coinvolti nella competizione. Le nuove tecnologie, nate per la guerra, possono essere sfruttate ora per migliorare la vita quotidiana.Tensione, ottimismo e sviluppo scientifico senza precedenti, daranno vita alla vitalissima «era moderna», celebrata dal Victoria and Albert Museum di Londra nella mostra Cold War Modern: Design 1945-70. Architettura, design, grafica, fotografia pittura, moda, cinema; Est e Ovest rappresentati da trecento icone della creatività del dopoguerra, in corsa verso il futuro. Primo e significativo oggetto in mostra: Leg splint, pensato nel 1942 da Charles and Ray Eames. I due designer, la-

M

to armato, corrisponde un luminoso spazio interno dai confini evanescenti, dove l’aula liturgica è infiammata dall’intonaco rosso che accende le pareti, appena mitigato dal bianco del panneggio che modella la copertura. Dietro l’altare maggiore, una fascia vetrata proietta l’aula sull’orto degli ulivi, un hortus conclusus sul cui muro di recinzione campeggiano le immagini della Via Crucis, impresse su pannelli in vetro. In posizione diametralmente opposta, di fronte all’altare, un’altra fascia vetrata rivela un atrio rettangolare a cielo

aperto intagliato da una catena d’acqua corrente che alimenta la vasca ottagonale per l’immersione del battesimo. Su di esso si affaccia la cappella del tabernacolo eucaristico. Con un eloquio trattenuto e sommesso, un’amorosa calibratura degli spazi e dei segni, Galantino appronta un’immagine architettonica apparentemente semplice, realmente affabile e quotidiana: una chiesa che contribuisce alla ricchezza del paesaggio urbano e allestisce uno spazio liturgico solenne e gentile, capace di intensa spiritualità.

Èstetica della guerra fredda di Marina Pinzuti Ansolini vorando sulle possibilità del compensato curvato, impiegato nella costruzione degli aerei da combattimento, studiano un oggetto utile all’ortopedia, certamente più confortevole dei precedenti in ferro. È l’inizio dell’era moderna del design. La Womb chair di Eero Saarinen è la prima sedia in plastica a essere prodotta in grande quantità. Nel 1947 l’italiana Olivetti modernizza la manifattura dei prodotti per ufficio; in mostra la Lexicon 80, macchina da scrivere in acciaio presso fuso e plastica. Nello stesso anno, Giò Ponti realizza la Cornuta,

Vespa 1950

macchina per il caffé da bar, una piccola opera d’ingegneria dal profondo significato sociale, destinato a diventare un simbolo dell’italian style. La Vespa, nata nel 1950, prodotto utilitario derivato dagli scooters dei paracadutisti americani durante la guerra, diventerà uno degli oggetti del desiderio negli anni Cinquanta. Nella Germania dell’Est, si sviluppa l’uso delle materie plastiche e nel 1954, viene prodotta, paradossalmente in serie limitata, la P70 Walter Ende, coupé, dalla scocca in Duroplast. Nel 1957 l’Unione Sovietica batte clamorosamente gli Stati Uniti nella corsa allo Spazio e lancia il primo satellite artificiale della storia: lo Sputnik, che rimarrà in orbita per 92 giorni. La mostra del V&A si conclude con un’immagine utopistica degli anni Settanta: Oasis No.7. Una gigantesca sfera di plastica trasparente è sospesa sulla facciata del Fridericianum Museum di Kassel, cittadina tedesca quasi interamente distrutta dai bombardamenti durante la guerra. Definita dai suoi progettisti «riserva sintetica», l’Oasis, arredata con palme e amaca, è un luogo di fuga dal quotidiano e di percezione alterata del mondo circostante. Al suo ingresso un’insegna significativa: Exit.

Cold War Modern: Design 1945-70, Victoria and Albert Museum, Londra, fino all’11 gennaio 2009


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i misteri dell’universo

MobyDICK

ai confini della realtà

n una precedente rubrica abbiamo quella del grande studioso sufi italiano considerato varie questioni su Salo- Gabriele Mandel, che risale al quarto semone, cui di solito non si dà risposta. colo a.C., quando un suo avo, re della Il che non creerebbe problemi se si Battriana, impedì ad Alessandro la contrattasse di una figura fantastica creata da quista completa del suo paese). autori del sesto secolo a.C., ma riferendosi È tesi corrente che Macheda, questo il invece, come noi crediamo, a un personag- nome della regina nel Kebra Nagast, vegio storico, vissuto nel decimo secolo a.C., nisse dallo Yemen, dove esisteva una coimportante non solo per la costruzione del munità detta dei Sabei, e che gli oggetti tempio di Gerusalemme, ma per la sua straordinaria saggezTempio della Regina di Saba za, sapienza e gloria, una rispo(raffigurata in una statua sta è quanto mai necessaria. nella foto a destra) nello Yemen Abbiamo affermato che Salomone ebbe un regno esteso dall’Egitto all’India (l’Eufrate essendo l’Indo), non per meriti bellici, ma come riconoscimento della sua superiorità morale e intellettuale, come avvenne per Ashoka e Yu. Tale adesione comportò l’invio delle figlie dei re offerte come mogli che ne riconoscevano il potere. Abbiamo suggerito che dopo quarant’anni di governo, il regno fu ceduto (e presto perduto) ai due figli, dopo che Salomone, formalmente ancora re, era partito per un viaggio che durò quarant’anni, per visitare l’immenso regno (viaggio documentato dai troni di Salomone in Iran, India e Asia Centrale) e per restituire alle famiglie le mogli e i loro figli, che sapeva sarebbero stati uccisi alla sua morte: questa, forse, la massima espressione della sua saggezza. E abbiamo supposto che passasse i suoi ultimi giorni nel Nepal dove, nella giungla del Terai, del grande santo re, passò forse il tempo a meditare e scrivere libri. La sua tomba si trova vicinissimo alle rovine del palazzo dove nacque Siddharta, ovvero Budda, monumenti onorati da una colonna del grande Ashoka.

I

Il lungo viaggio della

Un’informazione, questa, che devo a Giuseppe Tucci, uomo la cui immensa cultura riempiva di ammirazione il pur coltissimo Fosco Maraini, ma che pare non sia stata notata dagli indologi. Un’informazione che, viste le similarità nel pensiero di Budda e di Salomone che appaiono negli scritti tradizionalmente a lui attribuiti (e i biblisti che ne negano la paternità compiono uno dei tanti loro errori), suggerisce che sia stato Salomone a ispirare Budda nella sua opera di revisione dell’induismo (il buddismo, affermò Gandhi, è solo una variante dell’induismo). Voglio qui notare il mio uso della parola Budda invece che Buddha come ora si usa: i cambiamenti meglio farli su questioni di sostanza. Consideriamo ora uno dei passi biblici più affascinanti relativi a Salomone: l’arrivo della regina di Saba. Questa donna, di grandissima bellezza (come descritto nel libro nazionale etiopico detto Kebra Nagast) e intelligenza arrivò con una carovana carica di doni preziosi e di oggetti chiaramente di origine tropicale, fra cui un corno di unicorno; il suo viaggio fu il più lungo mai intrapreso nel passato; stando al testo etiopico avrebbe avuto un figlio, Menelik, che divenne il capostipite degli imperatori etiopi, orgogliosi della loro genealogia (una delle più lunghe sopravvissute, insieme con quella della famiglia imperiale giapponese, che risale al sesto secolo a.C., e

Regina di Saba di Emilio Spedicato fossero di provenienza almeno in parte africana. Ma a questa tesi si può obiettare che un viaggio dallo Yemen era una impresa ogni anno effettuata dalle carovane che partendo dal Dhofar e dall’Hadramaut portavano a Nord incenso e mirra e lo speciale miele della zona; che lo Yemen ebbe sì periodi di splendore, ma all’epoca di Salomone non si era

hanno più tracce di costruzioni. Si può anche notare che l’unicorno è individuabile nel rinoceronte indiano, avente un solo corno, contro i due dell’africano. E in particolare il nome Saba o Sheba con accettabili trasformazioni linguistiche è da vedersi come Siva-Shiva, che ancora cinquecento anni fa era chiamato Sharviah presso i Kafiri dell’Afghanistan. E

Arrivò da Salomone con una carovana carica di doni preziosi e oggetti tropicali. È tesi corrente che provenisse dallo Yemen, ma molti elementi suggeriscono che fosse una sovrana di quell’India che nessun grande condottiero riuscì mai a conquistare probabilmente ancora ripreso del tutto dall’immensa devastazione che lo colpì nel 1447 a.C., all’epoca del colossale tsunami da vento che abbassò le acque a Nord del Mar Rosso permettendo a Mosè di salvarsi, e le accumulò a Sud presso il Bab el Mandeb, la porta delle lamentazioni, devastandone la zona più ricca dove per oltre trecento anni non si

quindi appare naturale vedere nella regina di Saba una regina dell’India al di là dell’Indo, quell’India che nessuno dei conquistatori classici (Sesostri primo, Semiramide, Dario, Alessandro…) mai potè conquistare, per le difficoltà climatiche e l’immensità della sua popolazione. Regina di un impero che dobbiamo credere confinasse con quello di Salo-

mone. E quindi il viaggio fu effettivamente lungo come nessun altro prima (poi, forse nessuno ha ancora superato Ibn Battuta), ma possibile perché effettuato attraverso regioni pacificate. E viene da pensare che possa avere preso la strada, forse allora più agevole, della Gedrosia, ovvero dell’Iran meridionale, quella che scelse Alessandro al suo ritorno o dove quasi morì di sete, e forse la scelse perché sapeva che vi era passata la regina…

Dopo l’incontro con Salomone, Macheda certamente ritornò in India via mare, probabilmente con una flotta dei grandi navigatori indiani Panis, partendo dal porto di Etzion Geber, un’isoletta non lungi da Aqaba. E durante il ritorno è probabile che visitasse i porti dei Panis, i territori colonizzati dall’India (forse anche il Madagascar, popolato proprio dall’India e Indonesia), l’Etiopia dove lasciò il figlio e forse presiedette alla costruzione di un palazzo ad Axum recentemente scavato da archeologi tedeschi, lo Yemen, l’Oman/Makran/Magan… Ed essendo certo più giovane di Salomone non è da escludere che questi, al termine dei suoi quarant’anni di viaggio, non sia andato a incontrarla in India e che il palazzo di lei fosse nel Nepal di oggi: Nepal, via naturale per il sacro monte Kailas, trono di Shiva, sede della miniera di sabbie aurifere di Ophir, da cui Salomone ne importò a tonnellate, trono quindi di oro, come ben si addice al dio Shiva. Ritengo che l’incontro di Salomone e Macheda abbia avuto un’altra conseguenza di immensa importanza per la storia dell’umanità, ma su questo ritorneremo. E se l’ipotesi è corretta, Salomone, Newton e Von Neumann sono ai vertici della storia culturale dell’umanità.


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