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Mossi alla responsabilità
04.12.2011 • Sala Leccio Partecipano: Marie Thérèse Mukamitsindo, Presidente della Cooperativa “Karibu” (Latina); don Gianni De Robertis, Direttore dell’Ufficio Migrantes dell’Arcidiocesi Bari-Bitonto. Modera: Paolo Ponzio, Presidente del Comitato scientifico del CSV “San Nicola”.
Paolo Ponzio
Benvenuti a questo primo incontro pomeridiano che abbiamo voluto intitolare “Mossi alla responsabilità” perché il tema che affrontiamo, il grande tema della immigrazione, ci vede tutti partecipi e può essere compreso soltanto a partire dalla risposta che ciascuno di noi dà a ciò che vede e incontra nella realtà quotidiana.
Abbiamo chiesto la partecipazione di due persone che ogni giorno sono protagoniste della questione dell’immigrazione, vale a dire don Gianni De Robertis che è parroco di una grande parrocchia nella città di Bari, “San Marcello” (grande perché è stata la mia parrocchia, no scherzo!), ma è soprattutto una persona che di fatto incontra quotidianamente gli immigrati, tanto che il vescovo da circa quattro anni gli ha appunto affidato il compito di essere il delegato diocesano della pastorale “Migrantes” nella diocesi di Bari, e Marie Thérèse Mukamitsindo, che è presidente della cooperativa “Karibu” di Latina e ha iniziato quest’opera innanzitutto rispondendo al proprio bisogno, che è il bisogno di un’immigrata ruandese da quindici anni qui in Italia.
Per cominciare, voglio riprendere una frase che ho citato anche nell’articolo apparso sul mensile del CSV “San Nicola”, «nella Dimora», in cui si presentava questo incontro: la frase che Benedetto XVI ha rivolto per la novantasettesima giornata mondiale dei migrantes e del rifugiato. Dice il Papa: «Il fenomeno globale delle immigrazioni mette sempre più in luce che i popoli di tutto il mondo formano una sola famiglia umana, una sola famiglia di fratelli e sorelle in società che si fanno sempre più multietniche e interculturali, dove anche le persone di varie religioni sono spinte al dialogo perché si possa trovare una serena e fruttuosa convivenza nel rispetto delle legittime differenze».
E io stesso dicevo, commentando i concetti di responsabilità, identità e differenze, che queste sono le parole chiave di un incontro che speriamo ci
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faccia comprendere qual è la posta in gioco di questa grande famiglia umana.
La parola a don Gianni.
Don Gianni De Robertis
Voglio innanzitutto ringraziare gli organizzatori del Meeting che mi hanno chiesto di condividere con voi le mie esperienze con i migranti. Non si tratta di una conferenza, piuttosto di una testimonianza, per quanto sia una esperienza molto povera, molto limitata, come diceva Paolo.
Sono parroco della chiesa di San Marcello, un impegno che assorbe quasi tutto il tempo a mia disposizione. È una esperienza che ho iniziato esattamente nel gennaio del 1993, quando sono diventato appunto parroco di San Marcello; ricordo che pochi giorni dopo mi hanno avvicinato alcune ragazze filippine, chiedendomi ospitalità e lavoro in comunità. Quindi sono trascorsi più di 18 anni, e devo dire che è stato un bel matrimonio, non con le ragazze filippine! Ancora adesso è una bella esperienza.
Erano esattamente gli anni, come sapete, in cui l’Italia da paese storico di emigrazione (ho letto che nei primi cento anni di storia più di 40 milioni di italiani sono emigrati all’estero) ha cominciato a trasformarsi in paese di immigrazione.
In genere, una data che viene posta come pietra miliare è quella dell’agosto del 1991 in cui, proprio nel nostro porto, arrivava un carico di ventimila albanesi; perciò, nel giro di vent’anni, da essere circa seicentomila gli immigrati sono oggi circa cinque milioni; e poi ci sono anche gli irregolari, per cui è difficile fare una stima esatta. L’Italia è diventata uno dei paesi a più alto tasso di immigrazione in Europa.
La chiesa di San Marcello è anche ricordata nella città di Bari perché è la parrocchia dove è cresciuto don Franco Ricci, un giovane che poi ha maturato la scelta di diventare prete e di andare come fidei donum, cioè in prestito, in Etiopia, dove è stato ucciso il 19 giugno del 1992; fra qualche mese ricorrono i vent’anni dalla sua morte e ciò ha reso questo quartiere e questa parrocchia particolarmente sensibili alla mondialità; per noi ricordare don Franco Ricci non consiste nel mettere qualche lapide ma nel fare nostro l’ideale che lo ha spinto a dare la vita per l’Africa attraverso per l’Etiopia.
A San Marcello sono venute lentamente a crescere le attività tutte di volontariato, perché noi vogliamo rimanere nell’ambito del volontariato puro: per questo motivo non partecipiamo a progetti, perché penso che ogni ambito debba saper custodire la sua specificità; da noi per esempio ci sono dei corsi di lingua italiana per gli stranieri, almeno come primo accesso, perché
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poi magari li si orienta anche in scuole più specializzate; a seguire c’è uno sportello-lavoro per badanti e colf che vede venire alla ricerca di occupazione tutti i martedì e venerdì centinaia di donne straniere, ma anche italiane.
Attualmente a San Marcello ha anche sede la comunità ivoriana e, come diceva Paolo, forse per questo motivo il vescovo circa quattro anni fa mi ha affidato il compito di seguire anche la “Fondazione Migrantes” nella nostra città, il settore degli immigrati e dei rifugiati.
C’è un punto nella nostra attività che cerchiamo di tenere presente sempre: lo esprimo con alcune parole che un vecchio medico ateo, il dottor Delbende, rivolge a un curato di campagna nel celebre romanzo di Bernanos. Dice questo medico: «Ciò che rimprovero a voialtri non è che ci siano ancora dei poveri, no. [...] Ma quello che non vi perdono, poiché voi ne avete la custodia, è di abbandonarceli così sporchi. Capite? Dopo venti secoli di cristianesimo [...] non ci si dovrebbe più vergognare di essere poveri. Altrimenti, voi l’avete tradito, il vostro Cristo! [...] Giacché la questione sociale, prima di tutto, è una questione di onore: è l’ingiusta umiliazione dei poveri che crea i miserabili. Non vi si domanda di ingrassare degli individui...». La questione sociale, come anche la questione dell’emigrazione, è innanzitutto una questione di onore.
Allora, più che una relazione di aiuto in parrocchia a noi piace stabilire una relazione fraterna; siamo anche un po’ avari in questi aiuti: in questi anni forse siamo stati più noi ad esser aiutati. Per esempio, ricordo davvero con commozione, oltre quindici anni fa, quando abbiamo voluto creare lo scivolo per i disabili a San Marcello, per la chiesa, e le ragazze filippine mi hanno consegnato un milione di lire che avevano raccolto con una colletta; ed io li ho presi subito – ma non crediate che questo prete pensi troppo ai soldi –, perché è un gesto bellissimo, di cui mi ricordo ogni volta che vedo quello scivolo; così come quando le stesse ragazze filippine e altri stranieri mi dicono: “spesso noi qui non ci sentiamo stranieri”. Penso sia una questione di onore: altrove messi sempre in coda, messi all’ultimo posto; almeno in parrocchia non c’è più questa situazione: a San Marcello ci proponiamo una relazione fraterna.
Sono sempre perplesso davanti a un eccesso del dare che non condivido; adesso siamo sotto Natale: i cenoni, i pranzi, i pacchi saranno eccessivi. Però resto dubbioso perché spesso anche quando si donano tante cose rimangono profonde distanze tra le persone. Almeno nella comunità cristiana gli stranieri non sono ospiti ma concittadini dei santi familiari di Dio e viceversa, come noi tutti siamo stranieri e pellegrini sopra la terra. Questo è scritto nella Lettera agli Ebrei e anche nella Prima Lettera di San Pietro.
Certo, so bene che questo non risolve i complessi problemi giuridici, economici, culturali, abitativi, ecc. che le immigrazioni portano con sé, le
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quali richiedono studio e risposte politiche adeguate; tuttavia sono convinto che esse potranno essere di soluzione solo se sapremo anzitutto riconoscere in dono dai fratelli l’umanità.
Avete sentito di quel prete a Gallipoli che nel pieno dei respingimenti aveva messo uno striscione davanti alla chiesa “Qui si accolgono persone”, e senza che lui lo volesse questo striscione aveva fatto il giro di tutt’Italia? Io lo conosco ed è veramente una persona splendida, davvero autentica: credo che a questo siamo chiamati come volontari. Don Tonino Bello diceva: «Non esibire i segni del potere ma il potere dei segni». Questo è quello che ci compete; e poi risolvere questo problema spetta a tutti noi come collettività.
Voglio dire ora qualcosa che riguarda più direttamente il tema di questa tavola rotonda, Mossi alla responsabilità.
Il volontario per me è colui che, come scritto nella presentazione al convegno, di fronte alle urgenze – come l’arrivo di migliaia di immigrati nella nostra terra – si sente immediatamente interpellato, responsabile appunto; siamo mossi dalle circostanze, dal volto dell’altro e insieme da qualcosa di più misterioso che accade nel nostro intimo.
Ricordate la famosa parabola del samaritano? Un samaritano che era in viaggio, passandogli accanto, vide, non pensandoci ma inciampandoci, quell’uomo ferito e ne ebbe compassione; anche nel racconto della vita di Mosè si dice che quando Mosè compì i quarant’anni gli venne l’idea di far visita ai suoi fratelli, i figli di Israele, e vedendone uno trattato ingiustamente ne prese le difese. La vita di Mosè cambia perché lui, a un certo punto, vissuto nella reggia del faraone, decide di fare visita ai suoi fratelli. Devo dire che credo profondamente nel potere trasformante dell’incontro con l’altro. Vi racconto un episodio.
Non ricordo se tre o quattro anni fa, ad ottobre, mi chiamò un’amica dell’ARCI dicendomi che c’erano una ventina di giovani etiopi che avevano bisogno di essere ospitati, perché l’indomani mattina li dimettevano dal CARA e non sapevano dove dormire; io le dissi che non se ne parlava proprio, perché alla San Marcello non c’era posto: non siamo un dormitorio, non potevo ospitarli! E lei mi chiese allora delle coperte; le dissi che le coperte avrei potuto trovarle: lanciai l’appello (devo dire che la gente è molto disponibile nella zona in cui mi trovo), perciò raccolsi un bel numero di coperte e dopo feci uno sbaglio: la sera successiva non avevo incontri e siccome ero un po’ curioso mi proposi di portar io queste coperte per vedere che facevano quei giovani etiopi.
Stavano davanti alla stazione sulla sinistra, dove c’è la pensilina, si erano accampati lì per la notte. Quando arrivai, quest’amica non credente dell’ARCI mi raccontò che gli etiopi erano stati tutto il giorno a imprecare, speran-
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zosi nella Provvidenza. Quando li raggiunsi con le coperte, la Provvidenza appunto, erano così simpatici, così sorridenti (quando gli africani sorridono è una cosa speciale); insomma, è finita che me ne sono tornato a San Marcello con le coperte e gli etiopi, che hanno dormito giù nell’aula magna, dotata di un palco in legno che ovviamente faceva da base con le coperte. Noi non cucinavamo per loro: andavano alle mense, però alcune sere ho invitato le famiglie a chiacchierare con loro: è stato bellissimo! La sera, prima di andare a dormire, scendevo e mi trovavo spesso dalla parte cristiana (alcuni erano musulmani) con la Bibbia sempre vicina; si parlava in inglese con loro, giocavano a palla a volo – dato che abbiamo un campetto di palla a volo – con i nostri giovani. Insomma, sono state due settimane bellissime di incontro con questi ragazzi; mi è pure capitato l’altro giorno che un giovane mi ha salutato e mi ha chiesto se mi ricordassi di lui, perché era stato proprio da me in quell’occasione. Vedete l’importanza del fare visita, di incontrare l’altro, non attraverso le notizie filtrate che ne abbiamo ma direttamente: è questo che ci trasforma se noi ci lasciamo trasformare.
Avrei anche altre cose da raccontare, cose in cui io sono partito, così pieno di resistenze e di pregiudizi, ma poi l’incontro con l’altro cambia; per questo dico di essere uno che prende gli appuntamenti, uno che scrive; creo appuntamenti con Dio e con gli altri.
Per esempio, noi chiediamo ai ragazzini prossimi alla cresima e anche ai fidanzati di andare almeno una volta a servire la cena alla stazione, dove vien distribuito il pasto tutte le sere da varie associazioni; è bellissimo, perché ricordo che l’anno scorso una ragazzina di seconda media ha riportato la sua esperienza sul nostro giornale: lei diceva di non voler andare perché temeva la tristezza nel vedere i poveri; poi però è andata e ha redatto questo articolo bellissimo con tutte le sue domande: cos’è la felicità... perché ha trovato gente che cantava e rideva e ringraziava; quante domande ha fatto questa ragazzina! È bellissimo vedere come cambiano le persone. Quindi credo molto nell’incontro personale; è proprio questo il volontariato. Noi non agiamo tanto. Sì, i massimi sistemi sono importanti, ma per noi è importante ogni persona, il singolo, l’incontro.
Vorrei concludere richiamando una realtà; ce ne sono evidentemente molte altre relative ai migranti che si potrebbero rievocare qui.
Per esempio, l’iniziativa recente proprio della “Migrantes” e di altre 18 associazioni che si intitola “L’Italia sono anch’io”, una raccolta di firme per due leggi di iniziativa popolare: una sulla cittadinanza dei bambini nati in Italia da genitori stranieri, che come sapete non hanno la cittadinanza, e l’altra per dare il voto almeno amministrativo a quegli immigrati che sono da cinque anni in maniera regolare presenti in Italia.
Un’altra problematica l’abbiamo toccata con mano qualche giorno fa:
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sapete che solo nel 2011 sono state accertate duemila persone affogate nel Mediterraneo – e purtroppo sono certamente molte di più; però vorrei concludere dicendo qualcosa su una realtà che è appena alle porte della nostra città, eppure molti la ignorano, non ne conoscono l’esistenza, e mi riferisco alla presenza del CARA e di un CIE alle porte della nostra città.
Al CIE, come sapete, nessuno di noi ha la possibilità di accesso e sembra essere un luogo dove sono sospesi i diritti, anche quelli implicati dalla visita di un prete o di un qualunque ministro religioso (la possibilità di celebrare i sacramenti). Io ci ho provato; e questo è anche più doloroso se pensiamo che qualche mese fa è stato deciso di prolungare la permanenza fino a 18 mesi, una eternità, perché sono detenuti, insieme a persone che hanno compiuto reati, poveri cristi il cui unico reato è quello di essere irregolari, a volte per semplici disavventure che li hanno portati a perdere il lavoro. Perdere il lavoro è veramente tragico per un italiano, per uno straniero può significare scivolare nell’illegalità.
Anche al CARA, dopo una circolare del Ministero degli Interni dell’aprile scorso, è vietato l’accesso ai volontari eccetto quelli appartenenti a gruppi accreditati a livello internazionale; misura che io non riesco a comprendere, inspiegabile anche per la stessa cooperativa che gestisce il campo, che ha impoverito ulteriormente i servizi ai richiedenti asilo: molte cose infatti si facevano grazie ai volontari. Io stesso ho avuto il permesso di entrare solo da un mesetto in rappresentanza di “Migrantes”. Sono entrato la prima volta nel CARA tre anni fa perché, vi ripeto, sono una persona molta curiosa e nell’ottobre chiesi il permesso di accedere; quando sono entrato, pur non andando sempre con il mio colletto tipico, due donne nigeriane hanno saputo che ero prete e mi ha colpito che mi si sono avvicinate chiedendomi una Bibbia in inglese.
Fino a quel momento nessuno mai si era preoccupato che l’uomo vivesse di non solo pane, ha detto qualcuno; siamo riusciti, con l’aiuto ovviamente di chi gestiva il campo, a fare in due baracche una piccola chiesa e una piccola moschea, frequentatissime sia dai cristiani sia dai musulmani, poiché lì ritrovano speranza nelle loro tradizioni; siamo riusciti proprio a Natale di due anni fa a dire la prima messa, dato che non ne era mai stata celebrata una lì dentro.
È stato incredibile perché, pochi giorni prima, c’era stato vietato il permesso di celebrazioni per motivi di ordine pubblico, poiché avevano dei timori. Successivamente siamo riusciti ad arrivare al Prefetto e alla fine, sotto la nostra responsabilità, si è celebrata una messa veramente bella; persino i bambini musulmani hanno cantato i canti natalizi insieme a quelli cristiani: è stato veramente un momento molto toccante, molto bello.
Si sono fatte delle buone cose ma attualmente, dato anche il contenzio-
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so tra l’attuale ente gestore e quello che dovrebbe subentrare, la situazione è di grande precarietà, anche nelle esigenze più pregnanti. Ho toccato con mano alcune delle difficoltà che ci sono; chi legge i quotidiani locali sa che c’è un grande risparmio perché l’ente gestore è passato dai 48 euro giornalieri, con la nuova gara d’appalto, ai 24. È una cosa buona, però mi chiedo se qualcuno verifica quali sono le situazioni in cui si trovano queste persone; si era promesso che i tempi di attesa per passare dalla commissione che deciderà del permesso sarebbero stati accorciati... in realtà non è così, perché si attende anche cinque sei mesi, mentre sapete che per legge entro 35 giorni il richiedente asilo dovrebbe essere ascoltato; e pensate che molte di quelle persone hanno alle spalle vere tragedie come torture, stupri, uccisioni.
Bene, mi chiedo: in tutto questo, dove sono i volontari della nostra città? Perché alcuni che provengono dal mondo del volontariato e dall’associazionismo, volendo vivere il reale, hanno finito con il rinunciare all’ideale? Il titolo che avete dato al Meeting è bellissimo: “Riscoprire l’ideale per vivere il reale”; perché quando ci caliamo nel reale alcuni di noi dimenticano l’ideale?
È una bella domanda. Qui vi ho riportato alcune parole di un grande pedagogista e filosofo, Romano Guarini, che in un libro interessantissimo, L’età della vita, parla proprio di questo delicato passaggio che è quello che ci rende veramente adulti, la capacità di incarnare nel reale l’ideale; e concludo con queste sue parole: «Il tentativo può fallire in modi diversi, può avvenire che il giovane avanzando nella vita continui a comportarsi da giovane; in tal caso resta legato al suo assolutismo, diventa un dottrinario, un fanatico dei principi, che non riconosce nulla ma critica tutto, diventa un eterno rivoluzionario che non realizzerà mai nulla perché privo di senso della realtà. Ma l’insuccesso può assumere un’altra forma: il giovane con le sue idee assolutizzate capitola di fronte alla realtà. Però la realtà è cattiva perché tutti dicono ciò che vuole la media degli individui ed egli si corrompe nella falsa esperienza e nel successo e non chiede altro che il tornaconto del piacere; allora nasce l’uomo che dice, a chi veramente si impegna e spera, che bisogna essere realisti, prendendo la vita così come è, vedendo come fare per sfondare e farsi una posizione e godere di ciò che può essere goduto. In entrambi i casi è fallito il passaggio da una fase all’altra: esso dovrebbe consistere nell’acquisire esperienza e nell’accettare l’esperienza fatta ma contemporaneamente deve mantenere la convinzione della validità dell’ideale e l’impegno per ciò che è giusto e nobile. Tale passaggio sta poi nel conservare, anzi nel fondare per la prima volta, su basi reali, la convinzione che in fin dei conti non ha importanza conquistare denaro e potenza bensì
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portare a compimento un’opera ricca di valore e fare di sé un uomo autentico».
Ecco, concludendo, mi sembra essenziale che il volontariato sia una scuola dove imparare a riscoprire l’ideale per vivere il reale, come recita il titolo del nostro convegno; in qualità di associazioni possiamo interrogarci su come essere accanto ai richiedenti asilo che sono proprio alle porte della nostra città; forse un primo passo potrebbe essere chiedere di poterli incontrare, sarebbe bello fare loro visita non per portare chissà quante cose, ma perché queste persone come primo approdo dopo tanti pericoli hanno proprio la nostra città; e poi magari forse voi mi potreste dare qualche suggerimento per svolgere un po’ meglio il compito che il vescovo, ma anche la vita, mi ha affidato.
Grazie.
Paolo Ponzio
Grazie don Gianni. Concludevi con quella frase di Guardini che dice «portare a compimento un’opera ricca di valore e fare di sé un uomo autentico» perché, come ci hai ben spiegato, l’indifferenza o lo scetticismo o il cinismo che caratterizzano tante volte non solo gli altri ma anche noi stessi nell’affrontare quello che ci capita nella quotidianità, nella vita, sono i punti che ci fanno allontanare da quella relazione fraterna che invece dovrebbe animare il nostro stare insieme, certi dello scopo ma liberi dall’esito; colpisce sempre questa frase perché soltanto se uno è certo dello scopo, cioè se uno è certo dell’origine e del destino di sé e dell’umanità, può essere libero dall’esito e quindi può impegnarsi perché l’esito venga raggiunto.
Non è un disimpegno, al contrario: come tu hai ben concluso, quindi, diamoci una mano ed è la mano che Marie Thérèse ha dato ai suoi fratelli. Prego.
Marie Thérèse Mukamitsindo
Ringrazio chi ha organizzato questo incontro. Non dirò grandi cose, sono una persona semplice ma penso che essere qui oggi per me sia una riscoperta degli ideali, perché mi permette di imparare tante cose e anche di riflettere su me stessa, di pormi la stessa domanda che mi sono posta 15 anni fa. Io vengo dal Ruanda, sono una rifugiata politica; quando parlava padre Giovanni mi sono ricordata di quella volta che sono arrivata a Fiumicino dopo l’ennesimo tentativo di scappare dall’Italia ed andare in Belgio; secondo la legislazione europea – il Regolamento di Dublino – è nel primo paese di accoglienza che si deve fare richiesta di asilo politico. Arrivata lì all’aero-
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porto con i miei tre figli ci hanno messi in una specie di carcere, e lì mi ricordo di aver fatto un’esperienza negativa.
Mio marito era professore universitario e quando ci trovavamo a prendere un aperitivo con i suoi colleghi al bar, loro chiedevano ad un militare, un generale: «Ma tu, quando ti levi l’uniforme e ti fai la doccia, chi sei?». Mio marito diceva: «Io sono un matematico, ho la mia laurea che è bella pesante»; un altro amico diceva: «Se mi chiedi un appuntamento è perché dobbiamo operare tua madre che ha una cataratta». Questo era l’orgoglio di cose senza ideali, perché per noi contava ciò che eravamo in quel momento e non l’esteriorità, ciò che non sei dentro.
Quando siamo arrivati all’aeroporto mi hanno messo in questo carcere con tre dei miei figli, perché il quarto era rimasto in Africa; avevo trovato un passaporto e una amica mi aveva prestato un suo documento. Sono scappata con questo passaporto, e lì c’erano solo tre dei miei figli, ho dovuto lasciare il più grande. Nel luogo in cui ci misero appena arrivati a Fiumicino c’erano anche un uomo che aveva dirottato un aereo e uno che trafficava droga. Io che non avevo avuto mai niente a che fare con i poliziotti, mi sono chiesta che ci facessi là: volevo scappare dalla morte e invece mi ritrovavo con i miei figli in un carcere, con queste persone che magari avevano fatto cose gravi.
Un poliziotto ci portava il panino verso le tre; avevo un figlio di cinque anni, un altro di otto anni e un altro di sedici. Il poliziotto ci lanciava i panini ma un giorno l’ho guardato come a dire che un po’ di dignità ce l’avevamo anche noi e non lo ha fatto più.
Quando sono uscita di là, ho voluto comunicare la condizione dei richiedenti asilo, di persone che scappano dai loro paesi d’origine perché temono per la loro vita e che nei paesi in cui arrivano vengono trattati così, come è successo a me.
Però, ritornando alla domanda che mi sono fatta qualche anno fa, mi ricordo di quando ero nel mio paese: la mia famiglia era molto cristiana e mio padre ci obbligava a dire metà rosario la mattina e metà la sera, con tutte le preghiere. Perciò, per una adolescente, era naturale dire «Mamma mia, voglio scappare da questa casa dove sono obbligata a fare queste cose»; ci recavamo a messa per far vedere un bel vestito, per poi andare a prendere un aperitivo, ecc.
Però di questa educazione ti rimane qualcosa dentro: ogni volta che passavamo davanti a una cappella entravo e dicevo a Gesù: «Senti, io ti vengo a salutare, però non credere che abbia tempo di pregare, se non me lo trovi tu io non lo troverò mai». Anche la sera, prima di andare a dormire, se ero stanca o avevo bevuto un bicchiere di troppo dicevo: «Gesù, non chiedermi di fare una preghiera». Ma lui ha trovato il modo di farmi pre-
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gare, portandomi in Italia. Dopo essere stata in quel carcere mi sono ritrovata sulla strada; sono andata a cercare accoglienza, un centro, poiché ero bloccata.
Ho passato due settimane di chiusura durante le quali non avevo niente; penso che quando non hai niente da dare ai tuoi figli e ti chiedi dove metterli, non sai cosa dar loro da mangiare, sia una grande tristezza per una madre. Quindi siamo andati in un centro di accoglienza. Ho trascorso due settimane in un centro rom, dove ho fatto tutto quello che i rifugiati fanno, e ho incontrato molte persone.
Mentre ero lì c’è stata una Via crucis e in quell’occasione finalmente ho pregato; durante la messa ho visto la figura del Gesù Misericordioso che mi guardava con pietà e che dentro di me diceva, ho sentito la sua voce, «Tu non ti devi preoccupare, i tuoi figli non moriranno di fame». Queste son le coincidenze, le cose che uno incontra nella vita e che fanno smuovere quella consapevolezza che hai dentro dalla gioventù. Poi sono andata in un altro centro, ho fatto tutti i percorsi, mi sono rivolta a Migrantes perché mi aiutassero ad andare in Canada per raggiungere le mie sorelle che vivono lì. Però poi ho interrotto tutto, perché?
Perché dentro di me mi sono detta «Ma tu chi sei, ma che fai qua su questa terra?»; allora mi sono ricordata di santa Teresa, dei discorsi di mio padre che allora mi sembravano noiosi, quando parlava del mio amico Gesù Cristo, la Madonna... cioè mi sono ricordata di tutto quello che ci dicevano durante l’infanzia. Ma Gesù Cristo cosa dice? Amare, amare il prossimo, brutto, cattivo, o ladro che sia... amare tutto. Che significa amare il prossimo? Voler bene senza la pretesa di dargli cose che non ho. Però un sorriso, uno sguardo, la soluzione a un problema, quando è possibile, sono cose importanti, per me lo sono state.
Il mio percorso di vita è continuato con questa coscienza. Dopo due settimane, mi sono messa in contatto con le mie sorelle e tutte mi mandavano soldi in Italia e così pure alcuni padri missionari che avevano lavorato molto con mio padre in Africa. Però quelle due settimane di difficoltà sono state una risposta alla domanda che facevo a Gesù. Mi ha fatto attraversare un dolore grande, a me, Marie Thérèse, prepotente, con il padre rettore dell’università, davanti al quale sono passati molti Ministri tanto che pensava di poter bussare alla loro porta senza problemi, ridotta a non avere una lira, a non essere considerata da nessuno, con la grande responsabilità dei figli. Così mi sono detta: «Chi sei? Che fai qua? Qual è la tua missione su questa terra?».
Allora, nella mia preghiera, ho chiesto a Gesù di aiutarmi a dare un sorriso dove passavo, a lasciare, dove ero, uno sguardo buono. Sono uscita da
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questo centro che era proprio un campo di zingari, e sono andata in un centro gestito dalle suore, dove ho trascorso sei mesi molto belli.
Mi ricordo che quando siamo andati lì, mio figlio mi ha chiesto: «Mamma, ma sei sicura che dobbiamo dormire qua?». Perché era un centro di accoglienza talmente pulito che non riuscivamo a crederci.
A me non piace dover dipendere da qualcuno, mi piace lavorare, mi fa vergognare il gesto di qualcuno che mi regala un piatto: io devo lavorare, è la mia cultura!
Per questo mi sono impegnata a cercare un lavoro e ho incontrato gente leggendo gli annunci sui giornali. Non è stato facile perché il pericolo è che qualcuno voglia approfittare di te.
Allora mi sono detta che ero fortunata ad avere una famiglia così, di non avere bisogno di soldi; perché i padri bianchi missionari dell’Africa, uno in particolare, mi spediva periodicamente una busta con del denaro poiché aveva conosciuto mio padre e aveva lavorato con mio zio, e anche la mia famiglia dall’America mi mandava soldi; quindi mi sono chiesta: «Ma chi non ha i soldi come fa?!».
Spesso diciamo che alcune donne si danno alla prostituzione perché sono obbligate. Siamo tutti adulti e sappiamo che una donna ogni mese ha il ciclo mestruale e che se non ha i soldi per comprarsi gli assorbenti, è costretta a restare in bagno. Molte donne, pur di rimediare a disagi simili, accettano le offerte di denaro in cambio di prestazioni sessuali. Se non siamo attenti, anche noi contribuiamo a creare la prostituzione.
Poi ho trovato lavoro come badante di una signora anziana. Per fortuna provengo da una famiglia di medici e ho qualche nozione di medicina. Quando ho visto la signora di cui mi sarei dovuta occupare, ho capito subito che stava per morire; però ci sono andata, cercando in tutti i modi di aiutarla, cambiando anche le ricette del medico. Per fortuna in Italia, quando vai a comprare le medicine, non sempre ti chiedono la ricetta: questa donna ha vissuto per altri due anni e mezzo, pur pensando tutti che dopo tre o quattro mesi dal mio arrivo sarebbe morta.
Quando ho lavorato da questa signora ho fatto riconoscere la mia laurea che è belga. Mi sono laureata in Belgio nel 1982 come assistente sociale: la condizione di un immigrato laureato è diversa da quella di uno che non ha studiato, che non ha i mezzi per capire che cosa dice la legge italiana; invece quando hai studiato cerchi anche di capire il territorio dove vivi, che diritti hai e quali no, i tuoi doveri. Dopo che mi è stata riconosciuta la laurea, ho trovato lavoro come assistente sociale a Roma al Consiglio italiano per i rifugiati, però non ero contenta del lavoro che facevo perché a me piace dire agli operatori che lavorano con me: «guarda che quelle non sono patate,
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pomodori, sono persone umane, quindi dotate di una certa intelligenza, una certa sensibilità».
Stando lì mi sentivo di tradire i rifugiati. Quando arrivavano a fare il colloquio veniva detto loro: «Guardate che in Italia funziona così, ti conviene fare questo». La cosa che mi dava più fastidio è che dicevano loro che conveniva andare a fare un giro di chiese per cercare l’elemosina.
Che ne sai tu cosa mi conviene? Queste persone, anche nella nave, hanno un sogno. Scappano dai loro paesi sperando di raggiungere un luogo in cui non sono più in pericolo di vita. Ma sanno bene che non vivranno sempre sulle spalle del paese che offre loro la prima accoglienza; quindi, guardiamo queste persone con amore e piuttosto diciamo loro: «Io sono qua a disposizione».
Infatti, dopo qualche anno che lavoravo lì ho partecipato a un bando del Ministero degli Interni per l’accoglienza. Ho ottenuto il finanziamento e ho cominciato un progetto per donne sole o con bambini, pensando all’esperienza che io avevo vissuto. Ho aperto un centro.
Come diceva don Giovanni, il fatto di mettere la gente insieme è una cosa orribile perché non si dà alla persona la possibilità di pensare al proprio futuro, di avere un contatto con chi deve darle informazioni, orientarla sul territorio; perciò ho fatto una scelta: di far costruire appartamenti diversi, un appartamento per sei persone o sette, qualche volta otto, dipende dal periodo e dalla necessità; e in questo centro ogni donna per una settimana è responsabile della casa; quindi noi donne cuciniamo, puliamo, guardiamo i figli, ecc. Diamo loro la possibilità di cucinare, di pulire, di risistemare la casa e ovviamente c’è un operatore di fianco che dice come si deve pulire; perché alcuni non conoscono i prodotti che si usano qui in Italia perché vengono da luoghi di campagna. C’è un operatore che li segue più che insegnare, perché anche gli operatori hanno da imparare da queste donne!
Questa casa è in affitto, non è nostra: una donna ne è responsabile per una settimana: va a fare la spesa, deve spegnere le luci quando non servono, ecc. La gestione di una casa avviene sempre insieme all’operatore.
Dopo ho notato che le donne rifugiate, lo dico tranquillamente perché credo nella loro forza, sono al 90% vittime della violenza nel loro paese, e anche quando arrivano qua. Molte delle donne che arrivano hanno subìto violenza sulla strada, e lo si vede dal fatto che a 17 anni sono già incinte, e sono obbligate a dire che hanno 20 anni per non ammettere che non sanno chi è il padre del bambino.
Ci sono donne che sono state violentate. Per poterle aiutare a riprendere l’autostima e la loro autonomia, non si può rimandarle a casa, nei loro paesi, senza un progetto. Mandare una persona a casa senza nulla, magari con debiti, non è auspicabile. Abbiamo ospitato una donna togolese che ora
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è riuscita a tornare a casa, sta comprando un terreno in Togo e sta ricominciando. Abbiamo scommesso su di lei, le abbiamo anticipato i soldi. Questo è un rimpatrio riuscito.
Ma bisogna cercare di fare un progetto.
Quello che posso dire è che nel nostro lavoro ci vuole sempre questa ricerca degli ideali nella realtà: cerchiamo sempre un modo per aggirare i problemi, quando possiamo, ci proviamo sempre, ci inventiamo modi per aiutare queste persone, come ad esempio i laboratori di comunicazione perché c’è bisogno di comunicare.
Nei laboratori ci riuniamo e ci scambiamo i nostri sogni; una cosa indiretta che permette alle persone di parlare delle proprie difficoltà. Non è facile che la prima, ma anche la terza volta che vedi una persona, questa ti parli delle violenze che ha subìto, però tramite questo scambio di sogni arriviamo a una intimità tale che dopo alcune vengano a cercarti, parlandoti del loro problema.
Penso che non facciamo niente di speciale, cerchiamo solo di mettere la nostra disponibilità a servizio della persona, con amore: insisto sull’amore.
Sono stata amata tantissimo, mio padre mi adorava, mi ha dato tutto, mi ha dato l’amore! Spesso dicevo: «Io ho tanto amore da dare, lo voglio dare perché l’ho avuto, però chi non l’ha avuto ne ha bisogno», è una forza che fa girare le persone e dà loro sicurezza, le muove a cercare lavoro, perché io sono contraria non alla Caritas ma qualche volta al modo di fare carità.
Mi ricordo che quando mi hanno chiamato ad intervenire ad una conferenza della Caritas a Latina, io dicevo «Ma la carità a chi la fate? A noi o a voi?».
Sono stata colpita dal fatto che quando arrivi non ti dicono buongiorno, ti chiedono dove vai. La prima volta ho pensato: «Fatti gli affari tuoi!»; ciò mi permette pure di chiedermi dove stessi andando davvero.
Allora, se diamo a questi rifugiati la possibilità di esprimersi chiedendo loro dove sono e dove vanno o cosa vogliono fare, dobbiamo insegnare loro l’italiano, dandogli la possibilità di esprimersi. Lo Stato deve offrire ai rifugiati gli strumenti per decidere dove andare e cosa fare, dato che la vita è nelle loro mani.
Sono andata una volta a un CARA e non l’ho più fatto, perché ne ho viste le condizioni: mi sono messa a piangere e mi son detta «Ma quelli che si occupano dei diritti umani dove sono?»; sono andata a chiedere di più, e mi hanno risposto che non possono scrivere di queste condizioni per denunciarle, proprio perché siamo in Italia. Ci sono donne violentate e accadono cose che non si possono raccontare. Perché hanno prolungato il tempo di permanenza a 18 mesi? Perché l’Italia non ha i soldi per mandarli a casa. Non sono trattate come persone, ma come patate, pomodori... Penso che la
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realtà sia dura, anche perché siamo in un brutto periodo, ma proprio per questo dobbiamo riscoprire sempre gli ideali.
Adesso riparto caricata dal fatto che mi avete permesso di parlare del mio lavoro e di valutarlo; parlo di me perché devo prima partire da me stessa per giudicarmi e valutare; vedere che cosa va che cosa non va, che cosa ho dimenticato dalla mia partenza, per poter portare i frutti della mia esperienza agli altri e dire: «Guarda, io ho imparato questa cosa e te la riporto».
Vi ringrazio.
Paolo Ponzio
Un abbraccio, un sorriso, uno sguardo, e questo muove... e poi arrivano anche i soldi, ma soprattutto è arrivata la grande capacità imprenditoriale di cui, forse, avrete capito tra le righe, è animata Marie Thérèse.
Io non voglio aggiungere nient’altro perché le parole che ha detto la nostra amica alla fine, per me soprattutto, sono di grande aiuto: lei torna a casa servendosi di questo Meeting e io vorrei dirle che io torno a casa perché mi sono servite le sue parole.
Grazie a tutti.
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