Cultura Commestibile 150

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redazione@culturacommestibile.com culturacommestibile@gmail.com www.culturacommestibile.com www.facebook.com/cultura.commestibile direttore simone siliani

redazione gianni biagi, sara chiarello, aldo frangioni, rosaclelia ganzerli, michele morrocchi, barbara setti

progetto grafico emiliano bacci

Con la cultura non si mangia

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N° 1

Questo è l’ultimo numero del 2015. Auguri e ci rivediamo a gennaio

È andato in sonno editore Nem Nuovi Eventi Musicali Viale dei Mille 131, 50131 Firenze Registrazione del Tribunale di Firenze n. 5894 del 2/10/2012


Da non saltare

19 DICEMBRE 2015 pag. 2

Simone Siliani s.siliani@tin.it di

M

arco e Costanza Geddes da Filicaia hanno scritto un poderoso libro dal titolo “Peste. Il flagello di Dio fra letteratura e scienza” (Edizioni Polistampa, 2015). Marco, padre, medico, è stato Direttore sanitario dell’Istituto Nazionale Tumori di Genova e dell’Ospedale di S.Maria Nuova di Firenze; Costanza, figlia, insegna Letteratura italiana e Lingua letteraria e linguaggi sensoriali all’Università di Macerata. Il libro è davvero una miniera di informazioni, incroci interdisciplinari, analisi sulla “morte nera” dal V secolo a.C. fino ai giorni nostri. Come nasce l’idea di questo libro? E come avete lavorato? Marco Geddes La questione della peste mi ha intrigato fin dagli inizi degli anni ‘70 leggendo un paio di libri di Carlo Maria Cipolla. Siccome lui insegnava all’Università Europea, ho avuto modo, attraverso il nostro comune amico Lorenzo Del Panta, di poterlo incontrare. Così lo invitai a tenere una conferenza al Centro di Medicina Sociale (ora ISPO) su questo tema che esulava un po’ dagli argomenti propri del Centro. Da allora ho coltivato questo tema da curioso, non da studioso. Questo è l’antefatto. Costanza Geddes Anche io ho avuto da sempre una passione per la peste che nasce da un trauma visivo infantile perché nello sceneggiato televisivo “Marco Polo”, che venne trasmesso nel 1982, forzando il testo del “Milione” che non riporta questa scena, si vedono persone in terra agonizzanti, colpiti dalla pese, con bubboni, topi, ecc. Naturalmente studiando letteratura con la peste si entra in contatto spesso, da Boccaccio a Manzoni, per dire solo gli esempi più clamorosi. Sapendo che mio padre era costretto ad andare in pensione nel 2012, ho pensato che avrebbe avuto un po’ più di tempo libero (cosa che poi non è successa) e quindi questa idea poteva essere perseguita. Un’idea molto semplice, quasi banale: raccogliere le principali descrizioni letterarie di epidemie di peste realmente avvenute, che quindi avessero un preciso contesto storico e storico-epidemiologico, e fare un discorso interdisciplinare, che fosse storico letterario ma anche di storia della medicina. Dal 2013 è diventato un lavoro sistematico, in parte in parallelo permettendoci di lavorare autonomamente e in parte con una serie di confronti diretti. Perché la peste costituisce un’evocazione così fortemente letteraria? Non troviamo, mi sembra, altre malattie che abbiano questa potenza.

La peste Costanza Geddes Questa è la domanda fondamentale. Certo si trovano in letteratura descrizioni di altre malattie, ma non in modo così sistematico. E’ una domanda che ha in sé anche la risposta: perché la peste, il cui nome secondo alcuni proviene da “peius” cioè la cosa peggiore che possa esistere, è la malattia per eccellenza a causa delle immani stragi che ha provocato (in alcuni casi si parla del 50% della popolazione che moriva nel giro di pochi mesi); è la malattia che non si sapeva come fermare, con tutta una serie di conseguenze anche dal punto di vista sociale, e a causa della mortalità estrema è stata anche uno sconvolgimento degli equilibri, delle società e degli stati, nel corso dei secoli. C’è chi sostiene che l’epidemia di peste abbia contribuito alla caduta dell’impero romano. Essendo la letteratura uno dei fondamentali specchi della società, non può che aver seguito il percorso della peste. Naturalmente, in alcuni casi anche inventando, magari molto realisticamente, epidemie che non ci sono state. È una questione che io tratto nella mia introduzione, ma che non ha avuto una antologizzazione per la scelta che abbiamo fatto di concentrarci solo su epidemie realmente avvenute. La peste ad un certo punto scompare perché si trovano le cure e migliora il livello delle condizionisocio-sanitarie delle società. Tuttavia non scompare la presa che la peste ha sull’immaginario. Quando

viene fuori l’AIDS si parla della “peste del XX secolo”. Marco Geddes C’è l’idea diffusa che la peste sia stata una malattia medievale, ma questo non corrisponde alla realtà nel senso che le grandi epidemie di peste si sono avute anche nel ‘700 in Europa: la peste di Marsiglia nel 1720, la peste di Messina del 1743 che ha fatto arretrare la città, la quale non ha più avuto, dopo tale epidemia, il ruolo di grande porto del Mediterraneo. Per alcuni aspetti queste epidemie erano addirittura più terrificanti di quelle del periodo della “morte nera”, cioè della prima ondata della seconda pandemia, perché erano città contemporanee dal punto di vista urbanistico e poi perché queste città venivano assediate. Mentre nel Medioevo le città si rinserravano per non accogliere appestati (anche se poi avevano i problemi legati all’alta mortalità, sia per le cerimonie funebri che per le tumulazioni, anche se si trovava dove seppellire i morti perché l’assetto urbano consentiva spazi liberi), nel caso delle epidemie più tarde si avevano scene con i corpi di figli e parenti lasciati scoperti in pasto ai cani; scene descritte con realismo anche in pittura. La terza pandemia, che ha avuto un peso rilevante, si è sviluppata alla fine dell’Ottocento e ha colpito l’India, la Cina, la Mongolia, poi si è diffusa negli Stati Uniti con un’epidemia concentrata a San Francisco nella Cina Town, e poi, in quel continente, è restata endemica.

Il problema di cui non ci si rende ben conto, quando si riflette sui meccanismi e le vie di contagio nei secoli precedenti, è che il sistema urbano si è profondamente modificato; non si ha neppure l’idea di quali fossero le condizioni igieniche e sanitarie nelle città medioevali; basti pensare all’assenza di fognatura, di condutture, ma anche ai vestiti, alla cute delle persone, alle piaghe che normalmente si avevano per la scabbia e per la tubercolosi cutanea con possibilità di “infezioni da contatto”; la presenza di topi e di pulci era quotidiana. La infettività del bacillo della peste rimane elevata; ricordiamo che durante la guerra del Vietnam ci sono stati 6.000 morti per peste, per la defoliazione e la conseguente diffusione di topi. C’è stato recentemente, nel 2005, un episodio di peste nel Centrafrica con un 50% di mortalità in una miniera. Indubbiamente è un bacillo che risponde al trattamento antibiotico in maniera rilevante; tuttavia si segnalano alcuni ceppi resistenti. È l’unica malattia che ha sconvolto il mondo e quindi ha segnato la demografia e, poi la cosa che impressionava era il fatto che la peste era la morte (la “morte nera”, il “soffio mortale”). Se ne dava una doppia interpretazione: da un lato una malattia che riguardava prevalentemente le classi subalterne e quindi poneva un tema di controllo delle plebi urbane, problematica che si sostanzia proprio in quel periodo. La consapevolezza di questa “differenza di classe” è presente anche in periodo coevo; nel ‘600 il Baldinucci scriveva nel suo diario che i signori potevano andare in giro perché per uno di loro che muore di peste ce ne sono almeno mille poveri colpiti dal morbo. Tuttavia, essendo per antonomasia la morte per eccellenza, è una falce egualitaria, cioè colpisce tutti dato che può colpire l’imperatore Giustiniano e portare a morte il papa Pelagio II. Inoltre interviene a spopolare le alte magistrature: penso a città come Venezia che amplia i criteri di accesso al Gran Consiglio, e poi perché le alte magistrature in gran parte se ne vanno dalla città per difendersi dalla peste. In questo senso c’è un ordine sociale che viene fortemente modificato. Una cosa che ci colpisce e ci ricorda la epidemia di peste è andare in piazza del duomo a Siena e osservare le dimensioni del duomo immaginate prima della pestilenza, e come sia stato poi realizzato in dimensioni del tutto diverse e ridotte. A proposito di immagini, qualcuno di noi della generazione pre-internet sarà certamente rimasto colpito da quella che troviamo nei “Promessi Sposi” di Don Rodrigo che, terrorizzato, si accorge che sotto


Da non saltare

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l’ascella gli è cresciuto il “sozzo bubbone” della peste, immagine che forse impressionava anche noi giovanissimi studenti delle scuole medie. La potenza della letteratura è straordinaria. Oltre a Manzoni cosa avete trovato di significativo? Costanza Geddes Innanzi tutto Manzoni: dopo un percorso nella peste che va da Tucidide a Marilyn Chase, che è una giornalista americana vivente che si è occupata della peste di San Francisco, a mio giudizio Manzoni resta assolutamente inarrivabile, anche rispetto ad altri autori, compreso Boccaccio, per quanto sia difficile fare dei paragoni fra opere con scopi e impostazioni del tutto diverse. Tuttavia, appunto ricordiamo il sozzo bubbone, ma probabilmente non ricordiamo altre immagini altrettanto forti nel “Decameron” perché la potenza della scrittura del Manzoni è eccezionale. Volendo andare su autori molto meno conosciuti, è straordinaria la descrizione della peste di Messina di Orazio Turriano, il quale era un notabile di Messina di cui non si sa quasi nulla, che fa una descrizione realistica dal momento in cui lui stesso è stato un testimone oculare della vicenda, con una straordinaria capacità orrorifica e di mettere insieme alcune interessantissime suggestioni letterarie; una per tutte: la nave che porta morte arrivando dall’Oriente partita da Missolongi che attracca al porto di Messina e da cui comincia l’eccezionale ondata di morte. Messina supererà la soglia del 50% di morti: diventa una città spopolata in cui, dice Turriano, il re di Napoli manda dei soldati e dei galeotti incappucciati, con vesti coperte di pece, perché si riteneva che questo potesse proteggere dall’infezione, muniti di uncini con i quali buttavano pezzi di cadaveri in delle fosse comuni. Marco Geddes Ci sono, nel testo poetico di Enea Gaetano Melani, anche lui testimone della peste di Messina, le descrizioni di un uomo che vede la moglie infilzata e buttata fra gli altri cadaveri, vede i nipoti a brandelli portati via dai cani e, allora, va sul tetto di casa e si butta nel vuoto: immagini terribili e fortissime. Costanza Geddes L’immagine della nave che attracca mi ricorda molto l’immagine che poi si troverà in “Dracula” di Bram Stoker, con la nave che dalla Romania arriva nel porto di Whitby che sembra vuota ma in realtà porta un cane furioso che non è altro che Dracula. D’altronde le navi che arriveranno a San Francisco portando quella piccola, ma importante sul piano sociologico, epidemia del primo Novecento, sono uno dei topos della nostra storia letteraria.

Intervista a Marco e Costanza Geddes sulla storia della “Morte rossa”

Tempo fa anche Sergio Givone ha scritto un libro sull’argomento, “Metafisica della peste”:dunque, un filosofo e ora uno storico della medicina e una storica della letteratura, veramente una... epidemia. Marco Geddes E’ il tema del male assoluto, con rappresentazioni apocalittiche. Che poi la peste, da cosa è provocata? Sì, eziologicamente lo spiego con puntualità nell’introduzione, però è causata anche dai terremoti, dal clima. Le popolazioni di ratti, ad esempio, crescono dopo la prima ondata di peste a San Francisco, a seguito del terremoto e provocano una seconda ondata di peste, a quel punto più controllata perché Theodore Roosevelt interviene, contro il governatore della California che si era opposto a qualsiasi iniziativa. Vi sono quindi evidenti associazioni fra la peste ed eventi, solo apparentemente esterni alla catena biologica. C’è, ad esempio, un collegamento fra la Guerra dei Trent’anni e la peste, come evidenziato in un bellissimo quadro di Rubens alla Galleria Palatina, “Le conseguenze della guerra”, in cui Marte, trascinato dalla Furia Aletto, porta distruzioni ed è accompagnato dalla morte e dalla peste. L’idea è presente fin dalla Bibbia: la Peste, il Male che accompagna l’umanità, e questo ci pone interrogativi, anche sotto il profilo filosofico. Costanza Geddes Male di fronte al quale, per certi aspetti, l’umanità è sempre uguale a se stessa nel corso dei secoli. Io non credo, in linea generale, che si debba appiattire su un piano sincronico qualsiasi cosa: insomma Dante è molto diverso da noi, non è uguale come dice Benigni. Però per certi aspetti l’umanità mantiene dei tratti tipici, per cui da Tucidide a San Francisco, il primo approccio di fronte alla peste è quello di negare l’epidemia fin quando è possibile. Se prendiamo i giornali del 1900 di San Francisco, leggiamo che la peste non c’è o che è già scomparsa. E così il governatore di Atene, come anche il governo di Firenze durante la peste nera, negano ostinatamente l’epidemia. Quando poi diventa impossibile negarla, la reazione nella maggior parte dei casi, consiste

nel fuggirla con un terrore scomposto tanto nel IV secolo a.C. quanto nel XX secolo. A fronte, pure, di qualche caso di abnegazione e di eroismo, prevale però un assoluto senso di panico e di impotenza. E’ interessantevedere come questo sentimento resti sempre uguale in 25 secoli. Mi viene in mente che è un atteggiamento analogo a quello avuto nel caso dell’Aids: prima la negazione e poi in panico. Peraltro anche questa malattia ha sollecitato le arti: film, romanzi. Costanza Geddes Sì, ma forse proprio perché c’è la peste alle spalle. Ciò che spaventa viene fenomenologicamente subito paragonato a quello che nella memoria collettiva è appunto il male e la morte per eccellenza. In un episodio di “CSI Miami”, al regista viene in mente di dire che i terroristi cattivi hanno infettato gli agenti buoni con un bacillo modificato e quindi resistente agli antibiotici, di peste polmonare: dunque anche il telefilm americano ultra-moderno non dimentica la peste. Hai parlato della letteratura italiana; cosa hai trovato nella letteratura internazionale sull’argomento? Costanza Geddes Nel libro ci sono alcune cose, in particolare nell’ambito della letteratura inglese legate alle due epidemie. La prima, meno nota del 1601, che coincide con la morte di Elisabetta I (peraltro si dice che la stessa Elisabetta I fosse morta di peste: la sovrana più potente d’Europa che muore del morbo per eccellenza); è stato tradotto da Stefania D’Agata D’Ottavi, un’anglista molto nota, un libello del drammaturgo Thomas Dekker: “The Wonderfull Yeare”, che è in early modern English quindi una forma d’inglese difficile per noi, che affronta il tema in modo molto originale perché vi pone una forte carica ironica. Per esempio tra i casi che racconta c’è quello della moglie di un ciabattino che si ammala di peste quindi, convinta di morire (anche se circa il 20% dei malati di peste in forma batterica sopravviveva), confessa al marito tutti i tradimenti coniugali con dovizia di particolari; senonché poi guarisce e a quel punto si trova a doversi

confrontare non solo con il marito, ma anche con le mogli dei suoi vari amanti. “The Wonderfull Yeare” è quindi un titolo antifrastico, perché il 1601 è in realtà l’anno peggiore possibile, quello della morte di Elisabetta e dell’epidemia. Gli altri testi sono legati alla peste di Londra del 1665, quella narrata da Daniel Defoe e da Samuel Pepys, un notabile nato in condizioni modeste che tiene un diario in cui narra anche il grande incendio di Londra, che fu il punto in cui si bloccò la peste probabilmente perché morirono, insieme agli uomini, le colonie di ratti e pulci. Marco Geddes Sì, e probabilmente perché cambiò anche in maniera notevole l’assetto cittadino, cioè legno e paglia – elementi di costruzione delle case - furono drasticamente ridotti. L’incendio colpì in particolare le zone dove si sviluppava la peste, cioè i quartieri più popolari e più facilmente incendiabili. Questo cambiò anche la entità e tipologia di popolazione di ratti. Nel libro poi c’è una parte sulla peste di Mosca (1771) e una testimonianza dell’ultimo episodio di peste in Italia, quello di Noja, (1815-1816), in Puglia. Impressionante perché viene posto un assedio alla città in modo che la gente non possa andare via e c’è una descrizione da parte di un medico di una fucilazione di cinque persone per aver passato dei dadi ai controllori; quindi un rigore terribile, la cui descrizione mi ha ricordato quelle successive, le testimonianze delle fucilazioni nella Prima Guerra Mondiale. Inoltre c’è il Vieusseux che scrive della peste di Tunisi; un Vieusseux giovane che era lì come rappresentante di commercio, quindi una testimonianza dal vivo. Costanza Geddes C’è poi la peste di Barcellona grazie al diario di un conciatore, persona di umili condizioni, il quale narra con una certa velleità letteraria di queste vicende e anche della strage della sua famiglia, la morte della moglie e di tre dei quattro figli. Tra l’altro c’è un ricordo commovente della sua unica figlia femmina che, dice, sembrava una bambolina di cui tutti si innamoravano; la bambina aveva un anno quando muore. Va ricordato il docudrama, così lo chiama l’autore, di John Hatcher, uno storico dell’Università di Cambridge, che ha scritto un’opera - “La morte nera. Storia dell’epidemia che devastò l’Europa nel Trecento” - immaginandosi un narratore inglese contemporaneo alla ondata di peste nera del 1348; molto interessante perché è un contraltare della rappresentazione boccacciana.


riunione

di famiglia

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Le Sorelle Marx Tutte le mattine che Iddio manda in terra, il nostro presidentissimo Eugenio Giani si sveglia, fa le sue abluzioni e la ginnastica mattutina e con il sole che lo illumina in tutta la sua magniloquenza si accinge a dare il “Buongiorno” a tutti i toscani. Così, sul sito del Consiglio della Regione Toscana profonde la sua nozionistica e ci racconta fatti e fatterelli che fecero grande la Toscana e l’Italia costruendo una sorta di calendario gianiano. Ma giovedì scorso era una radiosa giornata invernale di quasi festa e Giani ha voluto esagerare e ha dedicato il “Buongiorno del Presidente” al’Unesco, con questo esergo: “L’Italia è il paese con il più grande numero di siti Unesco (oltre 50 mila in tutto il territorio peninsulare). Firenze, il suo centro storico, fu il quarto sito italiano da sottoporre a tutela. Ciò avvenne, attraverso solenne dichiarazione, in chiusura della conferenza di Parigi che si tenne dal 13 al 17 dicembre 1982...”. Quando Eugenio è in forma non lo ferma nessuno! In realtà l’Unesco ha finora riconosciuto un totale di 1031 siti (802 culturali, 197 naturali e 32 misti) presenti in 163 Paesi del mondo. Ma lui era in vena di grandeur e quindi ha appena un po’ esagerato: da 1031 in tutto il mondo a 50 mila solo

I Cugini Engels Palazzo Vecchio, prima mattina. Il sindaco Nardella spalanca, con piglio renzista, la porta dell’ufficio del suo factotum capo di gabinetto Manuele Braghero: “Manuele, la Chiavai, cosa vuole? Questa ingrata, fedifraga!” “Oh Dario, non posso mica sapere anche cosa fai nell’alcova di casa tua! E poi se sei in crisi coniugale che ci posso fare io: va bene che mi tocca fare di tutto qua dentro, ma questo non me lo puoi chiedere” “Ma no, Manuele, cosa hai capito? Non si tratta di mia moglie...” “Peggio mi sento: fai del sesso con un’altra e poi vieni a chiedere a me di aiutarti. E poi con queste volgarità... Guarda che qui si lavora!!! Ho un milione di cose da fare, non posso perdere tempo con queste menate” “No, volevo dire Luisa Chiavai Nocentini: io le ho fatto il grande onore di andare a cena a casa sua

Siti su siti in Italia. La sua addetta stampa gli ha fatto notare che forse aveva osato un po’ troppo. Ma Eugenio non è tipo da scoraggiarsi per simili quisquiglie e pinzillacchere e ha tuonato al suo staff: “Avanti allora, avviamo le procedure per dichiarare sito Unesco le rievocazioni storiche, gli sbandieratori di tutti i Comuni toscani, tutte le feste e sagre paesane della nostra bellissima Toscana e ovviamente anche il mio ufficio! E poi prepariamo con attenzione tutte le inaugurazioni, con buffet. Pregevole iniziativa!”

Lo Zio di Trotzky

Le avventure di Nardellik In perfetta sincronia con l’uscita del settimo episodio di Star Wars il nostro Nardellik si appresta a salvare il mondo (renziano). Se la Madonna Mary Elen sta in ambasce per l’Etruria felix, se il sagrestano Bonifazio non sa che dire alle telecamere della 7° televisione, se il potente Lottis se ne sta nascosto in disparte in quel di Cambiano, se il Lider Minimum arringa un’aula vuota di Montecitorio al grido “non ci faremo processare” di secolare memoria, il nostro Nardellik, valoroso capitano di

periferia, con sprezzo del pericolo mostra i muscoli e utilizza la grande arma di distrazione di massa. E intonando “tu scendi dalle stelle o nostra signora Samantha” si appresta a salutare la famosa scienziata italiana e a dichiarare che solo la fiducia nella scienza potrà salvare il mondo (renziano) . Con l’aiuto dell’ESA (European Space Agency) e dell’ASI (Aiutateci Siamo Italiani) ha finalmente potuto dichiarare al mondo che il conflitto di interessi esiste solo fra la Luna e il Sole. E che da questo conflitto di interessi nascono le eclissi. Parola che però è bandita dal mondo (renziano) perchè porta male. E quindi il conflitto di interessi non esiste più. Tra la la, tra la lù.

La Stilista di Lenin

La ministra strizzata Immaginiamo che i pensieri che attraversavano la testa della ministro Boschi non fossero principalmente focalizzati al look prima di intervenire all’ultima Leopolda. La questione di Banca Etruria, l’intervento di Saviano e la richiesta di dimissioni dei grillini erano certamente in cima alle sue priorità. D’altra parte la famiglia Boschi ha solo preso un po’ troppo alla lettera la campagna pubblicitario dell’istituto di credito aretino che recitava: “più che una banca, una famiglia”. Ma al netto dei pensieri

Fare l’indiano

(dove peraltro ho mangiato anche pesante) e lei ora mi sputtana con le dichiarazioni a Libero” “Ah, ho capito, la Luisa passato-remoto Nocentini... Ho letto sui giornali. Ma era la cena di quella sera da cui sei tornato un po’ alticcio farfugliando che avevi preso un bel milione. Io pensavo che ti saresti travestito dal signor Bonaventura, dopo esserti vestito da Babbo Natale...” “Oh Manuele, non far tanto lo spiritoso, che qui la faccenda è seria. Pensa che lei e quel indianino del Fani dicono che io non conto un cazzo: ma siamo pazzi! Io sono il sindaco di Firenze, oh mica scherzi! Io con il suo milione mi ci pulisco al gabinetto, capito?!”

pesanti, il look scelto dalla ministro era tra i più improbabili, con uno smanicato stampato nero e oro, strizzato in vita da cintura sottile e stivali sovietici a completare l’immagine più da Matriovska che da rampante rottamatrice. Forse un tentativo di conquistare i cuori dei nostalgici filosovietici ancora dubbiosi del sol dell’avvenire renziano? Comunque va detto che la ministro non si lascia intimorire né condizionare. Se pur dotata di fianchi che avrebbero fatto invidia ad un terzino dell’Amburgo,

continua ad apparire fasciata in tessuti elasticizzati o strizzata come un salame, come nel caso della Leopolda, segno che nel look come nella politica non manca la tenacia ma magari difetta l’opportunità.

“Ovvia Dario, non essere scurrile o, peggio, avventato: qui con un milione si va avanti un paio di mesi. Non so se ti è chiaro, ma qui avèj nen un pich da fé balé un givo, che nella mia lingua piemontese vuol dire che non abbiamo un centesimo per far ballare un maggiolino!” “Dici? Davvero? Mah, sarà... Però a me questo Fani non mi piace per niente: dice che io non conto una sega e che lui la casina dell’Indiano l’ha presa perché è amico di Renzi e che da lui ce l’ha mandato Maurizio Sguanci. Ma come si fa? Poi dice che la Chiavai Nocentini è amica di Renzi e che è ammanicata perché è amica di tutti. A un certo punto dice che è anche amica mia, ma io mica avevo capito chi era quella gentile signora che mi ha invitato a cena l’altra sera. La segreteria mi aveva detto che era una casa di stelle e io pensavo di andare a parlare con

qualche divo hollywoodiano; poi, invece, mi sono trovato a cena con dei buzzurri... tutti che ridevano, bevevano, dicevano barzellette sporche, chi si infilava le dita nel naso. Poi però mi hanno fatto suonare il violino e c’era questo Oliviero Fani che girava con il cappello a raccogliere offerte e alla fine la Chiavai mi ha detto che mi dava un milione... allora io ho pensato che dovevo aver suonato proprio bene se a cappello si era riusciti a tirar su un milione... Son bravo, eh Manuele?” “Ma va là, Dario: fà nen ël pito, non fare il tacchino, che poi viene Natale anche per te e fai una brutta fine. Lasciami lavorare, dai.” Dario si avvia, mesto, verso il suo ufficio, rimuginando: “Mah, come fa uno a dire che non conto una sega se raccatto un milione soltanto suonando il violino una sera a cena. Mah... “


19 DICEMBRE 2015 pag. 5 Danilo Cecchi danilo.c@leonet.it di

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ario Dondero (19282015) fotoreporter (vedi Cultura Commestibile n. 110). Così si presentava, dicendo “sono un fotoreporter”, solo un fotoreporter, nient’altro. Aveva collaborato con molte testate, italiane e straniere, ma si considerava un indipendente, ed al termine “free-lance”, che non gli piaceva troppo, preferiva “cane sciolto”. Per lavoro aveva girato mezzo mondo, ma a chi lo definiva un “viaggiatore” rispondeva dicendo di considerarsi piuttosto un “nomade”. Aveva conosciuto, frequentato e fotografato centinaia di personaggi famosi, intellettuali, politici, attori, cantanti, pittori, artisti, ma continuava a preferire gli sconosciuti. Di più, gli umili, i perseguitati, gli sfortunati. Aveva cominciato a fotografare fino dal dopoguerra, un po’ perché la parola non gli bastava più per raccontare la cronaca, un po’ perché portarsi dietro un fotografo era diventato un impiccio, ma non si era mai innamorato della tecnica fotografica. Non usava neppure l’esposimetro, gli bastava sapere che se c’è il sole o molta luce si chiude il diaframma, se siamo in ombra o con poca luce, si apre il diaframma. Non amava neppure troppo la fotografia in quanto tale, perché “troppa estetica uccide la verità”, ed attraverso la fotografia si cerca quasi sempre di abbellire il mondo. E se si accetta il principio che il falso può sembrare preferibile o più reale del vero, si perde il rispetto per il mondo. Era profondamente laico, ma ci credeva, nell’umanità e nel rispetto per il mondo. Si era convinto della superiorità dell’immagine sulla parola, perché la fotografia è per sua natura profondamente laica. Essa non parla mai di ideologie, ma di cose, di luoghi, e soprattutto di persone. Nonostante questi suoi atteggiamenti quasi “minimalisti” e questa sua volontà di rimanere sempre un poco in ombra, mai sulla scena, ha scritto grandi pagine di fotogiornalismo, delle quali non si è mai vantato o compiaciuto troppo. Era il più francese fra i fotografi italiani, e del lavoro di fotoreporter ha saputo mantenere quel taglio “umanistico” che lo portava ad un rapporto “aperto” verso i suoi simili. Ancora prima

Ciao Mario

E’ scomparso un grande fotografo di fotografare le persone, il suo interesse era per conoscerle. Fotografare per lui era un modo per poter continuare ad andarsene in giro a conoscere luoghi e persone, cosa che ha continuato a fare fino all’ultimo, un po’ per sopravvivere, un po’ per non doversi fermare. Fermarsi a lungo non era cosa per lui. Nella sua inquietudine, piuttosto che cercare personaggi curiosi o storie da raccontare, cercava soprattutto delle relazioni umane. Tutto questo si riflette nelle sue immagini, realizzate sempre “dalla parte dell’uomo”, sempre attraversate dallo sguardo, da quel tipo di sguardo di chi

osserva senza paura di essere a sua volta osservato. Sguardi che parlano, che rivelano vite vissute, che raccontano storie, anche minime, fatte di episodi, movimenti, gesti ripetuti mille volte, ma sempre autentici, motivati, concreti. Sguardi che si riflettono nello sguardo del fotografo, chiamato non a “documentare” o “raccontare”, quanto a partecipare, a fare sue le storie che legge, che ascolta, che raccoglie. Non si è mai voluto vendere, e di conseguenza non è neppure mai diventato ricco. Non era nella sua natura. Era un fotoreporter. Ma era anche molto di più, era un uomo libero. “dalla parte dell’uomo c’è la faccia dell’uomo che guarda in faccia un uomo che lo guarda e diventa l’immagine dell’uomo braccato insanguinato l’uomo inseguito bruciato l’uomo perduto insultato la faccia trafitta da anni senza speranza la faccia appesa agli angoli del mondo la faccia che scopre il male la faccia sconfitta nelle stagioni assolate nella melma nel tufo nello splendido cielo mentre corre piangendo le vittime o sorridono o si guardano vedono le facce che guardano davanti” “dalla parte di mario ci sono tutte le facce che lo guardano guardare con l’occhio della mente che vive l‘istante immobile un attimo prima che le nuvole coprono il cielo prima che la dinamite esplode prima che la notte cancella i sorrisi l’urlo ammutolisce il desiderio e nessuno torna in dietro nelle facce che mordono gli occhi che bucano centomila messaggi agitati nella polvere c’è la cosa sognata ci sono le facce di mario per sempre” Nanni Balestrini - Dalla parte dell’uomo


19 DICEMBRE 2015 pag. 6 Laura Monaldi lauramonaldi.lm@gmail.com

Performs “Per Arco” by Giuseppe Chiari, 1984 3 fotografie a colori cm 30x24

di

L

a performance è un’azione eclettica e infinita nelle sue possibilità realizzabili: scritta, causale, orchestrata, spontanea, interattiva o più semplicemente pianificata tramite copione, la performance può prevedere l’azione del pubblico o la mediazione dei media e della tecnologia; può essere portavoce di una pratica intima e personale o di una coralità collettiva; può dar voce a un pensiero o a un messaggio; può essere provocatoria o contemplativa; può concretizzarsi ovunque e avvalersi di oggetti scenici o della sola presenza corporea. La performance è un’Arte d’azione, è un connubio di tempo e spazio senza limiti in cui l’artista mette in scena tutto se stesso e la propria poetica, teso a instaurare con il pubblico un rapporto che supera la bidimensionalità delle arti pittoriche e plastiche per caratterizzarsi come un teatro estetico, il cui fine è una catarsi immediata e dal grande impatto percettivo. Non a caso la performance è in grado di coinvolgere i cinque sensi per elevare le coscienze a un più alto grado di intellettualità. Una lettura, un movimento o un gesto possono divenire una performance capace di travalicare i canoni teatrali e porsi come cardine dell’effimero e dell’autentico, poiché l’evento performativo è unico e difficilmente può essere ripetuto con la stessa originalità e la stessa enfasi. Il gesto performativo è estemporaneo e appartiene all’essenza intima del performer che l’ha creata con tutta la sua poetica e la sua artisticità. Agli esordi di tale prassi estetica Charlotte Moorman è stata una sostenitrice in prima linea, affiancando i più importanti artisti fluxus, secondo le tendenze neo-dadaiste, fin dai primi anni Sessanta. Con lei la musica ha incontrato la poesia e la presenza scenica del performer, non più compositore ma vero e proprio artista a tutto tondo. Le sperimentazioni musicali d’avanguardia incontrano la video art e il principio esistenziale che lega l’arte alla vita. Strumento, notazioni, immagini e corpo divengono un tutt’uno con la violoncellista che ha fatto della performance un coinvolgimento unico di azione, suono, corpo, spazio e materia concettuale.

Tutte le immagini Courtesy Collezione Carlo Palli, Prato

Senza titolo, 1989 Carta dipinta e sagomata a forma di violoncello cm 120x41

Senza titolo, 1989 Collage di quadrifogli su cartone sagomato e dipinto a forma di violoncello cm 118x38,5

Senza titolo, 1989 Carta stampata sagomata a forma di violoncello cm 136x53

Arte in 3D Charlotte Moorman Aldo Frangioni

Cavriago, 1989 Assemblaggio di fotografie su tavola sagomata a forma di violoncello cm 55x135


19 DICEMBRE 2015 pag. 7 Alessandro Michelucci a.michelucci@fol.it di

C

hi vive in un paese dove si parlano quattro lingue sviluppa facilmente una forte sensibilità nei confronti della varietà culturale. Stiamo parlando della Svizzera, nella speranza che gli stereotipi consunti a base di cioccolata, formaggi e orologi siano stati definitivamente sepolti. Ma se qualcuno li coltivasse ancora, il modo migliore per fugarli definitivamente è un’immersione nella ricca varietà di iniziative realizzate da Norient, una vivace associazione culturale con sede a Berna. Fondato nel 2002 da Thomas Burkhalter, che la dirige tuttora, questo laboratorio creativo si occupa di musica e comunicazione nei modi più svariati. Il suo sguardo critico è puntato sulle espressioni musicali e digitali urbane che si vanno affermando ovunque, ma con caratteristiche sempre diverse. A questo scopo realizza una rivista telematica e il Norient Musikfilm Festival, oltre a conferenze, documentari, libri, mostre e programmi radiofonici. Questa attività multiforme ha lo scopo di “orientare e di-

Fabrizio Pettinelli pettinellifabrizio@yahoo.it di

Via di Mantignano serpeggia, seguendo antichi confini interpoderali, in una delle ultime campagne fiorentine: se la strada è di per sé tranquilla, non altrettanto si può dire di coloro che in qualche modo l’hanno frequentata. Già il toponimo, che nei documenti ufficiali fiorentini è citato fin dall’anno 1015, rimanda a un personaggio non proprio pacifico: il nome, infatti, deriva probabilmente da “praedium Amantinianum”, il podere di Amantinio. Come noto la buonuscita per i veterani della legione era costituita da appezzamenti di terreno nelle terre conquistate, ottenendo il duplice scopo di liquidare le pendenze economiche con i militari e di difendere “a gratis” i territori di espansione. Nella piana fiorentina gli agrimensori romani tracciarono i limiti della centuriazione che si estendeva sia in riva destra sia in riva sinistra d’Arno: la zona di

ed etnomusicologo; Julio Mendívil, musicista e scrittore peruviano; Shayna Silverstein, etnomusicologa esperta di culture mediorientali; Michael Drewett, docente di Sociologia alla Rhodes University (Sudafrica); Theresa Beyer, musicologa bernese. Questo elenco potrebbe continuare a lungo, ma forse diventerebbe noioso: in ogni caso la varietà geografica e disciplinare permette di sviluppare un’indagine quanto mai ampia e articolata, dove il fatto musicale viene analizzato tenendo conto delle sue implicazioni sociali, culturali e politiche. un ottimo esempio del lavoro che Norient sta svolgendo per far conoscere le nuove espressioni musicali del pianeta è il libro Seismographic Sounds: Visions of a New World. Questo interessante volume trilingue (francese, inglese e tedesco) è il risultato di un lavoro che ha impiegato 12

anni, durante i quali gli autori hanno percorso il pianeta per ascoltare, filmare, intervistare, prendere appunti. Il panorama che ne esce è impressionante sia per varietà geografica che stilistica: in questo magma pulsante si agitano il rap pakistano e quello serbo, il folk portoghese e il pop nigeriano, il metal siriano e la situazione della musica amerindiana in Germania. Inoltre, una miniera d’informazioni su documentari, film, programmi radiofonici e video dedicati ai fermenti musicali trattati. Musica e tecnologia si intrecciano con le piaghe che affliggono il pianeta: corruzione, degrado umano e urbano, discriminazione, guerra, povertà. La mole del volume (500 pagine) può spaventare, ma l’impaginazione inusuale e il ricco corredo iconografico rendono la lettura piuttosto agevole. Seismographic Sounds: Visions of a New World non è un’iniziativa editoriale fine a sé stessa, ma è legata alla mostra omonima che è visibile a Solothurn (10 dicembre-10 gennaio 2016) e sarà poi allestita a Berlino (29 gennaio-28 febbraio 2016).

zione personale e, in forza di ciò, le suore dell’epoca pretesero l’indipendenza dalla curia fiorentina, sostenendo di dipendere direttamente dalla Santa Sede, tant’è vero che la badessa Cilla si fece eleggere senza il preventivo assenso del vescovo di Firenze, come da prassi. Ne nacque uno scontro furioso con la curia fiorentina che si trascinò per anni finché nel 1211 non fu definitivamente riconosciuto il primato della chiesa fiorentina. Il 28 ottobre 1929, con grande sfoggio di labari e con la presenza di Italo Balbo, i fascisti

fiorentini celebravano in gran pompa il settimo anniversario della marcia con l’inaugurazione dell’acquedotto di Mantignano. Peccato che una quindicina d’anni dopo i loro amichetti nazisti pensarono bene di farlo saltare in aria. Cinque giovanissimi partigiani della SAP I Zona decidono di intervenire per salvare gli impianti: per quanto del tutto inesperti di esplosivi, fra il 3 e il 4 agosto del 1944 cercano di disinnescare le mine e ci riescono, a prezzo della loro vita: l’esplosione di due mine uccidono Dino Catarzi e Alfredo Marzoppi vicino alla pieve di Ugnano, Ascanio Taddei e Gino Del Bene in Via di Fagna. Silvano Masini viene falciato da una raffica di mitragliatrice. Avevano tutti fra i 18 e 19 anni: il cippo che li ricorda, all’interno dell’acquedotto, oltre a essere irraggiungibile, è sepolto dalle erbacce.

Nel labirinto delle musiche moderne sorientare”, come dice il nome dell’associazione. Entusiasmo e competenza sono gli elementi che si ritrovano in tutte le persone coinvolte in questo progetto culturale. Prima di tutti il fondatore Thomas Burkhalter, giornalista

Via di Mantignano

I combattenti di Mantignano Cintoia, subito al di là della Greve rispetto a Via di Mantignano, rappresentava il limite orientale, mentre a occidente la centuriazione si spingeva fino all’altezza di Signa. Al buon Amantinio toccò quindi un appezzamento di terreno in questa zona: strano destino finire a fare il contadino in riva alla Greve per un uomo che aveva combattuto nelle legioni di Cesare sulle sponde del Reno e del Tamigi. Passarono i secoli ma lo spirito bellicoso del vecchio legionario aveva fatto proseliti in questa plaga, tanto da attecchire anche fra le suore ospiti dell’antichissimo monastero del quale l’attuale pieve faceva parte. Alla fine del dodicesimo secolo papa Celestino III concesse alle monache di Mantignano la propria prote-


19 DICEMBRE 2015 pag. 8 Simone Siliani s.siliani@tin.it di

A

nnuncio, Crocifissione, Deposizione, Sepoltura, Resurrezione: ecco i cinque scavi archeologici di Virgilio Sieni nel suo “Dolce Vita. Archeologia della passione”, in scena a Cantieri Goldonetta in via S.Maria a Firenze fino al 20 dicembre. Gesto, movimento come ricerca spirituale ma saldamente incardinato nei corpi, degli otto danzatori come dei protagonisti della passione. Tuttavia la cifra di questa coreografia è la leggerezza: l’impossibile sospensione o equilibrio di corpi continuamente sull’orlo dell’orrido, del mistero della passione cristologica. Il problema che Sieni condivide con illustri artisti dei secoli passati è come deporre quel corpo inerme dalla croce; dove posizionare il baricentro e quali leve e strumenti usare affinché gli sia lieve almeno la sepoltura dopo che così tanta violenza si è abbattua sull’uomo vivo. Problemi di diversa entità per Sieni che si misura con corpi vivi nella loro tridimensionalità, rispetto ai pittori cui è necessario un maggior grado di astrazione muovendosi sul piano bidimensionale della tela. Ma pur sempre di un grande problema si tratta. Basti pensare alla Deposizione di Volterra del Rosso Fiorentino dove quattro personaggi di agitano, discutono animatamente, compiono sforzi enormi in bilico su due scale per deporre il corpo di Cristo dalla croce: in quale maniera sorreggere quel corpo, accompagnarlo compassionevolmente a terra per restituirlo ai suo cari disperati? Così Sieni cerca di muovere i suoi danzatori concitati per trovare un impossibile equilibrio di un uomo senza vita verso la terra. Un uomo sconfitto, niente altro che questo: non c’è più la speranza di un, seppur straniente, inizio come nell’Annuncio; né la grandezza tragica del sacrificio nella Crocifissione; neppure la sorprendente vitalità della Resurrezione. La problematica corporea ha attraversato i secoli e ha trasformato la pittura ma anche la spiritualità. Osserviamo la Deposizione dalla Croce di Pietro Lorenzettin nel ciclo delle Storie della Passione di Cristo (1310-1319) ad Assisi. Nicodemo è ancoraintento a staccare il chiodo dai piedi di Gesù; Giuseppe d’Arimatea, da una scala, lo tiene per la vita; un gruppo

La Dolce Vita della passione

di corpi lo “stira” verso sinistra fondendosi con lui. E guardate ad alcune figure della coreografia di Sieni in cui, nella dimensione orizzontale, i corpi dei danzatori si fondono, in un realismo nuovo, stravolgente, che mi ha ricordato questo affresco. Altri richiamo è quello della Deposizione di Michelangelo alla National Gallery di Londra, in cui i corpi centrali appaiono davvero danzare alla maniera di Sieni. Qui di

c’è una prova “muscolare” di Michelangelo che impegna i protagonisti dell’opera in una impossibile deposizione verticale, con il Cristo sorretto con fasce, mentre la croce è scomparsa. Una scena più intima, quasi danzante appunto. L’opposto della grande scenografia del Calvario affollato descritto da Benozzo Gozzoli al Museo Horne di Firenze, dove – oltre alla impressionante folla che occupa la scena – risalta il grande dispiego tecnico,

con scale e argani rudimentali. Una complessità tecnica e strumentale che anche Sieni simbolicamente riproduce sul corpo ormai deposto di Cristo. Sulla Deposizione di Benozzo Gozzoli cala l’oscurità; sullo sfondo il cielo è già oltre il tramonto e la luce è sconfitta. Un tema, quello dell’oscurità, che ritroviamo in molte altre deposizioni: quella di Rembrandt alla Pinacoteca di Monaco (1633) dove però un fascio di luce investe solo il corpo di Cristo lasciando tutto il resto dell’opera nelle tenebre; quella di Paolo Veronese (1548-49) che illumina debolmente solo il busto di Cristo; quella di Caravaggio (1602-4) alla Pinacoteca Vaticana, in cui la luce fende l’oscurità solo per evidenziare il busto e il braccio pendulo (citazione esplicita della Pietà di Michelangelo, rappresentato peraltro nel volto di Nicodemo). Ma anche la Deposizione di Luca Giordano (1671) al Pio Monte della Misericordia a Napoli e quella di Rubens (1602-6) alla Galleria Borghese di Roma, concentrati sulla sepoltura, sono dominati dall’oscurità e da improvvisi lampi di luce. Un combattimento che, come nel lavoro di Sieni, ha come campo di battaglia il corpo di Cristo: solo concentrando l’attenzione scenica su questo elemento è possibile ritrovare le tracce di una nuova spiritualità. E’ qui, in questa Deposizione, il fulcro dell’archeologia della passione che Sieni ci propone.

per questo qualcuno dovrebbe spiegarci i motivi per cui deve essere lo Stato – usando denaro pubblico, di tutti gli italiani – anziché i responsabili di questa truffa (una volta accertati) a farsi carico del danno prodotto, rimborsando i sottoscrittori. Uno Stato che non riesce a rimborsare alluvionati, terremotati, aziende in credito d’imposta. Uno Stato che non riesce a pagare in tempo ragionevole i fornitori di beni e servizi. Uno Stato che non riesce a far uscire dalla povertà 12 milioni di famiglie (tra relativa e assoluta), non può permettersi di usare due pesi e due misure. Trovo infatti del tutto legittima la richiesta di chi, versando in condizioni di gravi difficoltà causa perdita del lavoro con figli e muto a carico, oppure di quanti sono

costretti a sobbarcarsi in toto l’assistenza a familiari non autosufficienti, chiede di poter accedere a quel “piccolo aiuto umanitario a sostegno delle fasce deboli” di cui ha parlato un ministro del nostro governo. Anche queste sono persone costrette a vivere di rinunce: non fanno ferie, non vanno a teatro, né al ristorante e spesso rinunciano persino a curarsi per mancanza di soldi. Conclusione: tutte queste persone (ripeto 12 milioni di famiglie, qualcosa come 30 milioni di persone) meritano la stessa considerazione, almeno pari e uguale a quella offerta ai titolari “inconsapevoli” di investimenti a rischio. Del resto sono tutti vittime di un’economia e una finanza speculativa. Un paese veramente civile farebbe così. Punto e basta.

Remo Fattorini

Segnali di fumo Non so voi ma io la penso così. La gran parte di coloro che hanno deciso di acquistare le obbligazioni subordinate lo hanno fatto perché avevano un rendimento superiore ad altre forme di investimento. Certo una parte di loro lo avranno pure fatto in buone fede, poiché non informati – dalla loro banca - del maggiore rischio a cui andavano incontro. Tuttavia le obbligazioni “subordinate”, come dice la parola stessa, in caso di problemi finanziari il rimborso avverrà “dopo” quello verso i creditori ordinari. Proprio


Monica Innocenti innocentimonica7@gmail.com di

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ici Forte dei Marmi e pensi a locali vip, magnati russi, ristoranti di lusso e boutique esclusive. Ma se ti allontani poche centinaia di metri dai luoghi comuni del gossip, nella tranquilla via Francesco Carrara, potrai scoprire un posto inaspettato e meraviglioso: la casa della bravissima attrice Elisabetta Salvatori, che è anche sede dell’associazione “Favolanti”. La prima sorpresa è la veranda, stipata di libri: una catasta di volumi dei generi più disparati, che cattura immediatamente lo sguardo. Tutti possono leggerli, prenderli a prestito o incrementare la catasta portando propri libri e mettendoli a disposizione di chiunque voglia approfittarne! Quando poi Elisabetta ti apre la porta d’ingresso (pure se sei preparato a ciò che ti aspetta) è impossibile non rimanere a bocca spalancata! Una grande stanza, una cinquantina di posti a sedere ricavati dalle poltroncine in legno di un vecchio cinema, un piccolo palco di tavole dipinte di nero e il minimo indispensabile di corredo tecnologico: un vero e proprio teatro in miniatura ricavato nel salotto di casa. Ti ritrovi immerso in un’atmosfera calda e rilassata, circondato da locandine, statue, ritagli di giornale e, naturalmente, altri libri e la padrona di casa o uno degli amici artisti che, periodicamente, invita su quel proscenio domestico che, letteralmente, galleggia tra il pubblico, ti rendono partecipe della loro passione più grande: raccontare storie. In queste serate il tempo sembra scorrere in una dimensione altra (o forse non trascorre per niente?) e l’aggettivo che mi viene da usare per descriverle (una volta tanto a proposito) è magiche. Eppure Elisabetta è diventata attrice grazie all’imponderabile aiuto del caso. Dopo l’Accademia d’Arte il suo unico desiderio era dipingere; un giorno che era in cerca di uno spazio dove esporre le proprie opere si rivolse ad una associazione della Versilia dove (vedi i casi della vita) proprio

Un teatro in salotto quel giorno iniziava un corso di recitazione. Si fermò ad ascoltare e in un pomeriggio scoprì quello che voleva davvero fare nella vita: scrivere storie e raccontarle ad un pubblico (quasi sempre accompagnata dal violino e dalla chitarra di Matteo Ceramelli, ma

questo ancora non lo sapeva)! All’inizio furono favole, nel senso che il primo spettacolo messo in scena consisteva nel raccontare sei fiabe aprendo ogni volta una valigia diversa, che rappresentava un piccolo teatro. A seguire è arrivata una produ-

Lido Contemori lidoconte@alice.it

Il migliore dei Lidi possibili

di

Disegno di Lido Contemori

19 DICEMBRE 2015 pag. 9

zione copiosa, sempre piena di emozioni e mai banale. Il Teatro del Sacro; alcune delle storie d’amore più struggenti e appassionate della letteratura in “Calde rose”; una personalissima visione di personaggi diversissimi tra loro da Ilaria del Carretto ad Antonio Ligabue, da Caterina da Siena a Dino Campana. Un capitolo a parte è rappresentato dalle “Storie di impegno civile” dedicate a vicende drammatiche che hanno sconvolto la sua terra e raccontate con grande sensibilità, rispetto estremo e totale partecipazione: l’eccidio di S.Anna di Stazzema, la breve vita del partigiano Amos Paoli, la strage della stazione di Viareggio. Elisabetta Salvatori inoltre, cura la direzione artistica del Teatro delle Scuderie Medicee di Seravezza (Lu); il programma della stagione appena iniziata (che comprende anche il suo lavoro “La bella di nulla”, in scena il 28 dicembre prossimo) è disponibile sul sito www.terremedicee.it, nella sezione “eventi”


19 DICEMBRE 2015 pag. 10 Paolo Marini p.marini@inwind.it di

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uando uscì la prima volta, nel 1974, per i tipi della Vallecchi, il mondo aveva una faccia tutta diversa: eppure, trascorsa un’era geologica, le passioni non sono sopite. Così il racconto autobiografico dell’esperienza di Gianfranco Benvenuti (Fiesole, 1925Roma, 1994) nelle file della Resistenza - “Ghibellina 24” (Carlo Zella Editore, 2015 - pp. 144, € 12,00) - fa da contraltare al recente “Fascista da morire” di Mario Bernardi Guardi e insieme compongono un pezzo del nostro passato, a partire dal dominante (per me, in entrambi) profilo umano e psicologico. Con la differenza che il protagonista di “Ghibellina 24” non è immaginario e la sua vita si inserisce nel flusso della storia prima ancora che egli possa rendersene conto (fu il ‘rosso’ Renato Bernini che “disinvoltamente toccandomi una spalla disse che ero uno di loro (...), aggiunse che potevo stare nella cellula, termine del quale avevo solo cognizione scientifica (...). Acconsentii come si fosse trattato di una proposta per una gita, o qualcosa di simile.” La sera del 25 luglio 1943 Gianfranco è a Compiobbi: dalla Casa del Fascio si stanno diffondendo strane, sconvolgenti voci di ‘dimissioni’ di Mussolini, nell’aria un cupo sbigottimento; torna in treno a Firenze e il giorno dopo, nei pressi di via dell’Agnolo, è sorpreso dal “primo contatto con la libertà”, sconcertante: per la “mancanza di ossessione e di incubo” e “quel canto stonato, di vera, inattesa gioia” che “esce dalle vecchie mura del rione, e stordisce”. Cominciano le manifestazioni, si abbattono gli stemmi sabaudo-fascisti; il peggio, però, ha da venire. Da qui parte il racconto che il “partigiano scrittore” scandisce in 5 momenti (25 luglio ‘43 – 8 settembre ‘43 – Gli Appennini – Pratomagno e Monte Giovi – Firenze) con incedere antiretorico, nel solco della buona tradizione della letteratura della Resistenza incarnato dal capolavoro di Beppe Fenoglio (“Il partigiano Johnny”): il

Fiato alla Resistenza

Gianfranco Benvenuti (commissario politico nella Brigata Lanciotto), da “Il triangolo della Gualchiere” di Berlinghiero Buonarroti, Polistampa

Ventennio ha spaccato la società “come un taglio di scure”, i fasti del regime hanno ceduto il passo alla guerra e i volti son divenuti “lunghi e bianchi di paura” perché c’è un mondo “che intorno crolla, va in rovina”, come testimonia l’immagine del maestro elementare (“fronte corrugata, volto e mani poggiati sul bastone come sotto il peso della buona fede e della delusione crollategli addosso, sedeva in disparte, lontano dalla grande carta geografica colorata, una volta impuntata di tante piccole bandierine tricolori e rosso croce uncinata spillate sui luoghi conquistati e sulla quale, bastone alzato e fare didattico, Massimo Cavezzali cavezzalicartoons@hotmail.com

aveva preconizzato la congiunzione, in India, delle forze armate italo-tedesche con quelle nipponiche”). E i due quartieri di famiglia di via Ghibellina 24, messi dall’autore a disposizione del comando militare comunista, non hanno soltanto un significato operativo: prestando il titolo al libro, essi assurgono a perno ideale della faticosa ricerca di una diversa verità sul mondo e di ciò che sarebbe stato una volta finita la guerra. Quando apprende che i fascisti sono sulle sue tracce, anche Gianfranco - come centinaia di altri giovani - sale in montagna dove, in una continua transumanza bellica - tra fatica, fame

di

Scavezzacollo

ma anche momenti di recupero psicologico (“Allorché l’azzurro dei monti divenne una corona attorno la vasta distesa mugellana, nel silenzio assoluto di campi e di alberete, la tensione si placò in incredibile, gioioso sapore di pace”) - tutto acquista un significato inedito (“... la vita di montagna risvegliava, in aiuto del nostro agire, istinti primordiali di adattamento e di orientamento...”/“...in quei luoghi da lupi, dove il lupo non v’era ma stava dentro altri uomini, svaniva il valore civile del tempo...”): sono qui non solo la migliore analisi ma anche i segni che danno contezza dell’uomo, prima che del partigiano/combattente. Non è un italiano impeccabile, quello di Benvenuti; a volte si fa sperimentale, segue quel filo della memoria cui le regole della lingua sottrarrebbero continuità, efficacia e, forse, senso (“Noi, agghiacciati, marmo il nostro corpo, campare mille anni quella scena resterà nel cranio, Dante Valobra, il volto chiuso e esterrefatto, ubbidì, lui staffetta, a soli gesti di mano, curvo partendo verso il comando di compagnia oltre i castagni immoti e lucidi nel primo sole del mattino”); ansimante tra boschi e crinali, con l’alterno ‘fiato della resistenza’, la narrazione corre d’altronde fluida con quelle giornate che concedono anche un poco di allegria (“Gli unici momenti di riposo venivano oramai dalle notti trascorse sul crinale. Non mancava, ed era invenzione, modo di ridere, di divertirci. Baffi, Moro, Marinaro, Zio raccontavano San Frediano, nomi e cognomi di caporioni fascisti demistificati e messi in berlina da un genuino spirito popolare”) e immagini suggestive (“la limpida bellezza del Pratomagno”/“Il fronte (...) brontolava giorno e notte verso l’azzurro orizzonte chiantigiano”). Il tutto pervaso e conchiuso – mi pare - da un’onestà di fondo, che non è l’irrealizzabile obiettività/astrazione dall’io, bensì l’esatto opposto: disvelamento/verità di sé, senza orpelli.


19 DICEMBRE 2015 pag. 11 Simonetta Zanuccoli simonetta.zanuccoli@gmail.com di

I

sanguinosi attentati del 13 novembre hanno ferito Parigi anche dal punto di vista economico. Nonostante le continue sollecitazioni del Segretario di Stato Martine Pinville di muoversi, lavorare, andare nei locali e vivere normalmente, tutti i settori commerciali sono stati colpiti duramente e a fine novembre, periodo nel quale i parigini usualmente iniziano i loro acquisti di Natale, i negozi e i grandi magazzini del centro hanno registrato un calo delle vendite fino al 50%. La vita dopo pochi giorni dagli attentati è ripresa, ma lentamente, oscillando tra la paura ancora presente nei suoi abitanti di frequentare luoghi pubblici e affollati e la sensazione di disagio di continuare il proprio tranquillo quotidiano dopo una tragedia. E così, nonostante anticipate ed estese offerte promozionali per dare slancio al commercio in timida ricrescita, secondo un sondaggio di fine novembre il 44% dei parigi ancora non aveva pensato agli acquisti per la mancanza di desiderio di festeggiare e il 58% dichiarava di aver limitato lo shopping nei negozi temendo per la sicurezza e per questo preferendo comprare on line che infatti, in controtendenza, stava registrando un forte aumento di vendite. Solo nel settore dei giocattoli, dopo una prima notevole flessione, gli acquisti stanno risalendo ai parametri normali per il periodo forse dovuto al fatto che i parigini non hanno comunque voluto sacrificare il solito Natale pieno di sorprese ai propri figli. L’impatto emotivo del 13 novembre è stato disastroso anche sul traffico turistico, facendo crollare l’abituale giro d’affari al di sotto del 35% fra disdette e mancate prenotazioni. Le ciniche ma necessarie statistiche hanno dimostrato che nelle città colpite dal terrorismo come New York nel 2001 e Madrid nel 2004 il recupero a una normale affluenza del turismo avviene entro 6 mesi. Per fortuna il Cop 21, evento d’importanza mondiale

Auguri Parigi

Ottone Rosai alla Gamc

La mostra Ottone Rosai, è prorogata al 3 aprile 2016. Le opere sono esposte di fronte ai dipinti realizzati da Lorenzo Viani per la stazione di Viareggio. A confronto due grandi autori del Novecento toscano che con le loro produzioni hanno celebrato l’italianità attraverso la narrazione della civiltà contadina e del mondo del lavoro. In Galleria prosegue anche, sino al 12 luglio 2017, la mostra “Segno, gesto, materia. Esperienze europee nell’arte del secondo dopoguerra. Opere della donazione Pieraccini”, organizzata all’interno del progetto TOSCANA ‘900 PGM per proporre un nuovo allestimento più moderno e intuitivo che sappia guidare i visitatori alla scoperta dei tanti tesori custoditi alla GAMC.

La collezione, in gran parte di artisti italiani e dell’Europa occidentale attivi fra la fine del XIX secolo e gli inizi del XXI, racconta la biografia di Giovanni Pieraccini, giornalista e politico del Partito socialista Italiano, e di sua moglie Vera, nato Viareggio e vissuto a lungo con la moglie a Roma. ll primo nucleo di opere si forma a Viareggio negli anni Trenta del ‘900 con l’acquisto de “Iquattro vageri” Lorenzo Viani. Nel 1948 Pieraccini viene eletto deputato nel PSI e si trasferisce nella capitale. Il 20 dicembre, alle ore 16.30, come ogni terza domenica del mese, gli Amici del Museo organizzano una visita guidata gratuita alla scoperta del nuovo allestimento e alla mostra “Ottone Rosai alla GAMC”.

alle porte di Parigi, è stato, si può ben dire, in questo clima pesante una boccata di aerea fresca per gli albergatori come per le compagnie aeree. Oltre ai Capi di Stato infatti si sono riversati a Parigi sindaci di grandi città e attivisti facendo così aumentare le richieste di alloggi a tutti i livelli. Ma la bella Parigi non si è arresa al fanatismo e alla barbaria di pochi e nonostante che la tradizionale cerimonia del 18 novembre di accensione dei 64 km di luci di Natale su quello che viene definito il più bel viale del mondo, gli Champs Elysees, sia stata annullata, anche quest’anno la Ville Lumière risplende orgogliosa con archi luminosi, luci colorate e proiezioni. Consiglio agli amanti di questa città ferita in via di guarigione che hanno deciso di starle vicino per le vacanze di scoprire i più bei monumenti illuminati con un tour nel bus Paris Illuminations o facendo un giro notturno, sfidando il freddo e qualche vertigine, sulla ruota panoramica a place de la Concorde. Anche i piccoli chalets in legno dei tradizionali mercatini di Natale sono ormai tutti aperti. Agli Champs Elysee sono 250 che vendono oggetti di artigianato, ostriche, champagne e un aromatico, buonissimo vin brulè. Poi c’è il mercatino alsaziano alla gare de l’Est con prelibatezze locali (ogni giorno alcune di queste sono offerte gratuitamente come degustazione) e quello di Saint Germain, il più piccolo della città....e tanti, tanti altri. E naturalmente a Natale a Parigi è d’obbligo andare a vedere le facciate decorate e soprattutto le vetrine dei grandi magazzini. Fedeli alla tradizione, Lafayette, Printemps e Bon Marché si sfidano anche quest’anno come sempre allestendo le loro vetrine con sorprendenti scenografie popolate di personaggi incredibili spesso animati, luci, colori e musica. Un vero spettacolo, un momento di gioia e stupore per i più piccoli ma anche per coloro che, nonostante tutto, hanno conservato l’animo di un bambino o semplicemente il gusto per la magia di Natale.


19 DICEMBRE 2015 pag. 12 Giulia Simi giuliasimi@gmail.com di

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asseggiate psicogeografiche distopiche. Così potremmo forse definire questo Google Digital Monuments Project, primo progetto cross-media del videoartista Marcantonio Lunardi, che dopo aver attraversato il mondo con l’immobilismo del viaggiatore digitale ed aver affondato lo sguardo nella voragine dell’iperrealismo a cui Google e i suoi dispositivi di visualizzazione geografica ci hanno abituato, ci spedisce, con la nostalgia di un turista del secolo scorso, il proprio ricordo in cartolina. «Sottoprodotto della circolazione delle merci, la circolazione umana considerata come un consumo, il turismo, si riduce fondamentalmente alla facoltà di andare a vedere ciò che è diventato banale», scriveva Guy Debord ormai cinquant’anni fa. E più banale non c’è, in questa scelta delle icone del turismo contemporaneo, da piazza San Marco a Venezia al ponte di Brooklyn a New York, fino al Golden Gate di San Francisco, che tuttavia Leonardi coglie nell’istante del loro disfacimento. Dalla veduta rinascimentale al disvelamento situazionista, l’artista scava nella crepa della visione virtuale per coglierne l’inquietante artificialità. Rovine digitali. O meglio capricci. Piazze che si frantumano in coriandoli, edifici che spariscono sotto il peso del proprio scheletro, piani prospettici che prendono il sopravvento, strutture che ingoiano forme. Cartoline tuttavia. Da acquistare, da conservare, da inviare come presagi. Forse annunciano, con gli occhi di Cassandra, eventi funesti, o forse invece aprono a mondi liberati dalla dittatura del realtà e dalla tirannia di quella prospettiva rinascimentale che ancora governa, imperturbabile, il nostro «way of seeing», per dirla con John Berger. Un’aperta finestra dalla quale si abbia a veder l’algoritmo. Le cartoline di Lunardi ci ricordano allora non solo la progressiva atrofizzazione dello sguardo sul reale, ma anche le pericolose voragini in cui un

occhio senza storia rischia di cadere. In una contemporaneità schiacciata sul presente, dove la proliferazione di immagini ci sommerge in un flusso continuo che si alimenta

della continua dimenticanza «Nessuna epoca come la nostra ha saputo tanto su se stessa [...] Nessuna epoca come la nostra ha saputo così poco su se stessa», scriveva Kracauer già nel

Capricci da Google Earth Sergio Favilli sergio.favilli@libero.it di

Ho frequentato Milano per oltre 40 anni per motivi di lavoro e francamente non mi sono mai accorto di quanto la presunta alta borghesia milanese fosse rincoglionita. Dopo tanti anni di incoscienza accendo la TV e mi vedo una nobilissima famiglia meneghina che, dopo aver evaso pesantemente le tasse, la sera del cenone di Natale si vede arrivare in casa la finanza e, sotto gli occhi esterefatti del maggiordomo, gli vengono portati via quadri, mobili, tappeti, argenteria di valore, suppellettili varie, persino il tavolo dove stavano cenando e, udite udite, un bellissimo

Milano da mangiare e da bere

cavallo bianco!! E questi come reagiscono?? Si arrabbiano?? Fanno intervenire in commercialista?? Chiamano l’avvocato di fiducia?? No, niente di tutto

1927 - queste found-images tentano una cesura, una pausa dello sguardo, un momentaneo straniamento. Tentano una deriva, dove il caso e l’errore giocano un ruolo fondamentale operando uno svelamento su quei frammenti di realtà sepolti dal velo dell’artificio digitale che impone dove e come guardare. E allora serve un capriccio, desiderio imprevedibile, inaspettato e immotivato, a imporre, con l’atto di una dissoluzione, la nostra umana resistenza.

questo, seguitano impassibili ad ingozzarsi di panettone fregandosene altamente di quanto sta succedendo intorno a loro. Direte voi – forse hanno fatto tanti quattrini con l’evasione che di case, mobili, quadri, suppellettili ed argenterie se ne potranno permettere, anche in futuro, in gran quantità?? Non ci è dato sapere se questi signori millantavano un benessere solo apparente oppure, se la loro ricchezza fosse reale oltre che illegale, sicuramente sono dei rincoglioniti cronici: ma come si fa a tenersi un cavallo bianco in salotto al terzo piano?????


19 DICEMBRE 2015 pag. 13 Rita Albera albera@libero.it di

C

hiusa da più di un mese la kermesse dell’Expò, disperse le pantagrueliche code, smantellati i padiglioni di paesi per noi così lontani, Milano torna al suo aspetto di città severa e ospitale, colta e dinamica, energetica. E’ questo il momento per prendere un rapido treno e andarci. Passeggerete per le quiete vie del centro che il Natale rende festose e, se volete, coglierete l’occasione per visitare alcune belle mostre rimaste dopo i mesi internazionali. Come la mostra su Giotto e i suoi ultimi capolavori, quella sul pittore romantico Hayez, la raccolta “Da Raffaello a Schiele” proveniente dal Museo delle Belle Arti di Budapest, quella” Gauguin racconti dal paradiso” e fino al 10 gennaio, a Palazzo Reale la grande imperdibile rassegna ”Mito e natura. Dalla Magna Grecia a Pompei”. Qui sono esposti affreschi di varia provenienza e destinazione molti prestati dal Louvre e dal British, oggetti di uso comune , ornamenti personali, statue,splendidi vasi, ispirati alla natura quando non collocati all’aperto in quelli che erano orti e giardini. L’intento della mostra è quello di sottolineare la centralità che la natura ha da sempre avuto nella vita dell’uomo sin dai secoli più antichi, ma anche di porsi come un ideale incipit nella storia della pittura di paesaggio. A corollario di “Mito e Natura” su iniziativa dell’Associazione Orticola di Lombardia, attiva sin dal 1875, è stato ricreato da architetti del paesaggio, botanici ed archeologi un esempio vero di giardino greco romano ispirandosi al famoso affresco della Casa Del Bracciale d’oro di Pompei. Nella pittura murale, ritrovata negli anni Settanta e databile tra il 30 e 35 dopo Cristo, è rappresentato un giardino, un ricco di varie specie di piante e di uccelli. Fauna e flora vi sono rappresentate così veristicamente che riconosciamo senza difficoltà piante che ancora coltiviamo come l’oleandro e il corbezzolo, il pino, la palma da datteri, l’alloro sacro al dio Apollo, il papavero, il viburno,

Il Viridarium dopo l’Expo

infine la rosa, sacra a Venere e simbolo per eccellenza dell’amore che l’ignoto pittore ha dipinto sostenuta da una canna su cui si è posato un usignolo. Il Viridarium di Milano progettato dagli architetti Marco Bay e Filippo Pizzoni è stato allestito nel cortile dietro Palazzo Reale con ingresso in via Pecorari. Secondo gli archeologi e i botanici il giardino romano da Hortus adiacente alla casa dove le piante erano coltivate per l’uso, a partire del secondo secolo avanti Cristo, sotto l’influsso greco si evolse in

Viridarium, spazio più ampio e quasi sempre circondato da un portico, il peristilium, al quale si accedeva dalle sale della domus, l’abitazione signorile. Il giardino si ampliò, spesso abbellito dal ruscellare di rivoli e cascatelle, sia per coltivare piante e fiori a scopo decorativo, sia per passeggiare, meditare, godere del fresco e dei profumi, accogliere amici. Oltre alle piante visibili nell’affresco pompeiano, nel giardino ricreato ne appaiono altre che sappiamo note nell’antichità come il leccio, il mirto, il fico,

il melograno, il castagno, il cipresso, il bosso e il rosmarino, piante quasi tutte naturalmente esistenti nella macchia mediterranea e poi coltivate in loco. Il colonnato “il peristilium “ è ricordato da una struttura in sottili rami di castagno dipinti in rosso pompeiano sostenuta da colonne verdi costituite dai carpini potati in forma obbligata e dal quale ammirare le piante . Ma più che riprodurre un perfetto modello, il viridarium voluto da Orticola vuole riproporre l’insieme di colori e i profumi che si potevano vedere e sentire e ammirare in un viridarium del I° secolo dopo Cristo. Assai più che imitare vuole suggerire un’atmosfera cara ai greci e ai romani i che nella quiete del loro giardino si dedicavano ad un “otium” contemplativo ed operoso. Una pausa dalla vita attiva, un momento di riflessione in cui l’uomo si interrogava su se stesso e sul proprio destino nello scorrere immanente della natura.

Il piccolo supereroe di periferia Michele Morrocchi twitter @michemorr di

Paul Vacca ci regala un piccolo gioiello, sì perché Come accadde che Thomas Leclerc 10 anni 3 mesi e 4 giorni divenne Fulmine Tom e salvò il mondo, pubblicato in Italia da Clichy, è un romanzo che non ti aspetti. Tom, piccolo bambino della periferia parigina alla fine degli anni sessanta, è il ragazzino strano, quello che risolve tutti i problemi di matematica, non ha amici, e non lascia trasparire emozioni. Oggi probabilmente si direbbe che Tom soffre di autismo e il suo caso non farebbe molta impressione, ma nella Francia ad un passo dal 68 tutto questo è ancora lungi da venire. Intorno a Tom, i cui unici amici e riferimenti sono

all’inizio gli amati supereroi dei fumetti americani, la sua famiglia e la classe media della periferia parigina che circonda la villetta con giardino in cui, al culmine di una scala di 18 gradini, si rintana nella sua cameretta, Tom. Vacca ha uno stile di scrittura semplice ma mai banale e pur affrontando

un tema e una storia in cui il rischio del buonismo, del già visto e del banale, è altissimo, riesce, ad ogni intreccio, a stupirci scegliendo sempre la soluzione che non ci saremmo aspettati. Tom che si convince che la sua diversità è la stessa dei suoi eroi dotati di superpoteri, ci commuove ma non ci impietosisce mai, anche nei momenti tragici che la storia descrive. Quello che rimane è un libro che ricorda i grandi film francesi degli anni sessanta, personaggi multiformi, a più dimensioni e una società che si scopre mista, libera o pronta a liberarsi, ma anche contraddittoria e persino cattiva. Eppure alla fine si chiude il libro con un sorriso sul volto e una lacrima che spinge per uscire.


19 DICEMBRE 2015 pag. 14

Scottex

Aldo Frangioni presenta L’arte del riciclo di Paolo della Bella

Dopo avere esaminato quasi 50 opere del della Bella paper’s, pensiamo che forse alcune di queste sarebbero interessanti soggetti di studio per uno psicanalista (forse abbiamo già espresso quest’opinione). Di frequente, infatti, il nostro tende a produrre oggetti zoomorfi nel brancicare lo scottex: in questo caso ci appare chiaramente un uccello in volo. Forse anche gli antichi aruspici etruschi avrebbero potuto prevedere il futuro osservando queste sculture effimere. In buona sostanza queste “cose” non vogliono significare o riprodurre nulla ma nello stesso tempo ci obbligano sa trovare un senso al non senso.

Scultura leggera Michele Rescio mikirolla@gmail.com di

Tagliatelle con pesce Tagliate il pesce spada a cubetti. Tritate la cipolla con la carota e rosolateli in un tegame con l’olio, l’aglio che poi eliminerete. Unite il pesce, fatelo insaporire per qualche minuto a fuoco vivace e bagnato con 2 mestoli di brodo caldo, continuate la cottura per altri 10 minuti. Regolate di sale e pepe, unite il prezzemolo e lo zafferano sciolto in 2 cucchiai di brodo. Ingredienti per 4 persone 350 g di tagliatelle 1 Cipolla 1 Carota 800 g di pesce spada 1 spicchio di aglio 1 cucchiaio di prezzemolo tritato 1 bustina di zafferano 200 ml di brodo di pesce 3 cucchiai di olio extra vergine d’oliva Sale q.b. Pepe q.b. Cappone ripieno Disossate il cappone, rovesciate il collo e le ali, sistemate la carne trita in una bacinella e spolverate di prezzemolo in precedenza tritato con l’aglio. Unite l’uovo e un cucchiaio abbondante di parmigiano grattugiato, aggiustate di sale e pepe e mettete un pizzico di noce moscata. Mescolate il pan grattato in caso l’impasto

Menù di Natale non risulti troppo consistente e farcite con il composto l’interno del cappone cucendo con spago da cucina l’apertura. Rivestitelo con una garza sterile, legatelo bene e fate un brodo con una cipolla steccata con il chiodo di garofano, sedano, carota e la foglia di alloro. Sistemate il cappone e fatelo lessare per circa due ore poi, a fine cottura, mettete il cappone nel tegame con del burro per farlo dorare e portatelo in tavola. Ingredienti per 4 persone: un cappone già pulito 300 g carne trita pan grattato q.b. prezzemolo q.b. noce moscata q.b. 1 uovo parmigiano grattugiato q.b. 1 spicchio aglio sale q.b. pepe q.b. Per il brodo: 1 cipollina 1 chiodo di garofano 1 costa di sedano 1 foglia di alloro Manzo al Barolo Sbucciate e tagliate a pezzi la cipolla; pulite, lavate e tagliate grossolanamente il sedano; raschiate, lavate e affettate la carota, dopodiché mettete il tutto in un terrina insieme al

barolo, l’alloro lavato e alcuni grani di pepe e immergete la carne, lasciandola marinare per 2-3 ore. Appena cotta scolate la carne e legatela con rete da cucina, in una padella fondete il burro con l’olio, adagiatevi la carne e fatela rosolare, quindi regolate di sale. Filtrate il vino della marinata, mettetelo in una casseruola e lasciatelo evaporare un pò, poi unitelo alla carne che farete sobbollire a fuoco basso e semicoperto per 2 ore circa, levatela dal recipiente e tenetela in caldo. Stemperate la fecola con un po’ di fondo di cottura, quindi rimettete il tutto nella casseruola e rosolate per 5 minuti. Servite la carne affettata condita con la salsa calda. Ingredienti per 4 persone 900 g di polpa di manzo 1 bottiglia di barolo 30 g di burro 4 cucchiai di olio 1 cucchiaio scarso di fecola 1 costola di sedano 1 cipolla 1 carota 3 foglie d’alloro sale pepe in grani Stella di Pan di Spagna Lavorate i tuorli con lo zucchero in una terrina fino a ottenere una crema spumosa. Unite 150

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g di farina, la vaniglina e 25 g di burro fuso. Montate a neve gli albumi con un pizzico di sale e incorporateli all’impasto. Versatelo in uno stampo a stella, imburrato e infarinato, infornatelo a 180° per 35 minuti e lasciatelo nel forno spento per 5 minuti. Sfornate il pan di Spagna, fatelo intiepidire e sformatelo. Quando è freddo, tagliatelo a metà. Sciogliete lo zucchero in 3 cucchiai di acqua e 4 di rhum e spruzzate il pan di Spagna. Mescolate la crema di castagne con il burro, un altro cucchiaio di rhum e il cacao; mettetela nel freezer per 10 minuti, spalmatela sulla base del pan di Spagna, ricomponete la torta e cospargetela di cacao. Con il matterello stendete il marzapane allo spessore di pochi mm, ritagliatevi delle stelline e sistematele sulla torta con i confettini. Ingredienti: 100 g di zucchero 35 g di burro 5 uova una bustina di vaniglina sale Per la farcia: 250 g di crema di castagne rhum un cucchiaio di cacao amaro 25 g di burro un cucchiaio di zucchero Per decorare: cacao amaro 150 g di marzapane bianco confettini di zucchero argentati


lectura

dantis

19 DICEMBRE 2015 pag. 15

Disegni di Pam Testi di Aldo Frangioni Dal bosco sanguinoso si diparta il passo allo deserto arroventato, lì il caldo i dannato lo disquarta.

E fra il bestemmiatore impenitente cangiando ora le veste ora la gonna e il violatore delle sacre icone fecesi ricca di talleri e dobloni vidi una dama con fare maldicente e senza paura chiamavasi Madonna.

Violentator Diddio e suo creato puniti sono in sabbia ribollente, oltre ad un grandinare roventato.

che sacrissimo nome, per finzioni, avea preso per se senza timore, per cantare sconcezze di canzoni

Canto XIV

VII cerchio 3° girone Usciti dal bosco dei dei suicidi Dante e Virgilio entrano nel girone dove sono relegati i violenti contro Dio, contro i simboli della fede, contro i santi: un deserto di sabbia, senza alcun riparo dove vien giù una pioggia di fuoco. Tutti inutilmente corrono per trovare riparo e tra questi par di riconoscere una peccatrice molto speciale: Madonna, al secolo Louise Veronica Ciccone.


in

giro

19 DICEMBRE 2015 pag. 16

Barone e Pupi a Prato Il termine inglese ambivert è una parola particolarmente suggestiva ed evocativa nel richiamare il principio per cui una persona dimostra al tempo stesso un atteggiamento introverso ed estroverso. E’ un termine, anche solo per associazione spontanea, ambiguo e che tende a visualizzare un confronto-scontro ovvero una visione complessa e stratificata. In tale contesto espositivo non può che richiamare l’ambivalenza della forma attuale, per dinamiche relazionali e “politiche” maggiormente incline alla liquidità che alla concretezza, e il lavoro opposto e speculare sulla struttura dell’architettura (artificiale o naturale), verso la ricerca di un equilibrio instabile. Il progetto coinvolge due artisti, Barone e Pupi, che ricercano su un’idea trasversale di spazio, inteso come luogo di interrelazione tra forme e volumi, e lavorano sul sincronismo/asincronismo della costruzione cercando di rapportarsi con le informazioni ottenute dagli oggetti. Tale capacità di misurarsi con i cambiamenti degli spazi, avvertibili nelle trasparenze e nelle fluttuazioni delle informazioni, permette loro di modificare la visione e gestire liberamente le regole strutturali cercando quasi un’etica delle forme. Nel superamento dei vincoli geometrici e spaziali, verso un’analisi di carattere quasi temporale, emerge in entrambi una capacità di gestire l’estensione del concetto di presenza-abitabilità e una riprogrammazione dello schermo mobile della rappresentazione, con l’irrompere di dispositivi semantici trasversali, ambivertappunto. Tale mostra quindi, nelle singole ricerche, lavora sulla gestione delle informazioni (strutturali, architettoniche, anatomiche) e su divergenti sistemi di manifestazione/modulazione. 19 dicembre 2015 ore 18.30 in piazza San Marco 13 Prato

Crowdfunding per il libro di Pilade/Pasolini

Stiamo immaginando di poter sfogliare un libro che abbia la forza di tramandare la profonda necessità di resistenza che ci ha spinto – oggi – ad arrovellarci, leggere, studiare, ad attraversare molti luoghi fisici e immaginari, e a coinvolgere centinaia di persone nel progetto artistico Pilade/Pasolini. Un libro importante, che possa ricordarci – domani – quali focolai di bella umanità abbiamo acceso, e che ci dia la possibilità di accenderne altri. Il nostro più vivo desiderio è che ciò che nasce intorno a noi vada subito oltre il nostro lavoro, per farsi materia incandescente e appiccare altri incendi in altri luoghi e in altri tempi. Abbiamo deciso di prenderci cura di questo futuro, e degli altri che verranno, con le nostre mani. Nel primo libro che vedrà la luce per le edizioni Archivio Zeta, e che vi chiediamo di aiutarci a creare, ricostruiremo l’intera struttura

del progetto Pilade: sarà un libro bello da toccare, da avere tra le mani, un album dei ricordi, un catalogo e un originale manuale di progettazione.Disegneremo la mappa dei luoghi, delle stagioni, delle anime sensibili coinvolte, ma anche le difficoltà, le invenzioni, le strategie di sopravvivenza, le prove, i debutti, le emozioni, lo studio. Accanto alle fotografie degli straordinari fotografi della scena che ci hanno seguito in questi mesi, ci saranno quelle scattate dal pubblico, e le parole degli intellettuali e dei pensatori che ci hanno accompagnato in questo viaggio. I saggi critici, le interviste, le recensioni si intrecceranno ai quaderni di regia di Gianluca Guidotti e Enrica Sangiovanni, all’analisi delle partiture, ai ricordi personali di attori e spettatori. La cura del volume è di Rossella Menna. Il sito per partecipare è questo www.archiviozeta.eu/crowdfunding-pilade-pasolini-book/


L immagine ultima

19 DICEMBRE 2015 pag. 17

Dall’archivio di Maurizio Berlincioni berlincioni2@gmail.com

C

olgo l’occasione di questo numero di fine anno per rendere un doveroso omaggio a due colleghi americani armati di tutto punto per delle riprese fotografiche e cinematografiche della manifestazione al Central Park. Avevano ambedue attrezzature di prima qualità e avranno sicuramente riportato a casa immagini molto interessanti. Mi ero riproposto di parlare con loro per farmi dare delle dritte ma purtroppo nel corso degli eventi li ho completamente persi di vista. Approfitto comunque di questa pagina di Cuco, che è davvero “L’ultima del 2015”, per inviare a tutti i lettori un sacco di auguri per le prossime festività.

NY City, agosto 1969


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