Cultura Commestibile 154

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redazione@culturacommestibile.com culturacommestibile@gmail.com www.culturacommestibile.com www.facebook.com/cultura.commestibile direttore simone siliani

redazione gianni biagi, sara chiarello, aldo frangioni, rosaclelia ganzerli, michele morrocchi, barbara setti

progetto grafico emiliano bacci

Con la cultura non si mangia

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N° 1

Tanti auguri a te, e al paese che c’è che ha iniziato a camminare anche grazie a te” Tanti auguri Presidente, a te e all’Italia di Mogol-Migliacci-Puppato canta Laura Puppato

Pronta per Sanremo editore Nem Nuovi Eventi Musicali Viale dei Mille 131, 50131 Firenze Registrazione del Tribunale di Firenze n. 5894 del 2/10/2012


Da non saltare

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Simone Siliani s.siliani@tin.it di

N

el 2010 Martha C.Nussbaum diede alle stampe un piccolo ma intenso pamphlet sull’importanza della cultura umanistica nei curricula formativi, “Non per profitto. Perché le democrazie hanno bisogno della cultura umanistica” (Il Mulino, Bologna). La sua tesi era che la tendenza generalizzata a tagliare corsi e cattedre di cultura umanistica in tutti i gradi dei percorsi formativi era una minaccia per la democrazia. Di fronte alla crisi i decisori politici, che considerano la cultura umanistica un inutile orpello, sono indotti a tagliare i costi ritenuti inutili per mantenere competitività sui mercati globali. Inoltre, “anche ciò che possiamo definire gli aspetti umanistici delle scienze e delle scienze sociali – quelli creativi e immaginativi, e il rigoroso pensiero critico – stanno perdendo terreno mentre gli Stati preferiscono raggiungere obiettivi di breve termine coltivando piuttosto le competenze utili e ad alta applicabilità legate al profitto”. Ma le arti e la cultura umanistica, sostiene la Nussbaum, sono quelle che producono competenze fondamentali per la qualità della democrazia e delle relazioni umane, come il pensiero critico, la capacità di trascendere gli interessi locali ed affrontare i problemi in quanto cittadini del mondo, la capacità di concepire in modo simpatetico le difficoltà delle altre persone. La preoccupazione era che fossero a rischio tanto la salute interna di qualsiasi democrazia, quanto la capacità di “creare una decente cultura capace di affrontare costruttivamente i più pressanti problemi mondiali”. A cinque anni di distanza dalla pubblicazione del libro della Nussbaum, le preoccupazioni da lei espresse sono ancora lì sul tavolo dei decisori politici europei. Un recente documento della Commissione Scientifica per le Humanities di Science Europe ne dà ampiamente conto. Science Europe è un’associazione di tutti i paesi europei, con sede a Bruxelles, composta da istituzioni di ricerca (che finanziano o che svolgono ricerca), fondata a Berlino nel 2011,

La ricerca perduta dell’humanitas

che ha lo scopo di promuovere gli interessi collettivi delle organizzazioni per il finanziamento e la qualità della ricerca in Europa. Ne fanno parte 47 istituti di ricerca di 27 paesi europei (fra cui il CNR e l’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare italiani, come l’Agence Nationale de la Recherche francese, la DFG Fondazione nazionale per la ricerca tedesca, il Consejo Superior de Investigaciones Científicas in Spagna o le inglesi Arts and Humanities Research Council e Economic and Social Research Council). Istituzioni che insieme attraggono oltre 30 milioni di euro in progetti di ricerca all’anno. L’opinion paper, dal titolo “Radical innovation: Humanities Research Crossing Knowledge Boundaries and Fostering Deep Change” (“Innovazione radicale: la ricerca umanistica attraversa i confini della conoscenza e promuove cambiamenti profondi”), affronta il tema dell’innovazione dal punto di vista di un nuovo paradigma: l’innovazione come

un processo che va al di la’ del trasferimento tecnologico e che, secondo la prospettiva delle scienze umane, e’ un fenomeno guidato dalla capacita’ della cultura umanistica di trasformare un intero sistema di pensiero per affrontare i cambiamenti e le sfide che la societa’ e l’umanita’ hanno di fronte. Questa comprensione dell’innovazione come unico possibile motore di un cambiamento radicale, in un mondo complesso e attraversato dalle crisi, sfida ogni precedente idea di innovazione come processo unicamente tecnico. Essa porta quindi alla distinzione tra il concetto di innovazione e quello di impatto puramente economico-incrementale, laddove l’innovazione radicale, stimolata dalla ricerca, puo’ produrre conseguenze che vanno ben al di la’ di quanto si potesse presupporre o calcolare in un primo tempo. Per queste ragioni, infatti, sostiene l’analisi dello ‘Humanities Committee di Science Europe’, l’innovazione, affinche’

sia radicale e trasformativa, necessita di essere accompagnata da impianti etici e sistemi di ricerca interdisciplinare che siano in grado di renderla sostenibile. Alla base del documento c’è soprattutto la preoccupazione relativa alla perdita di capacità innovativa che la ricerca sta avendo in Europa negli anni piu’ recenti: gli orientamenti delle istituzioni europee sono essi stessi piuttosto orientati verso la cd. innovazione incrementale, che sviluppa cioè paradigmi preesistenti, tesa ad aumentare produttività e competitività delle imprese migliorando l’efficienza di utilizzo di tutti i fattori della produzione, e si muove in sostanziale continuità con cio’ che e’ gia’ conosciuto e sperimentato. Ma questo tipo di ricerca non puo’ essere in grado di affrontare le grandi sfide del mondo globale che, invece, richiedono un orientamento verso l’innovazione radicale, quella che dà origine a nuovi paradigmi, un sistema di pensiero critico e dirompente su


Da non saltare

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uno specifico set di condizioni al fine di sviluppare cambiamenti pratici e determinanti per affrontare le sempre piu’ complesse sfide della societa’. Questo tipo di innovazione radicale produce effetti a valle che stimolano comportamenti umani in modi spesso imprevisti ed imprevedibili; cambiamenti profondi nel modo di vivere, di interagire, di comunicare, pensare ed agire. Qualcosa di distinto dalla creatività che riguarda la capacità o l’agire in modo originale o inusuale, mentre l’innovazione radicale implica un passo più profondo e concreto, relativo al processo di creazione delle condizioni per implementare qualcosa di veramente nuovo. Analogamente, occorre distinguere diversi piani di analisi perché vi sono processi di innovazione che possono generare impatti solo a lungo termine, mentre ve ne sono altri che non producono risultati in termini di conseguenze pratiche o che ne possono generare addirittura di negativi. Infine, gli impatti di processi di innovazione indotti dalla ricerca possono essere tanto tangibili quanto intangibili. Ebbene, le tendenze più recenti ci dicono che nelle aree del mondo in cui maggiore attenzione e investimenti vengono destinati all’innovazione radicale e alla ricerca che la promuove, tipicamente l’Asia, si registra un crescente interesse e viene attribuito un ruolo sempre più centrale alle arti e alla cultura umanistica quali parti del processo di innovazione. Al contrario (e paradossalmente), in Europa arti e cultura umanistica hanno un ruolo sempre più marginale nella ricerca interdisciplinare. Una tendenza stigmatizzata dal paper di Science Europe perché questo vuol dire rinunciare all’apporto di discipline che “ci aiutano non solo a capire come le cose accadono, ma sono protagoniste nello spiegarci perché accadono e, nel far ciò, ci aiutano a progettare il mondo”. In ambiti come la medicina, l’ambiente, il digitale l’interazione di discipline che producono le condizioni per lo sviluppo della creatività e dell’immaginazione e, quindi, dell’innovazione radicale, è

L’importanza della cultura umanistica nell’epoca tecnologica garanzia di successo. Non vi è dunque un ordine gerarchico nella ricerca, nelle scienze, nella tecnologia, nelle arti e nella cultura umanistica; piuttosto queste sono complementari per la creazione di un ambiente innovativo. Il paper fa riferimento ad un importante seminario dell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico dell’ONU tenutosi a Singapore nel 2013 dal titolo “Educare all’innovazione in Asia: la teoria, i risultati e la pratica” che ha dimostrato come le qualità umane (il capitale umano) e le competenze più strettamente associate alle arti e alla cultura umanistica sono al centro del nuovo sistema formativo nel quale la coltivazione delle capacità cognitive per l’innovazione sono una priorità. Dunque, su questo terreno e non puramente su quello degli sviluppi tecnologici del prodotto e del ciclo produttivo, l’Europa sta perdendo la sfida dell’innovazione con l’Asia. La collaborazione fra le comunità di ricercatori e studiosi nelle diverse discipline è la chiave di lettura del successo della ricerca; la formazione di teams multidisciplinari; la combinazione

fra una ricerca interculturale e l’approccio tecnologico dinamico all’innovazione. Il paper esamina 5 casi di ricerca in cui le humanities interagiscono con la cultura scientifica e tecnologica e li valuta sotto quattro diversi tipi di innovazione prodotta: la collaborazione interdisciplinare fra arti e scienza umanistica e le scienze naturali e della vita; il contributo positivo apportato dalle arti e dalle scienze umane in maniera diretta; le modalità innovative di condurre la ricerca all’interno di teams multidisciplinari; ricerche umanistiche innovative che producono cambiamenti e impatti sociali rilevanti, tanto trasformando il modo di pensare (come la riconcettualizzazione di alcuni elementi o il guardare a concetti esistenti da punti di vista diversi), quanto provocando cambiamenti sociali e pratici nel modo di agire delle persone. I cinque progetti di ricerca riguardano lo studio sulla psicosi urbana con un approccio interdisciplinare (Istituto di Geografia della Facoltà Umanistica dell’Università di Neuchatel in Svizzera), il contributo della

storia e dell’archeologia all’accesso alle risorse naturali come acqua e terreno (consorzio dei Paesaggi Montani del Mediterraneo), l’economia dell’idrogeno Università di Coventry), una piattaforma integrata europea per l’infrastruttura di ricerca europea sul patrimonio culturale (coordinata dal CNR italiano), la ricerca medica sul cervello umano e le questioni etiche (guidato da un team di 28 studiosi di varie discipline, scientifiche e umanistiche). Così la prestigiosa Science Europe individua una serie di raccomandazioni e richieste che vedano interagire, nel definire gli indirizzi per il finanziamento della ricerca (soprattutto il programma europeo Horizon 2020), i decisori politici e i centri studi e studiosi di un vasto spettro scientifico per spingere verso l’innovazione radicale la ricerca europea. In particolare pone l’accento sulle aree di studi interdisciplinari, tanto quelli all’interno della cultura umanistica, quanto quelli che emergono dalla interazione fra questa e le scienze naturali. La cultura umanistica può (o deve) tornare a svolgere un ruolo centrale nello sviluppo e nell’innovazione dell’Europa che, abbacinata dalle illusioni di corto respiro della finanza e di una tecnologia senza anima, sta perdendo appunto la sua anima, che nei secoli è stata la centralità dell’uomo e della sua libera capacità critica e ha prodotto la sua più grande invenzione, la democrazia e lo Stato sociale. Sarebbe questo il suo maggior “vantaggio competitivo”: nella sintesi di Martha Nussbaum, “la ricerca del pensiero critico, l’immaginazione audace, l’empatica comprensione delle molteplici esperienze umane, e la comprensione della complessità del mondo in cui viviamo”. Per maggiori informazioni, contattare: Mariachiara Esposito (mariachiara.esposito@scienceeurope.org) Senior Scientific Officer for the Humanities at Science Europe, responsabile del coordinamento scientifico delle Humanities presso Science Europe e della redazione dell’ Opinion Paper su ‘Radical innovation’ (http://scieur.org/ radical)


riunione

di famiglia

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Le Sorelle Marx E’ aperta la raccolta di firme per la nomina di Eugenio Giani a Segretario Generale delle Nazioni Unite. Dopo l’era Ban Ki-moon, in carica dal 2007 ad oggi, si aprirà l’era Eugenio Giani. Infatti, il prossimo 31 dicembre 2016 scadrà il secondo mandato del diplomatico coreano, ma già da oggi si è scatenato il ‘toto-nomi’. Molte associazioni premono per un candidato donna, ma la decisione finale dipenderà molto dalla sintonia che troveranno Stati Uniti e Russia che, pare, stiano convergendo sul nome del

I Cugini Engels A Palazzo Chigi lo hanno soprannominato “Edmondo”: la fulminante carriera di Carlo Calenda – testé nominato Rappresentante permanente dell’Italia presso l’Unione europea da Renzi, in perfetta continuità con Letta cui dobbiamo l’ingresso nella compagine di governo di questo fulgido esempio di trasformismo italico, transitato da “Italia Futura” a “Scelta Civica” e infine felicemente approdato al PD – è segnata dal capolavoro letterario deamicisiano. Infatti, ad appena 10 anni Calenda si fa notare quale protagonista della riduzione televisiva di “Cuore”, di cui fu sceneggiatrice la mamma (Cristina Comencini) e regista il nonno (Luigi Comencini). Carlino appare lì nelle vesti di Enrico Bottini, personaggio senza nessuna “caratteristica” particolare, è allievo mediocre, senza acuti ed entusiasmo particolari per lo studio: bello ciccetto, visino tondo e serio, Carlo è perfetto nella parte. Salvo per

Un passo importante per la pace nostro amatissimo Presidentissimo Giani. Infatti, le cancellerie delle due superpotenze mondiali sono state informate del recente miracolo diplomatico che Eugenio è riuscito a compiere e confidano nelle sue doti di equilibrio e nelle sue note competenze storiche per risolvere conflitti secolari come quello arabo-israeliano, sunniti-sciiti, turco-armeno. Solo la sagacia, la perseveranza e la pazienza gianesche hanno potuto appianare il famoso e sanguinoso

conflitto pisano-fiorentino. Eccolo qui, il Nostro siglare la storica pace, che in confronto quella di Magonza

un particolare: mentre Bottini non sappiamo se alla fine del romanzo viene promosso, certamente non possiamo dire altrettanto di Carletto, che invece è stato promosso, eccome! Sia chiaro, per meriti, giacché il merito è la bandiera del renzismo. Infatti

possiamo leggere sul suo curriculum che come Vice ministro allo Sviluppo Economico, Calenda ha condotto numerose delegazioni di imprenditori italiani all’estero e promosso gli investimenti stranieri in Italia e quindi ovviamente non lo mettiamo a fare

Il Cuore del commercio

Bobo

e di Augusta impallidiscono: il Capodanno dell’Annunciazione! Così proclama dal suo profilo Facebook: “il 25 marzo sarà festeggiato in tutta la #Toscana con questo nome. E per questa prima edizione la mattina sarò a #Pisa! Dopo tanto discutere sul capodanno con il consigliere Antonio Mazzeo e l’assessore Federico Eligi, entrambi pisani, abbiamo trovato l’intesa che farà fare la ‘pace’ tra Pisa e #Firenze!”. Pregevole iniziativa.

il direttore dell’Italian Trade Agency (il già ICE), ma a fare il diplomatico a Bruxelles! Ma lui il commercio ce l’ha nel Cuore (appunto)! Sostegno al made in Italy, potenziamento delle fiere, nautica, concept “boutique”, fare sistema imprese, la moda e le sue città (Milano, Firenze, Roma): «le risorse per la moda sono finalmente dignitose, quasi un risarcimento verso il primo settore italiano che ha dovuto fronteggiare la globalizzazione e che lo ha fatto, finora, da solo», dichiara esaltandosi il nostro Calenda. Ma soprattutto, «Abbiamo un ampio spazio di penetrazione nel settore del lifestyle medio-alto,...». Insomma, un ragazzo di buona volontà, disciplinato, che potrebbe fare di più se si applicasse. Infatti, dice Carletto: «finanzierei volentieri un progetto sul tessile tecnologico. Non mi è ancora arrivato». E soprattutto, uomo di cultura: «Il nostro errore è sempre stato accostare la moda al lusso e non alla cultura».

Lo Zio di Trotzky

Il volo di Nardella

“Oggi amministrare non serve quasi a niente, devi colpire l’immaginario. Essere personaggio, bucare il video”. Furono queste parole pronunciate da Matteo Renzi mentre si chiudeva la porta del freccia rossa che lo portava a Roma, da presidente del Consiglio, che devono aver colpito il sindaco Dario Nadella, più di una tramvia contromano. Queste e il “ridi sempre”. E così Nardella ha cominciato a ridere e a pensare a come diventare personaggio. Ed ecco il colpo di genio: “Io suono il violino!”. E quindi non c’è occasione in cui il primo cittadino non sfoggi lo strumento e si imbuchi in orchestre, concerti e sonatine varie.

Ma si sa che la musica classica non è proprio popolare nel nostro paese e quindi occorreva dare una svolta Pop. La comparsata con Biagio Antonacci a Domenica In era troppo lontana nel tempo per essere riproposta e quindi ci voleva qualcosa di più moderno, anche per accaparrarsi il pubblico giovanile. Per questo quindi il sindaco si è presentato in una scuola fiorentina e ha suonato nientepo-po’ di meno che con il Volo, il trio tamarro nazional popolare vincitore di San Remo con tanto di video che gira in rete. Non so se l’operazione riesca a portare consenso al sindaco ma temo fortemente il prossimo avvicinarsi del concerto di Gigi D’Alessio a Firenze.

Le avventure di Nardelik “Ovvia Dariuccio icchè tu voi che siano qualche decina di migliaia di euro” disse il Leader Minimum. La bancuccia dell’aretino aveva bisogno anche di spiccioli per cercare di stare tranquilla. E anche il papi della Mary Elen. E che cosa di meglio che chiedere agli amici? Ma il Servitor Cortese era dubbioso. “E c’ho da comprammi il violino novo novo, che quello che c’ho e mi comincia a sfrigolare” diceva il nostra accampando scuse. Ma il Leader Minimum chiamo Nardellik. E Nardellik rispose prontisssimo e chiarissimo in un insolito, per lui, fiorentino stretto stretto, ma cosi stretto e corto che gli si vedevano i calzini corti e bianchi sbucare da sotto i pantaloni. “E bisogna pagare per stare ni Giglio Magico caro pallino, icchè tu credi che sia a ufo?” Disse Nardellik. E il Servitor Cortese comprò qualche decina di migliaia di euro di obbligazioni subordinate della Banca Aretina. La storia dirà se è stato un buon affare.


23 GENNAIO 2016 pag. 5 Danilo Cecchi danilo.c@leonet.it di

“La mia vita l’ho dedicata tutta, senza rimpianti, alle immagini fotografiche”

C

esare Colombo (19352016) nasce in una famiglia di artisti, ed appena terminato il liceo, nei primi anni Cinquanta, comincia ad interessarsi di fotografia, innamorandosene a tal punto da sceglierla come professione, ma non solo. Oltre a praticare la fotografia, ogni genere di fotografia, ama parlare di fotografia, scrivere di fotografia, impaginare le fotografie, studiare le opere dei fotografi, approfondire, respirare e vivere la fotografia. La definizione di fotografo, per quanto sia ampia ed omnicomprensiva, gli sta comunque stretta, ma anche tutte le altre definizioni che sono state date di lui, come grafico, pubblicitario, giornalista, critico, curatore, docente, storico, editor, archivista, gli stanno ugualmente strette, perché se è vero che ha svolto tutte queste attività, è anche vero che in nessuna di esse ha trovato l’esaurimento dei suoi interessi umani e culturali. La sua vita è costellata di impegni ed iniziative fra le più diverse, pubblica e scrive su Fotografia e su Ferrania fino dal 1955, dirige il settore pubblicitario della Agfa fino dal 1957, apre uno studio di fotografia pubblicitaria ed industriale nel 1964, diventa capo redattore di Foto Film nel 1965, pubblica fotolibri, espone al Diaframma con Toni Nicolini nel 1968, dividendo poi con lui lo studio per oltre trent’anni. Fra le altre cose cura nel 1977 la mostra ed il libro “L’occhio di Milano - 48 fotografi - 19451977”, nel 1985 cura per Electa “Scritto con la luce - Foto-cine in Italia - 1917-1983”, dal 1984 lavora per gli Archivi Alinari con mostre come “Italia - Cento anni di Fotografia”, “La fabbrica delle immagini” e “Un paese unico - Italia - fotografie 1900-2000”. Nel 2004 produce per Agorà “Lo sguardo critico - Cultura e fotografia in Italia - 1943-1968”, e nel 2014 pubblica “La camera del

Cesare Colombo

Ma che cosa hai visto? tempo” in cui ripercorre la sua vita ed il suo lavoro, senza cessare di porsi delle domande e di proporre delle risposte. Da autentico uomo di fotografia, considera questo linguaggio una potente arma sociale e politica, ma anche molto altro, mentre il centro dei suoi interessi artistici e culturali rimane la condizione dell’uomo, ed il suo sguardo è costantemente rivolto verso i suoi simili, verso lo scenario privato e sociale che lo circonda. Il suo interesse per l’immagine non si limita al “fare” le fotografie, passando dal reportage alla fotografia industriale, ma ai modi di “gestire” le fotografie, impaginandole, accostandole, valorizzandole. Per lui la fotografia non è solo “saper vedere” il mondo, ma è soprattutto “saper mostrare” il mondo. Nei suoi scritti e nei suoi saggi parla di fotografia, del linguaggio, dell’estetica, dell’etica e di tutto ciò che c’è “oltre” la fotografia, e ne parla da fotografo, con cognizione di causa. Perché la fotografia è forse l’unica fra le arti di cui non si può parlare se non la si è praticata a lungo, se non la si è vissuta, amata, studiata e sofferta a lungo, se non si è passati attraverso le sue innumerevoli contraddizioni. Nessun critico, storico o studioso può accostarsi alla fotografia senza essere lui stesso fotografo, perché la fotografia non può essere assimilata a nessuna delle altre arti, non al disegno o alla pittura, come spesso accade, non alla letteratura, alla poesia o alla musica, come qualcun altro vorrebbe. La fotografia ha modi e tempi diversi da tutti gli altri linguaggi, opera contemporaneamente ed inscindibilmente nello spazio e nel tempo, e non soggiace a nessuna delle categorie tradizionalmente usate dalla critica d’arte. Tutto questo Cesare Colombo lo sapeva benissimo, sapeva perfettamente che con la fotografia non si può cambiare il mondo, ma sapeva anche che con la fotografia si può cercare almeno di capirlo. Senza cessare mai di dubitare, e di chiedersi: “Sono sicuro di avere visto giusto? E soprattutto, che cosa ho visto?”


23 GENNAIO 2016 pag. 6 Laura Monaldi lauramonaldi.lm@gmail.com di

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luxus è stato un fenomeno determinante nel Sistema delle arti contemporanee: non solo ha messo in evidenza la necessità di una sensibilità maggiore nei confronti del quotidiano e dell’attualità, ma ha ribaltato totalmente l’idea e il concetto di esistenzialismo

Pop

Gianni Emilio Simonetti

riportandolo a un piano più concreto e tangibile. L’annullamento delle tendenze metafisiche, l’interesse per i particolari meno consoni e inediti della vita, il coinvolgimento emotivo del pubblico nella gestualità intima dell’artista, l’uso e riuso dell’oggetto in senso estetico, nonché l’interdisciplinarietà e l’eclettismo culturale sono stati i cardini di una prassi che ha rivoluzione il modo di ‘fare arte’, mettendo in primo piano l’evento rispetto alla tecnica. Dal 1962 in poi – anno del primo grande festival di Fluxus a Wiesbaden – l’abilità dell’artista è stata valutata con un metro di giudizio completamente nuovo: ora come non mai l’inedito, l’originale, il non-visto e il rivoluzionario sono stati considerati i fattori dietro cui si cela la virtuosità artistica del secondo Novecento. Gianni Emilio Simonetti ha aderito fin da subito al movimento, affascinato dalla dialettica rivoluzionaria e libera che la sperimentazione fluxus

permetteva di intraprendere. Nelle sue opere dominano un universo di segni e particolarismi grafici, in grado di dare raffinatezza all’immagine risultante e di formare una dimensione estetica specifica, progettata a priori e densa di concettualità. Quello di Gianni Emilio Simonetti è una pratica che decontestualizza l’immagine popolare, la rielabora in un contesto visivo inedito e originale, dando al lettore l’idea di trovarsi di fronte a una realtà rinnovata. Al centro a sinistra Senza titolo, 1963 Tecnica mista e collage su tela cm 70x100 a destra Garda la luna e gli alberi, 1965 Collage su tela cm 18x24 a pAge from “ANnalyse du vir.age”, 1967 Sotto Teatrino. Es. H.c. per Arturo Schwarz cm 25x50x25 A fianco Senza titolo, 1966 Collage su litografia originale. Quest’ opera è stata eseguita in 123 esemplari “ad personam” tutti diversi uno dall’altro ed è servita ad Arturo Schwarz per inviare gli auguri per il 1967. Courtesy Collezione Carlo Palli, Prato


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L’altro Bowie

Alessandro Michelucci a.michelucci@fol.it di

N

umerosi musicisti sono noti per il proprio impegno umanitario e per aver sposato la causa dei popoli che soffrono. Pensiamo a Bono, leader degli U2, a Luciano Pavarotti o a Piero Pelù. Alcuni, invece, lo fanno in silenzio, quindi si viene a conoscere il loro impegno soltanto dopo che sono morti. È il caso di David Bowie, il grande artista inglese deceduto il 10 gennaio scorso all’età di 69 anni. Il suo LP Heroes (1977), realizzato e inciso quando vive a Berlino, racconta una storia d’amore contrastato in cui due amanti si incontrano sotto il Muro. All’epoca la città è ancora divisa e la riunificazione sembra un’utopia. Bowie avverte profondamente questa ferita che lacera l’Europa. Nel 1987, tornato nella città per alcuni concerti, canta la canzone che dà il titolo all’album dopo essersi rivolto alla folla in tedesco con queste parole: “Salutiamo tutti i nostri amici che sono dall’altra parte del Muro”. Il 9 novembre 2014, alle celebrazioni per i 25 anni dalla caduta del Muro, la canzone verrà cantata da Peter Gabriel. Alla morte

Fabrizio Pettinelli pettinellifabrizio@yahoo.it di

Chi ricorda “El Cid”, il film di Anthony Mann dove Charlton Heston interpreta il leggendario eroe spagnolo? Nella scena finale El Cid Campeador, ucciso da una freccia il giorno prima, viene messo a cavallo e, sostenuto da un’imbracatura di metallo, irrompe sul campo di battaglia terrorizzando e mettendo in fuga i Mori, mentre una voce fuori campo tuona: “Da quel giorno El Cid cessò di cavalcare nella storia per entrare nella leggenda”; siamo durante l’assedio di Valencia, nel 1099. Ora, non è per dire, ma gli spagnoli quell’espediente lo copiarono pari pari dai fiorentini, che l’avevano inventato giusto un secolo prima. Il 21 dicembre 1001 Ugo di Brandeburgo, marchese di Toscana, morì a Pistoia e gli uomini del seguito, per la paura che i pistoiesi ne reclamassero le spoglie, lo rivestirono di tutto punto, lo misero a cavallo e, affiancato da uno scudiero che ne manteneva eretto il corpo, lo riportarono a Firenze,

di Bowie, il Ministro degli Esteri tedesco diffonderà su Twitter questo messaggio: “Addio, David Bowie. Adesso sei fra gli eroi [evidente allusione a “Heroes”]. Grazie per averci aiutato a buttare giù il Muro”. Nel 1983 il musicista trascorre un periodo in Australia, dove si è recato per realizzare il video di “Let’s Dance”, tratta dall’LP omonimo. In quella occasione viene a conoscere la situazione degli Aborigeni e ne viene profondamente impressionato. Data la condizione estrema-

mente svantaggiata in cui vive la minoranza indigena, non esita a paragonare l’Australia al Sudafrica (siamo ancora ai tempi dell’apartheid). Nel video di “Let’s Dance” compaiono due danzatori aborigeni, Joelene King e Terry Roberts. Alcune immagini mettono in evidenza che gli indigeni locali sono costretti a svolgere lavori umili e faticosi. Dopo la morte di Bowie Joelene King rievocherà il comportamento del musicista con grande riconoscenza. Successivamente il musicista partecipa al celebre Live Aid (13 luglio 1985), organizzato da Bob Geldof e Midge Ure per raccogliere fondi da inviare all’Etiopia colpita dalla carestia. Alla fine del 1989 torna in Australia per incidere Tin Machine II, il secondo alcum del quartetto angloamericano che ha formato l’anno precedente. In questo periodo visita il Kakadu National Park e conferma il proprio interesse per le culture aborigene dell’isola. Un’altra causa per la quale Bowie si impegna - stavolta con Brian

Eno - è quella bosniaca. Nel 1994, durante l’assedio di Sarajevo, si incontra a Londra col Primo Ministro bosniaco Haris Silajdzic, al quale propone di organizzare un concerto nella capitale, sperando che questo possa spezzare l’assedio. Silajdzic accetta, ma purtroppo l’idea non può essere realizzata. Tre anni dopo, finita la guerra, partecipa alla campagna “Let us play” promossa da War Child, un’associazione nata per difendere i bambini colpiti dalle guerre. Il 20 ottobre 2011, al Madison Square Garden di New York, David apre il concerto che è stato organizzato per le vittime dell’11 settembre. In quell’occasione canta un famoso brano di Simon & Garfunkel, “America”, e la sua “Heroes”. Attivo anche come pittore, Bowie finanzia varie raccolte di fondi per i bambini africani bisognosi donando alcuni dei suoi lavori. Inoltre sostiene altre associazioni e iniziative, da Amnesty International agli aiuti per le vittime dello tsunami del 2011.

che, durante una battuta di caccia in Mugello, rimanesse isolato dai compagni e incontrasse una bellissima fanciulla alla quale chiese del cibo. La sconosciuta gliene portò di buonissimo, ma servito in stoviglie luride: rivelata la sua vera identità, la Madonna fece capire al marchese quanto fosse contraddittorio il suo comportamento (come il buon cibo e i piatti sporchi) e

Ugo, colpito, abbandonò la vita dissoluta e fondò immediatamente in zona l’Abbazia di Buonsollazzo, vicina a Borgo San Lorenzo. Fino al 1870 alla Badia Fiorentina, una delle più antiche chiese cittadine, dove fu sepolto Ugo, si accedeva mediante una doppia scalinata, che fu eliminata perché intralciava il passaggio del corteo di Carnevale (!); la scalinata, in ricordo del marchese, era sormontata dalla raffigurazione di un’aquila imperiale. Naturalmente i fiorentini ebbero da ridire su quell’uccellaccio inusuale dalle loro parti, e la possente aquila fu rapidamente e con unanime e convinto consenso declassata a “oca di Badia”. Era uso che le sentenze emesse nell’antistante Palazzo del Podestà, il Bargello, venissero lette ad alta voce dagli araldi proprio sulle scalinate della Badia: nei rari casi di sentenze assolutorie, i fiorentini potevano allora pronunciare con legittima soddisfazione il famoso detto: “Ecco fatto il becco all’oca e le corna al Podestà!”

Via del Proconsolo

Ecco fatto il becco all’oca dove fu sepolto nella chiesa della Badia Fiorentina, fondata dalla madre Willa di Brandeburgo. Per inciso il 21 dicembre, giorno della morte del marchese, è dedicato a San Tommaso e Dante (Paradiso, XVI), promuovendo Ugo da marchese a barone, lo ricorda così: “Ciascun che de la bella insegna porta - del gran barone il cui nome e ‘l cui pregio - la festa di Tommaso riconforta”. Che Ugo finisse in Paradiso fu merito della Madonna in persona. Infatti il buon marchese, che pure nella vita pubblica si adoperava in grandi opere di beneficenza, nella vita privata era un dissoluto di prima forza, assai propenso a cedere alle lusinghe di Bacco, tabacco e Venere. Vuole la leggenda


23 GENNAIO 2016 pag. 8 Serena Cenni serenacenni@virgilio.it di

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n anni in cui raffinati congegni tecnologici scrutano in modo sempre più approfondito le pieghe segrete dei corpi in sofferenza alla ricerca dell’evidenza, e sofisticati programmi nell’iPad sostituiscono le cartelle cliniche cartacee trasformando il soggetto da analizzare e (possibilmente) guarire in un iPatient, sempre più icona ma, proprio per questo, sempre più vulnerabile, smarrito e depersonalizzato, emerge con grande intensità in medici illuminati il desiderio di affiancare ai dati empirici dell’osservazione tecnico-scientifica quelli esistenziali della storia della malattia, che possono configurarsi come una trama discorsiva in cui il paziente/narratore coinvolge il medico/ascoltatore in un rapporto di complicità e di alleanza, volto alla comprensione e alla scelta della cura migliore. Non più in posizione di subalternità e di passiva accettazione della/delle terapie, il paziente/narratore diviene allora attore della propria storia, che struttura, secondo una stilistica letteraria, disseminando nel testo della propria malattia informazioni e pause narrative, sommari ed ellissi, ma soprattutto indizi che il medico deve saper decodificare per determinarne l’eziologia oggettiva, assicurarne la consapevolezza soggettiva e proporre la cura più adeguata. Ma come narrano i pazienti quando una patologia importante irrompe improvvisamente nel loro quotidiano, scompigliando i piani delle certezze e costringendoli a ripensare drasticamente il presente e il futuro? Quali strategie mettono in atto nell’unica situazione che dà loro una voce e che è quella comunicativa? Di “narrazioni di pazienti e dell’esperienza di un medico per ripensare salute e malattia” – come recita il sottotitolo del suo bel libro Le trame della cura – parla il cardiologo Alfredo Zuppiroli affrontando una condivisione empaticamente narrativa della sofferenza, che diviene esperienza di vita nella sua complessità e “fattore integrante della professione medica e di una ragionata efficacia terapeutica”. Attraverso raccon-

Il medico umanista e il paziente narratore

ti, sms, scelte di brevi poesie, lettere, battute ironiche sulla propria malattia dette o inviate al medico e che si manifestano come piccoli ma intensi testi letterari, i pazienti si appropriano del disagio provocato dal dato di

patologico, imparano a controllarlo, riconoscendo in esso un “messaggio di senso” - talvolta paradossalmente protettivo - del quale prima erano inconsapevoli, mentre il medico, pur esercitando il suo sapere diagnostico sull’evidenza dei dati di laboratorio, si appropria a sua volta della parola parlata o della paro-

la scritta ricevuta, modulando le osservazioni delle energie emozionali con percorsi terapeutici più congeniali alla persona nel suo insieme, e nel rispetto della sua autonomia. Ma, si potrebbe chiedere il lettore di questo libro, è davvero possibile in un periodo di pesanti revisioni delle spese sanitarie e di aumento esponenziale di pazienti cronici, anche solo ipotizzare un tipo di medicina narrativa, o narrata, secondo il suggerimento di Alfredo Zuppiroli, basata su un diverso concetto di tempo e di integrazione? La risposta è sicuramente positiva, e non solo a livello di una riflessione condivisa tra medico e soggetto sofferente, ma anche a livello dei costi collettivi, perché la conoscenza acquisita tramite la parola permette diagnosi più personalizzate, drastici tagli di esami spesso invasivi e notevoli diminuzioni di farmaci.

Remo Fattorini

Segnali di fumo Agire con urgenza contro l’aumento vertiginoso delle diseguaglianze”. Lo dice, lo chiede e lo propone non un partito politico (né di destra, né di centro, né di sinistra), non lo dice un governo, né i sindacati e non ne parlano i media. A chiederlo è Oxfam, una ong che ha pubblicato un rapporto sulle diseguaglianze e lanciato la sfida all’ingiustizia. Diseguaglianze che continuano a crescere come mai prima: fatto sta che oggi l’1% della popolazione mondiale possiede più risorse del resto del mondo. 62 super ricchi dispongono della stessa ricchezza di 3,6 miliardi di persone più povere. Poteri e privilegi sono usati per condizionare la politica e i governi. Così il divario tra ricchi e poveri

cresce sempre di più. Un fatto è certo: non si può vincere la sfida contro la povertà fino a quando non si inverte la tendenza all’aumento degli squilibri. L’Italia sta dentro questa amara realtà. Pensate, da noi l’1% più ricco possiede il 23,4% della ricchezza e oltre la metà della ricchezza prodotta tra il 2000 e il 2015 si è concentrata solo sul 10% degli italiani, quelli più ricchi. Non so voi, ma io non vivo bene in un paese dove c’è chi è costretto a dormire tra i cartoni o in auto, dove c’è chi non può curarsi o non può permettersi neppure 3 giorni vacanza all’anno, dove molti giovani - bravi e studiosi- sono senza speranza e troppi anziani sono soli e sofferenti. E’ questa diseguaglianza la priorità da abbattere, prima ancora del taglio delle tasse. Preferisco pagare le tasse perché si possa stare tutti meglio, per avere servizi accessibili ed efficienti,

piuttosto che non pagare l’Imu ed essere costretto ad usare l’auto, a respirare aria avvelenata, a pagare la sanità. Mario Calabresi, nuovo direttore di Repubblica, ha scritto che ormai non ha più senso parlare di destra e sinistra. La differenza è tra innovatori e conservatori. Peccato che da quando la sinistra a smesso di essere sinistra, incantata dalle teorie liberiste e interessata più a governare che a cambiare il corso delle cose, il mondo è tornato a girare alla rovescia. Ed eccoci qua senza più voce, né la forza di lottare contro le ingiustizie. Non ci resta che dare mano ad Oxfam.


23 GENNAIO 2016 pag. 9 Matteo Rimi lo.stato@libero.it di

L

a bocca si muoveva senza emettere suono. Chiaramente era impossibile superare il rollio dei bassi che battevano sui suoi timpani dagli auricolari appesi ai padiglioni ma l’impressione era che non fosse solo quello il motivo di tale impenetrabilità. Spense l’MP3 nascosto nella tasca appena in tempo per sentire il clangore del cancello che il custode stava chiudendo lasciando alle sue spalle il grigio del quartiere. Il graffio della campanella si confuse con lo scricchiolio della ghiaia sotto le suole dei suoi anfibi. Era in ritardo anche oggi: forse proprio la notizia che quell’uomo arcigno stava provando a riferirgli poco prima. Ormai non provava neanche più a rispettare gli orari, non lo disturbava l’idea di interrompere l’ennesima lezione appena iniziata o far attendere qualcuno che lo stava aspettando per fare l’ennesima cosa; “rispetto”, poi, era un termine astratto che non avvertiva mai neanche nelle azioni di chi gli stava accanto. Quando entrò in classe, l’insegnante era già alla lavagna a tracciare linee che sul momento gli parvero incomprensibili e che solo cadendo sulla sua sedia con un sospiro e gettando il leggero zaino tra i suoi piedi riconobbe come curve di trigonometria. Prese un quadernone a caso dalla nera bocca dello zaino, una biro senza cappuccio e mezza masticata e si accinse ad assumere l’apparenza dello studente in modo da conformarsi il più che poteva ai suoi compagni e dare meno nell’occhio. Fu così in grado di immergersi nuovamente nei suoi pensieri, anzi di liberare il più possibile la sua mente da questi, come un buttafuori che svuota la sala dagli ultimi, rallentati avventori del locale. Stringeva gli occhi ogni volta che questo gli procurava fatica, cosa che accadeva sempre più frequentemente perché i pensieri, al pari di creditori sempre più insistenti, affollavano gli angoli dove cercava di cacciarli e trattenerli sembrava ormai quasi impossibile. L’unico dato che lo tranquillizzò fu il ricordarsi dell’assenza del prof

Narrazione a puntate con finale a sorpresa dell’ultima ora di lezione nella quale, sicuramente in mano ad un indaffaratissimo insegnate di qualche altra classe, avrebbe potuto almeno permettersi di far

cadere la maschera da studente e farsi platealmente i fatti suoi. L’intervallo lo scaraventò in mezzo alle chiacchiere dei suoi compagni, avvitantesi intorno ai consueti assi: protagonisti di social media, gossip di corridoio, vestiti irraggiungibili e loro scadenti surrogati, musica inascoltabile ma seguita da tutti, sostanze … Resistette con la stessa stoica passività alle domande di alcuni alle quali doveva per forza rispondere ed anche alle restanti

lezioni. Al saluto dell’ultimo prof prima della supplenza sprofondò dietro al solito quadernone quasi addormentandosi quando improvvisamente si scosse nel sentire il gran tonfo che l’insegnante di filosofia dell’altra sezione causò appoggiando un’alta colonna di libri sulla cattedra. “Credo che non tutti conosceranno i titoli che ho portato,” proruppe, “spero così di incuriosirvi e tenervi occupati per almeno un’ora…” (continua)

Sara Chiarello twitter @Sara_Chiarello di

Il dolore di una madre Un testo attuale, crudo e corrosivo, che affronta il dolore della perdita di un figlio, dal punto di vista di una madre. Un dolore immenso, nel fronteggiare il capovolgimento di quello che dovrebbe essere il corso naturale dell’esistenza. Parla di questo, “La ribelle”, il nuovo spettacolo di Giuseppe Manfridi, in prima nazionale, in scena sabato 23 gennaio (ore 21.15) e domenica 24 gennaio (ore 16.30) al Teatro Manzoni di Calenzano. La nuova coproduzione firmata da Il Teatro delle donne e La Mongolfiera, interpretata da Silvia Budri, analizza il rapporto tra una donna/madre e Dio, in una ricerca della verità che si mostra sempre più sfuggevole. Dice Manfridi: “L’interpretazione cerca di evidenziare il tormento di una donna che si trova scaraventata nell’abisso del mistero più grande, la morte. A sottolineare questi stati d’animo saranno le sospensioni tra suoni e parole, in una fusione misteriosa di percezioni. L’unico suono che la donna riuscirà a percepire sarà la voce del figlio, dell’amore”. La stagione del Teatro delle donne procede poi fino al 21 maggio. In cartellone, la novità assoluta di “Glory Hole” di Ilaria

Mavilla con Roberto Andrioli e la regia di Gherardo Vitali Rosati, le “Relazioni Pericolose” liberamente ispirate al romanzo di Choderlos De Laclos con Elena Dragonetti e Aldo Ottobrino, e la nuova versione di “Donna non rieducabile” di Stefano Massini con Elena Arvigo, su Anna Politkovskaja. Nel programma, anche una ricognizione sul tema della guerra affrontato da due diversi autori: Gianfranco Berardi con la nuova produzione ”La prima, la migliore”, testo sulla Grande Guerra, e Ivana Sajko, autrice croata tradotta e rappresentata in tutta Europa, con “Rose is a rose is a rose is a

rose”, testo in cui si analizzano i sentimenti e i rapporti in tempo di guerra. Oltre alla stagione le attività del Teatro delle Donne comprendono: la Scuola Nazionale di Scrittura Teatrale fondata da Dacia Maraini, i corsi della Calenzano Teatro Formazione creata da Stefano Massini, l’attività di produzione, dal 2015 riconosciuta e finanziata dal Ministero per i beni e le attività culturali, l’archivio del centro nazionale di drammaturgia, una nuova rassegna di teatro emergente e quella per le scuole di Calenzano. Per informazioni www.teatrodelledonne.com, infoline 0558876581


23 GENNAIO 2016 pag. 10 Simone Siliani s.siliani@tin.it di

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ice il Corano (5:32): “Chiunque uccida un uomo, sarà come se avesse ucciso l’umanità intera”. E certamente il mondo di un poeta comprende una umanità del tutto speciale, un tesoro semantico inconcepibile con l’ordinaria razionalità, un pensiero anticonvenzionale che è il solo che può aprire significati inediti nella realtà. Così, i molto osservanti regnanti dell’Arabia Saudita e le loro corti di (in)giustizia hanno deciso di condannare a morte per decapitazione il poeta, artista e curatore d’arte saudita, d’origine palestinese, Ashraf Fayadh, per apostasia, diffusione dell’ateismo e blasfemia perpetrate attraverso le sue poesie. Si è mobilitato il mondo della cultura, soprattutto internazionale, per salvare la vita di Fayadh; molto meno la politica che continua, imperturbabile, a fare affari e alleanze con il regime di Riyād (compreso il presidente del Consiglio Matteo Renzi che, pare ma non vi sono riscontri in dichiarazioni ufficiali di Riyād, che durante la sua recente visita di Stato abbia addirittura fatto genericamente cenno al tema dei diritti umani e abbia chiesto un atto di clemenza nei riguardi di due giovani attivisti condannati alla fustigazione e a morte). Lo scorso 14 gennaio scrittori di tutto il mondo si sono riuniti in diverse città e hanno letto pubblicamente le poesie di Fayadh. Fra questi, Irish Welsh (scrittore e drammaturgo scozzese, autore di “Trainspotting”) che ha letto le poesie in un caffè di Chicago, ha auspicato che questa campagna sia in grado di “fare pressioni sui governi che sposano la democrazia e la libertà affinché tengano presenti questi valori quando trattano con l’Arabia Saudita”. L’appello a favore di Fayadh firmato da oltre 350 scrittori e intellettuali (fra i quali i premi Nobel Orhan Pamuk e Mario vargas Llosa) è stato inviato a Obama, Camerom e al ministro degli esteri tedesco e chiede la sospensione dell’Arabia Saudita dal Consiglio per i Diritti Uma-

Per la vita di un poeta Asilo: Stare in fondo alla fila. Ricevere un boccone di pane. Resistere! Qualcosa che tuo nonno era solito fare. Senza saperne la ragione. Il boccone? Tu. La patria: Un documento da mettere nel portafoglio. Denaro: Carta con impresse immagini dei leader. La foto: il tuo sostituto in attesa del tuo ritorno. E il ritorno: mitologica creatura... uscita dai racconti di tua nonna. Fine della prima lezione. .... ni dell’ONU. Fra i sottoscrittori dell’appello la scrittrice Priya Basil (inglese di origini indiane, fondatrice del progetto Authors for Peace e autrice del recente “Profumo di spezie proibite”) ha letto all’evento organizzato dal Festival internazionale di letteratura di Berlino la poesia di Fayadh “I baffi di Frida Lido Contemori lidoconte@alice.it di

Kahlo” che dimostra come “la sua poesia non possa essere in alcun modo condannata perché può essere letta con molti diversi significati”. Noi di Cultura Commestibile ci vorremmo unire idealmente a questa campagna per la vita di Fayadh pubblicando qui alcune righe di una sua poesia:

Il migliore dei Lidi possibili Il pifferario di Cybersburg

Disegno di Lido Contemori

Didascalia di Aldo Frangioni


23 GENNAIO 2016 pag. 11 di

Chiara Ulivi

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er un caso mi trovo da qua (New York) a leggere un interessante articolo di Roger Abravanel sul Corriere della Sera del 18 gennaio sulla scuola, e da genitore utente del sistema scolastico italiano e ora temporaneamente di quello statunitense, mi affiorano alcune riflessioni e osservazioni che vorrei condividere “a rate” con i lettori di CuCo. Il tema è una recente circolare del ministero della Pubblica Istruzione in cui si sollecitano gli istituti scolastici ad una maggiore flessibilità di proposte, per stimolare e valorizzare gli studenti migliori, pensando a programmi specifici e percorsi individualizzati. Gli studenti non sono tutti uguali e la scuola dovrebbe prenderne atto, valorizzando le competenze di ognuno. Pare, e non stento a crederlo, che si sia scatenata la polemica intorno alla possibilità che si facciano distinzioni e si creino magari classi di serie A e classi di serie B, separando studenti eccellenti e studenti “somari”. Il sistema italiano ha una gloriosa struttura, sebbene erosa da numerosi tagli di bilancio e di personale, che è nata per sostenere gli studenti che hanno bisogno di un aiuto in più. Doveroso, va da sé, in un sistema che prevede l’istruzione obbligatoria e che crede in questa come uno strumento di emancipazione da ogni situazione di svantaggio da cui ci si trovi a partire. Detto questo aggiungo però che se il Ministero ha deciso di emanare una circolare per spingere alla valorizzazione dei talenti, è perché sin dalla scuola primaria non esiste alcuna riflessione intorno al tema di quegli studenti che presentano competenze particolari in una o più discipline. Il concetto è lo stesso da sempre: Sei bravo a scuola? Buon per te. Sei in grado di cavartela da solo. Lasciaci sostenere chi ha bisogno di essere aiutato. Di per sé il discorso non sembra fare una piega. Si dà per scontato che un bambino di 6 anni sia in grado di gestire in maniera proficua i propri talenti, così come l’eventuale e probabilissima noia che si troverà ad

La scuola e i talenti Da Firenze a New York (parte 1)

affrontare, nonché le relazioni con i compagni: gli si chiederà probabilmente infatti di occuparsi di chi è indietro, mettendolo nella scomoda posizione di “quello bravo” che fa l’aiutante della maestra. Il risultato molto spesso è che il bambino perde interesse nei confronti della scuola e reagisce in vari modi: può rifiutare la scuola stessa e l’apprendimento può essere paradossalmente compromesso, così come può diventare anche un problema serio per la classe. Il bambino che si annoia può chiudersi in se stesso e attuare meccanismi di protezione o di protesta, oppure può minare il lavoro in classe con atteggiamenti indisciplinati Massimo Cavezzali cavezzalicartoons@hotmail.com di

S cavez zacollo

e irriverenti. Ecco che interviene allora lo psicologo privato a cui la famiglia si rivolge perché il bambino, che pure sembra tanto intelligente, non ha più voglia di andare a scuola e magari è anche diventato il “bambino terribile” della classe. Lo psicologo può darsi che rilevi che il bimbo appartiene alla casistica dei cosiddetti “gifted and talented”, definizione che si stenta a tradurre in italiano ma che risponde a “talentuosi” o “dotati”, con un’accezione premiale che alle nostre orecchie suona presuntuosa e finanche imbarazzante. Il genitore si troverà dunque felice di avere un bimbo talentuoso, ma anche in difficoltà perché dovrebbe

trasformare il problema attuale in opportunità, e la scuola certo non saprà essergli di aiuto perché in buona parte insegnanti e dirigenti sono del tutto fuori dalla tematica e stentano a credere che essere “talentuosi” possa portare dei problemi. Non so ancora se la scuola americana sia migliore o peggiore di quella italiana, di sicuro però avere dei talenti non è cosa che qua passa inosservata e i bimbi sono stimolati a mettere a frutto le proprie abilità in tutti i sensi: dalle arti alle scienze, alle competenze sportive e motorie, alla letteratura... Il tema del bimbo “talented” qua non è tabù, anzi! Forse il livello di competitività e performance spesso richiesto (ma di cui noi ancora, a dire il vero, non abbiamo fatto esperienza diretta) a noi europei suona un po’ strano, soprattutto quando si parla di bambini piccoli. Vorrei proporre dunque una serie di riflessioni intorno al tema scuola e valorizzazione dei talenti, visto dai due lati dell’Oceano, sulla base della semplice osservazione di quello che i miei due bambini fanno nella scuola pubblica di New York che stanno frequentando.


23 GENNAIO 2016 pag. 12 Maria Mannelli cf2627@yahoo.it di

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opo che l’amore tra maschi è stato sdoganato nei film ormai da anni, ora è la volta dell’amore lesbico a spopolare sugli schermi, tanto da far pensare ad un filone di moda da cavalcare finchè solletica la curiosità degli spettatori. Anche in Italia si sono cimentate recentemente in questo ruolo due attrici nostrane che vanno per la maggiore e che finora si erano caratterizzate in ruoli di seduttrici di maschi, tanto per dire come il tema dell’amore fra donne vada per la maggiore e sia diventato quasi un banco di prova per attrici di grido. Diciamo subito che in Carol la protagonista è grandiosa e vale da sola il prezzo del biglietto. Di Cate Blanchett non si sa più cosa dire per commentarne la bravura e la versatilità. Qui interpreta una signora dell’altà società americana negli anni ’50, sposata, con figlia piccola, il cui matrimonio è agli sgoccioli a causa della sua inclinazione verso il proprio sesso. Donna bellissima, elegante, di gran fascino, colpisce al cuore una giovane commessa di un grande magazzino a cui basta venderle un giocattolo per rimanere preda di ammaliamento. Da quando la vede la prima volta, la piccola rimarrà per tutta la durata del film con gli occhi (belli) sbarrati dall’ammirazione e lascerà perdere il banale giovanotto con cui viveva e che la voleva sposare. Meglio, molto meglio seguire la ricca signora in un’avventura on the road che le vede allontanarsi da casa in un viaggio verso il nulla, se non la passione reciproca. Ma non si possono lasciare a lungo dietro le spalle i doveri e le convenzioni, c’è sempre un guastafeste: nella fattispecie, il marito della signora, che dopo averla supplicata inutilmente di ritornare a casa (anche lui l’ama disperatamente), vuole il divorzio togliendole la figlia per indegnità morale. Eccoci al dunque, per Carol: che fare? Rientrare nei ranghi, per ottenere l’affido congiunto o seguire il cuore e la passione? La seconda. Carol non rinuncia a vivere secondo le proprie inclinazioni e, con la morte nel

Carol, femme fatale versione lesbo cuore ma fiera e coraggiosa, sceglierà di esprimere se stessa senza compromessi. Che dire del film. E’ un melodramma il cui merito maggiore (oltre alla Blanchett) è la ricostruzione perfetta, quasi una parodia, dell’atmosfera e della filmografia americana di quegli anni, a cominciare dagli abiti, pellicce, gioielli, cappellini, guanti, foulard indossati dalla protagonista con splendido e voluto atteggiamento alla Lana Turner; dove case, auto e musiche dell’epoca fanno

Francesco Cusa info@francescocusa.it di

Carol” di Todd Haynes è un film noioso ed estetizzante che deve la sua fortuna ai magnetici volti di Cate Blanchett e Rooney Mara. La magnifica, quasi maniacale, preziosa ricostruzione degli anni ’50, gli artifici della macchina da presa, rendono il film un prodotto sofisticato, decorato di piccole perle. Tali sono gli squarci sul natale di quegli anni, le scene girate in automobile, la bellezza dei capi d’abbigliamento (sublime la maglietta rosa indossata da Rooney Mara che la fa assomigliare in maniera impressionante a Audrey

da perfetta cornice; sigarette sempre in bocca e cocktail in mano quasi in ogni scena; l’amore contrastato da filo conduttore. La femme fatale è trionfante laddove il topos della passione proibita vorrebbe che nell’America bacchettona di quel periodo la madre fedifraga si sacrificasse per amore della figlia o almeno fosse raggiunta da una qualche punizione (Anna Karenina docet, e non era neppure lesbica). Il tema dell’omosessualità inaccettata negli USA anni ‘50,

ma dalle pulsioni comunque irrefrenabili a costo di scardinare l’impianto familiare e sociale, sembra essere caro al regista Todd Haynes che lo aveva rappresentato qualche anno fa con lo stesso malinconico sguardo in Lontano dal Paradiso, con, anche lì, una protagonista di prima grandezza, Julianne Moore (ma dove era il marito ad essere gay). A maggior ragione, c’è da chiedersi quale sia l’interesse di questo ultimo film a parte la raffinata ricostruzione d’ambiente, visto che la storia non esprime granché di nuovo, al riguardo. Anticipatrice e coraggiosa, invece, fu la scrittrice Patricia Highsmith che compose veramente nel lontano 1952 il romanzo da cui è tratto il film; ma dovette pubblicarlo sotto falso nome.

L’estetica noiosa Hepburn). Lentamente, sotto la superficie, scorre la trama dei sentimenti, come un plasma denso, a percorrere vecchie tubature incrostate dalla norma e dal perbenismo borghese di quegli anni. Questo è al contempo il pregio e il limite del lavoro di Todd Haynes, il quale illustra indossando dei guanti per non sporcarsi le dita. Certamente occorre una grande capacità registica per saper rendere, nella stasi seduttiva degli sguardi, il fremito di una passione

senza limiti, costretta negli ambiti angusti del contegno sociale; ma al di là di questo non si procede. Pur rispettando la poetica di “Carol”, è pur vero che si esce dalla sala con una certa pesantezza alla testa, lievemente storditi, come dopo una visita alla gioielleria in qualità di distratti ospiti. La mancanza d’una partecipazione emotiva che non sia figlia dello stupore contemplativo, rende alla fin fine sterile la trama e giustificabile qualche innocente sbadiglio.


23 GENNAIO 2016 pag. 13 Giovanni Zorn g.zorn@agrimabientemugello.it di

S

ono in cima, in piedi sul masso triangolare che è la vetta del Capanne. Quello che riesco a vedere a tratti tra i nuvoloni che corrono alla mia altezza mi emoziona dandomi per un attimo una sensazione di pienezza totale. Sono sudato, in maglietta ed il freddo intenso che mi coglie mi consiglia di ripartire il più rapidamente possibile. Penso col sorriso che mi aspetta una picchiata di 1000 metri fino al mare. All’inizio devo porre grande attenzione per non perdere gli appoggi tra i massi smossi e sulla cresta esposta, poi, arrivato alla sella di Malpasso, prendo velocità scendendo verso Pomonte. Non lo ho deciso, ma mi accorgo che di nuovo sono al massimo; i piedi balzano a cercare gli appoggi più sicuri, cambio continuamente direzione per evitare massi e cespugli; la sensazione è di ebbrezza, di libertà, la cosa più vicina ai sogni di volare di bambino. Il fondo è accidentato e sconnesso e mi devo concentrare sul sentiero, solo per rapidissimi istanti posso lanciare un’occhiata intorno. Una roccia verticale proprio accanto al sentiero ha un foro ovale, rallento un attimo per guardare attraverso questa finestra naturale da cui scorgo un piccolo tratto di mare chiazzato tra i riflessi del sole e le ombre delle nuvole; è un attimo e sono già oltre. In pochi minuto raggiungo un ripiano con qualche metro di sentiero più semplice, mi rilasso guardandomi attorno e immergendomi di nuovo in ciò che mi circonda: a destra un caprile con la sua cupola di ciottoli grigi circondato da un recinto di pietre e da felci, a sinistra il declivio cespuglioso che scende a Seccheto fino al suo mare blu intenso. Il sentiero dietro il caprile è di nuovo stretto e accidentato; una serie di saliscendi tra cespugli pungenti e rocce impervie mi porta al Colle della Grottaccia e al Monte Orlano, sono pochi ancora gli attimi in cui posso distrarmi per guardarmi intorno. Inizia la discesa finale ed il mare si avvicina rapidamente, cresce l’enfasi e ancora accelero spingendo nei piccoli ripiani e balzando disordinatamente nei tratti più

Sulla Grande Traversata Elbana (seconda parte)

ripidi; perdo un appoggio e mentre sto cadendo e sento già il sapore del sangue in bocca, riesco a riprendermi appoggiando una mano dove capita; è un cespuglio di ginestra spinosa che mi provoca un dolore profondo alla mano. Riprendo con un po’ più di prudenza; il percorso, adesso immerso nella macchia di erica e corbezzolo, ha ancora tatti scoscesi e sconnessi, a complicare le cose le radici sporgenti delle piante. Finalmente sbuco sull’ampio sentiero lastricato, che in poche centinaia di metri arriva al paese; mi rilasso ma aumento di nuovo l’andatura fino al ponticino che segna la fine (o l’inizio) della GTE. Penso a quando ci giunsi 2 anni fa alla fine dell’intera traversata, oltre 50 km e 3000 metri di dislivello positivo, ricordo la sensazione di pienezza per quel viaggio attraverso l’intera isola e la soddisfazione per averlo fatto in meno di sei ore; sogno di farlo nuovamente impiegandoci un tempo minore.


23 GENNAIO 2016 pag. 14

Fotografare i cantieri

Roberto Mosi mosi.firenze@gmail.com di

È

di particolare interesse seguire i periodici appuntamenti della Mostra “Tracce”, la Galleria fotografica sulla strada, promossi dalla storica Biblioteca del Palagio di Parte Guelfa. La Biblioteca del centro di Firenze ha aperto uno spazio espositivo insolito: i segnalibri a disposizione dei lettori con cui propone periodicamente una riflessione sul volto delle strade in città. Manifesti, graffiti, segni lasciati dal tempo, manufatti di arredo urbano ma anche cantieri aperti con recinzioni e segnaletica. Tracce di passato e presente che solo l’occhio attento ma anche divagante del fotografo curioso, può cogliere. L’iniziativa fa parte di una particolare vocazione di questa istituzione, che vede periodici incontri di lettori appassionati della fotografia e promuove un’ampia selezione di testi di storia e di critica fotografica, per saperne di più sulla scelta del soggetto, sulla messa a fuoco e sul mosso, sull’inquadratura e sul fare fotografia oggi. Nei primi due mesi del 2016 l’appuntamento di “Tracce” è con Roberto Mosi, appassionato di fotografia, che ha presentato otto foto destinate a far capolino fra le pagine dei libri presi in prestito alla Biblioteca. Il tema di “Tracce” riguarda questa volta i “Cantieri” aperti per i lavori per la nuova tramvia e per il sottopasso della TAV, che hanno messo sottosopra ampie zone della città. Come presentare il mondo sconvolto dai lavori nelle diverse strade fiorentine, dove sono aperti cantieri? L’autore segue con i suoi scatti il punto di vista del cittadino-pedone, impegnato ad affrontare i percorsi dei marciapiedi dissestati, e scorge i lavori in corso dalle reti metalliche che circondano i cantieri, dagli squarci nelle reti di plastica che fanno intravedere operai e macchine in azione. Nel paesaggio sottosopra della città che genera sentimenti di angoscia, vi sono punti di riferimento legati a presenze storiche, come la cupola del Brunelleschi che s’intravede, lontana, da via dello Statuto, il campanile dell’antico convento di San Donato, l’alta

ciminiera, sopravvissuta, della fabbrica della Fiat, in via di Novoli, la mole del “grattacielo” di piazza Vieusseux. Le foto sono, naturalmente, in bianco e nero, nelle varie tonalità del grigio, per riprendere il colore delle longarine di ferro, del cemento, dei monti di terra, delle rotaie

e altro. Alcuni scatti sono dedicati anche agli avvisi per i pedoni, le varie “imposizioni”: “Pedoni a destra”, “Vietato il passaggio”, “Punto di raccolta”, ecc. Una foto mostra uno squarcio in una rete dalla quale s’intravedono rotaie del tram già in posa e la

Sara Chiarello twitter @Sara_Chiarello

Il Dante di Virgilio

di

“Fate movimenti chiari, divisi in piccoli frammenti, non sono fotogrammi, ma incrinature, c’è sempre movimento dentro il corpo, non c’è la posa statica. Le braccia si allungano, cedono, crollano, e poi riprendono da zero, dal movimento che hanno appena abbandonato. Osate”. Sono queste le parole del danzatore e coreografo Virgilio Sieni, rubate a un video del suo ultimo lavoro, Divina Commedia Ballo 1265, spettacolo evento, andato esaurito in pochissimo tempo, che è stato in scena nel Salone dei Cinquecento a Firenze a fine dicembre, interpretato da 138 cittadini e 12 danzatori professionisti. “Una coreografia totale”, la definisce Sieni, che celebra i 750 anni della nascita di Dante. Nelle spettacolo, trasmesso anche da Rai5, le tre cantiche - Inferno, Purgatorio e Paradiso - diventano altrettante parti coreografiche di un viaggio. Assistiamo a un risveglio in penombra di selva umana, faticoso e obbligato, che si fa massa di persone, intente a percorrere il salone in gruppo per trentatré volte (quanti sono i canti di ogni cantica). Segue un uomo solo. Nell’Inferno, si striscia, ci

si abbraccia, si viene trascinati, a piccoli gruppi, mentre una voce pronuncia trentatré numeri, sulla musica del percussionista Michele Rabbia. Il Purgatorio si rivela luogo di sosta, inondato di oggetti del quotidiano, lasciando il passo al Paradiso, crocevia di abbracci e gesti agitati, luogo che Sieni fa risplendere di imperfezione umana. La chiusa è di un’anziana signora. Gli in-

sede stradale ricostruita, che fanno sperare che il futuro volto delle strade della città non sia troppo lontano e che un nuovo appuntamento di “Tracce” lo possa documentare presto, con il rinnovato dono dei segnalibri per i lettori della Biblioteca del Palagio di parte Guelfa.

terpreti - in cammino, con passo dolente, sospeso - tracciano così un itinerario spirituale in cui la danza spoglia l’uomo dalla materia vestendolo di forma. Una pièce corale, che si concentra però sui singoli gesti, belli nelle tensioni chiaroscurali, e sul microcosmo di ognuno di noi, che siamo partecipi di un’imperfezione e di una diversità, in fine, sublime.


lectura

dantis

23 GENNAIO 2016 pag. 15

Disegni di Pam Testi di Aldo Frangioni

Io sarò delle bolge narratore, un pozzo dal colore grigio scuro ove al fosso primero con ardore,

gente di penna con parecchia bava, leccatori di piedi e deredani, stavano sotto la sferzata grava

Accanto a lui, con faccia da sgomento, mielatico di nome e di prospetto, con flemma riceveva lo tormento.

con le verghe del cànapo più duro, con tutta forza i diavoli frustava color che avean lodato con spergiuro

‘e vidi un Bruno, che su suoi divani, genuflesso ai forti del momento, ricevette prebende a piene mani.

Strano parve trovarci dirimpetto amanuense venuto da Milano fustigator di tutti con rispetto, trovarlo fra i dannati era assai strano, forse anche lui, senza darlo a vedere, sotto sotto egl’ era un gran ruffiano. All’incontro ci fece ben godere, sistemato a quel posto senza sbaglio, un saccentone d’odiabili maniere giustamente subiva il suo travaglio l’osannatore d’una novella setta che a tutti lei volea metter bavaglio.

Canto XVIII 8° cerchio 1a bolgia

I ruffiani, violentemente frustati dai diavoli, si battono. Sono moltissimi e tra questi par di intravedere Bruno Vespa, Paolo Mieli, Marco Damilano, Marco Travaglio.


23 GENNAIO 2016 pag. 16 Cristina Pucci chiccopucci@libero.it di

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ra le attività dell Casa della Memoria di Roma si segnala la presentazione di libri che propongono interessanti testimonianze del passato della nostra Nazione, venerdì scorso è stata la volta di “America, nuova terra promessa “ di Gianna Pontecorboli, ( Brioschi Ed) con prefazione di Furio Colombo, presente insieme all’autrice e alla giornalista Sabina Minardi, coordinati da Italo Pattarini in qualità di Presidente della Federazione Italiana Associazioni Partigiane RomaLazio. Gianna Pontecorboli è una giornalista genovese, a lungo corrispondente estera di riviste e quotidiani italiani, all’incirca 35 anni fa, sbarcata a New York, conobbe varie persone di origine italiana e, fra queste, molti ebrei che erano fuggiti dalle persecuzioni dell’Italia fascista. Incuriosita iniziò a raccogliere alcune loro testimonianze, ma, allora, per molti di essi parlare di quella fuga era come riaprire una ferita troppo fresca e non insisté. Dopo molti anni ha rispolverato la sua idea ed ha intervistato una trentina di persone ricostruendo la storia loro e quella del loro forzato e salvifico esodo, è da questo lavoro, durato 5 anni, che nasce il libro di cui si parla. Gli ebrei che fuggirono in America appartenevano soprattutto all’alta borghesia, professionisti ed intellettuali che avevano danaro e contatti necessari per fare un vero e proprio salto nel buio. Fra le circa 2000 persone che fecero questa scelta c’erano comunque anche giovani e rappresentanti della piccola e media borghesia. La loro integrazione non fu certo facile, gli italoamericani li consideravano ebrei e gli ebrei li vedevano come italiani, e all’epoca, nella società Wasp, regnavano ampi pregiudizi verso gli uni e gli altri; gli ebrei americani poi rimasero davvero molto indifferenti e freddi, come sconcertati da questi strani italo-ebrei che non parlavano una parola di Yiddish. Ovvio che fu per molti necessario reinventarsi per ricostruire stabilità economica e identità professionale. Gli avvocati e i medici furono costretti

“America, nuova terra promessa”

ad adeguare i loro percorsi di studio, i professori ebbero particolari difficoltà per la numerosa presenza di docenti arrivati dalla Germania e dagli altri paesi invasi dai nazisti. Come si può capire le maggiori difficoltà le ebbero i più anziani, i giovani trovarono abbastanza presto la loro strada. Per superare il senso di estraneità e la nostal-

gia, formarono una comunità molto stretta ed affiatata, tutti si aiutavano come potevano e cercarono di andare ad abitare vicini fra sè e vicino a famiglie amiche. La maggior parte degli esuli rimase a New York, primo approdo per tutti. In un secondo momento alcuni si trasferirono a Boston, a Washington, in California o in Florida, ma

Michele Morrocchi twitter @michemorr di

In tempi di papisti entusiasti che non ti aspetti, leggersi le vite dei Papi attraverso le storie, inventate, calunniose, apocrife, dei cronisti lungo il corso dei secoli può essere un’operazione molto utile e interessante. Per questo, Vite efferate di Papi (Quodlibet 2015) di Dino Baldi è volume attualissimo pur narrando storie da San Pietro a Pio IX, raccolte col rigore del filologo ma scritte con la penna del romanziere. Un bel tomo la cui mole non deve spaventare vista al scorrevolezza del testo e le appassionanti vicende narrate. Papi ritratti dai propri contemporanei nei loro vizi, nei loro crimini e nelle meschinità delle storie che hanno sempre accompagnato la corte pontificia. Storie inventate, romanzate, degne comunque di passare alla storia perché narrate. E si badi che Baldi, col rigore che gli è proprio, usa fonti cattoliche, mai luterane, non cede quindi alla tentazione di dar voce ai

alla fine degli anni settanta la maggioranza abitava ancora a New York e nella sua periferia. L’autrice da spazio agli straordinari successi degli scienziati Robert Fano e Andrew Viterbi e del giudice Guido Calabresi, ma anche a testimonianze di persone qualsiasi, come le mogli rimaste nell’ombra, o di quelli che, pur facendo carriere più modeste, dimostrarono una incredibile determinazione nell’affrontare e superare difficoltà non indifferenti. L’avere mantenuto legami con la madre patria non fu irrilevante al fine di far aprire, nel dopoguerra, le porte dell’America agli Italiani. Molti degli esuli italiani del fascismo sono morti, ma l’autrice aveva iniziato a raccogliere le loro testimonianze molti anni fa e questo le ha permesso di ascoltare davvero molti di loro. Le loro voci vivono nei nastri del suo registratore.

Vite peccaminose al soglio di Pietro

nemici della Chiesa, dando così alibi ai suoi eventuali critici. Storie di disumana bassezza, di lussuria, delle peggiori aberrazioni umane ma anche

di giustizia secolare, torture e decapitazioni compiute dagli eredi di Pietro che si mischiano alle grandi e sovrumane bontà, alle mortificazioni di carne e spirito nel nome del Signore, tanto che, nella lettura si è presi spesso dal dubbio che siano proprio i cosiddetti papi “buoni” a esser passati alle cronache come i più efferati tra gli efferati.


L immagine ultima

23 GENNAIO 2016 pag. 17

Dall’archivio di Maurizio Berlincioni berlincioni2@gmail.com

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over salutare con affetto e con sgomento la scomparsa del grandissimo Ettore Scola che si è spento a Roma all’età di 84 anni. Un giorno del lontano 1986 ho ricevuto una inaspettata telefonata da parte della figlia Paola che mi invitava a Cinecittà per partecipare alle riprese del film “La famiglia” in qualità di fotografo ritrattista. Si trattava di realizzare l’album di questa famiglia borghese che abitava nel quartiere Prati. Credevo fosse lo scherzo di qualche amico buontempone e invece si è ben presto rivelato per quello che era, una piacevolissima realtà. L’esperienza di alcuni mesi di lavoro con una persona della levatura di Ettore è stata per me davvero indimenticabile. Ero molto attratto dal suo impegno sociale e politico e il fatto che non amasse la mondanità che ci si sarebbe aspettati da un regista già molto famoso me lo ha reso subito particolarmente vicino. Nei suoi film ho sempre trovato una grande forza ma anche un’affettuosa malinconia. Era uno squisito narratore della vicenda umana del nostro paese, spesso con una cifra ironica e umoristica. Questa immagine ce lo mostra sul set del film, seduto sull’automobilina dei ragazzi nel corridoio dell’appartamento durante un momento di relax tra una ripresa e l’altra.

Ettore Scola maestro imbarazzato

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hi ha conosciuto Ettore Scola ne parla come di una persona schiva, mite, lui si diceva imbarazzato. La foto di Maurzio Berlincioni che pubblichiamo pare confermarlo. Di sicuro Ettore Scola ha rappresentato molto di più di un pezzo di cinema italiano. Ha descritto, raccontato e spiegato il Paese meglio di tanti studi e testi accademici. Impossibile ricordare i tanti titoli che ci ha lasciato un regista che è stato Maestro senza essere personaggio. In questi giorni di dibattiti sulla famiglia, su Unioni Civili e diritti civili mi piace ricordare qui Una giornata particolare. Probabilmente il film più antifascista (molto di più dei tanti titoli militanti) che abbia mai visto. Alla fine del film non credo che nessuno possa aver molti dubbi sulla “bontà” della famiglia tradizionale. A noi piace ricordarlo con questo scambio tra Sofia Loren ed il figlio preso dalle prime pulsioni, tratto da quel film “Lo sai che si può diventar ciechi? Chiedilo al viceparroco, e senti quello che ti dice!” “Ma qual è il viceparroco? Quello mezzo cieco?” (Michele Morrocchi)


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