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Con la cultura non si mangia
64 231
N° 1
La tramvia sotto il centro di Firenze
è una boiata pazzesca editore Nem Nuovi Eventi Musicali Viale dei Mille 131, 50131 Firenze Registrazione del Tribunale di Firenze n. 5894 del 2/10/2012
Da non saltare
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Simone Siliani s.siliani@tin.it di
D
a un serie di trasmissioni radiofoniche da lui condotte su Rai Radio3, Giorgio Van Straten ha tratto un bel libro su otto libri che sono stati scritti e che oggi non esistono più, “Storie di libri perduti” (Editori Laterza). Un libro doloroso, questo tuo “Storie di libri perduti”. In due sensi: per noi lettori che abbiamo perso libri probabilmente importanti per la storia della letteratura; e soprattutto per gli autori che perdono una parte di sé. Alcuni di questi libri erano pronti per essere stampati (come quello di Lord Byron che lo aveva inviato all’editore), altri magari ancora non compiuti, ma per tutti il senso di un dolore lancinante per la loro perdita mi sembra il filo rosso di questo libro. In tutte queste storie c’è un senso di perdita e le storie di perdita sono sempre anche delle storie di dolore. Le potenzialità che non si sono realizzate. Per fare un esempio di attualità: per le sette ragazze morte in Spagna una parte del dolore è proprio legato al fatto che qualcosa che avrebbe avuto un suo sviluppo si è interrotto prematuramente. Questa cosa che vale per le persone in modo più accentuato, vale però per qualsiasi prodotto umano, quindi anche per un libro. In molte poi di queste storie, la perdita di un libro si accoppia anche alla perdita di vite umane o comunque a vite dolorose, ad avvenimenti terribili. In quasi tutte queste storie la perdita del libro è pressoché contestuale alla perdita della vita umana dell’autore. È un dolore che per me si accompagna sempre ad un sentimento che ha anche degli aspetti positivi, che possiamo definire della nostalgia. Sono storie così forti che ti fanno però sempre pensare che sono vite che è valso la pena vivere. In questo senso non è solo un sentimento negativo. Molte di queste sono vite drammatiche e per gli scrittori questo è frequente. Sì, è non solo perché sono scrittori, ma perché in molti casi sono persone che stanno dentro il dramma del Novecento. Come Schulz che è uno scrittore conosciuto dopo la sua morte e il fatto che il suo “Messia” sia andato
Ricordi di libri perduti perduto questo condiziona anche molto la consapevolezza del suo ruolo nella storia della letteratura del secolo scorso. Ma, raccontaci qualcosa di “Viale”, il libro di Romano Bilenchi che tu hai avuto il privilegio di leggere. Mi succede che i libri che leggo non mi restino nella memoria; ovviamente più mi sono piaciuti e più persistono. E quando persistono, sono dei lampi. Per quanto riguarda il “Viale”, ricordo che era una storia d’amore, di cui non ricordo bene neppure gli anni dell’ambientazione. Ricordo benissimo una scena dei due protagonisti che sono sotto Bellosguardo, in una piazzetta, e iniziano a salire; mi ricordo il fatto che a lui piace moltissimo la nuca di lei. Insomma sono fotogrammi e non mi sembra che nemmeno gli altri due lettori se ne ricordino molto di più. Però il libro doveva essere importante perché interrompe il lungo periodo di silenzio di Bilenchi e possiamo immaginare che non fosse convinto della pubblicazione. Certo, lui lo aveva messo in un cassetto e penso che in quel momento, dal suo punto di vista, fosse impubblicabile. Lui
era ancora sposato con la prima moglie ed evidentemente c’erano delle cose così fortemente riconoscibili che ne impedivano per lui la pubblicazione. Il silenzio di Bilenchi è legato anche ad un altro fattore che è, secondo me, il suo dissenso ideologico nei confronti del neorealismo in letteratura che la sua parte politica propugnava. Quindi, io penso che ci sia anche questo nel suo silenzio e credo che anche questo libro, scritto circa 10 anni dopo la fine della guerra, si inserisse in questa logica, avesse delle caratteristiche non inquadrabili in quel percorso. Lui da un lato non si è messo a scrivere come non era in grado di scrivere e dall’altro si era reso conto che in quegli anni magari avrebbe dovuto scrivere un romanzo sulla Resistenza e invece gli era venuta fuori una storia d’amore. Vi è poi il fatto che era un lavoro non finito perché erano due stesure diverse: la prima parte era una seconda stesura e la seconda parte era una prima stesura e non so bene neppure perché lui l’avesse interrotta. Però secondo me era un libro importante dal punto di vista dello studio di Bilen-
chi: non c’erano gli elementi, dunque, per decidere che non dovesse essere pubblicato. Anche perché Bilenchi non è Hemingway, quindi non c’era il rischio che qualcuno lo pubblicasse per specularvici sopra. La vicenda di questo primo libro di cui racconti porta in campo la tremenda responsabilità di chi, in assenza dell’autore, decide se pubblicare o meno il libro e, soprattutto, se conservare il manoscritto o distruggerlo. È il caso di Bilenchi e poi di quello che succede nella stanza dell’editore di Lord Byron e anche del marito di Sylvia Plath. Non voglio qui discutere cosa sia giusto o meno fare e non so se si possa stabile una regola rigida. Però questa è un’altra cosa dolorosa: di chi si trova a prendere questa responsabilità di uccidere o meno un libro. A dire il vero io credo che se un autore ha lasciato lì una cosa, si dovrebbe rispettare il suo volere. Prendiamo il caso di Bilenchi: un libro scritto 30 anni prima che lui morisse e lui non l’ha distrutta, quindi secondo me non si può distruggere il manoscritto. Puoi vincolarne l’utilizzo; puoi dire che non lo pubblichi come
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volume autonomo; oppure che non lo vuoi pubblicare affatto ma lo lasci consultare agli studiosi. Ma mi sembra che, distruggere una cosa che l’autore ha lasciato lì, sia una cosa inaccettabile. La stessa Maria Bilenchi la “Vita di Pisto”, che Romano non aveva più voluto pubblicare, lei non l’ha pubblicato come volume autonomo ma come un testo nelle opere complete. Io non penso che si abbia mail il diritto di distruggere qualcosa scritto da altri. A meno che non siano fatti molto personali come, ad esempio, le lettere che riguardano i due corrispondenti. Certamente non l’editore e gli altri che si trovavano nella sua stanza e che decisero di bruciare le “Memoirs” di Lord Byron. In realtà quelli pensano alla propria reputazione e quindi in quel caso non c’è proprio discussione: si tratta di persone che ritengono che la loro reputazione e anche di quella del morto (ma in quanto loro parente o comunque legato a loro in qualche modo), sia più importante del libro. E, di nuovo, anche in quel caso puoi decidere di non pubblicarlo adesso e decidere invece di metterlo in una borsa e di aprirlo fra 100 anni. Ma nella distruzione vi è qualcosa di violento e per me di inaccettabile. Sempre fiamme, spesso è il fuoco a distruggere questi libri. Certo, immagini drammatiche, con tanto romanticismo e platealità, come Gogol che, siccome il pacco intero della sua seconda parte di “Anime Morte” non bruciava, ne brucia le pagine una per una. Oggi è più facile e meno teatrale, distruggere un lavoro, basta il tasto delete. Si, ma allo stesso tempo, è più difficile distruggere qualcosa accidentalmente. In alcuni casi non è neppure possibile. C’è questa discussione sul diritto all’oblio che ha a che vedere con questo tema Ma sul fatto dell’andare perduto per sbaglio, direi che oggi è più improbabile perché è facile avere copie, backup, oppure una stampa del testo, o ancora una copia di dropbox. Uno di questi libri, forse, avremo la possibilità di leggerlo nel 2022 quando gli archivi di Sylvia Plath si apriranno e potranno rivelare qualcosa. In realtà in linea teorica quasi tutti questi libri potrebbero
Intervista a Giorgio Van Straten “cacciatore” di libri scomparsi anche riapparire. Sui libri perduti si sviluppano leggende, un po’ come sui figli dei Romanov. C’è la remota possibilità che negli archivi del KGB vi sia il dattiloscritto del romanzo di Schulz; c’è una busta depositata in una Università americana con un vincolo di non aprirla fino al 2022 dove potrebbe trovarsi “Double exposure” di Sylvia Plath; forse la vedova di Bilenchi non ha veramente distrutto il romanzo e forse ce l’ha qualche parente; forse da qualche parte il contenuto della valigia di Benjamin sarà rimasto. In realtà puoi raccontarti una speranza di ritrovamento su tutte queste storie. Tranne che nel caso di Malcom Lowry; dove però è stata trovata una prima stesura di “In the Ballast to the White Sea”. È vero che esiste una prima stesura di “Sotto il vulcano” che è molto differente da quella finale. Però la prima stesura di “In the Ballast to the White Sea” era abbandonata in un posto e lui aveva riscritto tutto il libro stando in un altro luogo e quindi non potendosi basare su quella prima stesura. E, in ogni caso, una prima stesura ci dà comunque delle indicazioni sul contenuto che avrebbe avuto, sullo sviluppo narrativo. Lui veramente è stato un seminatore di pagine. Vale però il discorso di Gogol, di cui sono rimasti cinque capitoli della seconda parte di “Anime Morte”: sicuramente Lowry non era riuscito a fare quello che voleva fare in questa prima stesura e forse, invece, sarebbe stato più soddisfatto di quella che è andata bruciata. Queste sono avventure, ricostruzioni, viaggi alla ricerca di... e quindi che poi alla fine qualcosa si trovi, dal mio punto di vista, aumenta il fascino della vicenda. Citavi ora Gogol: nella varie ipotesi sul perché della distruzione della seconda parte di “Anime Morte”,
mi sembra che tu propenda per il suo proverbiale perfezionismo che non lo rendeva mai soddisfatto pienamente del suo lavoro. Una mania forse accentuata dalla sua svolta mistica. Io penso che se lui veramente voleva fare la sua Divina Commedia – come peraltro anche Lowry – e quello che lui cercava di scrivere era il Purgatorio o il Paradiso, comunque il riscatto, le due cose andassero insieme: da un lato lui era un perfezionista, dall’altro la sua stessa crisi mistica alzava l’asticella. Però lui era perfezionista da sempre. Era probabilmente anche un po’ megalolmane. Quella di Hemingway invece sembra una storia meno drammatica. Lo stesso Ezra Pound gli dice che non ha perso un granché; anche Gertrude Stern giudica negativamente l’altra sua prova giovanile “Su nel Michigan”. Hemingway era veramente giovanissimo quando succede tutto questo; poco più di 20 anni. Quindi, per quanto precoce, penso che in larga misura i suoi lavori di quel periodo fossero davvero dei tentativi. Magari, come dimostra “Su nel Michigan” che ha trovato posto nei “Quarantanove racconti”, neppure così ignobili. La perdita, dunque, è certamente molto forte. Però la differenza sta nel momento in cui questo accade perché Hemingway ha tutte le energie intatte. Non riscriverà quelle stesse cose, che è impossibile; forse un racconto, sì, ma non certamente un romanzo. Però ha tutte le sue potenzialità intatte. Ed è tutta una storia più scanzonata. Lui, lì per lì, ci rimane malissimo, ma quando ne scrive non tanto tempo dopo, relativizza la cosa e sembra che quelli che ci sono rimasti peggio siano la moglie o il tizio che gli ha pubblicato il racconto. Perché è Hemingway: delle otto è sicu-
ramente la storia meno tragica. E che ha dei tratti anche un po’ di commedia. Questi otto libri vengono fuori da altrettante trasmissioni radiofoniche, che hai fatto facendoti accompagnare da amici ed esperti. Forse una cosa interessante da fare sarebbe dare un seguito a questa ricerca, magari con un blog o un sito attraverso il quale catturare altre storie di libri perduti. Sì, sarebbe bello. È un po’ come quando ho scritto “Il mio nome a memoria”: molte persone che lo leggevano, mi hanno scritto dicendo che anche loro avrebbero voluto raccontare la storia della loro famiglia. Mi piacerebbe raccogliere altre storie di libri veramente perduti, non libri dimenticati o non scritti. Poi c’è lo sconfinato campo dell’antichità che io ho escluso da questo mio lavoro perché ovviamente la perdita perché è talmente enorme. In questo caso, al contrario, sarebbe bello raccontare come a volte i libri sono sopravvissuti. È stato scritto un bellissimo libro su come è sopravvissuto il “De Rerum Natura”. Dei tuoi accompagnatori chi ti ha divertito di più? I differenti approcci, in certi casi stilistici, fra un capitolo e l’altro nascono anche dall’interlocutore e dalla tipologia molto diversa del loro approccio. Penso a Buffoni su Byron che ha un eloquio che sembra già scritto mentre siamo in radio, o ad uno stile spumeggiante come Serena Vitale che continuamente ti porta da un’altra parte e tu devi continuamente riportarla in un solco minimamente ordinato della storia. Forse di tutti questi quello che mi ha regalato l’aggiunta più straordinaria a quello che avevo in qualche modo già ricostruito io, è stato Francesco Cataluccio con la storia dell’impossibile recupero, attraverso il KGB in dissoluzione, dell’originale del “Messia” di Schulz. È una storia bellissima che io del tutto ignoravo. Mentre gli altri, o perché ne avevano già scritto o perché in fondo mi hanno accompagnato in un percorso che già conoscevo, ognuno dato una intensità emotiva alla storia, perché ciascuno di loro aveva un rapporto veramente personale con il libro e con l’autore. E questo, secondo me, nella trasmissione si avvertiva chiaramente
riunione
di famiglia
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Le Sorelle Marx Non c’è verso, li fanno con lo stampino al Governo. Hanno tre o quattro cliché da seguire e, che si parli della pace nel mondo o della sagra delle ficattole, sempre quelle devono usare. Così è capitato di recente presso l’Agenzia Spaziale Italiana (collocata in un paesaggio, per l’appunto, lunare a Tor Vergata nell’estrema periferia romana, terre che furon calcate dai Papa Boys di Wojtyla nel torrido agosto del 2000) di sentire il sottosegretario allo Sviluppo Economico Antonello Giacomelli, già anchorman di Canale 10, snocciolarne una serie. 1. Parlando del ritardo dell’Italia sul digitale e nuove tecnologie, parte l’immancabile metafora calcistica: “Noi in UE siamo in zona retrocessione. Al 2020 il nostro obiettivo è quello di stare in zona Champion League”. Evvai! 2. Bisogna fare squadra: “Occorre recuperare uno sguardo di Sistema Paese”. Non c’è dubbio, è imperativo! 3. L’eccellenza, ça va sans dire: “Scommettiamo su progetti d’eccellenza come questo. Il Governo vi è vicino”. Certo, ma come è noto,
Spazio chiama Terra
Vicino non fa provincia. E poi giù ettolitri di retorica sulla mancanza di visione sistemica del Paese in contrasto con una certa vocazione individualistica dell’Italia. Ora, la critica all’individualismo
pronunciata da uno che sta nel governo di Renzi, non è tanto credibile, ma sia pure! Ma si può lamentare queste cose, dimenticando da dove si parla? Siete lì, e Giacomelli anche da parecchio, dunque fate. O no?
Bobo
Lo Zio di Trotzky
La soluzione maremmana
Evento internazionale a Firenze il prossimo 8 aprile con dialogo fra Olivier Roy, intellettuale raffinato esperto di Islam, e l’on. Andrea Manciulli, politico di razza, cui l’Italia delega le relazioni con la Nato e autore del rapporto Nato sul terrorismo jiadista. Siamo in grado di anticipare, per i lettori di Cultura Commestibile, gli abstract degli interventi dei due autorevoli relatori. Roy: Ne pas chevaucher le Jihad et les immigrants. Attaquer l’Etat islamique en Syrie et en Irak va bien, il peut être utile. Mais je voudrais poser deux questions. Il manque une stratégie pour le poste. Qu’estce donc que nous allons Mossoul, Fallujah? Nous partons? Ils seront de retour. Nous restons? Bonne chance. Reste alors le problème de la radicalisation de la jeunesse. Manciulli: Oui, égalité, fraternité, … mais une scie (francesismo per dire, una sega deh, ndr). Et surtout... le jambon. Si perchè, caro il mio Oliviero, io una strategia per distruggere una volta per tutte
questi barbuti jiahdisti ce l’avrei. Utilizziamo le forze Nato. Piazziamo una decina di incrociatori davanti alla Libia e incominciamo a bombardarli con mortadelle e prosciutti di maiali di Parma, e poi vorresti vedere che stanno più calmini! Poi facciamo preparare alla Festa dell’Unità di Piombino qualche quintale di pappardelle al cinghiale, le carichiamo sui bombardieri a Pisa e andiamo a spiaccicargliele tutte sulla Siria che così non si rialzano più e gli infestiamo il terreno a questi islamisti de mes boules. Poi facciamo alzare in volo uno stormo di aerei agricoli da Grosseto e irroriamo tutto l’Iraq con il fattore Rosso, cioè qualche damigiana di Rosso di Montalcino. Infine si fa partire la squadriglia di caccia dalla base di Grosseto e mitragliamo tutta la zona con delle salsiccine di cinghiale belle tirate che sono un bijoux. Fra maiale, cinghiali e alcool bonifichiamo tutto il Medio Oriente! Altro che Calderoli con il maiale al guinzaglio! Noi, caro Oliviero, si fa le cose industriali! Comprenez-vous?
I Cugini Engels
Egemonia
“Istruitevi perché avremo bisogno di tutta la vostra intelligenza” recitava l’Ordine Nuovo gramsciano, probabilmente una delle poche eredità rimaste del segretario martire nel nuovo PD dell’era Renzi, che sforna scuole di formazione, anche se per ora son passate più alla cronaca per i mormorii al togliersi della giacca della ministra Boschi che per le riflessioni di alta politica; ma si sa che la formazione è un percorso lungo. Dunque nemmeno il PD fiorentino poteva rimanere senza la sua scuola di formazione politica; 5 appuntamenti dai titoli impegnativi: etica dei beni comuni, col sindaco Nardella, Gramsci, La Pira, la storia della Costituzione e i suoi valori di “sinistra”. Quello che però colpisce, per tornare a Gramsci, leggendo il volantino è l’egemonia culturale che traspare in questa scuola. Né ex PCI né ex DC sono questa volta a farla da padrone ma niente-popò-di-meno-che il nostro Eugenio Giani. Come altro leggere, se non come egemonia gianiana, quel “con buffet” che accompagna le iniziative su Gramsci e La Pira? Una conquista delle casematte del Partito, la tartina come sovrastruttura che determina la struttura politica della federazione fiorentina; la lodevole iniziativa come parola d’ordine dell’alleanza tra ceti produttivi. Tutti bardati di fascia, i democratici fiorentini, verso il sol dell’avvenire.
Le avventure di Nardellik “Ragazzi allora si fa come dico io. Facciamo un po’ di teatro e ci divertiamo. A questi fiorentini bisogna pigliargli un po’ pe’ i culo altrimenti un mi diverto più. A Roma son tutti a rompere le palle: Matteo stai attento qui, Matteo non fare questa. Matteo ma come si fa con la Merkel? E con i Marò? Ora vi faccio vedere come si fa a divertirci” Questo era il tono della riunione segreta che si stava svolgendo nel palazzo del Governo di Sottofaesulum. E il Servitor Cortese era preoccupato. Quando Leader Minimum era di “ruzzo bono” poteva succedere di tutto. E infatti ecco che dopo alcune pacche sulle spalle il Leader Minimum disse:” Ovvia due tunnel son troppi. Un ti sembra Dariuccio? Te quale tu vorresti fare? Quello della Tav o quello della Tranvia sotto il centro?”. Il Servitor Cortese fu preso alla sprovvista ma un minimo di raziocinio prevaleva ancora e disse:” O Matteuccio per la Tav e s’è belle speso 300 milioni di euro e per quello di’ tram nemmeno uno. E poi quello di’ tram passa proprio, ma proprio sotto il centro storico. Facciamo la Tav e facciamo passare i tram sui viali che si risparmia un monte di soldi”. A queste parole il Leader Minimum guardò con sguardo tagliente il Servitor Cortese e disse:” Lo sapevo che potevo contare su di te. Allora basta Tav e avanti con i’ tunnel di’ tram.” La riunione si concluse con il Servitor Cortese accasciato sulla sedia di pelle della stanza di Clemente VII. Come avrebbe fatto a fare il Sindaco di Sottofaesulum con i cantieri del tunnel del tram in piazza della Repubblica? Gli toccava a togliere tutti i suoi amati Dehors. Per fortuna passava nei paraggi Nardellik. Che trovò la soluzione. “Alla stampa diciamo che per ora non si fa niente ma si studia tutto sia la Tav sia il Tram. E magari anche che è meglio lo Stadio a Campo di Marte invece che alla Mercafir, e che per l’aeroporto se ne riparla fra poco.” Insomma prendiamo tempo tanto fra qualche giorno il Leader Minimum si scorda di tutto. Vi ricordate di quando voleva spostare la stazione della Tav sotto il viale Strozzi?”. Il Servitor Cortese si sentì un poco sollevato. Ma non tanto. In fondo era lui il sindaco della città di Sottofaesulum. E anche se prendeva ordini dal Leader Minimum la faccia era la sua. E questa vicenda non la poteva risolvere con una sviolinata.
2 APRILE 2016 pag. 5 Danilo Cecchi danilo.c@leonet.it di
N
el giorno di Natale del 2015 muore a Tenerife, in un incidente stradale, il fotografo belga Marc Lagrange (1957-2015). Lagrange appartiene a quella categoria di fotografi che colpiscono da sempre l’immaginario collettivo, un po’ come Helmut Newton, Patrick Demarchelier, Steven Meisel o Peter Lindbergh, per non citare che i più noti, e che rappresentano un’idea di fotografo molto invidiata, ambita e desiderata, specialmente da parte dei giovani aspiranti professionisti del settore. Sono tutti fotografi che, come Lagrange, si muovono in un mondo dorato, in ambienti raffinati ed alla moda, circondati da belle donne, abiti eleganti, automobili di lusso, personaggi noti e potenti. Un mondo che i fotografi nelle loro immagini si preoccupano di raffigurare in maniera niente affatto realista o peggio ancora critica, ma al contrario, in maniera adulatoria, celebrativa, esaltante. Un mondo di cui forniscono una versione addirittura falsata ed esagerata, popolandolo di creature femminili sempre eleganti, distinte e provocanti, maliziose ed ammiccanti, seducenti ed un poco ambigue, abbigliate con cura, ma più spesso nude o seminude, collocate in ambienti accuratamente costruiti ed arredati e sapientemente illuminati. Fotografie che assomigliano più al cinema che alla fotografia, realizzate grazie ad una folta équipe di truccatori, parrucchieri, sarti, scenografi, elettricisti ed assistenti, fotografie che mischiano moda e glamour, fashion e pubblicità, ma che hanno come comune denominatore l’erotismo, un erotismo diffuso e palpabile, sempre presente, sia che si parli di scarpe o abiti, occhiali o gioielli, automobili o profumi. Le donne di Lagrange hanno un doppio ruolo, quello di manichini perfettamente costruiti ed addobbati, ma altrettanto perfettamente statici ed enigmatici, senza tempo né età, e quello di femmine fatali, protagoniste disinibite, seduttrici
Omaggio a Marc Lagrange e seduttive, apparentemente distanti e disinteressate, ma allo stesso tempo evocative e prevaricatrici. Dietro ogni immagine di Lagrange si intravede una storia, talvolta improbabile, ma perfettamente costruita, come i personaggi che la interpretano, una storia che evoca sogni, situazioni, fantasie un poco surreali ed un poco morbose, giocate sull’equilibrio fra la sublimazione del reale ed il concretizzarsi dell’immaginario. Al di là dello sfruttamento commerciale dell’immagine, quello evocato da Lagrange è un universo immaginario, criticabile o desiderabile, secondo i punti di vista, ma coerente con se stesso, con la propria logica, un universo in cui le cose appaiono non come sono, ma come si vorrebbe che fossero, come molti desidererebbero che fossero. Del resto, le fotografie false sono più convincenti di quelle vere, perché sono preparate con cura, in ogni minimo dettaglio, dall’inquadratura al contrasto, fino alle luci ed alle ombre, proprio perché sembrino vere, o per lo meno verosimili. Al di là degli incarichi professionali, Lagrange alimenta la propria immagine ed il proprio mito con una serie di mostre-evento che si concludono con la pubblicazione di splendidi, sofisticati e preziosi fotolibri, spesso tirati in edizioni speciali o in pochi esemplari destinati ai collezionisti. Ricordiamo“Chateau Lagrange”del 2006, “Lust” del 2008, “XXML” del 2011, riproposto anche nel formato 70x100cm, “Diamonds and Pearls” del 2013 ed “Hotel Maritime - Room 58” del 2014, per terminare con “Senza parole” nel 2015, con immagini realizzate anche a Pietrasanta, e riproposto in una edizione di soli 25 esemplari firmati. Abile regista delle proprie immagini, abile manipolatore e venditore della propria immagine, perfezionista fino all’estremo, ricco di idee e di immaginazione, Lagrange termina bruscamente la propria attività prima di arrivare a sessant’anni, lasciando il mondo, e non solo il “suo” mondo, privo della sua inesauribile creatività.
2 APRILE 2016 pag. 6 Laura Monaldi lauramonaldi.lm@gmail.com di
I
ntorno agli anni Ottanta del Novecento l’estetica subì un cambiamento di rotta epocale. La tendenza reattiva della neoavanguardia e dello sperimentalismo permase e si diresse contro l’esasperata astrazione intellettiva della pittura concettuale. Achille Bonito Oliva giunse alla constatazione che l’arte stava tornando alla manualità, alla gioia del colore e della tecnica pittorica, ossia alla riscoperta delle radici dell’arte: «La transavanguardia ha risposto in termini contestuali alla catastrofe generalizzata della storia e della cultura, aprendosi verso una posizione di superamento del puro materialismo di tecniche e nuovi materiali e approdando al recupero dell’inattualità della pittura, intesa come capacità di restituire al processo creativo il carattere di un intenso erotismo, lo spessore di un’immagine che non si priva del piacere della rappresentazione e della narrazione». Nelle opere degli artisti che parteciparono alla sezione ‘Aperto 80’ della Biennale di Venezia del 1980, si avvertì la completa simbiosi fra l’emotività e una nuova visione surreale della fantasia, fra la totale libertà espressiva e la realizzazione di immagini fantastiche che tentarono di interpretare il tempo e la storia dell’uomo in un panorama universale ed esistenziale. Si trattò di un linguaggio intenso, forte e innovativo, graffiante per la resa del colore e per la purezza delle forme. Sandro Chia si esprime con colori accesi, recuperando i principi fondanti della pittura come il tono, il volume e la figurazione colta e ricca degli echi del passato letterario, filosofico e artistico. Enzo Cucchi recupera i mezzi espressivi con installazioni di materiali diversi che hanno alla loro base la pittura in tutta la sua energia ed evidenziando le possibilità formali della luce nella creazione della profondità spaziale. Mimmo Paladino utilizza il colore in senso materico ed espressivo, insieme alla figurazione come linguaggio caratterizzato da un forte valore timbrico e allo spazio che si caratterizza per una netta impostazione relativa. La transavanguardia è stata la
rivincita dell’autenticità del linguaggio pittorico; ha rappresentato il successo del soggettivismo e il comune denominatore che ha saputo legare in modo inedito tradizione e attualità. La nuova
forma di rappresentazione ha veicolato la rinascita dell’anima umana, passionale e sensibile, dentro la dimensione di un’estetica che mette in primo piano l’uomo prima della società. Un
pragmatismo narrativo che rivendica lo spazio istintuale della creazione e dell’ispirazione creatrice, lontana dalla militanza e aderente alla pittura come prima forma di espressione pura.
Transavanguardia
Sopra a sinistra Mimmo Paladino, Brindisi d’eroe, 1985, a destra Enzo Cucchi Senza titolo, 1989. Sotto a sinistra Mimmo Paladino Improvvisamente ansioso, 1989, a destra Sandro Chia, Senza titolo, 1989 Courtesy Collezione Carlo Palli, Prato
2 APRILE 2016 pag. 7 Alessandro Michelucci a.michelucci@fol.it di
D
iversi musicisti, pur rimanendo fortemente legati alla terra d’origine, concepiscono questa appartenenza come parte di un legame geografico più ampio. Pensiamo alla valenciana Mara Aranda, che con le sue musiche abbraccia tutto il Mediterraneo, oppure al danese Kristian Blak, che vive sulle isole Faroe ma spazia in tutta l’area nordica, dall’Estonia alla Groenlandia. Qualcosa di molto simile accade in molte aree extraeuropee: America “latina”, Polinesia, Asia orientale... È proprio da quest’ultima regione che viene Jen Shyu, cantante-polistrumentista nata a Peoria (Illinois) da padre taiwanese e madre timorese. Pur essendo cresciuta nel luogo d’origine, Jen ha vissuto a lungo in alcuni paesi asiatici, approfondendo la conoscenza del loro patrimonio musicale e letterario. Generalmente considerata una jazzista, in realtà propone una musica difficilmente etichettabile nella quale le influenze asiatiche si fondono con influenze jazz e contemporanee. Jen Shyu è un’artista versatile e creativa, sempre in movimento.
Michele Morrocchi twitter @michemorr di
La provvidenza rossa è come un universo parallelo che si srotola nella Milano del 1977, un universo in cui al normale vivere della città si contrappone, parallelamente convergente, un mondo regolato dai riti del Partito Comunista Italiano. Uno Stato nello Stato che replica le strutture della società borghese nei suoi pregi e nei suoi vizi. Questo mondo parallelo è il principale pregio di “la provvidenza rossa”, giallo di esordio di Lodovico Festa, che fu comunista milanese negli anni narrati nel libro. Un libro in cui il noir serve da alibi alla narrazione della vita comunista, dove la pervasività del mondo rosso si snoda tra personaggi al massimo bidimensionali che in realtà sono spesso solo maschere delle loro organizzazioni siano esse il Partito, la Lega delle Cooperative, il Sindacato (ovviamente la CGIL) o l’Arci. Un mondo non autosufficiente ma che dalla società borghese trae più che donare; un mondo capace di regolarsi da solo,
ha sviluppato un linguaggio espressivo più personale, come conferma The Imagined Savior is Far Easier to Paint (Blue Note, 2014). L’altro è il violista Mat Maneri, che vanta collaborazioni con i musicisti più diversi, fra i quali il pianista romeno Lucian Ban, insieme al quale ha realizzato il pregevole Transylvanian Concert (ECM, 2013). Nel CD in questione, interamente composto da Jen Shyu, confluiscono stimoli culturali e spirituali che spaziano dalla Corea all’Indonesia, da Taiwan a Timor Est. La maggior parte delle dieci composizioni è stata concepita durante il primo viaggio sull’isola che la musicista ha compiuto nel 2010. Il disco contiene numerosi riferimenti alla tragica storia dell’isola, invasa dall’Indonesia nel 1975 e liberata soltanto nel 1999. Il testo dell’iniziale “Song of Kwan Wen” si ispira all’opera della scrittrice timorese Kiki Ze Lara. La commovente “Rai Nakukun Ba
Dadauk Ona” è tratta da una poesia di Naldo Rei, scrittore timorese nato sei mesi prima dell’invasione e quindi testimone diretto delle atrocità compiute dal potere indonesiano. Attivamente impegnato nella resistenza, Rei ha raccontato la propria esperienza nel libro Resistance: A Childhood Fighting for East Timor (University of Queensland Press, 2007). A lui è dedicata “Song for Naldo”, uno dei brani più drammatici del disco, segnato da una forte tensione vocale. Sounds and Cries of the World richiede un ascolto attento. Certi momenti sono ostici e altri sconfinano addirittura nella cacofonia (“Bloom’s Mouth Rushed In”), seppure temperata dall’intreccio di grazia e tensione drammatica che caratterizza l’artista asiatica. La varietà culturale che anima il disco trova riscontro negli strumenti suonati dalla protagonista: oltre al piano, l’artista sino-timorese è impegnata fra l’altro al gayageum (cetra coreana a dodici corde) e al gat kim (liuto taiwanese a due corde). Come se questo non bastasse, anche nelle cinque lingue utilizzate: bahasa indonesia, coreano, giavanese, inglese e tetum, la lingua autoctona di Timor Est.
e personalistico della politica dei leader. Invece nella Milano rossa di festa, il protagonista è il collettivo, pur se l’autore ci fa intravedere il futuro (non radioso) che si avvicina: quella Milano da bere, che sta appena scaldando i motori. Una Milano che è l’altra grande protagonista. Una città raccontata con amore, seppure di una città che non c’è più si tratti. La consolante Milano borghese, le cui architetture sono raccontate con più dettagli dei protagonisti, persino quando le architetture sono quelle razionaliste del ventennio. Una Milano che si ricostruisce e si riscatta nell’azione del Partito e nelle sue architetture non ancora appannaggio di archistar, una Milano in cui noi contemporanei forse fatichiamo a immaginare quanto abbia contato la sinistra (non solo comunista) e quanto
popolo riuscisse a organizzare intorno a sé. Festa scrive questo libro con l’affetto della sua giovinezza alla quale concede però una lingua troppo da relazione al comitato centrale, soprattutto nei dialoghi, e che lo costringe a una nota finale ed a un artificio narrativo di cui non si sentiva il bisogno. Ma il pregio del realismo della vita e delle prassi comuniste ripagano ampliamente il lettore, soprattutto quello che seppur in un’altra epoca molto successiva e in altri contesti, si è trovato ad essere “l’uomo della federazione” o ad aver comunque vissuto all’interno del vasto mondo comunista e post comunista italiano. Altro grande pregio del libro è che l’autore non riversa nella storia il proprio giudizio sul PCI, un giudizio che lo porterà ad altri lidi e alla vicedirezione de il Foglio, ma anzi pare riacquistare il fuoco della passata militanza, soprattutto quella amendoliana, conservando per ingraiani e berlingueriani (ma anche per il migliorista Napolitano) le frecciate più acute.
Riflessi asiatici Diplomata in danza e violino, suona il piano e molti altri strumenti; collabora con jazzisti innovativi come Anthony Braxton e Steve Coleman; realizza il monologo Solo Rites: Seven Breaths, diretto dal regista indonesiano Garin Nugroho; cura una stimolante produzione solistica. Il suo lavoro più recente è Sounds and Cries of the World (Pi Recordings, 2015). Nel gruppo che l’affianca, Jade Tongue, spiccano due solisti americani di rilievo. Uno è il trombettista Ambrose Akinmusire, che ha suonato con jazzisti quali Joe Henderson e Joshua Redman. Inizialmente influenzato da Miles Davis, nei suoi dischi come titolare
La Milano dei Rossi
quasi soffocante per i suoi iscritti che trovano in esso tutto, lavoro, divertimenti, famiglie, amori; seppure nella variante meneghina non arrivi ai tratti dominanti del comunismo emiliano. Mondi raccontati sinora o da storie sociali, come il magnifico “Maison Rouges” di Marc Lazar, o dal sarcasmo musicale di pezzi come “Robespierre” degli Offlaga Disco Pax. Quello di Festa è invece un libro, un romanzo, che ci riporta in un mondo che non c’è più ma che conserva traccia di sé nei profili degli ex militanti rossi, e in alcune prassi politiche che ci appaiono oggi tristemente ininfluenti nel mainstream populista
2 APRILE 2016 pag. 8 Andrea Caneschi can_an@libero.it di
A
rriviamo ad Hanoi in perfetto orario. L’aeroporto è moderno e funzionale: scorriamo rapidamente verso il controllo passaporti, il recupero bagagli e l’uscita, dove è ad attenderci la nostra guida e un pulmino che sarà la nostra casa per molte ore ogni giorno. Il sole, che aspettavamo come corollario obbligato di questa vacanza tra tropico ed equatore, è coperto da una nuvolaglia alta, fatta di umido e polvere; si affaccerà a tratti e ci farà sentire calorosamente la sua presenza, ma per adesso dobbiamo farne a meno. Ci immettiamo nel traffico più caotico che ci sia mai capitato di incontrare, un flusso ininterrotto di macchine e soprattutto scooter, in numero infinito, con uno, due, o più passeggeri, che si insinuano in ogni varco, rispettando appena i semafori ai grandi incroci che attraversiamo verso la città. Dal pulmino, sotto i grandi cavalcavia intasati di traffico, ci colpisce l’immagine di grandi spazi curati con aiole perfettamente segnate da piccole siepi geometriche e abbellite da isole alberate e fiorite. Accanto a gruppi di biciclette raccolte ordinatamente da una parte, altrettanti cappelli di paglia conici sul capo di donne intente a strappare con cura le foglie che turbano la simmetria dei disegni, a ripulire e pareggiare il prato, a preparare altri spazi verdi, o semplicemente sedute a chiacchierare in una pausa del lavoro, ma con tranquillità e tempi lenti, curiosamente in contrasto con il flusso caotico del traffico che le circonda, tenuto lontano dalla precisione del disegno verde intorno allo spazio che stanno curando. La città è un casino gigantesco, scooter dappertutto in un fluire continuo del tutto alieno da regole che noi possiamo riconoscere, che si distribuisce lungo strade invase da pedoni altrettanto indisciplinati. Ci accorgeremo presto che non c’è tuttavia possibilità per qualunque disciplina che non sia l’abilità di percorrere gli spazi che si liberano tra i motorini che salgono a parcheggiare vicino alle case e le merci e le persone e le cose che dalle botteghe si
Good morning Vietnam
rovesciano sulla strada. Dovunque rumore e movimento, non frenetico ma continuo, confuso, soverchiante. A tratti, in punti di
Remo Fattorini
Segnali di fumo Li rimandiamo a casa o ce li teniamo? Conviene tenerseli. Tutti quanti. A dirlo è un rapporto del Ministero dell’Economia che si è preso la briga di fare due conti. Partiamo dagli ingressi. Tra il 2014 e il 2015 l’emergenza umanitaria in Nord Africa ha spinto 170mila persone a sbarcare in Italia. Mentre l’anno scorso sono stati 153.842 i migranti arrivati via mare. Una conferma del fatto che le migrazioni sono un tema, stando così le cose in questo mondo, inevitabile. Un dramma da affrontare con civiltà e buon senso: controlli, sicurezza ma anche umanità e solidarietà. Donne,
strategici, altoparlanti innalzati su pali avvolti di fili elettrici come ragnatele abbandonate da ragni giganteschi, fuggiti in cer-
ca di tranquillità, emettono una voce acuta e frastornante; la voce del partito, forse, o una pubblicità ossessiva di chi sa cosa: ci dimentichiamo di chiedere lumi alla nostra guida e non sapremo mai se e chi potrà trarre qualche vantaggio da quella rumorosa coda sonora che ci portiamo dietro, lungo la strada, fino al palo successivo. Viene a mente, a noi digiuni di estremo oriente, appena arrivati in questo affascinante universo, il Blade Runner dirupato, caotico e cacofonico: un futuro improvvisamente molto vicino che solo la calda luce solare del nostro primo pomeriggio a piedi nel centro di Hanoi riesce ad illuminare, avvicinandoci ad un popolo che ci sembra cortese, sereno, rispettoso. Persino il rumore delle migliaia di clacson, continuamente impegnati a salutarsi a vicenda, ci appare adesso meno arrembante; cominciamo a riconoscere confusamente l’esistenza di una segnaletica penetrante ma non aggressiva, che non minaccia, come a casa nostra, ma solo avverte: ci sono anch’io e vedo che ci sei, vediamo come fare… Perfino ci azzardiamo, ancora con tanta paura, a gettarci nel traffico per attraversare la strada: qualcuno si ferma, qualcuno no, nessuno ci insulta o ci maltratta, si sta stretti, ma c’è spazio per tutti.
uomini e bambini sono ospitati nelle strutture di accoglienza, altri in quelle temporanee. Quanto ci costano. Nel 2015 ci dice il Ministero dell’Economia e delle Finanze abbiamo speso 3,3 miliardi di euro (al netto dei contributi europei). Più del doppio rispetto ai due anni precedenti. Triplicati rispetto all’anno scorso. Contributi versati dagli immigrati. Nel 2014 gli extracomunitari hanno finanziato le casse dell’Inps per 8 miliardi di euro. E hanno incassato pensioni solo per 642 milioni e aiuti non pensionistici per 2,4 miliardi. Presto detto: c’è un saldo positivo di circa 5 miliardi. Con queste risorse versate dagli immigrati (al netto delle spese sostenute) l’Inps ha pagato la pensione a 600mila italiani. Un piccolo aiuto alla tenuta del nostro sistema pensionistico. Più o meno accade anche con
l’irpef e l’Iva. Visto che nel 2014 i contribuenti extracomunitari hanno dichiarato redditi per 45,6 miliardi, versando nelle casse dello Stato 6,8 miliardi. Accade altrettanto anche per le 525mila imprese gestite da lavoratori immigrati con i versamenti Iva. A coloro che urlano tanto e in continuazione, alimentando la paura verso una tragedia come quella dell’immigrazione, consiglierei prima di urlare di contare fino a dieci. Si accorgerebbero che il problema, certo serio e grande, potrebbe essere gestito – naturalmente in una dimensione europea e con politiche diverse. Evitando così sofferenze al limite dell’umano alle migliaia di persone costrette, per sopravvivere, a fuggire dal loro Paese. Ottenendo, al tempo stesso, qualche piccolo vantaggio per tutti.
2 APRILE 2016 pag. 9 di
Marina Carmignani
L
a nostra epoca ha espresso, come non mai, nell’ambito dei linguaggi visivi un’apertura verso forme decorative e materiali diversi da quelli tradizionali, e ha aumentato il valore della libertà inventiva . Un percorso che ha interessato a partire dagli inizi del XX secolo non solo per l’Arte ma anche il Design e in generale qualunque attività creativa. Le sperimentazioni costanti, le nuove modalità esecutive hanno trasformato il concetto stesso di arte includendo molti degli oggetti e degli strumenti di cui l’attuale civiltà si avvale nelle sue diverse manifestazioni. È stato prelevato dal mondo della vita ogni tipo di materiale nella pittura, nella scultura, come nel design o nella moda con un progressivo accelerarsi dalle prime affermazioni futuriste ‘Noi spalancheremo le porte alle carte al cartone, al vetro, alla stagnola, all’alluminio, alle maioliche, al caucciù, alla pelle di pesce, alla tela da imballaggio, alla stoppa alla canapa ai gas, alle piante fresche e agli animali viventi’. Gli esiti di questo atteggiamento, maturato nell’ambito delle avanguardie storiche, si sono mostrati illimitati ed in grado di assumere di volta in volta significati diversi, che soprattutto dagli anni ’60 in poi hanno di gran lunga superato l’intenzione di una prima protesta contro le modalità artistiche convenzionali. È a partire da queste considerazioni che si deve oggi leggere il lavoro di tanti artisti/designers della nostra contemporaneità e delle scelte compiute come riflessi del mondo in cui si vive, si produce, si consuma. Ed è in quest’ambito che si colloca il lavoro d Edoardo Malagigi, artista/designer, professore emerito all’Accademia di Belle Arti di Firenze, grazie a questo, sempre a contatto con le nuove generazioni, spesso parti attive dei suoi progetti. Progetti che lo hanno visto lavorare con i materiali più vari, dal pane al riso e tanti altri alimenti (installazioni commestibili), dalla carta al legno (mobili per l’infanzia), fino alle più recenti esperienze con cartoni per bevande in poliaccoppiato (generalmento noto come tetrapak). Su questo è stato tenuto un Workshop presso l’Akademia fur Gestaltung di Munster, e Edoardo
L’arte in tetrapak di Malagigi
Malagigi era uno dei tanti professionisti provenienti da vari centri europei che hanno sperimentato con materiali come carta, bambù, cemento, ferro, legno, tessuti e fotografie, la possibilità di farne oggetti d’arte e di design. È bene riflettere su queste esperienze a cui non solo l’Europa è attenta. Edoardro Malagigi infatti è stato invitato a tenere un workshop a Pechino dove di nuovo gli studenti si presenteranno con il tetrapak recuperato dai molteplici usi quotidiani e provvisti di forbici e taglierini, righelli e matite, affronteranno il materiale verificandone le possibilità di riutilizzo, ma anche di espressioni creative individuali. Alle forme bizzarre dei piatti realizzati a Munster, alla cassetta per la frutta, ai corpi di burattini danzanti o all’istallazione di due metri di diametro a forma di spirale, se ne aggiungeranno altre che i nuovi studenti ricaveranno una volta entrati in contatto con il materiale, dopo averne valutato la consistenza, la varietà cromatica, la flessibilità o la rigidità necessarie per esprimere una loro idea. Ecco che si fanno chiare le molteplici intenzioni di questo operare : il concetto fondamentale del riutilizzo, filo conduttore per Edoardo Malagigi di molti suoi interventi intesi come momento di riflessione su temi cogenti delle nostra società, la produzione, il consumo, il riciclo, ecosostenibilità, ecocompatibilità. Temi su cui si vogliono sensibilizzare, educare le nuove generazioni spesso distratte su prolemi di così ampio respiro. Ma questa sensibilizzazione deve avvenire all’interno di un’esperienza personale che affianchi alla consapevolezza la capacità di trasformarla attraverso la creatività individuale. I giovani sono chiamati cioè a dare ‘risposte creative ai problemi’ senza dimenticare le conoscenze tecniche, un saper fare che permetta loro di inserirsi nel mondo del lavoro e di porsi in modo progettuale di fronte alle richieste delle imprese. Ultimo, ma non meno significativo aspetto del lavoro di Edoardo Malagigi, è quello di raggiungere questi obbiettivi con un grande senso di leggerezza, un giocare con l’arte, intendendo il gioco nella sua accezione più alta, un lavorare insieme, individuale o collettivo, sempre caratterizzato da libertà e consapevolezza.
2 APRILE 2016 pag. 10 Cristina Pucci chiccopucci19@libero.it di
P
er sapere che fine avesse fatto una conoscenza facebook sparita, ne chiedo notizie ad una comune amica, sempre facebook, ed è così che conosco una persona davvero speciale. Prima di tutto perché è una donna dolce, gentilissima e curiosa e poi perché è un’artista che costruisce oggetti del tutto particolari e crea, non disegna badate bene, accessori di moda, unici e bellissimi. Osservando la mia bacheca apprezza che sappia fare l’uncinetto e mi rivela che è anche con questo antico strumento che costruisce le sue opere, fantastici gioielli tessili, borse e cappelli, non solo, ma anche installazioni, piccole sculture ed oggetti d’arte, in cui sempre e comunque entra qualcosa di tessile. Nel conoscersi, via chat, scopro che è nipote di Aldo Fabrizi, figlia della di lui figlia, il nome Cielo è proprio a questo nonno, pare poco aderente al ruolo e di tipologia ingombrante, che lo deve. È cresciuta in una famiglia dove la creatività era di casa, la nonna era stata cantante, il nonno paterno fu un famoso sarto per divi di Hollywood e non solo... Fu la mia bisnonna paterna,contadina romagnola, ad insegnarmi a lavorare all’uncinetto quando avevo 7 anni. È morta che ne avevo 22 e i momenti passati con lei a scrutare pezzetti di stoffa recuperati ed imbastiti per farne qualcos’altro o studiare punti e trame dal sapore sontuoso e poverello sono stati molto importanti per la mia formazione. È da lei che ha ereditato un patrimonio ...in uncinetti, contenuti in antichi e chicchissimi astucci di pelle allungati. Dopo il Liceo Artistico e l’Università, Storia dell’Arte e del Teatro, ha seguito corsi di incisione, stampa e anche di clown e maschera neutra. Ha curato per molti anni l’archivio storico del nonno e l’associazione culturale ad esso collegata, gli ha dedicato una conferenza spettacolo che lo raccontava e ricostruiva la complessità della sua essenza di comico e di persona, poi ha lasciato Roma e si è trasferita a Los Angeles dove essere artista pare molto più facile. In cinque anni di America ha fatto più mostre che nel resto della sua vita a Roma. Diventata mamma è rientrata in Italia e si è
Cielo, la nipote di sor Aldo
insediata a Porchiano in Umbria ed ha aperto lì un laboratorio atelier degno di corso Garibaldi a Milano dove continua a creare e spedire le sue opere nel mondo. Lido Contemori lidoconte@alice.it di
Il migliore dei Lidi possibili
La mano dei fatti separata dalla mano delle opinioni Disegno di Lido Contemori Didascalia di Aldo Frangioni
Cielo dice che ha sempre sentito come il dovere di portare nella sua vita le passioni che le sono state lasciate dai suoi familiari, che ha sempre avuto un approccio “artigianale” all’arte e le è sempre piaciuto far sì che il suo
cervello parlasse anche attraverso il fare con le mani. Negli anni 90 ha iniziato a costruire sculture ed installazioni e nel ‘92 ha creato il primo “oggetto indossabile”. Ero influenzata, avevo appena finito ed esposto una grossa installazione di terra e ferro arrugginito, ma ancora si agitava dentro di me una urgenza di espressione... presi dei filati e costruii qualcosa di leggero e piccolo, una forma che poteva essere un ornamento, ma che, comunque, per me rappresentava una piccola scultura. Provai ad avvolgerla attorno al collo... ed ecco, mi si spalancò una porta, un mondo affascinante e senza fine, nel quale sguazzo ancora. Otre le splendide collane, fra esse una serie detta nuvole in organza acrilica dipinta, e collari e pettorine dei più vari materiali, fogge, colori e dimensioni, scelgo di mostrarvi,una piccola scultura, esposta a Pasadena nel 2008 che si intitola Growing, crescendo, seta, lino, perle di fiume e ali di insetto, Cielo, avevo in casa le ali trovate anni prima in un bosco e le ho applicate a questa piccola struttura immaginando una Nike e al contempo una cornucopia. Figure vincenti e beneauguranti.
2 APRILE 2016 pag. 11
Mai
Paolo Marini p.marini@inwind.it di
M
i incuriosisce, mi perplime, mi arresta. Il contatto - profondo, subliminale -, è già innescato mentre l’occhio fissa “Jamais” (maggio 1944, olio su tela, cm 165,2x82, Venezia, Collezione Peggy Guggenheim, foto di David Heald), opera esposta alla mostra “Da Kandinsky a Pollock” di Palazzo Strozzi, dell’americano Clyfford Still. E penso che sono io che ho deciso di raccogliermi, riflettere, ascoltare; ma può anche essere che tutto sia partito da lei, che mi abbia interrogato, trascinato, costretto: qui, al suo cospetto. E’ così che l’arte ci interpella, talvolta, proponendoci quasi imperiosamente il suo tormento, la sua magia? E se anche può apparire ingenuo o disdicevole, posso chiedermi che cosa significa questa tela grigio-scura, ove campeggia una figura informe che alla base fa pensare ad un tronco d’albero perfettamente annerito e poi salendo si restringe, si stilizza, si allunga fino alla testa, fino a sembrare un serpente la cui bocca si apra per accingersi a colpire a morte la sua preda? ‘Jamais’ vuol dire ‘mai’ e la didascalia redatta dal curatore Luca Massimo Barbero informa che “il titolo, tra i pochi dati e mantenuti da Still, incoraggia a leggere una figura che grida la propria disperazione contro un sole al tramonto, ricordando anche l’esperienza dell’artista durante gli anni ’30, quando le pianure americane del nordovest vennero colpite dalla siccità e dalla grande depressione.” Il pittore è ascritto alla corrente dell’espressionismo astratto e la tela mi rimanda nemmeno troppo lontanamente al più famoso “Urlo” del norvegese Munch (chi può escludere che l’artista non vi si sia ispirato) ma la forma surreale sembra la sua cifra caratteristica. Il collo allungato, come estenuato, può alludere ad un’esperienza (appunto) lunga, interminabile, quale verosimilmente è quella di una grave sofferenza; d’altronde sono gli occhi quasi impercettibili e bianchi, le lunghe stille gialle e una quasi-replica della parte alta della figura (anch’essa
Grido d’artista
Jamais Clyfford Still (Grandin 1904Baltimora 1980), maggio 1944, olio su tela, cm 165,2 x 82, Venezia, Collezione Peggy Guggenheim, 76.2553. Foto di David Heald © Clyfford Still, by SIAE 2016
di colore giallo) a costituire i pochi segni di vivacità: gli occhi come espressione dell’anima che soffre e che perciò è a suo modo (tuttora) viva e reattiva; le Massimo Cavezzali cavezzalicartoons@hotmail.com di
S cavez zacollo
stille che rinviano ad un pianto diffuso, tutto attorno al protagonista; infine, la ‘controfigura’ mi fa pensare all’incredulità dell’uomo dinanzi al dolore, per cui egli verosimilmente si domanda: “E’ tutto vero? Sono io o è qualcun altro che si ritrova in questa condizione?” Nel pantano della disperazione il grido volge in richiesta di aiuto/attenzione ma intorno è un ambiente silente, senza vita (il colore grigio-scuro e il sole dal rosso spento) tranne che per il senso di verticalità delle pennellate, che suggerisce per lo più la direzione del moto di ri-
volta; d’altronde, il chiarore che si diffonde verso la parte alta della tela (opposta alla posizione del sole, a conferma del segno di morte), pare moltiplicare la solitudine e lo straniamento dell’individuo più che evocare una pur lontana fonte di luce (e di speranza). In tutto questo la datazione dell’opera mi fa anche dubitare del (mero) riferimento alla siccità e alla grande depressione degli anni ‘30... posso? Nel maggio del 1944 imperversava la guerra, gli alleati erano in procinto di aprire il fronte occidentale (il 6 giugno sarebbero sbarcati nelle spiagge della Normandia): oggi sappiamo come è andata ma allora, in quel preciso momento, certo era che l’Europa e parte del mondo erano una carneficina e chissà quanto ancora sarebbe durata. Potrebbe il dipinto alludere al conflitto mondiale? Comunque sia, “Jamais” è esso stesso un grido - prima che un titolo – un grido d’artista, che accetto e faccio idealmente mio; perché il desiderio e il sogno (nella vasta gamma dei sentimenti umani) sono a pieno titolo nello statuto dell’arte. Semmai il ‘jamais’ diventa improponibile in altri contesti, perché suonandovi come il rifiuto aprioristico di una realtà ontologicamente ineludibile (la sofferenza e le sue possibili cause, ivi incluse guerre e carestie) predispone l’individuo ad affrontarla nel modo peggiore e più vano.
2 APRILE 2016 pag. 12
L’Europa dei Re e delle Regine può solo perdere
Claudio Gherardini claudiogherardini@gmail.com di
Idomeni tra Waterloo e Dachau, la fine dell’Europa. a nostra Europa ha perso perché non è stata abbastanza bella e felice e unita e men che meno solidale. Ha vissuto per almeno 30 anni nella bambagia senza nemmeno avere un dubbio che quel “benessere” non fosse per sempre. Invece le mafie e la corruzione andavano in metastasi pesante e le comunità anziché evolversi regredivano. Il tutto appariva negli anni 80 come il gran ballo sul Titanic che avrebbe trovato l’iceberg balcanico prevedibile da politici consapevoli ma non visto dai piloti dopati di allora. Dopo il crollo del Muro di Berlino l’illusione della felicità a buon mercato era una droga troppo forte per dei “narcotizzati” tutto discoteca e parrucchiere. D’altronde siamo un museo più che un continente. Abbiamo ancora i Re e le Regine e siamo convinti di essere sempre i migliori mentre il resto del mondo sbalordisce della inettitudine, ignavia, ignoranza. C’è persino chi pensa di essere ancora nell’800 e agisce di conseguenza. Governanti, intendo, non gente “comune”. Siamo l’unica terra dove essere ignoranti è divenuta una virtù. Da quando è divenuta una virtù il crollo verticale è iniziato inevitabile. Come potevamo pensare di essere immuni dagli eventi biblici e dalle migrazioni epocali che abbiamo anche contribuito a provocare ma che sarebbero comunque arrivate prima o poi? Enormi sciacalli attendono il nostro crollo supportato da nostri “conterranei” che si nutrono degli intestini dei loro elettori anziché elevare loro le menti. Le potenze anti occidente producono ogni giorno centinaia di ore di informazione nella quale siamo descritti, nella migliore delle ipotesi, come poveretti asserviti al “mostro americano”. Le varie enormi reti russe e cinesi spiegano come noi siamo il male assoluto e i russofoni vengono informati da molti anni che il nostro obbiettivo è distruggere la Russia. Le oligarchie, non certo i popoli, attendono il nostro crollo per mangiarci al dettaglio come stanno già facendo proprio in Ucraina e nei Balcani da Donesk al Pireo. Seguiti a ruota
L
da Pechino che intanto si sta mangiando a ettari i terreni nientemeno che dell’Africa. In mezzo al guado è rimasta la Turchia e qualche milione di persone che sono persone come noi. I termini come rifugiati, migranti, emigranti, fuggiaschi, li rendono diversi da noi e ci fanno sentire diversi da loro. Ma non lo sono. Una formazione politica italiana, solo una in tutto il mondo, da trenta, dico trenta anni chiede l’entrata in Unione Europea di Israele e Turchia. Proviamo a pensare come sarebbe il Mediterraneo oggi se da trenta anni fossero a Brussels anche Tel Aviv e Ankara. Questi voli immaginari servono a esercitare la Ragione e, appunto, l’immaginazione. Virtù scomparsa del tutto in Europa, non essendo riciclabile per vie demagogiche e populiste. L’Immaginazione e la Ragione... Perché chi ne è dotato e anche il famoso mondo pacifista, non sono andati a Varsavia e Budapest, Sofia e Bucarest a spiegare cosa fosse il sogno del Manifesto di Ventotene? Spiegare che essere europei. oggi, è cosa diversa che essere ex funzionari del Comintern? La grande occasione del crollo del muro di Berlino, che poteva davvero creare un continente nuovo e felice in barba alle democrature e alle dittature, è stata persa. I popoli si sentono più sicuri sotto Vladimir Putin che nei nostri staterelli antichi e arteriosclerotici. La Democrazia sembra non avere difese sufficienti e essere destinata alla estinzione tramite delle trasfigurazioni orrende manovrate da personaggi mai davvero evoluti e divenuti ora leader del ritorno al passato peggiore. Su tutto regnano i finanzieri e i fondi comuni che decidono chi
deve vivere e chi deve morire, in senso allegorico ovviamente. Anche perché sono persone come noi e siamo noi proprio in molti casi. In mezzo a questo ingranaggio marcio e disumano si trovano purtroppo molti milioni di persone, molte centinaia di persone, eroi della sopravvivenza. Il “destino” ha voluto che a smascherare la vera natura delle nostre democrazie, una volta per tutte, siano state delle persone, circa quindicimila, capitate al momento sbagliato nel posto sbagliato della Storia. La spianata dell’innocuo villaggio di cento abitanti chiamato Idomeni, nella Macedonia greca, già terreno insanguinato nei secoli, come del resto tutti i terreni europei. Veramente questi quindicimila pensavano di aver già lasciato il posto sbagliato, casa propria, e di essere in salvo e invece si sono trovati a affondare nel fango con i loro bimbi, per settimane. Che abbiamo fatto alla Macedonia per essere trattati così? - Abbiamo cercato di spiegargli che la Macedonia è stata costretta a chiudere il cancellino davanti a loro perché lo ha chiuso l’Austria. Che l’Ungheria e la Bulgaria hanno schierato l’esercito per impedire alle mamme e ai bambini di filtrare nei loro territori e che la Polonia, la Ceska e la Slovacchia non vogliono musulmani nel loro terreno. Allora questi quindicimila hanno aspettato, sempre meno pazientemente, di capire se esistesse un governo europeo e cosa avrebbe deciso. Il risultato delle decisioni è stato qualcosa di molto simile alla famosa frase “se non hanno pane mangino briosce”. “Se vogliono andare al Nord, tornino in Turchia. Se vogliono fuggire dalla guerra, tornino
nelle zone vicine alla guerra”. Se vogliono la Libertà siano rinchiusi in centri militari. E per ora sono sempre nel fango i quindicimila, come in un osceno reality show, uno zoo, paradiso di fotografi e videomaker che possono documentare come riportare alla inciviltà un grande gruppo di persone civili e in larga parte istruite. Come far ammalare bimbi sani e ammattire gli adulti. E alla fine sono arrivati venti autobus, i primi venti, e in tanti con aria rassegnata, si sono decisi a salirci e tornare a Sud. Duemila a settimana saranno riportati verso l’Egeo e sistemati in campi militarizzati dove non potranno entrare che in pochi per controllare come verrano trattati. Ma in tanti non vogliono salire sui bus e in diversi si allontanano la notte per cercare falle nel recinto sistemato dalla Macedonia e si sta pensando anche di entrare in Albania dove sono già in attesa. Albania e Italia, come nel 90, quando gli albanesi furono portati nello stadio di Bari, alla sudamericana. E la Grecia c’entra poco e non ha soldi ma qualcosa fa. Un ministro del governo di Atene è andato a vedere Idomeni è ha pronunciato il nome Dachau. Ora con l’estate arriveranno altre masse anche in Sicilia. Cosa accadrà ancora? Dopo la sconfitta sul campo di Idomeni, la sorte dei quindicimila come potente propaganda contro l’occidente, l’Unione Europea finisce nell’ombra della ignavia e per ricostruirne una immagine e una sostanza un poco più vicine al sogno di Ventotene ci vorranno decenni anche se si cambiasse direzione subito. ciclostilatoinproprio.blogspot.it
2 APRILE 2016 pag. 13 Simonetta Zanuccoli simonetta.zanuccoli@gmail.com di
D
opo essere stata presentata nel 2015 al Palazzo Ducale di Venezia con il titolo Il candore arcaico, la stessa mostra, ampliata con l’aggiunta di altre venti opere, viene riproposta fino al 17 luglio al museo d’Orsay a Parigi con il titolo L’innocence archaique. La mostra è un omaggio a Henri Julian Felix Rousseau, pittore autodidatta, sofisticato e originale, a suo tempo deriso dal pubblico e ferocemente stroncato dalla critica che considerava il suo stile naif frutto di scarso talento e di poca preparazione artistica. In effetti è noto che Rousseau, nato nel 1844, cominciò a dipingere a 40 anni come evasione dal suo monotono lavoro di esattore delle tasse. Le passeggiate al Jardins des Plantes con le soste davanti alle gabbie del vecchio zoo, i feroci animali impagliati del vicino museo d’Histoire naturelle e i racconti di alcuni soldati reduci dalla campagna francese in Messico, cominciarono a proiettare Henri in un mondo incantato fatto di giungle dalla vegetazione lussureggiante e misteriosa con lune splendenti e soli rossi nascosti da grandi foglie verdi, popolate da bestie esotiche e personaggi fuori misura. Nelle tele l’atmosfera è onirica quasi surrealista e il disegno, dai colori vivi, minuzioso. Manca la prospettiva, mancano le proporzioni, mancano i riferimenti temporali e spaziali. Domina l’incongruenza dei dettagli, alcuni realistici e altri totalmente fantasiosi. Una pittura inclassificabile, arcaica e rivoluzionaria nello stesso tempo, che con una libertà assoluta (o innocenza, secondo il titolo della mostra) si allontana dagli stili in voga al tempo, l’impressionismo e l’arte “colta”, per rinnovare profondamente il linguaggio pittorico. Nella mostra al d’Orsay questo arcaismo diventa percorso verso la modernità e filo conduttore per un confronto tra le opere di Rousseau e quelle, provenienti dai più importanti musei internazionali, degli allora giovani astri nascenti delle avanguardie pittoriche. E così, i quadri dell’autodidatta, incompreso dai suoi contemporanei e oggi
Lo sdoganatore di sogni come l’aveva scherzosamente chiamato una volta a una festa a casa del giovane Picasso, ricordandogli il suo antico mestiere: Nous te saluons, laisse passer nos bagages en franchise à la porte du ciel/ Nous t’apporterons de pinceaux, des couleurs, des toiles/ afin que tes loisirs sacrés dans la lumière réelle/ tu les consacres à peindre comme tu tires mon portrait/ la face des étoiles. (Noi ti salutiamo, lascia passare i nostri bagagli senza pagar dazio dalla porta del cielo. Ti porteremo i pennelli, i colori, le tele affinché il tuo sacro tempo ozioso lo consacri a dipingere nella luce del reale, come hai fatto con me, il ritratto delle stelle.).
definito “perè de la modernité”, con i loro mondi ricchi di sorprese vengono considerati fonte d’ispirazione di grandi artisti, come Gauguin, Serat, Redon, Picasso, Delaunay, Kandisky,
Frida Kahlo, Diego Rivera... Muore a Parigi nel 1910 per una cancrena alla gamba. Apollinaire, grande ammiratore ed amico, scrisse l’epitaffio per la tomba di Henry, il doganiere,
Sara Chiarello twitter @ Sara_Chiarello
Middle East, now
di
Cinema, arte e musica per raccontare la vita di oggi nei paesi mediorientali. Una vita complessa, spesso buttata in prima pagina, che non sempre riusciamo a capire. Cerca di darci le giuste coordinate la settima edizione Middle East Now, il festival/evento che si svolgerà a Firenze dal 5 al 10 aprile (principalmente presso il cinema Odeon e il cinema Stensen). Racconterà le storie, affascinanti e dalle tinte forti, i personaggi, e affronterà i temi di l’attualità attraverso i film più recenti provenienti da Iran, Iraq, Kurdistan, Libano, Israele, Libia, Palestina, Egitto, Giordania, Emirati Arabi, Yemen, Afghanistan, Siria, Bahrein, Algeria e Marocco. Con lo spirito, fondamentale e coraggioso in un momento come questo, di andare oltre ai pregiudizi, ai fatti di cronaca e ai luoghi comuni con cui spesso vengono rappresentati. In programma più di 40 film, prevalentemente in anteprima, che saranno proiettati alla presenza di 30 personalità del panorama culturale del mondo arabo, tra registi, attori, produttori, fotografi, artisti, chef, scrittori, coreografi e danzatori. A inaugurare il festival la storia di dodici donne intrappolate in un salone di un parrucchiere a Gaza, per la prima italiana del film “Degradé” dei fratelli palestinesi Tarzan & Arab Nasser. Dalla Palestina arriva anche
“Idol” di Hany Abu-Assad, il regista premio Oscar nel 2006, che racconta la vera storia di Mohammad Assaf, il ragazzino di Gaza vincitore del talent show Arab Idol. Viene dalla Siria, invece, il documentario “A Syrian Love Story” di Sean McAllister, girato nell’arco di cinque anni, che fa rivivere la storia d’amore di una coppia di attivisti minacciata dagli orrori della guerra. Il tema, scottantissimo, dell’uguaglianza sui diritti umani dei gay sarà invece al centro di “Mr. Gay Syria” della regista turca Ayse Toprak, un viaggio alla ricerca di un siriano che partecipi al concorso di bellezza Mr. Gay World. Dall’Arabia Saudita arriva la commedia “Barakh meets Barakah” di Mahmoud Sabbah, girato nel paese in cui il cinema è stato bandito nel 1972. In programma anche il documentario “Speed Sisters” di Amber Fares, sui sogni di un gruppo di donne palestinesi che affermano le loro libertà come piloti automobilistici, mentre, ospite d’onore di quest’anno, sarà la regista Yesim Ustaoglu, una delle più importanti autrici del cinema turco di oggi, a cui sarà dedicato un omaggio con la proiezione delle sue pellicole più celebri. Chiude il festival il palestinese ’Eyes of a Thief’ che ha con l’interprete Souad Massi, cantante algerina che
si esibirà al festival. Tre le mostre: ‘Our Limbo’ della fotografa libanese Natalie Naccache su un gruppo di giovani donne siriane in fuga dal proprio paese poco prima dello scoppio della guerra; ‘Live, Love, Refugee’ di Omar Imam sui rifugiati siriani e ‘My Lebanon’, un colorato e ironico progetto d’illustrazione dedicato al Libano. La musica è protagonista con il perfomer iraniano Makan, e la danza contemporanea con “Love-ism” del giovane coreografo israeliano Mor Shani. Infine, molti gli ncontri giornalieri insieme a esperti, saggisti, scrittori e affermati corrispondenti per disegnare una mappa dell’informazione sul Medio Oriente. Biglietti delle proiezioni euro 5-6, per informazioni 3389868969, info@middleastnow. it e il sito internet www.middleastnow.
2 APRILE 2016 pag. 14 Claudio Cosma claudiocosma@hotmail.com di
A
ngelo Barone è sempre stato un esploratore di forme architettoniche. Le sue ricerche si indirizzano in due direzioni che al loro interno ne contengono numerose altre, la prima è una ricerca introspettiva che produce sculture simili ad unità abitative organiche, città vicine al mondo degli insetti, elaborate con materiali naturali come paglia, legno, cotone, pigmenti, terre. Questo periodo lascia nelle strutture grandi aperture destinate alla comunicazione e alla vita al loro interno. La seconda ricerca tende alla elaborazione culturale di strutture già esistenti, ma sempre collegate ad una forma di uso specializzata, come le costruzioni ecclesiastiche, gli edifici pubblici, le architetture militari. Questi manufatti prescindono quasi sempre la abitabilità civile. Negli elaborati artistici del primo periodo le strutture di Barone hanno forme naturalistiche nelle quali si può immaginare una costante presenza animale, laboriosa, produttiva e altamente funzionale. Grandi alveari, termitai, nidi complessi, tutti brulicanti di vita, ronzanti di ali trasparenti e di elitre cornee riflettenti, all’esterno ed con un interno misterioso e forse scavato all’interno degli alberi a cui si appoggiano o estendentesi in cunicoli sotterranei che possiamo solo intuire. Nelle sculture del secondo periodo, che dura fino ad ora, le forme sono chiuse, il colore è parzialmente perduto, la vita impossibile.
Nella mostra alla Fondazione Sensus sono visibili tutti gli sviluppi compiuti dalla creatività di Angelo Barone a partire dagli anni del suo esordio nel 1980. La parte che d’ha il titolo alla mostra è raccolta in una grande stanza dove è ricostruita un’isola frastagliata e rocciosa, con insenature, fiordi e montagne, realizzata con due tonnellate di sabbia da costruzione. Le coste dell’isola sono presidiate nel suo perimetro da una continua linea di bunker. Le immagini che si sovrappongono nella mente dell’osservatore sono di un’isola dei morti, oramai abbandonata e vissuta nel passato remoto da una setta di religiosi o da abitata da persone di cui resta difficile immaginarne un attività sensata. Vengono anche alla mente gli esodi umani degli esuli e dei migranti che lasciano il loro paese reso inabitabile dalle continue guerre in atto e incerti dalla accoglienza che viene loro accordata. I bunker di Barone rimangono in bilico tra la difesa impenetrabile e quindi alla funzione militare tutt’ora attiva e la mistica presenza di costruzioni moderniste, religiose come cappelle e pagode o parodie di ville sul mare. Le interpretazioni si moltiplicano e si complicano ulteriormente per il materiale esterno delle sculture, ricoperte come sono di una pellicola vellutata che sembra smorzarne la rigorosa geometria. L’esegesi dei bunker si sviluppa anche, in parte, da una ricerca
filosofica e architettonica dello scrittore francese Paul Virilio che negli anni ‘70 ha percorso la Normandia, mappando tutte le tipologie di bunker che costituivano il Vallo Atlantico durante la seconda guerra mondiale. Ora si mostrano come il titolo del suo libro: Bunker Archeology, in un abbandono reso imperituro dal calcestruzzo usato per costruirli, monoliti inclinati dalle maree che erodono la sabbia sulla quale sono poggiati secondo le regole costruttive militari che per aumentarne la resistenza erano privi di fondamenta. Nelle architetture di Barone, se fossero realizzate con proporzioni monumentali, non si potrebbe vivere una vita comune, forse ci si potrebbe affacciare da una finestrina o da una feritoia ma più
Bunker’s Island
Angelo Barone
ragionevolmente si potrebbe solo girarci intorno come si fa con i templi, i mausolei del passato. Non ci rimane che amarne le forme così come lo scultore ce le mostra, girare intorno alla sua isola e godere delle suggestioni che ci offrono e riflettere. Alla Fondazione Sensus a Firenze. Viale Gramsci 42a Firenze, 5 aprile 2016 dalle 18 alle 20. Dal 6 aprile visitabile solo su appuntamento email info@sensusstorage.com Un bunker di Angelo Barone è visibile 24 ore al giorno nella vetrina di Sensus a Fiesole in piazza Mino 33.
lectura
dantis
2 APRILE 2016 pag. 15
Disegni di Pam Testi di Aldo Frangioni
Non è che noi farem dell’allarmismo se d’un dannato il nome io ometto, sensibili noi siam dell’arabismo,
ma a tempi miei egl’era una manìa, pur fra i cristian v’eran de’ crudeli, i boni stavan solo in abbazìa.
l’innominato misi in questa serra chi fosse, a voi, lascio ripensare prudenzia vuol chè deo tornar in terra.
per farvelo capire non scommetto, né son certo sia giusto che qui stìa, posso sbagliarmi e subito l’ammetto,
I diversi da me non erano infedeli, ma siccome eravamo in una guerra dalla lingua mi tolsi tutti i peli
Posso dir che lo vidi sanguinare tutto tagliato dalla testa all’ano vistosi visto cominciò a parlare: in oriente ci feci un gran baccano, voi non eravate certo a me migliori, ed il mio dire non era poi balzano. Te sta’ attento agli ammiratori dillo anche ’gli amici ancor viventi che si aspettan per lor degli orrori.
Canto XXVIII 9° cerchio 8a bolgia Seminatori di discordia e di scisma, Un demone brandisce una grande spada e taglia a pezzi il corpo dei dannati, come loro hanno fatto in vita, seminando divisione, paura e morte. Le profonde lacerazioni si rimarginano, si ricompongono i corpi per essere poi dilaniati ancora e così per l’eternità.
2 APRILE 2016 pag. 16
Con profondo afffetto e ammirazione per Paolo Poli pubblichiamo il testo da lui scritto su Palazzeschi inserito, dietro sua autorizzazione, nel catalogo “...E lasciateli divertire!” Mostra di Paolo della Bella e Aldo Frangioni alla galleria La Corte di Firenze del 5 giugno 2015. da Alfabeto Poli, a cura di Luca Scarlini
P
alazzeschi è stato uno dei governanti della mia infanzia ed è una delle voci più limpide del Novecento. Lo rivedo come negli ultimi anni, quando stava alla finestra e faceva cenno con la mano. L’ho conosciuto nel 1949, avevo vent’anni. Lo incontrai grazie ad Alfredo Bianchini. Palazzeschi mi ha tenuto quasi a battesimo sulle sue ginocchia; studiavo Lettere e facevo l’attore. Avevo compilato un recital con delle sue ricostruzioni di salotti d’epoca, una cosina modesta, ma di qualità, che recitavo all’ora del tè e dei pasticcini in un albergo di Firenze. A cinquant’anni, era un po’ obeso per la bassa statura. Aveva una furba aria di gallina decorosa, una vecchia gallina che aveva già dato le sue uova d’oro, le poesie dal 1905 al 1914, le sue più belle. Venne a vedermi e mi disse due parole. Era più bravo a scrivere che a parlare. Bussavo a lungo a casa sua, lui non apriva perché aveva paura dei ladri. Era gentile e generoso e capitava che lo derubassero. Era molto timido, perché le checche dell’epoca non erano vittoriose. Lui era l’amico di De Pisis. Ora è uscito postumo Interrogatorio della contessa Maria. Non lo ha pubblicato mai perché tutti avrebbero capito che la contessina Maria era il pittore, che quando tromba col carbonaio torna a casa tutta nera, la volta invece che tromba col fornaio torna tutta bianca. Quando negli anni Sessanta a Torino ho messo in scena Il suggeritore nudo, una commedia di Marinetti, sono andato a trovarlo per sapere l’umore dei tempi del futurismo. Facemmo qualche sciocco pettegolezzo, sciocco per modo di dire, in realtà illuminante e leggero come tutto quello che lui diceva. “Eh, caro mio, si spaccava in quattro
Illustrazione di Paolo della Bella
un capello che non c’era”. Aveva sfiorato tutte le mode culturali, senza rimanere invischiato, sapeva di essere un classico. Ci siamo incontrati tante volte nel corso del tempo, a Venezia, nella sua casa romana all’ultimo piano di via dei Redentoristi 9 dove avevano abitato Gioacchino Belli e Adelaide Ristori. In pantofole, a passettini, quasi pattinando, per stanzoni un po’ bui pieni di quadri. Si lamentava dei giovani d’oggi che non erano poi così buoni. Che bello quel suo romanzo,
Perelà uomo di fumo, lo aveva tanto amato Luigi Baldacci, mio compagno di scuola. Sembrava nuovissimo, mentre la letteratura inciampava nel grande scalino chiamato D’Annunzio, in cui tutti hanno battuto la testa. Palazzeschi per fortuna sua era autodidatta, non aveva fatto studi letterari, era ragioniere. Prendeva dalla vita, la sua era una poesia periferica, un po’ malinconica, con tutti i suoi Freud nascosti, con tutti i suoi ragguagli di Parnaso. Nelle due zitelle sorelle Materassi ha
messo molto della sua tenerezza, delle sue paure, e delle sue umiliazioni. Il risultato era un verismo poetico che piacque pure al pubblico meno preparato. Il testo aveva anche un valore di documento sui luoghi della mia infanzia, perché era un tempo in cui il ricamo fiorentino cominciava già a diminuire. Le ragazze non volevano perdere gli occhi, ma uscire la sera a ballare. Poi ci fu un altro fatto: la sciocca porcella del romanzo era americana, come la Simpson, che aveva fatto abdicare il re. Mentre la fama dei contemporanei di Palazzeschi si affievoliva, lui ha azzeccato qualcosa, poi ha ritentato il colpo nel dopoguerra con I fratelli Cuccoli: l’esito però fu meno fortunato. Quando ero bambino ho visto il film di Poggioli con le due sorelle Grammatica e l’ho molto amato. So che Palazzeschi aveva detto ai riduttori di togliere i toscanismi più efferati, per evitare problemi nelle altre regioni. Io non capivo quasi nulla, ma mi piaceva vedere al cinema la mia città. Comunque parteggiavo per le zitelle e non certo per quel coglione del nipote, che nel film era bellissimo: Massimo Serato. Palazzeschi era un nanetto birichino che possedeva uno stile solo apparentemente semplice. Per questo non piaceva ai tromboni scolastici degli anni Trenta, che gli preferivano autori mediocri, più idonei alla scarsa fantasia del regime. La sua ironia era impareggiabile, descrive molte tipologie umane surreali, che poi si ritrovano nei film di Fellini. Gigantesse, nani, ballerine, scorreggioni, gobbi, ladri, morfinomani, porcellone. Oggi c’è un momento di remi in barca, per cui c’è di nuovo un finto pudore in un’epoca in cui le bambine ammazzano la mamma col coltello, come si faceva nel più bieco Cinquecento o Ottocento. Ci sono di nuovo le professoresse che mi dicono: “Belle le poesie di Palazzeschi, purtroppo troppe parolacce! In un momento difficile come questo per la scuola non ci prendiamo la responsabilità di portare a teatro degli allievi di diciotto o diciannove anni”, che ovviamente ne fanno di tutti i colori.
2 APRILE 2016 pag. 17 Roberto Mosi mosi.firenze@gmail.com di
V
alerio Giovannini, giovane artista fiorentino, espone a Cortona presso il Museo dell’Accademia Etrusca e della Città, opere che rappresentano significativi passaggi della sua ricerca: ri-leggere nel presente il fascino e la scrittura degli Etruschi. L’artista ha sviluppato in più anni un approfondito percorso di ricerca semiotica e pittorica sulla cultura dell’antico popolo e, attraverso lavori che intrecciano con sensibilità e ironia le dimensioni del tempo e dello spazio, ci mostra vicende di persone e archetipi che divengono narrazione e citazione quotidiana dell’oggi. Il titolo della mostra “Tular Dardanium”- Confine dei Dardani – aperta fino al 31 luglio 2016, riprende la figura mitica di Dardano che partì da Cortona per andare a fondare la città di Troia ed è lo stesso titolo di una delle opere esposte in cui si vedono i migranti del Mediterraneo superare, al pari degli Etruschi di una volta, i confini di oggi alla ricerca di una nuova terra che li possa accogliere, capace di consentire l’incontro fra popoli diversi, di far germogliare nuove vitalità culturali. Il sottotitolo della Mostra “Scritture anteriori presenti”riporta alla di
Gianni Pettena
pettena@giannipettena.it
Dal 1975 ho insegnato presso la Facoltà di Architettura di Firenze, dopo essere stato assistente di Eugenio Battisti. Dal ‘75 ho insegnato anche alla Architectural Association. Dalla Architectural AAssociation passavano in quegli anni a fare conferenze, tra gli altri, Buckminster Fuller, Hans Hollein, Peter Eisenman etc. Uno splendido porto di mare dove approdava la migliore, fresca intelligenza del tempo dedicata all’architettura. Zaha aveva trent’anni, era anche lei laureata all’A.A come tutti gli altri, e nel 1982 la invitai a fare la sua prima mostra in Italia, a Fiesole, insieme a tre miei altri studenti londinesi della A.A: Peter Wilson, Jenny Lowe e Nigel Coates. Già allora Zaha produceva i progetti che poi, qualche decennio dopo, avremmo conosciuto in tutto il mondo, disegnandoli con colori vivaci su
I confini visti dalla parte degli Etruschi
mente il pensiero di Walter Benjamin che invitava a riflettere su come le immagini e le narrazioni ci aiutino a liberare le energie racchiuse nel mito e a darne forma e significato nell’oggi. Così l’autore “ri-disegna” la Tabula Cortonensis – il quadro “Cur-
La prima
Zaha Hadid
a Fiesole
tum Fonts”- e nel dipinto “Malna Turan”, ecco apparire – prodigio della creatività – l’alfabeto etrusco in una tastiera postmoderna, di un computer! Un perla della Mostra – che come si usa dire “vale un viaggio”- è il video “Janela” (in portoghese,
“Soglia”) che Valerio Giovannini ha realizzato in questo periodo a Lisbona, dove risiede per un periodo di formazione, intrecciando in maniera fascinosa, immagini e messaggi da tempi e spazi diversi. La storia con-turbante del personaggio “Janela”, ancora una volta nella fertile ricerca di Valerio Giovanni, si rifà alle categorie del “confine”, del superamento delle divisioni, all’incontro fra diversi, superando le soglie del tempo e dello spazio. La visita alla Mostra cortonese “Gli Etruschi maestri di scrittura”, aperta il 19 marzo, ci presenta, come è noto, documenti di eccezionale valore culturale e storico, come il “Liber Linteus” (dalle fasce della “Mummia di Zagabria”) o la cosiddetta “Tabula Cortonensis”, a fondamento dello straordinario progredire degli studi sulla scrittura etrusca. L’incontro, d’altra parte, con le opere di Valerio Giovannini presenti in una sezione del Museo, ci fa il dono di chiavi di interpretazioni intriganti, che arricchiscono il nostro sguardo e la nostra consapevolezza, rappresenta come “un’oasi in cui si armonizzano temporalità differenti e in cui è possibile prendere una pausa dai drammi di un mondo scosso da trasformazioni incomprensibili” carta trasparente. Furono questi i disegni che io raccolsi nel suo studio nel giugno del ‘82 che, arrotolati in un tubo, portai a Fiesole insieme a tutti gli altri. Lei venne per l’inaugurazione, con agli altri tre, e passammo ancora magnifiche ore insieme. Abbiamo continuato a vederci e sentirci sia a Londra che, spesso, a Venezia in occasione delle Biennali di Architettura, tra cui quella del 1996 co-diretta insieme ad Hans Hollein. Avere la notizia che Zaha non c’era più è stato traumatico. Sapevo da un po’ di tempo che non stava bene ma non mi aspettavo una sua scomparsa così improvvisa. Chissà che bei progetti continuerà a fare insieme a Hans Hollein che l’ha preceduta di un paio di anni. Zaha non aveva famiglia, la sua famiglia eravamo tutti noi, e soprattutto il suo vero grande amore è stata sempre l’architettura cui dedicava ogni sua energia.
30.03.2016
GIOVANNI OZZOLA
finissage solo show Cercando nella notte persa Wednesday, 30 March 2016, 6pm
in
2
Dialogue between Giovanni Ozzola and Davide Ferri
APRILE giro 2016 Accademia delle Arti del Disegno
Spazio 9 Aposa Via Val D’Aposa 1C, Bologna, Italy
. 18
www.spazio9aposa.com pag
è lieta di invitare la S.V. all’inaugurazione della mostra
30.03.2016
CHARLAS CONtINuAS ARTIST’S TALkS
ELIZABET CERVIñO: ‘De la acción al rito o del rito al gesto’ Elizabet Cerviño, Manzanillo 1986, Elí Wednesday, 30 March 2016, 3-5pm GALLERIA CONTINUA / Habana Águila de Oro, Rayo 108 entre Zanja y Dragones, Barrio Chino de la Habana, Cuba www.galleriacontinua.com
ELIZABET CERVIñO ‘LA EXTENSIÓN DE LA LLUVIA’ 2015 Photo: Paola Martinez Fiterre
6 April 2016 - Reynier Leyva Novo 16 April 2016 - Susana Pilar Delahante Matienzo 31.03 - 01.04.2016
MICHELANGELO PIStOLEttO, PASCALE MARtHINE tAYOu Forum d’Avignon, culture is future
venerdì 8 aprile - ore- 17.30 31.03.2016 01.04.2016 Bordeaux, France
Saletta Espositiva dell’Accademia delle Arti del Disegno www.forum-avignon.org Via Orsanmichele 4 - Firenze /fr/forum-davignon-bordeaux
Intervengono
prof.ssa Cristina Acidini Presidente dell’Accademia delle Arti del Disegno PASCALE MARTHINE TAYOU ‘Boomerang Christianity, Boomerang Islam, Boomerang Judaism‘ 2014
prof. Domenico Viggiano Segretario Generale dell’Accademia delle Arti del Disegno 02.04.2016
LORIS CECCHINI
Accademia delle Arti del Disegno - Via Orsanmichele 4 - 50123 Firenze - tel. 055 219642 - e-mail info@aadfi.it - www.aadfi.it
solo show SISTEMI DI VISIONE / SISTEMI DI REALTA Opening: Saturday, 2 April 2016, 4.30pm 02.04.2016 - 08.05.2016
LORIS CECCHINI ‘Wallwave vibration‘ 2012
Villa Pacchiani Centro Espositivo Piazza Pier Paolo Pasolini, Santa Croce sull’Arno, Pisa, Italy Curated by Ilaria Mariotti
02.04.2016
GIOVANNI OZZOLA
solo show SISTEMI DI VISIONE / SISTEMI DI REALTA Opening: Saturday, 2 April 2016, 7pm 02.04.2016 - 08.05.2016
GIOVANNI OZZOLA ‘Routes Ibn Battuta‘ 2013
Centro Espositivo per le Arti Contemporanee SMS San Michele degli Scalzi, Viale delle Piagge, Pisa, Italy Curated by Ilaria Mariotti
02.04.2016
SABRINA MEZZAQuI
XX1T - 21st Century. Design After Design. XXI TRIENNALE ESPOSIZIONE INTERNAZIONALE MILANO 2016 02.04.2016 - 12.09.2016 Milano, Italy
Nicomp Laboratorio Editoriale, in collaborazione con la Biblioteca delle Oblate invitano alla presentazione del libro
DE AMICITIA
www.21triennale.org
dedicato a Maria Cristina Landi, a cura di Sandra Landi, Nicomp 2016
SABRINA MEZZAQUI ‘Il mantello della Regina delle Nevi’ 2014 Photo: piier.net
giovedì 7 aprile 2016, ore 17,00
05.04.2016
CARStEN HöLLER
Biblioteca delle Oblate, Sala conferenze – piano terra – Via dell’Oriuolo 24, Firenze.
solo show Doubt
07.04.2016 - 31.07.2016 Press conference: 5 April 2016, 11:30am CARSTEN HöLLER ‘Y’ 2003 (detail) Photo: Attilio Maranzano. Courtesy the artist and Thyssen-Bornemisza Art Contemporary, Vienna
Opening: Wednesday 6 April 2015, 7pm Pirelli HangarBicocca Via Chiese 2, Milano, Italy www.hangarbicocca.org
05.04.2016
ANDRÉ KOMAtSu
solo show CONCRETE THAT MAkES US 05.04.2016 – 26.04.2016
Intervengono Aldo Frangioni redattore della rivista culturacommestibile.com Sandra Landi scrittrice e saggista
Proiezione delle opere di
Vittoria Bartolucci, Kiki Franceschi, Aldo Frangioni, Daniela Piegai, ESP. Elena Salvini Pierallini, Giovanna Ugolini Letture di Gladys Basagoitia Dazza, Mariella Bettarini, Ruth Cárdenas, Liliana Ugolini
Informazioni: Riccardo Nicoletti – r.nicoletti@gmail.com – tel. 3287544996
NICOMP Laboratorio editoriale
L immagine ultima
2 APRILE 2016 pag. 19
Dall’archivio di Maurizio Berlincioni berlincioni2@gmail.com
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embrava proprio di essere in Italia! Due pensionati italo americani sono seduti in un piccolo parco, non ricordo quale, mentre stanno facendo una bella partita a carte. Come succede spesso anche da noi il loro gioco viene seguito con molta attenzione da un paio di amici che controllano la situazione e trattengono a stento l’impulso di suggerire le loro strategie di gioco. Era quasi commovente vedere come certe abitudini si fossero trasferite pari pari al di là dell’oceano. Per un momento ho avuto l’impressione di trovarmi all’interno di un circolo dei postelegrafonici da qualche parte in Toscana.
NY City, agosto 1969