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redazione gianni biagi, sara chiarello, aldo frangioni, rosaclelia ganzerli, michele morrocchi, barbara setti
progetto grafico emiliano bacci
Con la cultura non si mangia
71 238
N° 1
Ce n’est qu’un début
Foto di Oliviero Toscani
editore Nem Nuovi Eventi Musicali Viale dei Mille 131, 50131 Firenze Registrazione del Tribunale di Firenze n. 5894 del 2/10/2012
Da non saltare a cura della
S
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Redazione di Cuco
i è ripreso a discutere di spostare la statua del Giambologna “Il Ratto delle Sabine” all’interno della Galleria degli Uffizi e di sostituirla, sotto la Loggia dei Lanzi, con una copia. Come vede Antonio Natali, storico dell’arte, già direttore degli Uffizi, questa idea di “proteggere” gli originali in un museo e di sostituirli con una copia? Non ho, quasi mai, risposte nette, soprattutto quando la materia è così delicata. Né io credo si possa impostare in modo così rigido la questione. Si tratta di verificare lo stato di conservazione dell’opera, non sulla base di impressioni o di sensazioni, ma sulla base di dati forniti da macchinari che tengono l’opera monitorata, che ci dicano quale sia il degrado dell’opera e quali i rischi. Del resto se di questo si parlava dall’epoca in cui era direttrice Anna Maria Petrioli Tofani, vuol dire che sono passati diversi anni e già allora noi dicemmo che c’era effettivamente necessità di un intervento di protezione. Già allora le indagini degli esperti e successivamente le macchine hanno attestato che c’era questa necessità. Fin da quel tempo, avevamo trovato una stanza per esporla, facendo come aveva fatto Berti al “Bargello”, cioè tenendo aperte le porte con i vetri per cui la gente anche dall’esterno, dal porticato, avrebbe visto la statua e poi, chi entrava, l’avrebbe vista girandoci intorno. Torno a dire che io mi rimetto alle macchine. Dunque, per lei, la questione si pone solo in relazione allo stato di conservazione dell’opera e non ai rischi di vandalismo, di cui pure si discute? No, non per i pericoli di vandalismo. Sono stato fatto passare talvolta come un oscurantista, dicendo che io volevo adottare misure da Medioevo perché avevo detto che la Loggia e l’opera andava chiusa. Ma bisogna essere un po’ limitati per pensare che io volessi chiuderla con una palizzata. In effetti è bastato mettere un leggero cordone e vigilare meglio. Il che non esclude in assoluto, evidentemente, l’atto vandalico; come non lo si può mai escludere neppure in Galleria, anche se si possono e si debbono adottare tutte le accortezze (vigilanza, vetri di protezione antiriflesso e antisfondamento, ecc.). Ma questo fa parte della vita e non è per questo che si può pensare ad uno spostamento in Galleria del Ratto delle Sabine, bensì solo per lo stato fisico di conservazione dell’opera. Evidentemente è
Il diritto di invecchiare delle opere d’arte
un’operazione che non va fatta a cuor leggero ma con la consapevolezza che per il futuro – e non solo quello della statua, ma anche dei nostri figli – occorre garantire l’integrità dell’opera. Questo, però, ci conduce ad un altro dilemma: ma le opere d’arte hanno “diritto”a invecchiare o devono essere conservate quali reliquie laiche come in qualche modo preconizzava Walter Benjamin? Le opere d’arte hanno diritto a invecchiare, però sono gli uomini che hanno diritto a vederle. In tutte le varie conferenze che tengo, l’opera di cui parlo è sempre un pretesto perché poi cerco di parlare di metodo. Se noi consideriamo l’opera d’arte un testo poetico che invece di esprimersi in parola si esprime in figura allora comprendiamo meglio il significato di quello che penso. Se io leggo una poesia di Montale non la voglio leggere smangiucchiata di qualche parola, la voglio leggere nella sua interezza. Il fatto è che quando parliamo di queste opere parliamo astrattamente di bellezza, ma non è questo il concetto. Perché la bellezza di un testo poetico, che si esprime in parola, prevede un’esegesi per metà linguistica e per metà contenutistica, e questo è comune per gli storici della letteratura. Mentre i pochi storici dell’arte che seguono questo metodo non godono di buona critica in Italia dove c’è una forte scuola di filologia, ma si fa pochissima iconologia. Allora se leggiamo l’opera d’arte come un testo poetico, io ho il desiderio di vederla non come fu stata realizzata (perché essa invecchia, anche se non ci sono smog o piogge acide) però il più vicino possibile a come era, questo sì è giusto. Con James Beck una volta ebbi una dura discussione, perché lui diceva che si pretendeva da parte mia di tornare ad un impossibile originale e diceva che era come pretendere di fare un lifting ad un uomo di 80 anni per riportarlo ad un’età che non ha più. Non è questo il punto; fare un restauro è piuttosto
come fare una doccia ad un uomo che è 80 anni che non si lava. L’età non si cambia, ma non si può pensare che gli agenti atmosferici e ambientali corrosivi ci tolgano anche quello che noi potremmo recuperare di leggibile. Non si tratta di ritrovare i colori, ma certo che se ci si avvicina quanto possibile all’opera come era, ne guadagna la poesia che stiamo leggendo. Noi dobbiamo garantire che per generazioni e generazioni ancora l’opera si possa apprezzare e possa contribuire a rendere migliore la vita delle persone che verranno. Ma l’opera è anche il luogo e il contesto in cui è stata progettata, realizzata e anche collocata. Molte di esse sono state trasferite in musei e, dunque, decontestualizzate e ricontestualizzate. Come, ad esempio, nel Museo dell’Opera del Duomo. Ma il valore del contesto e del luogo per il quale l’opera è stata concepita, ha un valore in sé? Certo, ma questo comporta considerazioni niente affatto banali. Oggi siamo arrivati ad un punto di riproducibilità dell’opera d’arte di tale perfezione, che il vedere l’originale o meno diventa una questione quasi psicologica: sei tu che sai che quell’opera non è vera. E ancora si potrà progredire fino a fare delle copie identiche all’originale. Per cui il contesto rimane quello che è, e l’opera si salva. Se poi si arriverà un giorno alla certezza di avere condizioni microclimatiche tali da poter esporre di nuovo l’opera senza rischi per lei, benissimo si potrà esporla all’aperto di nuovo. Ma una struttura di marmo tenuta all’aperto, comunque, mostra i segni del tempo e degli agenti atmosferici dopo un certo numero di anni. Quindi vi è una parte, che è quella dello struggimento del cuore, che può anche gradire e apprezzare questo aspetto, c’è però un’altra parte – che è cuore e testa insieme – che ti dice che queste sensazioni le devono provare anche gli altri che oggi non sono vivi e che lo saranno negli anni a venire. Ormai, anche con i quadri,
è possibile arrivare a dei livelli di precisione nella riproduzione delle opere altissimi, fino a non accorgersi che si tratta di una copia. Allora, quanto più si salirà dal punto di vista tecnologico, tanto più si salverà anche il contesto; ma se c’è da salvare l’opera, io non ho mai nutrito dubbi sulla necessità di farlo, purché naturalmente sia attestato che la salviamo quell’opera. Questo introduce un altro elemento: è la consapevolezza del reale che fa vedere le cose diverse, non l’immagine che vediamo? Nel senso che se sappiamo, vediamo in un certo modo, ma se non sappiamo, vediamo ciò che non sappiamo? Quindi l’elemento fondamentale è l’ignoranza. Dovremmo scrivere sotto ogni statua se è vera o falsa. Certamente, nel senso di ignorare. Dal punto di vista umano è un problema di natura psicologica, ma dal punto di vista dello stato fisico dell’opera, è una questione oggettiva o quanto meno sufficientemente misurabile. Io piuttosto aprirei un altro problema, quello di una città come Firenze che – forse ci crede o forse no – pensa di tutelare; nel senso che si sta a discutere di cosa c’era, di cosa c’è e di cosa ci sarà in Piazza della Signoria, ma non si discute del restauro che è stato fatto di quella stessa piazza. Un restauro che non si sarebbe fatto per il più anonimo dei piazzali: le pietre, che furono tutte fotografate, e sostituite con pietre nuove. Ora, è del tutto evidente che la pietra ha la sua età. Ma se mi viene detto che non si vuole fare la piazza rossa (in cotto come rappresentata nel celebre affresco in Palazzo Vecchio) perché si vuole fare un restauro filologicamente corretto, allora si sarebbe dovuto rimettere le pietre originali (a parte quelle rotte). Invece è successo che ci sono alcune pietre che sono state accostate con una fuga, altre con una fuga accecata, altre ancora perché si voleva provare a fare la spina di pesce: si è fatto un brutto puzzle con una pietra brutta. Questa sì che sarebbe una cosa di cui preoccuparsi dato che stiamo parlando di una delle piazze più celebri del mondo! Ecco, io rispetto a certa filologia ottusa, preferisco il restauro fatto da bravi antiquari con bravi restauratori. Sotto la Loggia dei Lanzi ci sono opere che abbracciano un arco di quattro secoli. Ma, oggi, in Piazza della Signoria vengono esposte, temporaneamente, opere d’arte contemporanea. Nel passato non c’erano troppe polemiche ad affiancare un’opera contemporanea (di allora) con un’opera di trecento anni
Da non saltare
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precedente. Oggi si polemizza per le opere d’arte contemporanea in piazza della Signoria. Èl’aura di Piazza della Signoria che fornisce l’aura alle opere d’arte contentemporanee, oppure quest’ultime possono in qualche modo accrescere quella della piazza e quindi avere diritto di cittadinanza in questo contesto? Ed è proprio necessario, in questo spazio così ben definito come quello di Piazza della Signoria aggiungere altro? Di per sé non è necessario. Sicuramente ne hanno da godere le opere contemporanee, ma non perché lì ci sono opere antiche, ma perché il contesto è talmente nobile che non puoi addurvi altra nobiltà. Puoi però far capire che anche il contemporaneo ha diritto di cittadinanza. Di questo sono convinto e mi batto da tanto tempo, al punto che feci mettere l’opera con la scritta al neon di Nannucci sul fronte degli Uffizi: “Tutta l’arte è sempre stata contemporanea”. Un po’ avevo accettato questa proposta di Nannucci perché è, perfino banalmente, così; però era soprattutto per far capire ai fiorentini che gli Uffizi sono un museo di arte contemporanea, nel senso che quando Francesco I li realizza, i primitivi non c’erano, ma c’era piuttosto il Cinquecento, la sua stagione, per dire quanto fossero più aperti allora. Quindi sicuramente le opere contemporanee qui esposte ne desumono vantaggio. E questo forse dovrebbe fare un po’ riflettere: senza parlare degli ultimi, ci sono stati artisti che sono stati poi catapultati alla ribalta mondiale proprio perché sono stati esposti in Piazza della Signoria. E questo potrebbe far sorgere interrogativi anche di natura giuridica. Quindi bisogna stare attenti. Io credo che questa città abbia sempre difettato di progetti e di programmi. Se capita di passaggio Kounellis, gli si dice di esporre. Ma ci vuole un disegno perché altrimenti vuol dire che noi trattiamo il contemporaneo peggio di come lo trattano coloro che lo rifiutano. Come quando si voleva fare il referendum sulla Loggi di Isozaki: si riconoscono gli oppositori perché la chiamavano pensilina, da quelli che la volevano che la chiamavano giustamente loggia. Chi ne voleva ridurre l’altezza, effettivamente la voleva ridurre ad una pensilina. E su quella vicenda abbiamo fatto una figura pessima di fronte al mondo per aver fatto un concorso internazionale, aver costituito una commissione composta dalle autorità massime per una simile decisione e poi non averne fatto di nulla. Io credo che per far
Intervista a Antonio Natali digerire a questa città il contemporaneo, bisogna farglielo conoscere. Isozaki non era certamente una personalità di seconda linea, è un poeta dell’architettura. Ma è il rapporto con il contemporaneo il problema. Nel passato non c’era questa difficoltà con il contemporaneo. Nella mostra sul Rosso, Pontormo e Bronzino che ho allestito tempo fa questo concetto è espresso in modo chiaro. Nel chiostrino dei Voti della Santissima Annunziata, che era il luogo più frequentato dai fiorentini (tanto è vero che Vasari narra l’aneddoto secondo cui Andrea del Sarto non fu pagato per il lavoro svolto perché quello era un buon biglietto da visita tanto era luogo di passaggi), nel 1509 Andrea del Sarto viene chiamato dai Serviti (perché anche il clero aveva un’altra cultura) per dipingere le Storie di san Filippo Benizi quando aveva 23 anni. Nel 1511 Andrea dipinge un altro affresco, il Viaggio dei Magi, e ne aveva 25 e porta con sé Rosso Fiorentino che di anni ne aveva 17 (che realizza una figura, quella panneggiata che si gira con fare sprezzante). Poi Pontormo e Rosso nel 1514, ancora ventenni, completano il ciclo con la Visitazione e l’Assunzione di Maria. Ventenni: lo faremmo noi questo? Mi si dirà che questi erano Rosso e Pontormo: ma lo sapevano loro che erano Rosso e Pontormo? Ed è del tutto noto che non è che furono chiamati perché dipingevano alla maniera degli artisti precedenti; anzi, erano dei rivoluzionari. Rosso, come Andrea del Sarto, era un savonaroliano. Ecco, invece noi continuiamo a pensare di essere eredi dei grandi, credendo che sia bastevole tutelare. L’eredità vera è quella di recuperare dai padri le virtù dei padri: l’anticonformismo, il coraggio, la spregiudicatezza, tre virtù che senza la quarta – la cultura – sono tre vizi. E la cultura a Firenze difetta. Io prendo nota che i fiorentini preferiscono stare alla finestra a guardar passare la storia, pur di non fare neppure le comparse. Poi guardiamo fuori d’Italia per vedere il coraggio che ancora c’è in giro. C’è quindi un conformismo anche nella gestione del contemporaneo. Portando a Firenze o soggetti che si intendono valorizzare (anche dal punto di vista commerciale), oppure soggetti celebrati, senza rischiare. E in Piazza della Signoria questo è agevolato perché certo non vengono esposti a Novoli al Palazzo di Giustizia. Ecco io sostegno che uno dei monumenti più belli di Firenze sia il Pistoletto a Porta Romana perché
con questo sguardo e con questo dietro-fronte in testa, nobilita anche il contesto che è una piazza abbastanza scombinata non del centro storico. A Firenze manca un progetto che si proponga di lasciare, di qui a 50 anni, un segno importante del nostro passaggio. Fui invitato dal cardinal Ravasi nel Salone dei Cinquecento a dire la mia sulla bellezza. Citai gli ultimi Papi che parlavano del desiderio della chiesa di riprendere i contatti con gli artisti e tutti facevano riferimento alla bellezza che redime: dissi che certamente la bellezza può redimere, che è una elevazione dello spirito e gli altari sono il luogo per eccellenza di questa elevazione; alzai la testa e chiesi perché, allora, continuavamo a mettere cose così brutte sugli altari? Il punto è che non c’è educazione alla bellezza, non si sa cosa sia, si presume di saperlo e arroganti come siamo, mettiamo delle cose orribili sugli altari. Si rifugge il contemporaneo, invece. Ma ci è mai capitato di leggere come Giovanni descrive la resurrezione? Dipingiamo sulle tele questi cristi con le aureole, che partono verso l’alto dei cieli, ma le descrizioni evangeliche della resurrezione sono altro: le donne arrivano, la pietra era a terra, all’interno il sudario è ripiegato e a terra c’è il lenzuolo. In una installazione concettuale, mi sono immaginato una stanza semibuia, con una luce che filtra e batte sul lenzuolo bianco. Se lo spirito è mantenuto, allora lì posso pregare, senza bisogno d’immagini; ma di fronte a certe immagini di cristi, è diffcile pregare. Dunque, ciò che manca sull’arte contemporanea a Firenze è una visione complessiva e una programmazione, non casuale, degli interventi in tutta la città? Tutto va programmato. Voi capite bene che non è la programmazione degli Uffizi da sola che può salvare Firenze, anche dal punto di vista economico. Io da tempo dico che agli Uffizi si dovrebbe entrare gratis. Certo che ci vuole qualcuno che programmi, ma il manager non ci vuole agli Uffizi, bensì in Comune. Nel senso di una istituzione che capisce quali fila vanno riordinate e come smistare la popolazione turistica, lavorando anche con gli esercenti, in maniera tale da spingere i turisti a rimanere a Firenze non tre ore ma almeno due giorni: così la città e il paese possono crescere. Invece la cultura del feticcio alimenta il turismo mordi e fuggi. Il mio prossimo libro si intitola proprio “Feticci e poesia.
Pagine da una stagione agli Uffizi”. Sono scritti che io ho pubblicato prima del 18 agosto 2015, quando ho lasciato la direzione della Galleria, e ripubblicati per dimostrare che queste cose non vengono dette ora per ora, bensì allora perché fin dalla stagione di Berlusconi si è affermata l’idea di uno sfruttamento intensivo e senza qualità del patrimonio artistico e culturale del paese. L’ho scritto per far capire la differenza fra la poesia, che c’è in questo luogo, e il feticcio, che spesso è l’unica ragione per cui si viene agli Uffizi. Vorrei usare, al posto della parola “turisti”, la parola “ospiti”; e la differenza non è solo nominale. Purtroppo questa non è una città ospitale, ma per cambiarla ci vuole un progetto. Ci si lamenta sempre dell’asse Accademia-Uffizi, ma ad esempio cosa si fa per far conoscere il Chiostrino della SS.Annunziata? I fiorentini non sanno che lì nasce la Maniera italiana. Ora lo sta restaurando un’associazione americana, Friends of Florence, perché se era per noi rimaneva così. Oppure il Cenacolo di San Salvi: qui c’è l’affresco del Cinquecento meglio conservato e nessuno lo visita. Affresco di Andrea Del Sarto che non fu distrutto al tempo dell’assedio perché, quando in tre notti furono distrutte gran parte delle chiese di Firenze, ai guastatori che andarono a San Salvi caddero le vanghe di mano abbagliati da tanta bellezza. Sarà pure un aneddoto, ma intanto tutto intorno è distrutto e quello è rimasto intonso. Ebbene, non si fa assolutamente niente per dirottare turismo o incentivare le visite a questo capolavoro. Si sarebbe dovuto avere il coraggio di fare una grande mostra lì per attirare l’attenzione su quest’opera. In relazione alla casualità vorrei segnalare l’incongruità dell’aver collocato l’opera di Jan Fabre, L’uomo che misura le nuvole (che chiamerei piuttosto L’uomo che misura le bugne perché in quella posizione questo fa, misura le bugne di Palazzo vecchio non certo le nuvole del cielo): perché non lo si è piazzato nella Loggia dei Lanzi? Lì davvero, visto dal basso, avrebbe offerto la misurazione delle nuvole. Se davvero esiste un progetto in cui Comune e Sovrintendenza collaborano, allora si osi di più. In quella collocazione l’opera di Jan Fabre avrebbe esplicitato la sua poesia, che non è nell’oggetto in sé. Invece collocato lì come ora, contro il fronte di Palazzo Vecchio, su un incogruo basamento, vanifica la sua funzione poetica.
riunione
di famiglia
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Le Sorelle Marx Mercoledì scorso è stato il D-day contro il degrado: tutta la Giunta Nardella è stata precettata, secchio e pennello in mano, a ripulire la città e ricoprire le scritte sui muri. Cronaca di una battaglia campale. Nardella dà la carica al suo manipolo di coraggiosi: “Forza, ragazzi, si parte! Avete tutti il pennello in mano e il secchio? Bene! Avanti, miei prodi, in S.Croce e ricoprite tutte le scritte brutte che trovate!”. L’intrepida squadra nardelliana, si avvia felice e cantante: “Ehi Oh, Ehi Oh, andiamo a cancellar le scritte brutte sui mur. Noi del Nardello, gli angeli siamo del bello. È il tipo di lavoro che ci dà felicità, non certo quello di governar la
Il D-day del degrado città. Da mane a sera siamo intenti a ripulir, pittiam e ripittiam tutto quello che ci par. Ehi Oh, Ehi Oh, poi a casa a riposar!”. Subito si distinguono le varie correnti. C’è quella creativa e artistica guidata dalla vice Giachi: “Dario, posso dare una mano di rosa e una di violetto a questa orribile scritta? Che poi fa da pendant con il mio tailleur”. E il capo: “Per carità di Dio, Cristina, o come ti sei conciata oggi? Fai quello che vuoi, ma fai!”. Poi c’è la componente pragmatica, con in testa l’assessore ai lavori pubblici Giorgetti, con casco e giubbotto catarifrangente. La
I Cugini Engels
La nuova Unità È un primo pomeriggio sonnolento romano, nella sede di via Barberini dell’Unità, quotidiano di riferimento del Pd. Ritmi lenti, giornata fiacca per la cronaca politica; i giornalisti sperano in qualche notizia frizzante dell’ultim’ora per comporre la prima pagina e intanto spippolano stancamente su Internet. Ad un certo punto si spalanca la porta e appare niente di meno che Renzi, accompagnato dal fido Bonifazi: “Sveglia, ragazzi! Che fate, dormite? Dov’è quello stakanovista di Erasmo?”. Solerte il vicedirettore Frulletti accompagna il premier nella stanza del direttore D’Angelis. Stessa scena, Renzi spalanca la porta di colpo e spaventa il povero D’Angelis, quasi assopito nella penombra: “Ovvia, Erasmo, accendi il lume che si cambia verso! Forza, scattare!”. Il direttore sobbalza e con accento natio risponde: “Ahò, Matteo, che me stai a fa’ li scherzi. E su, dai, che stavo a medita’ er titolo d’apertura! Senti questo: Matteo annichilisce l’Europa: o la flessibilità, o vi spezzo!”. Eh, te piace?”. “Senti Erasmo, mentre tu stai a trastullarti con i titoli, qui le cose vanno a scatafascio! Lo sai quanto vende la tua Unità? Te lo dico io: 8.000 copie! No, dico, ottomila! Ne vende di più “il Galletto” nel Mugello. E io ‘icché ti pago a fare, te e tutta questa banda di briachi che c’hai in redazione?”. “Ma dai, Matteo. Noi ce stiamo a impegna’. Ora m’è venuta un’idea geniale per rilanciare le vendite. Alleghiamo all’Unità le freccette e un bersaglio, ogni settimana, con una faccia diversa, iniziamo con Cuperlo e poi andiamo avanti con Speranza, D’Alema, Bersani. Così nei circoli del PD si divertono e ci comprano l’Unità. Poi ho chiesto a Staino di fare un tour nei circoli ad inaugurare il torneo di freccette,
che intitoliamo “Bull out the Left”, che vuol dire “colpisci e vinci la sinistra”. Ho chiesto a Reichlin di scrivere un fondo sulla storia del gioco delle freccette, che risale i Padri Pellegrini imbarcati sulla Mayflower nel 1620. E come premio per chi vince una gita al mio paese natale, Formia. Che figata eh?” Renzi si rivolge al fido Bonifazi per chiedere un suo parere, il quale essendo l’intellettuale del gruppo cita a memoria l’epigramma di Marziale dedicato all’amico Apollinare, “O temperate dulce Formiae litus...”. Ma Renzi oggi è un fiume in piena: “La mitezza del clima di Formia?? Ma che hai bevuto, tanto per cambiare, Francesco? Mi avete rotto le scatole! Qui caro Erasmo si sbaracca! Fai le scatole, che domani qui ci mando il Luna e te vai a vendere l’Unità ai semafori, che così almeno una volta in vita tua provi l’ebrezza del lavoro!”. “Ahò Matté, ma che me stai a rottama’? Ma perché? Te so’ sempre stato fedele, come i carabbinieri! E poi me mandi quello del ‘Romanista’, ‘sto Luna: ma chi è? E io che faccio?”. “Senti Erasmo, non mi stare a rompere. Tu torni a Palazzo Chigi a non far nulla, esattamente come prima e come ora: tanto sempre da lì ti abbiamo pagato anche in questi 11 mesi. Almeno così non fai danni. E qui, noi si cambia verso: un po’ di gente a casa! Al posto delle scrivanie, tutti studi televisivi e si fa un giornale web, social, tweet, wired. Basta carta, che poi ci tocca anche leggerla e qui ci fate gli aeroplanini. Al massimo si fa un formato A4, così smettiamo di pubblicare quegli articoli di Cuperlo lunghi come la fame. Due vignette, qualche post, tre titoli presi da Internet e il giornale è bell’e fatto! Addio, Erasmino, torna a riposare, vai!”
componente fancazzista invece è guidata dall’assessore allo sport Andrea Vannucci, che se ne sta in disparte a meditare su alcune incomprensibili scritte vandaliche: “Senso unico? Caduta massi? Dossi e cunette? O che roba è? Sicuramente son messaggi in codice degli antagonisti. Io li cancello!”. Si avventa su di lui Giorgetti: “Fermo grullo, son cartelli stradali, che poi mi tocca rimetterli!”. La componente zuzzerellona Bettarini-Gianassi è intenta a fare disegnini poco urbani e l’internazionalista Mantovani si concentra sulle scritte in inglese. Perra, assessore al bilancio, arriva in
ritardo vestito come un damerino: “Oh ragazzi, piano con la vernice che mi costa un botto! Diluitela un po’” Le vallette-assessore Funaro e Bettini, tacco 15, con inane pennellino da fard sono intente a cancellare un monumentale murales. L’entusiasmo si ammoscia dopo i primi gloriosi minuti, ma il Conducator imbraccia il suo violino e suona la carica intonando l’aria del “Nessun dorma” della urandot. Ma, ad un tratto, si diffonde il panico fra le fila della decorosa giunta: sta arrivando Eugenio Giani, con il suo fascione regionale e un mega pennello. Lo fronteggia, impavido, Nardella, si incrociano archetto e fascione: uno scontro fra Titani. Sentenzia Braghero il saggio: “La guerra dei Tonni cominciata è”.
Lo Zio di Trotzky
Il cordolo Pronto Ufficio Urbanistica? Sì prego mi dica. Buongiorno senta vorrei parlare con un funzionario per avere alcune precisazioni sul Regolamento Urbanistico. Si attenda un attimo che le passo il funzionario 1. Scusi non ho capito bene come si chiama il funzionario? Guardi il nome non lo posso dire. Sa le Nuove Norme Anticorruzione e per la Legalità. Lo chiami pure n°1 Ma scusi ma come faccio a riconoscerlo se lo devo richiamare per ulteriori chiarimenti? Non potrà parlare con lui. Ogni mezz’ora cambiamo funzionario e numero di identificazione. Sa le Nuove Norme Anticorruzione e per la Legalità. Ma così non si capirà mai come fare a individuare il responsabile di eventuali informazioni non corrette. Ma non sarà neppure possibile identificare un funzionario per corromperlo. Sa le Nuove Norme Anticorruzione e per la Legalità. Va bene ho capito mi passi il funzionario 1 se ancora c’è, oppure è diventato il funzionario 2. No guardi per ancora dieci minuti è il funzionario 1. Lo metto subito in collegamento con Lei. Pronto funzionario 1? Sì sono il funzionario 1 mi dica. Senta vorrei capire come si interpreta il comma 2 ultimo paragrafo dell’articolo 64 “Sub Sistemi dei fiumi Arno, Greve e del Torrente Ema” del Regolamento Urbanistico, contenuto nel Volume 1 Parte 4 “Disciplina dei sistemi territoriali”. Titolo I “Disci-
plina dei sub sistemi e degli ambiti” Lo deve leggere. No guardi l’ho letto ma sinceramente non mi sembra proprio chiaro e quindi avrei necessità di capire come l’ufficio lo interpreta, e se ci sono già stati progetti in questi ambiti in modo da fornirmi indicazioni utili. Come si deve leggere questa frase che lei sicuramente conosce: “Gli interventi di trasformazione che modificano lo sky-line esistente devono essere oggetto di verifica del corretto inserimento avendo come riferimento i punti di belvedere individuati nella tavola “Tutele” del Piano Strutturale.”? Lei è un professionista? Certamente perchè altrimenti la chiamerei. Allora se è un professionista la può interpretare da solo. Sì certo ma poi voi lo esaminate e, se la vostra interpretazione è diversa, mi bocciate il progetto. È nei nostri compiti. Ora mi scusi ma il mio tempo è finito. Ora deve parlare con il funzionario 2. Pronto sono il funzionario 2 mi dica. Senta come dicevo al suo collega..... No guardi deve rispiegarmi per bene tutto da capo. Sa le Nuove Norme Anticorruzione e per la Legalità. Ma mi scusi è dieci minuti che parlo..... e ora devo ricominciare? Sa le Nuove Norme Anticorruzione e per la Legalità parlano chiaro: niente contatti personali e non più di mezz’ora al turno telefonico. Ok grazie. (Rivolto al cliente- Senta quel cordolo di 20 cm per il tetto ai fini delle norme antisismiche lo facciamo comunque e poi si vedrà)
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Roger Schall
Parigi sotto lo stivale
Danilo Cecchi danilo.c@leonet.it di
F
ra i cantori della Parigi degli anni Trenta, all’epoca il centro culturale europeo per eccellenza, e polo di attrazione dei maggiori intellettuali europei ed americani, troviamo il fotografo Roger Schall (19041995), un uomo dalla personalità complessa e dai numerosi interessi contrapposti. Figlio di un fotografo professionista diventa illustratore, fotogiornalista, fotografo di moda, di pubblicità, di nudo e di architettura, oltre che direttore dello studio fotografico di famiglia (Studio Schall) che gestisce con il fratello Raymond come una vera e propria agenzia fotografica (Schall Press). Roger arriva a Parigi con la famiglia nel 1911 dalla nativa Nancy, comincia a fotografare nel 1920 all’età di sedici anni, e continua durante il servizio militare ed il soggiorno in Libano. Torna a Parigi nel 1926 per aprirvi un proprio studio nel 1931 dalle parti di Montmartre, nel 1929 comincia a collaborare con le riviste illustrate, dal 1934 collabora con Vogue, nel 1936 fotografa i giochi olimpici di Berlino per Vu, dal 1939 collabora con Life, pubblicando fra il 1932 ed il 1940 oltre diecimila immagini su duecento riviste pubblicate in diversi paesi. Ma al di là degli impegni professionali, quello che appassiona Roger Schall è la città di Parigi, in tutti i suoi aspetti vitali, umani e quotidiani, entrando a far parte di quella schiera di fotografi della così detta “photographie humaniste” che caratterizzano in maniera così netta e decisa la fotografia francese per oltre trent’anni. Dal suo vagabondare diurno e notturno per le strade di Parigi nasce il libro “Paris de Jour” pubblicato nel 1937, con testi di Jean Cocteau, quasi una risposta al libro “Paris de nuit” di Brassai con testi di Paul Morand pubblicato qualche anno prima, nel 1932, ed a cui fa seguire nel 1943 il libro “Reflets de France”, pubblicato dal fratello Raymond Schall, diventato nel frattempo anche editore. La dichiarazione della guerra, la sconfitta e l’arrivo delle truppe tedesche allontanano da Parigi la maggior parte
degli intellettuali stranieri e francesi, ma non riescono ad allontanare Roger Schall, il quale nel corso dell’occupazione tedesca, fra il giugno del 1940 e l’agosto del 1944, continua a fare quello che faceva prima, fotografando le strade e le piazze di Parigi, la gente che si muove e la vita che scorre, sia pure in mezzo a nuovi problemi, nuove situazioni e nuove precarietà. Immediatamente dopo la liberazione, nell’ottobre del 1944, Raymond Schall pubblica con un tempismo formidabile il fotolibro “A Parigi sotto lo stivale dei nazisti”, utilizzando molte delle immagini del fratello Roger, insieme a quelle di altri fotografi come Doisneau. Mentre Raymond continua a pubblicare libri sulla occupazione e sulla liberazione di Parigi, Roger continua a fotografare, nel 1945 pubblica “Paris Relief ” e prosegue fotografando Parigi per i vent’anni successivi, fino alla fine degli anni Sessanta. Nel 1970, quando si ritira, lascia un archivio di ottantamila immagini che viene gestito dal figlio. Le immagini scattate nel periodo della guerra rappresentano ancora oggi la parte più interessante dell’intero archivio, tanto è vero che nel 2005 le edizioni Cherche Midi pubblicano il fotolibro “Paris au quotidien 1939-1945 - vu par Roger Schall”, in cui vengono riproposte le immagini scattate subito prima, durante e subito dopo il periodo dell’occupazione tedesca. Immagini che non raccontano i disastri della guerra, l’orrore dei combattimenti o la retorica militarista dell’una o dell’altra parte, ma la vita quotidiana che trascorre in maniera apparentemente “normale” parallelamente allo scorrere dei grandi eventi storici.
21 MAGGIO 2016 pag. 6 Laura Monaldi lauramonaldi.lm@gmail.com di
N
elle poetiche postbelliche si concretizzò una rottura e uno scarto dalla norma più ponderato e più intellettuale rispetto alle avanguardie del primo Novecento, più conscio di una società in trasformazione e di un’avanguardia che doveva evidenziare la nascita di una nuova era. Non a caso la pittura di Fabrizio Clerici è intrisa delle inquietudini novecentesche unite a vari riferimenti artistici e letterari in un dialogo surreale e introspettivo. Una poetica complessa ed eclettica che fece dei codici figurativi una ricerca sulla figura, sull’uomo e sul paesaggio contemporaneo, con una particolare attenzione alla dimensione archeologica fatta di memoria e nostalgia, di mitologia e progresso, di passato e futuro per un presente indescrivibile. Autorevole visionario la
Il trionfo
Fabrizio Clerici
sua opera si configurò come un pastiche di decadenze antiche e di fantasie grandiose: una prassi artistica colta e avulsa dal passato, onirica e stendhaliana, razionale nell’articolazione delle immagini e nella teatralizzazione di miti ma anche utopica nella resa delle forme e del co-
lore, quasi scenografici. L’indeterminatezza temporale domina nelle opere di Fabrizio Clerici che pose nella ricerca artistica la necessità dello svelamento di un enigma e di un viaggio mentale che non fanno altro che mettere in evidenza la spettacolarizzazione di una teatralità quotidiana
effimera e sorda, che s’inviluppa in una metafisica d’avanguardia, dimenticando la militanza e facendosi eccentrica peregrinazione figurativa. Al centro della sua virtuosa produzione vi fu la presenza costante del fatalismo, come senso tragico del presente che lo costrinse a uno sguardo sognatore e nostalgico dei trionfi passati. Ulisse Aldrovandi, naturalista, botanico ed entomologo italiano del Cinquecento, fu un precursore dell’osservazione naturalistica, un personaggio affascinante ai confini fra sapere tradizionale e scienza moderna e rappresentativo del gusto enciclopedico del suo tempo. Il Trionfo di Fabrizio Clerici a lui dedicato evoca un bestiario immaginifico e leggendario, tipico della poetica visionaria e surrealista di Fabrizio Clerici, a cui si accomuna e ne valorizza il mito. Trionfo VI per Ulisse Aldrovandi, 1987 Tempera su carta intelata cm. 69,5x92
21 MAGGIO 2016 pag. 7 Alessandro Michelucci a.michelucci@fol.it di
I
l jazz norvegese occupa un posto di rilievo all’interno di quello europeo. Non si tratta di un fenomeno recente: i primi lavori di artisti come Terje Rypdal e Jan Garbarek, tanto per citare due dei più noti, risalgono agli anni Sessanta. Oggi la Norvegia è in grado di offrire un ampio panorama che include Ketil Bjørnstad, Sidsel Endresen, Trygve Seim, Bugge Wesseltoft e molti altri nomi. La storia di questo fenomeno musicale è stata ricomposta con cura esemplare da Luca Vitali nel libro Il suono del nord (Auditorium, 2013). Un ottimo saggio che recentemente è stato pubblicato anche in edizione inglese. Questa musica non è stata diffusa soltanto da etichette locali come Hubro, Jazzland e Rune Grammofon, ma anche da quelle tedesche, in particolare ACT ed ECM. Si deve a quest’ultima il recente esordio di Mette Henriette, una giovane sassofonista che si differenzia dagli altri jazzisti norvegesi per un motivo particolare. La musicista (all’anagrafe Mette Henriette Martedatter Rølvåg) ha origini sami (lapponi) e dichiara orgogliosamente
Michele Morrocchi twitter @michemorr di
Cosa accadrebbe se l’islam più fanatico incontrasse la società del grande fratello Orwelliano? Parte da questa intuizione, 2084 la fine del mondo di Boualem Sansal (Neri Pozza Editore), che al capolavoro di Orwell deve tantissimo a partire dal titolo. In una società post nucleare, uno scenario desertico tra Mad Max e la Tatooine di Guerre stellari si muove il protagonista Ati, un fedele dell’unica religione rivelata, dell’unico stato, dell’unico ordine possibile. Il mondo è finalmente in pace secondo i precetti della sottomissione all’unico Dio e al suo Delegato. Impossibile vedere nella distopia di Sansal qualcosa di diverso di una degenerazione dell’estremismo islamico; i riferimenti sono chiari ed evidenti, i nomi appena modificati. La tesi di Sansal è semplice: i rischi dell’islam sono gli stessi del totalitarismo stalinista, la sottomissione richiesta porta per
Orgoglio sami questa appartenenza: “la nostra comunità è stata oppressa per secoli, proprio come è accaduto agli Indiani del Nordamerica e a molti altri popoli indigeni” ha detto in un’intervista. Nel 2015 ha partecipato a Sámi Contemporary Night, una serata dedicata alla musica lappone che si è tenuta a Berlino, insieme ad altri musicisti sami. Veniamo adesso al suo CD (Mette Henriette, ECM, 2015). Non è cosa da poco, per una musicista di 26
anni, pubblicare il primo disco per la prestigiosa etichetta di Manfred Eicher. Inoltre si tratta di un CD doppio, cosa molto rara per un’esordiente. Il lavoro si compone di due dischi con formazioni diverse. Nel primo si tratta di un trio, con la protagonista accompagnata dal piano di Johan Lindvall e dal violoncello di Katrine Schiott. La sassofonista aveva già collaborato con loro nella sua prima registrazione, Kost/Elak/Gnäll (Jazzland
Il grande fratello islamico via religiosa e non ideologica alla fine della libertà, del libero arbitrio. Tuttavia il libro esagera nel richiamo orwelliano, fino a farsi riscrittura in alcuni tratti, sovrapposizione e non suggerimento. Oltre a questo, poi, se le parti “filosofiche” di descrizione dell’ideologia abistana, come quelle di nascita e crescita del dubbio nel protagonista, sono sviluppate, approfondite; l’intreccio narrativo, la storia, sembrano quasi trascurate rispetto al messaggio “politico” del volume, finendo però per lasciare in mano al lettore un romanzo monco o un saggio incompleto. Vi è poi il tema politico del libro, che questa forma a metà, non scioglie fino in fondo. Per l’autore è l’islam (o forse addirittura le religione stessa) ad essere portatrice del totalitarismo, della privazione della libertà, oppure è una sua
visione, una sua applicazione fanatica a farci correre questo rischio? La domanda, non banale di per sé, diventa cruciale in questi nostri giorni, in cui
Recordings, 2015), accreditata al gruppo Torg diretto appunto da Lindvall. Il secondo disco propone invece una formazione di 13 elementi che include i due solisti suddetti. Accanto a loro una consistente quantità di archi, fiati, bandoneon e sezione ritmica. Tre di loro appartengono al Cikada Quartet, uno dei principali ensemble cameristici norvegesi dediti alla musica contemporanea. Altri, come il trombettista Eivind Lønning, sono ben noti a chi segue l’etichetta tedesca. I trentacinque pezzi sono stati composti da Mette Henriette, eccettuati tre che portano la firma di Lindvall. Certi brani hanno forti accenti minimalisti (“The Taboo”, “We Were Too”). Nel primo CD la protagonista non reclama sempre un ruolo di primo piano. Emerge invece il piano di Lindvall (“3-4-5”, “All Ears”). Il brano più lungo, “I”, dà sfogo all’improvvisazione. Amalgama ben riuscito di influenze jazz e classiche, il disco ci impone di seguire con attenzione la giovane musicista nordica. Mette Henriette appartiene alla schiera di giovani musicisti che stanno costruendo il panorama musicale del prossimo decennio. il terrorismo islamico colpisce le nostre città e l’occidente si divide, tra ragione e paura, tra dialogo e conflitto. Sansal non è nuovo a posizioni “estreme” nella sua lettura dell’islam, a partire dall’altro suo volume tradotto in Italia, Il villaggio del tedesco (Einaudi), in cui si racconta e sviluppa il legame tra islam e nazismo, oltre a ciò pur essendo algerino scrive in francese ed è in Francia che i suoi libri hanno avuto il maggior successo. Per questi motivi questo volume è stato letto, quasi pregiudizialmente, come un critica da destra (neocon l’ha definito il Manifesto) all’islam o in continuità con Sottomissione di Hollequebec (che è un po’ come dire che I promessi sposi sono la continuazione ideale di Romeo e Giulietta); in realtà la questione è più complessa e soprattutto l’autore pare volutamente, a partire dalla forma ibrida scelta, lasciare al lettore molti più interrogativi che certezze.
21 MAGGIO 2016 pag. 8 Edoardo Malagigi edoardomalagigi@gmail.com di
S
i potrebbe dire che Chiara Demelio sia una caparbia ragazzina sarda all’avventura nel continente, quando la si vede in azione sul palco di un teatro, un folletto che sorride sempre. Certo è che è caparbia, ha vinto in una impresa non facile, agganciare un evento non facile e mega baleniale come l’Esposizione Universale di Milano e farne all’interno di una istituzione di formazione un valore aggiunto da spendere sul piatto dell’innovazione. Perché tutti sappiamo di quanta innovazione hanno bisogno le Accademie d’Arte dello Stato come massima espressione nel campo della formazione dei mestieri creativi e artistici. Con l’aiuto di Imprenditori e storici dell’Arte come Antonino Spanu e Angela Sanna e tanti altri ha iniziato una sperimentazione a tutto campo insieme agli studenti dell’Accademia di Brera, ponendo l’attenzione su quegli artisti che hanno fatto opere col riso, e solo col riso, invitandoli a confronti e ad interagire con la didattica, vuoi teatrale o performativa, vuoi di pratica artistica installativa, vuoi addirittura scientifica sull’alimentazione del riso, e solo col riso. Ritengo un titolo di merito essere stata così doppiamente Chiara sull’uso del solo riso, dei chicchi di riso, senza lasciare spazio all’aggiunta di altri alimenti. La mission da dare agli studenti? Riso, niente altro, è così che sono nate opere vivissime e fresche, installazioni piene di poesia, vivaci e divertenti, alcune collocate nell’abside di San Carpoforo. Tutta l’esperienza è stata tradotta da Chiara Demelio in un libro, curato da lei stessa, con una bella copertina in rilievo di riso e il titolo che non poteva che ricordarci che il riso è vita. Omaggio a “Brera Academy Press” per averlo fatto diventare un prodotto librario e anche all’Accademia di Firenze che ha voluto presentarlo la settimana scorsa nel salone della Minerva, l’aula più bella. Luciano Modica nell’occasione ha voluto ricordare con un po’ di orgoglio che esperienze di eccellenza come queste non dovrebbe mancare da parte di studenti e professori.
Col riso e solo col riso
di
Presentato all’Accademia di Firenze il libro “Rice is Live” di Brera Academy Press,
Remo Fattorini
Segnali di fumo A cosa servono le notizie? Servono a farci un’idea di come vanno le cose, nel nostro Paese e nel mondo. Ma le notizie non sono tutte uguali. Ci sono buone e cattive notizie. Noto che da tempo quelle cattive hanno di gran lunga la supremazia. Poche e rare quelle buone. Perché accade questo? Le news negative attraggono più attenzione, le ricordiamo meglio, si prestano per essere amplificate e raccontate come eventi straordinari. Mentre le news positive sono più difficili da trovare e raccontare, non suscitano né rabbia, né paura, ci sembrano meno importanti e sono meno vendibili. In genere si tende a credere di più alle brutte notizie che a quelle buone. Ma le bad news hanno un grande difetto: distorcono la realtà, che è fatta anche di luci,
non solo di ombre. Ecco perché nascondere o sottovalutare le good news è sbagliato. Esse ci aiutano a combattere l’insoddisfazione e, soprattutto, ad avere un’idea più equilibrata della realtà. Non lo dico per buonismo né per tendenze filogovernative. Tutt’altro. Personalmente lo sostengo da tanto tempo. Spesso la realtà è migliore di quanto non ci sembri. Incontro spesso gente educata e civile. Ho perso più volte il cellulare e, grazie a qualche sconosciuto, l’ho sempre ritrovato. In Italia oltre 6,5 milioni di persone fanno volontariato. Ho conosciuto dipendenti pubblici seri e capaci. Medici e infermieri straordinari. Immigrati rispettosi ed educati nonostante le enormi difficoltà che incontrano. Anna Maria Testa ci ricorda nel suo blog che nel giorno della strage al tribunale di Milano – che tutti ricordiamo - quando un uomo armato di pistola superò il metal detector e uccise 3 persone, accadde anche un’altra cosa straordinaria: il primo
trapianto di rene da donatore vivente, senza alcun legame tra donatore e ricevente. Tanto che provocò un’emulazione con 5 donazioni incrociate negli ospedali di Siena e Pavia, Milano e Pisa. Risultato, se oggi digitate su Google “strage tribunale Milano” escono 498mila citazioni, mentre se digitate “trapianto rene samaritana” ne escono appena 5.150. Un esempio di come la percezione della realtà spesso sia deformata e distante dalla realtà: non da quella raccontata ma da quella vera!
21 MAGGIO 2016 pag. 9 Paolo Cocchi pcocchi58@libero.it di
H
o riflettuto sui rapporti tra politica, giustizia e informazione nel nostro paese. Rapporti che molti giudicano anomali. Vorrei argomentare che non di anomalie si tratta bensì di paradossi. Con ciò voglio intendere che, nella nostra realtà, le azioni producono un effetto opposto a quello che i principali attori politici, sociali, istituzionali dichiarano di voler perseguire: la sete di giustizia produce ingiustizia, la lotta alla corruzione favorisce la cattiva politica, la richiesta di informazione e trasparenza produce sistematica distorsione della verità. Le migliori intenzioni, di cui tanti si dicono armati, entrano in una particolare e paradossale alchimia che produce risultati inattesi. La giustizia è lenta e i processi sono lunghi? Sembrerebbe che ci fossero troppi procedimenti e pochi magistrati. La soluzione quindi consisterebbe nel dotare la magistratura di maggiori mezzi e nel rafforzare il lavoro inquisitorio. Ma il buon senso sospetta che questo avrebbe il risultato paradossale di far crescere il lavoro giudiziario e tutte le sue attuali inappropriatezze, in una rincorsa all’infinito verso una giustizia perfetta che non sarebbe mai raggiunta, anzi. Achille e la tartaruga. La politica è corrotta? Bisognerebbe intentare un processo, almeno una volta, almeno a titolo preventivo, per tutti i politici così da certificarne la natura. Questa è la tentazione del giustizialismo. Ma si tratta di un altro paradosso. La cultura della sfiducia e del sospetto è il paradiso dei corrotti, di coloro che fingono, si nascondono, mentono, dei Don Rodrigo di sempre, che prosperano nel caos e nel qualunquismo. E l’informazione? Pochi, se interrogati in privato, si fidano di ciò che scrivono i giornali. Ma siamo comunque grandi consumatori di notizie. Come far sì che il consumo di notizie aiuti il lettore a capire e non semplicemente a rispecchiare le sue angosciose attese, i suoi pregiudizi, ciò che egli vuole sentirsi dire? In fondo è lui che “compra” la notizia e il cliente ha sempre ragione. I giornali devono vendere. La “fame” di trasparenza sotto forma di notizie, produce disinformazione. Un altro paradosso.
Paradossi Esaminando il caso di Barberino di Mugello abbiamo l’impressione che nell’inchiesta la Procura abbia operato forzature inaccettabili a partire da un materiale indiziario labile e contraddittorio con il risultato di sprecare ingenti risorse; ingannare i cittadini sulla realtà dei fatti; infangare una comunità civile e la sua storia recente; provocare cinque anni di immobilismo amministrativo. Bisogna chiedersi come è stato possibile. Nell’inchiesta di Barberino, tutti i giudici preliminari che esaminarono le imputazioni, fin dal lontano 2011, le giudicarono inconsistenti. Ci fu persino un giudizio di proscioglimento in istruttoria, nel 2013, che non servì a nulla. Siamo dovuti arrivare, nel 2016, a un processo inutile e costoso. Anche i pubblici ministeri possono sbagliare. Succede che un medico dimentichi il bisturi nella pancia di un paziente. Ma un sistema sanitario che funziona risponde del suo operato e, soprattutto, non impiega sei anni per rimuovere il corpo estraneo. Quello che voglio dire è che, riflettendo sulla nostra vicenda, mi ha colpito l’incapacità del sistema giudiziario di arrestarsi in tempo, di correggere i propri errori prima che questi diventassero una gigantesca forza inerziale. Mi ha colpito l’incapacità del sistema informativo di rappresentare la realtà nelle sue articolazioni problematiche. Articoli stereotipati e malevoli, pieni di cliché, fabbricati in serie. Nessuno spazio per le argomentazioni a difesa. Mi ha colpito, a un certo punto, che giudici coscienziosi, attenti, preparati, siano stati messi lungamente a tacere da chi determina la regia dello spettacolo della giustizia: i giornali, i pubblici ministeri, le aspettative del pubblico. So di dire una cosa grave, ma è ciò che, meditatamente, penso: c’è una parte della magistratura che è vittima dell’ansia giustizialista, che è vittima del paradosso che essa genera.
Chi è indagato, se è un politico sobrio e non un (pre)potente, viene ridotto al silenzio. Non solo perché le “ragioni” innocentiste non riescono a farsi strada ma anche perché, se un politico critica la magistratura, nel nostro paese, viene iscritto d’ufficio al partito degli impuniti, dei difensori della “casta”. Non è possibile criticare la magistratura sostenendo nel contempo le ragioni di una politica pulita. Anche questo è un paradosso tutto italiano. Che cosa ha determinato questa situazione, come uscirne? L’Italia è un paese profondamente diviso. Lacerato da rancori sociali, prima ancora che da conflitti. Impoverito, teme, a ragione, di non farcela. È un paese impaurito. Per questo ovunque ci si gonfia il petto, ci si arrabbia, ci si accusa e, alla fine, ci si droga di politici urlanti che promettono moltissimo, senza mai spiegare l’origine vera delle difficoltà attuali. È un paese che non sente più il bisogno di comprendere se stesso. È un paese che preferisce incolpare il passato senza capirlo. Cerca capri espiatori, scorciatoie. È un paese che vuole, disperatamente, farsi più “furbo” e non migliore. Per essere accettati in politica occorre trasmettere un messaggio di assoluta novità, direi quasi di “sradicamento”. Bisogna presentarsi e dire: con me, tutto sarà diverso, io sono il nuovo, ho rotto con il passato, l’ho superato, rottamato. Il ritmo di ricambio delle classi dirigenti sembra diventato frenetico. Almeno in superficie, perché, sotto la superficie, sopravvive molta classe politica nient’affatto nuova, indifferente alle idee ma eterna nel potere, con un guardaroba pressoché infinito di completi per tutte le stagioni. Anche qui un paradosso. Con una democrazia più solida e più consapevolmente partecipata, come ad esempio quella vigente in Italia alcuni decenni fa, l’esistenza di un caso come quello di Barberino sarebbe stata più difficile. Anche allora c’era chi usava il
qualunquismo contro la politica onesta. Ma l’organizzazione politica della società dava a quest’ultima capacità di filtraggio e di discernimento maggiori. Diceva Manzoni, il cattolicissimo Manzoni che credeva nella Divina Provvidenza, che non sempre ciò che viene dopo è un progresso. L’Italia di oggi, non mi pare migliore dell’Italia di ieri. Dobbiamo limitare i poteri dei pubblici ministeri? Disciplinarne l’operato con una legislazione che ne amplifichi le responsabilità? Separare le carriere? Limitare la libertà di stampa? Filtrare la pubblicazione delle notizie relative alle inchieste giudiziarie? Limitare le intercettazioni telefoniche? Ognuna di queste misure è oggetto di dibattito. Personalmente non so cosa pensarne. Ma qualcosa mi dice che ciascuna di queste misure, nella situazione paradossale in cui ci troviamo, finirebbe per sortire risultati sbagliati. Io credo che le soluzioni non stiano più nella politica, anzi, per essere precisi, nel “quadro politico”. Il quadro politico ha consumato le sue carte, è debole, è succube del meccanismo sociale che produce una falsa coscienza e false soluzioni, false immagini della realtà. Le soluzioni non stanno nemmeno nei mezzi di informazione, mercificati, lontani da ipotesi di sfida critica dei pregiudizi e di intervento sociale. Le soluzioni non stanno nemmeno in un’autoriforma della giustizia perché parti importanti di questa “corporazione necessaria” sono state sovraesposte, incaricate di compiti impropri e sono incapaci di ripensarsi senza deflagrare. Di fatto, una discussione costruttiva su come dovrebbero funzionare giustizia, politica e informazione in Italia, mi pare, attualmente, difficilissima. Io non so dove possa essere la soluzione. Forse in qualcosa che “obblighi” a un mutamento di punto di vista, a una riforma intellettuale e morale, a un rinnovamento culturale e civile. Tutte “vecchie idee del passato” nelle quali, mi rendo conto, è difficile credere. Ma so anche che le cose non si fermano e che il domani contiene ciò che oggi non è possibile immaginare. Poco importa che la mia fantasia riformatrice sia, per il momento, spenta. Quello che non deve spengersi è il desiderio di un’Italia migliore.
21 MAGGIO 2016 pag. 10 Simonetta Zanuccoli simonetta.zanuccoli@gmail.com di
A
Parigi, al museo de l’Orangerie nel Jardin des Tuileries, fino al 18 luglio si può visitare la mostra dal bel titolo Le regard du poète (lo sguardo del poeta). La mostra dedicata a Guillaume Apollinaire (1880/1918) si concentra su un aspetto meno conosciuto del poeta, scrittore e drammaturgo, quello del critico d’arte i cui articoli furono pubblicati dal 1902 al 1918 sul giornale L’Intransigeant. A Parigi quelli sono anni di grande fermento delle avanguardie artistiche e Apollinaire, arrivato nella capitale nel 1900, con la sua personalità e sensibilità oltre che testimone privilegiato diventa, in poco tempo, una delle figure centrali di questa rivoluzione estetica. La sua avventura nel mondo dell’arte comincia con la conoscenza, consolidata poi in una duratura amicizia, con Picasso e con l’incontro con la pittrice Marie Laurencin che presto diventerà sua moglie. Entrambi lo introdurranno in un gruppo di artisti, giovani, spesso squattrinati i cui nomi sono Max Jacop, Derain, Rousseau, Delaunay, Picapia, Duchamp, gli italiani Severini e Marinetti e tanti altri in uno sciame brulicante di passione e di ricerca di nuove forme di espressività. Le critiche d’arte che appaiono sul giornale non sono mai solo teoriche ma dimostrano un rapporto empatico con questi artisti del quale diviene amico, ispiratore e complice. Lui stesso conia alcuni termini per definire le avanguardie nascenti come il surrealismo o l’orfismo ed è il primo a considerare sotto l’aspetto estetico e non solo etnico l’arte africana, cosa che influenzerà moltissimo Picasso. Con lui Apollinaire manterrà un’amicizia speciale: si ammirano, hanno gli stessi gusti estetici e sono legati dalla stessa passione per l’erotismo. I due, negli anni, intratterranno una fitta corrispondenza con lettere piene di doppi sensi e disegni molto espliciti che il poeta amava giustificare con ironia come sperimentazioni artistiche di associazioni di parole e segni. Ma anche gli altri suoi amici artisti lo adorano. Rousseau lo ritrarrà in un quadro del 1909
Apollinaire
non sapeva niente di pittura
con la moglie, Chagall nel 1913 gli dedicherà una grande tela a olio che evoca l’armonia perduta e recuperabile solo attraverso l’arte e la poesia, De Chirico lo ritrarrà in un famoso quadro Lido Contemori lidoconte@alice.it di
Il migliore dei Lidi possibili
Mai fidarsi delle lusinghe di un maiale: i suoi amori sono solo alimentari
Disegno di Lido Contemori Didascalia di Aldo Frangioni
con gli occhiali da sole e Savinio lo omaggerà con la definizione di homme-epoque. Lo stesso Picasso lo evocherà in molte sue opere e collaborerà insieme a Satie e Cocteau alla realizzazione
di un suo spettacolo Parade. Di lui amano il pensiero visionario e d’avanguardia che lo porta a usare tra i primi il fonografo per sperimentare impressionanti registrazioni di alcune delle sue poesie e a considerare l’allora nascente cinematografo come una delle più importanti forme d’espressione del XX secolo. La mostra all’Orangerie si propone di guardare l’arte degli inizi del 900 attraverso i suoi occhi con opere provenienti da molti importanti musei francesi e americani. Apollinaire muore a soli 38 anni. Picasso disegna per la sua tomba nel cimitero di Pere Lachaise un monumento menhir la cui realizzazione è finanziata con la vendita di una sua opera e di una di Matisse. Molti anni più tardi, ricordando le appassionanti discussioni con l’amico, dirà di lui Apollinaire, il ne connaissait rien à la peinture et pourtant il aimait la vraie. Les poètes, souvent, ils devinent (Apollinaire non sapeva niente di pittura e tuttavia amava quella vera. I poeti, spesso, hanno il dono dell’intuizione).
21 MAGGIO 2016 pag. 11 Andrea Caneschi can_an@libero.it di
L
’ultima tappa del nostro viaggio quasi non meriterebbe menzione, tanto poco si salva nel ricordo di una enorme metropoli, invasa dal solito traffico soffocante e sconclusionato e dotata di una skyline che non ha molto da invidiare alle altre moderne metropoli del mondo. Grattacieli di vetro ed acciaio, che al calar del sole si accendono come alberi di Natale, si allineano nelle vie del centro. Ampi marciapiedi, alberghi lussuosi, grossi SUV e bussini per turisti, confusione, folle di giovani che si accalcano nei locali e nel ricercatissimo bar panoramico sul grattacielo più alto e più recente di Saigon, che la nostra guida non manca di proporci. Segni del passato coloniale francese si colgono qua e là, come l’interessante edificio della Posta Centrale progettato da Eiffel, insieme a caratteristiche pagode, poco curate ma molto frequentate, che, insieme ai variopinti mercati, ci ricordano una volta tanto che siamo ancora in Vietnam. L’escursione sul delta del Mekong ci riporta però in un mondo d’acqua e di verde spettacolare e inquietante, ben distante dalle comodità e dal profumo di occidente della ex capitale del Sud. Addentrandoci nei canali su una vecchia piroga manovrata da una magrissima e ciarliera signora vietnamita, siamo davvero in un mondo a parte, dove solitarie canoe scavate in tronchi di legno sono manovrate da piccoli uomini accoccolati a prua, dirette verso luoghi che la foresta nasconde ai nostri occhi; in mezzo a un mare di fango e di verde improvvisamente si aprono ampi spazi dedicati alla raccolta dei gusci delle noci di cocco, che vengono poi avviati a lavorazioni successive sulle enormi chiatte, cariche all’inverosimile, che ogni tanto incrociamo nei canali più grandi. Immersi in questo mondo d’ombra, silenzioso e frusciante, tornano alla mente le immagini della guerra, viste tante volte al cinema. Ma ancora di più ritroviamo quelle sensazioni di angoscia nelle gallerie scavate intorno a Saigon dai Vietcong durante la guerra, che visitiamo insieme a piccole carovane di turisti, molti americani, composti e spesso dolenti gli anziani, ciarlieri e ridanciani i giovani. Le atrocità della guerra sono mostrate qui nell’ennesima versione terrificante: cunicoli dove una persona di normale costituzione può a fatica strisciare,
Good morning Vietnam Parte 5
Ho Chi Minh City
mentre va incontro ad una morte che non vedrà arrivare, trappole medievali ricavate dall’acciaio delle bombe lanciate dagli americani, un poligono di tiro dove giovanottoni ipernutriti si divertono a sparare con kalasnikov d’annata: sono gli stessi che poco prima abbiamo visto ridacchiare dei primitivi armamenti
Bobo
che con tanta efficacia hanno ucciso o menomato tanti loro coetanei di allora. Infine le nostre guide, che ci hanno accompagnato a spasso per tutto il Vietnam, da nord a sud, ciascuna con le sue peculiarità e il suo modo di mostrarci il paese e loro stessi nel medesimo tempo. Abbiamo visto il
nord con un giovane uomo, svelto, di evidente esperienza, capace di interpretare la modernità, con il suo tablet sempre in mano per fotografare o per inviarci materiali per il viaggio, ma pronto ad essere guida e turista nello stesso tempo, immerso nel suo mondo, vicino ai luoghi che ci andava mostrando: i poverissimi villaggi delle minoranze, gli spettacolari panorami delle montagne, la vivacità di Hanoi, ancorata ad una socialità diffusa e di poche pretese. Al centro, nel grande museo all’aperto della città imperiale e dell’antico porto di Hoi An, ci ha accompagnato un correttissimo giovane, molto formale, ancora non del tutto a misura con la sua pratica professionale; “ladies and gentlemen” ci apostrofava ogni volta per richiamare la nostra attenzione e raccontarci un pezzetto di mondo; “L&G” lo chiamavamo tra di noi, un po’ stufi della sua formalità, eccessivamente rigida, ma contenti della sua disponibilità a illustrarci quanto poteva, con l’attenzione – forse non la competenza – di un buon curatore di museo. Una guida, insomma, fatta e finita, giusto da rifinire un po’, per un mondo che abbiamo attraversato come in un museo. A Città Ho Chi Minh abbiamo finalmente incontrato “l’uomo nuovo”, frutto – abbiamo immaginato – del capitalismo socialista, che sembra aver saggiamente unito il “nuovo” del Nord vincitore con il “vecchio” Sud amico del capitalismo americano, lasciando in piedi quanto conveniva. Giovanissimo studente universitario, visibilmente fiero della multiforme ingegnosità che gli permetteva di aprirsi una strada da giovane rampante, felice di approfittare delle occasioni di crescita personale ed economica che la metropoli capitalista gli offriva, un po’ sbrigativo, approssimativo a volte, tanto da farci sembrare un po’ troppo che fosse lui ad usare noi e non noi a ricevere quanto contrattato. Una guida più vicina a noi, al modo di relazioni dal quale proveniamo – non necessariamente il migliore – da lui evidentemente conosciuto e condiviso, pur in salsa saigonese. Pensavamo, in fila all’aeroporto per imbarcarci sul volo di ritorno, che le nostre tre guide avevano interpretato al meglio quei mondi in cui accadeva loro di vivere, nei quali noi eravamo passati forse un po’ troppo veloci, ma certamente coinvolti ed interessati spettatori.
21 MAGGIO 2016 pag. 12 Paolo Marini p.marini@inwind.it di
C
ose intraducibili emergono talora da alcune letture - occorre del tempo per decifrarle -, segrete corrispondenze tra lettore e scrittore che lasciano forti impressioni e vanno nella direzione opposta allo straniamento che talora produce il rapporto con gli altri. Questo è il primo pensiero che - conclusa la lettura de “I cani e i lupi”, di Irene Nemirovsky - fermo su carta. Di lei, in questo libro, ho re-incontrato l’intelligenza, la puntuta introspezione dei personaggi, il peso di ciò che narra, la leggerezza del modo in cui lo fa. E c’è di più, forse è il ‘quid’ per cui mi avevano anzidetto: trattasi del libro più bello della Nemirovsky. Mentre valuto se confermarlo, la metafora del cane e del lupo - il domestico e il selvaggio che si scoprono uniti da un legame antico - mi ha convinto e affascinato da subito, mi ha trasmesso un brivido: Nemirovsky ci parla di qualcosa che nella società contemporanea si cerca di rimuovere. Obliterare i legami di sangue o ridurli all’irrilevanza – mi astengo da giri di parole - è pretesa diabolica, non dissimile da quella di chi ha fatto del sangue una ragione di misticismo e odio razziale. Segue un altro elemento non da poco: i personaggi che incontriamo nell’opera non hanno un ‘sangue’ qualunque, sono (quasi) tutti ebrei. E parlo di sangue tra virgolette perché, al di là del fatto che i tre protagonisti sono effettivamente imparentati tra loro, ciò che qui cementa, pur sotterraneamente, gli individui di questo popolo, pare l’essere vittime (anche potenziali) o eredi di una storia di segregazioni, pregiudizi, ostilità, ove non di persecuzioni. Il libro si apre con una descrizione di come, nella Kiev dei primi del Novecento, ebrei ricchi ed ebrei poveri vivono anche spazialmente divisi: i primi in ville lussuose, in collina, dove conducono vite agiate e relativamente (mai definitivamente) sicure, per il prestigio e la ricchezza; i secondi nel ghetto, nella città bassa, soggetti a mille divieti ed esposti ai pogrom. Se si fosse trattato di un altro popolo, io credo che non si sarebbe prodotta una trama che avvicenda, così, fortuna e disgrazia, ricchezza e povertà, smarrimento e volontà (incrollabile), con qualche repenti-
I cani e i lupi
no mutamento di scenario a rimettere in gioco chi appariva sconfitto e a porre sul filo del burrone chi pareva per sempre al sicuro. Parliamo dunque dei ‘cani’ e dei ‘lupi’. I lupi sono coloro che si lasciano pervadere dal coraggio della disperazione e osano l’inosabile,
sfidano ciò che si dice buon senso, non si curano del mondo esteriore e delle convenzioni sociali. La solitudine, la miseria, la fame, hanno forgiato in essi una volontà e una immaginazione senza pari, hanno cresciuto dentro di loro un desiderio selvaggio, destinato ad assorbire l’esistenza, a separarla per sempre da una vita normale. Poi ci sono i cani, animali domestici, che vivono vite tranquille, protette, che non conoscono le tensioni ascetiche dei lupi e progrediscono secondo i piani stabiliti, godono di prospettive serene che non sembrano serbare sorprese. Senonché i cani sono parenti dei lupi, sono lupi addomesticati, e questa lontana parentela è destinata a presentare il conto, non le si può sfuggire per una vita intera. I due diversi mondi presto o tardi si incrociano e quando il cane incontra il fratello selvaggio deve guardarsi dall’essere risucchiato nel suo mondo, perché il sentore di quello non gli è del tutto estraneo
e, dopo aver recalcitrato, può essere che ne resti irresistibilmente attratto. Nella protagonista, Ada (che è ‘lupo’), è una bellezza rimarchevole: una vita interiore che da un lato assorbe ogni pensiero, dall’altro restituisce forza. Mi fa pensare al “dobbiamo essere la nostra propria patria” che ho attinto dal “Diario” di Etty Hillesum, perché il personaggio di Nemirovsky assume l’immaginazione come realtà autentica, la vita interiore si fa in lei centro dell’esistenza, al punto che ciò che è all’esterno non solo non può condizionarla ma ne viene irraggiato, conquistato al senso, al significato. Osservo Etty e Ada/Irene, diverse l’una dall’altra ma anche molto vicine, forse perché entrambe appartengono ad un popolo che ad un tempo è (stato) disgraziato ed eletto o, forse, eletto proprio perché sventurato. La storia lo ha segnato crudelmente ma quello vi ha attinto una forza straordinaria, una capacità di adattamento, di trarre tanto dal poco o tutto dal niente: non è il Siracide, grande libro biblico, dove si afferma che “con il fuoco si prova l’oro”?
Le architetture di Pasquale Camegna
N.Y.
21 MAGGIO 2016 pag. 13 Matteo Rimi lo.stato@libero.it
Narrazione a puntate con finale a sorpresa
erto non si aspettava, oltrepassata quella soglia, la scena che gli si parò davanti: due donne stavano sorseggiando un the sedute una di fronte all’altra ad un lungo tavolo in legno, dentro una stanza completamente bianca. Notò una teiera in argento visibilmente sbattuta tra le signore e contò undici sedie in tutto, comprese le due occupate. Le figure, pur non proferendo parola, trasmettevano una meritata serenità, una stanchezza contenuta che trovava in quel momento opportunità di recuperare. Si sentì, così, libero di poter osservare la scena da tutte le angolazioni come di fronte ad una rappresentazione plastica: il movimento del braccio della donna alla sua destra per avvicinare la tazza fece decidere al suo corpo la direzione da prendere. Era magra, capelli castani corti, un volto che traspariva profondità attraverso due occhi rotondi e penetranti ed una bocca spessa
Capitolo 8 Due tazze di the
di
C
ma contratta da un pensiero che non permetteva riposo. Camminò costeggiando le sedie vuote ma inspiegabilmente occupate dalle evocazioni delle due, compagne inseparabili delle loro ossessioni. Quando passò accanto all’altra donna, si lasciò colpire, oltre che dai suoi biondi capelli fissati in un’acconciatura da fotografia, dal suo largo sorriso allenato dall’educazione borghese e dalla volontà di non far trasparire ciò che invece i suoi neri occhi profondi non riuscivano a trattenere: un insopportabile peso. Anche lei sorseggiò lentamente il the continuando a fissare la vicina; ciò che si comunicavano non era dall’ospite percettibile ma sembrava che tutta la stanza ne fosse invasa e che quasi non bastasse a contenere i loro
pensieri. Ho amato profondamente Sylvia ed Amelia, arrivò a chiosare la sua guida, a tal punto da infondere nelle loro potenti anime contenute in gracili corpi talmente tanta poesia da non permettere loro di domarla. Si sono strappate di dosso la vita appendendola sulle proprie pagine pezzo per pezzo. Non puoi sfogliarle senza sentire l’urlo silenzioso della loro arte trasmetterti tutto. Proprio tutto. Quasi a rispondere a quei concetti, la bionda dama si rivolse alla compagna (solo a lei) come se recitare fosse uno dei tanti espedienti per dissimulare quel peso: La donna è perfetta. Il suo morto corpo veste il sorriso del compimento L’altra posò la tazza e rispose
con la voce di chi si è costruito un castello di regole per rinchiudervi dentro il proprio caos: Era necessario alla sua altezza morale che fosse registrato su dell’inchiostro nero il suo fallimento. Non era necessario alla sua bassezza morale morire. La scena ripiombò all’istante nel denso silenzio che l’aveva dominata fino a poco prima. Il ragazzo avvertì l’inesorabilità delle loro sorti ma capì che altro non poteva essere se l’uomo voleva continuare a sperare di tramandare la poesia, l’arte, la sua stessa umanità. Un ciottolio di pietre smosse che cadevano l’una sull’altra lo fece girare di scatto accorgendosi subito che le cose stavano un’altra volta per essere rivoluzionate.
Memento o dell’estetica del potere L’impegno di La Pira per la pace Il nuovo libro di Pietro Gaglianò è una riflessione sulla criticità della memoria collettiva, sulle estetiche del potere, sulle forme di una narrazione alternativa. Dagli apparati delle forze egemoniche alle esperienze del contro-monumento, dalla pianificazione urbana al controllo tentacolare sul tempo nel postfordismo, si scopre nell’ossessione per il visibile la linea di frizione tra la capacità eversiva dell’arte e la colonizzazione dell’immaginario nella società dello spettacolo. Memento parte dal caso del mai compiuto monumento a Costanzo Ciano a Livorno, costeggiando l’estetica dei totalitarismi europei, e analizza alcune possibilità dell’arte internazionale negli ultimi trent’anni, fino a un volo radente sulle più recenti sperimentazioni degli artisti italiani nell’approcciare la materia del potere, le sue forme, le sue narrazioni e le alternative, nella condivisione e nella partecipazione.
Le conversazioni con Jochen Gerz e Thomas Hirschhorn concludono il libro proponendo due diverse visioni sui temi del monumento, dell’autorialità, della politica della sfera pubblica.
Due appuntamenti di carattere diverso, a Firenze, per ricordare due passaggi nevralgici dell’impegno di Giorgio La Pira per la pace: giovedì 26 maggio, Palazzo Vecchio ospiterà la presentazione del saggio intitolato “Con La Pira in Viet Nam”, curato da Mario Primicerio, storico accompagnatore dello statista in quel viaggio “ai confini del mondo”; venerdì 27 maggio, Palazzo Strozzi ospiterà invece il convegno intitolato “La pace dei popoli, il Medio Oriente e le religioni abramitiche: a proposito del volume ‘Ritornare a Israele. Giorgio La Pira, gli ebrei, la Terra Santa’”. “Perché non iniziare, proprio da qui, dalla Terra Santa, la nuova storia di pace, di unità e di civiltà dei popoli di tutta la terra? Perché non superare con un atto di fede -religioso e storico e, perciò, anche politico, in questa prospettiva mediterranea e mondiale- tutte le divisioni che ancora tanto gravemente rompono l’unità della famiglia di Abramo,
per iniziare, proprio da qui, quell’inevitabile moto di pace destinato ad abbracciare tutti i popoli della terra e destinato ad edificare un’età qualitativamente nuova (salto qualitativo!) della storia del mondo?” scriveva La Pira sul numero 36 di “Note di Cultura” nel febbraio 1968. Memore dei pellegrinaggi del Professore e di queste sue riflessioni, il convegno di Palazzo Strozzi illustrerà la cruciale attenzione dello statista nei confronti del Medio Oriente per le prospettive di pace mondiali.
21 MAGGIO 2016 pag. 14 Franco Zabagli
Ink
Inchiostro
Officina Profumo - Farmaceutica di Santa Maria Novella
Michele Rescio mikirolla@gmail.com di
Costolette d’agnello e succo d’arancia
Firenze, via della Scala 16 con la collaborazione di Galleria Immaginaria
In Contemporanea Porcari La collettiva di arte contemporanea In Contemporanea Porcari, giunta alla sua quarta edizione, inaugura sabato 21 maggio h.18 raccontando le idee di autori noti e talenti emergenti suddivisi nelle diverse categorie: pittura, fotografia, scultura e video art. Selezionati con un bando internazionale, sono quarantanove gli artisti che espon-
gono alla Fondazione Giuseppe Lazzareschi concorrendo all’assegnazione del Premio DS Smith per la cultura, uno per ogni categoria artistica. La mostra resterà aperta dal 21 maggio all’11 giugno con orario: da martedì a domenica 10,00/13,00 – 16,00/19,00. Il giorno 11 giugno la mostra chiuderà alle h.13.
In una padella larga scaldate l’olio a fuoco moderato fino a che l’olio diventa torbido in superficie. Cospargete le costolette di agnello di sale e rosolatele nell’olio caldo, voltandole con la pinza o un cucchiaio forato e regolando la fiamma in modo tale che si possano colorire uniformemente senza bruciare. Non appena saranno ben colorite, trasferitele in un piatto fondo, grande abbastanza da contenerle comodamente in uno strato solo. Scartate l’olio rimasto nella padella e versateci l’aceto, portate l’aceto a bollore a fuoco alto, grattando sul fondo e sui bordi della padella per far staccare i grumi scuri. Rimuovete la padella dal fuoco e incorporatevi il succo d’arancia, lo zucchero di canna, il succo di limone e lo zenzero. A questo punto, versate la salsa sulle costolette e infornatele nel piano centrale del forno per 40 minuti o fino a quando l’agnello risulti tenero. Durante la cottura bagnate l’agnello con la salsa all’arancia. Disponete le costolette d’agnello su di un piatto scaldato e versateci sopra la salsa all’arancia. Guarnite con le fette d’arancia. Ingredienti: 6 costolette d’agnello spesse, 2 cucchiai di olio extra vergine d’oliva, 2 cucchiaini di sale, 1/4 di bicchiere d’aceto bianco, 1 bicchiere di succo d’arancia fresco filtrato, 100 g di zucchero di canna, 1 cucchiaio di succo di limone filtrato, 1/2 cucchiaino di zenzero macinato, 1 arancia grande tagliata a fette da 1/2 cm.
lectura
dantis
21 MAGGIO 2016 pag. 15
Disegni di Pam Testi di Aldo Frangioni
Alla fine dello buco atroce, disse il Maestro: guardati davanti. Mai vento io sentii così veloce,
vi erano ali da grande spavento dal petto in su, monte di lordume; parve chi, ribelle d’ardimento,
tradiron patria e son congelate dopo che le tre bocche ributtanti le tristi membra aveano mangiate.
vidi groviglio: roba da giganti, la Guida mia usai da paravento. Immerso nel Cocito, luccicanti,
contro scagliossi al Supremo Lume. Tre occhi più tre facce colorate squartavan la peggiore canagliume,
Godrei nel vedere gli abitanti, che sgovernano lor belle cittade, infilati nelle fauci macinanti.
Canto XXXIV
Entrati nella Giudecca la parte finale del Cocito, Dante e Virgilio giungono al cospetto di Lucifero, sprofondato nel cuore della terra. L’angelo ribelle, ineffabile e mutante, maciulla i supremi traditori di Dio e della Patria, costretti nella morsa della sue tre fauci.
L immagine ultima
21 MAGGIO 2016 pag. 16
Dall’archivio di Maurizio Berlincioni berlincioni2@gmail.com
A
ltra corsa, altro giro! Qui siamo all’interno di un Bookstore piuttosto particolare. Come si può ben vedere dagli scaffali dei libri e dai poster attaccati sulle pareti questo giovane nero sta indicando gli stessi manifesti che all’epoca tappezzavano anche i muri delle nostre città. Per me fu davvero una piacevole scoperta. Mi sembrava di essere a casa mia. Mi consigliò alcuni paperback sulle Pantere Nere e sulla rivoluzione cubana che ho recentemente rivisto mentre cercavo di far ordine tra i miei scaffali. Ebbi un piacevole scambio di idee con questo militante e ci dicemmo che ci saremmo dovuti rivedere. Come spesso succede in questi casi, non ci siamo più incontrati. È stato un vero peccato perché era un giovane molto brillante e decisamente preparato.
NY City, agosto 1969