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Con la cultura non si mangia
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N° 1
Nobel Nobel Premio FriulAdria editore Nem Nuovi Eventi Musicali Viale dei Mille 131, 50131 Firenze Registrazione del Tribunale di Firenze n. 5894 del 2/10/2012
Da non saltare
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La fine del mondo Gianni Pozzi gipoz@libero.it di
I
l Pecci di Prato riapre. Dopo anni di crisi e di lavori riapre quello che è ora il polo regionale dell’arte contemporanea. Con un megaevento e una megamostra, La fine del mondo, ma soprattutto con l’idea di fare dell’arte il tratto identitario della città. Da che parte cominciare? Difficile dirlo di fronte a questa riapertura del Centro Pecci di Prato dopo anni e anni di difficoltà: una crisi lunghissima, quasi un decennio, tra un andare e venire di direttori a tempo, poi la chiusura per lavori - infiniti come solo in Italia sappiamo fare - degli spazi espositivi dell’edificio “storico”, insieme alla costruzione della nuova ala, la “mezzaluna” dovuta all’architetto olandese Maurice Nio. In questo frattempo la malinconia di quell’edificio chiuso la cui sorte è sembrata più volte assai incerta. Perché se è difficilissimo creare un’attenzione e un’abitudine attorno a uno spazio d’arte, molto più facile è distruggere entrambe. Così il Pecci, nato nell’88 insieme al Museo di Rivoli a Torino, i primi due musei d’arte contemporanea in Italia, dopo aver rappresentato la lungimiranza della Prato industriale e colta insieme, e della Toscana che si apriva alla contem-
poraneità, rischiava il disastro. Poi, in tempi più recenti, nel 2104, ecco un direttore nuovo: Fabio Cavallucci. Proviene dalla direzione della Galleria Civica di Trento, dove ha fatto ottime cose, ma anche da esperienze di gran rilievo a Varsavia, a Manifesta 7 e persino alla Biennale di Carrara. È attivissimo e disponibilissimo, e approfitta della forzata chiusura degli spazi espositivi per concentrarsi su altre attività: indagare cioè la natura e il ruolo di uno spazio d’arte oggi. Ecco allora gli incontri con il mondo delle gallerie, dei curatori, dei cittadini, per capire cosa si aspettano dal Pecci che verrà; ecco le conferenze, tantissime, non solo sull’arte, ma sul ruolo di connessione – diciamo – tra saperi, problemi e urgenze, che l’arte può svolgere nel mondo odierno. Culmine di queste riflessioni, giusto un anno fa, un mega Forum sull’arte italiana oggi. Tre giorni, alla fine di settembre, con decine e decine di invitati e altrettanti incontri, tavole rotonde, presentazioni, documenti. Dove si discuteva di tutto: dal ruolo dei musei a quello della Toscana, dalla formazione degli artisti al ruolo del mercato, delle istituzioni, delle agevolazioni fiscali, della Biennale (“Il Padiglione Italia: come salvarlo dal ridicolo” suonava il
titolo di uno dei tavoli di discussione). Un lavoro enorme, che dilagò e invase tutta Prato e che contribuì a riportare l’attenzione su quel centro che, a dispetto di tutto, continuava a restare chiuso all’attività espositiva. Malinconicamente. Anche se proprio Cavallucci, a Firenze, in un incontro in Accademia sul ruolo dei musei, ebbe a dire che mai come durante la chiusure degli spazi espositivi, il Centro aveva lavorato… Bene. Un anno dopo ecco il grande annuncio: il prossimo fine settimana, 14, 15 e 16 ottobre, si riparte. Cosa è stato fatto? Di tutto. La Regione lo ha riconosciuto come Centro di importanza regionale, in pratica il punto nodale dell’arte contemporanea in Toscana, quello che peraltro distribuisce i fondi tra le varie realtà della cultura artistica. Il Comune di Prato, grazie anche a nuovi fondi comunitari è diventato comproprietario della collezione. È nata una Fondazione per le arti contemporanee in Toscana che riunisce pubblico e privato. Si sono ovviamente conclusi i lavori, sia del restauro del vecchio edificio, sia della nuova ala. Si sono ampliati gli orari di apertura, soprattutto in serata, per favorire un pubblico non necessariamente di addetti ai lavori. E ci si è
concentrati su questa riapertura che dovrebbe compensare, in visibilità, gli anni di silenzio. C’è di tutto. Un incontro con gli ex direttori del Pecci (venerdì 14 alle 17), varie inaugurazioni riservate alla stampa al mattino del 15, ma anche, nel pomeriggio, una ripresa del Forum dell’arte italiana e un grande Opening party alle 21, aperti a tutti. Il 16, al mattino, inaugurazione ufficiale, una conferenza del celebre antropologo Marc Augé (alle 18) sul tema della fine del mondo, una performance di Dell e Pupillo e poi, da lunedì 17, la consueta attività del Centro che riparte. La mostra, la grande mostra inaugurale, ambiziosissima fin dal titolo, La fine del mondo, e presentata già in anteprima a Basilea, dovrebbe dare la chiave di lettura di che cosa sarà il prossimo Pecci. Cavallucci, che si è avvalso per questa di molte consulenze esterne, imbastisce, attraverso le opere di una cinquantina di artisti, disposte su tutta la superficie del Centro, una riflessione sul mondo che cambia. Se l’incertezza – crisi economica e politica, Brexit, emigrazioni d massa – è il tratto distintivo del nostro percepire oggi il mondo, questa rassegna dovrebbe esserne una messa a fuoco e al tempo
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stesso un esercizio di distanza. Ci sono i grandi artisti storici, i primi che hanno denunciato la fine del modo attorno a loro, da Duchamp, Picasso a Boccioni a Fontana, Bacon, Warhol; ci sono poi i contemporanei, da Sierra alle Pussy Ryot, tanto invise a Putin. C’è Bjork e Federico Fellini e un altro straordinario regista (ma è difficile definirlo) come Pippo Delbono. E poi Abel Abdessemed e Darrel Almond, fino ai catastrofici sfondamenti di Hirschorn, ai 99 lupi di Cai Guo Qiang, alle 200 sedie di Kusmirovski… Insomma, un percorso spettacolare dove tutto si tiene, arte, cinema, musica, teatro, spettacolo, reperti archeologici persino, e tutto riflette su questa idea di fine che fine non è mai, ma cambiamento continuo… Quello che è interessante è che, se da una parte il Centro, lo spazio museale cioè, lascia entrare in sé il mondo, dall’altra si apre esso stesso al mondo, o almeno alla città e alla regione. Nella ridefinizione degli spazi, per esempio, è nato un cinema; delle opere d’arte che erano attorno al Centro, alcune sono rimaste (la colonna spezzata dei Poirier e la grande falce di Staccioli, il passato e il futuro), al-
Il nuovo Pecci tre sono andate in un percorso che dal centro si sposta alla periferia, incrociando altre opere come la grande scultura di Moore, acquisita addirittura nel ’74, o quella di Gio’ Pomodoro nel giardino di via Marx, ma anche caratterizzando spazi altri: Barbara Kruger alla ex Campolmi; Bassiri, Dallavedova o Lucio Pozzi alla Biblioteca Lazzerini; Isgrò al Palazzo Pretorio, Morris vicino al Duomo… E una piazza che si rinnova, piazza Ciardi, affidata a una gran lavoro (una mongolfiera/fontana) di Marco Bagnoli, appositamente commissionato… C’è poi Officina Giovani che accoglie TU35/2016, una mappatura dell’arte emergente che ha coinvolto, nelle varie province, oltre 120 giovani artisti e una ventina di altrettanto giovani curatori. Finanzia, tramite, il programma regionale Toscanaincontemporanea, la realizzazione di una decina di progetti mentre alcuni dei giovani sono stati accolti nella mostra al Pecci (non si può immaginare il futuro con i
nomi di sempre). Ma ancora c’è, sempre nella ex fabbrica Lucchesi in piazza macelli, Torre di Babele, un’altra ricognizione tra una ventina di gallerie d’arte toscane che segnalano ognuna un artista. C’è la collezione del Pecci che si allarga in tante installazioni in tutta la regione (Kapoor al Museo di scienze planetarie di Prato, Remo Salvadori alla Nazionale di Firenze, Pistoletto alla Specola sempre a Firenze, Merz a Vinci, Paolini alla Normale di Pisa, Spoerri al museo di preistoria fiorentino...). E c’è, ultimo ma non meno importante, un rapporto con La Fondazione Palazzo Strozzi a Firenze, dov’è in corso la mostra di Ai WeiWei, che prevede un unico biglietto… Che dire? Che sicuramente si deve dare atto di uno sforzo eccezionale in questo tentativo di fare dell’arte non un ornamento (come accade altrove) ma il carattere identitario di un territorio, l’energia che lo riqualifica e lo apre, che crea un nuovo pubblico e che apre collegamenti in infinite direzioni.
È un tentativo del Pecci di “fare sistema”, nella constatazione che da soli, città e centri d’arte, non vanno ormai da nessuna parte. Può esserci il rischio di un gigantismo? Sì: è lo stesso rischio del grande Forum dell’arte italiana dello scorso anno. Stimolante ma inafferrabile, denso ma forse troppo rapido. Un progetto così ampio e, diciamolo, così grandioso, non può non considerare anche i tempi di fruizione: che non possono essere più quelli televisivi della pubblicità ma tempi di riflessione, meno spettacolari e più funzionali. Anche il modello pubblicitario fa o dovrebbe, e vorremmo facesse parte di quel mondo ormai alla fine… E poi, i tempi televisivi si scontrano con realtà delle cose, che da noi sono lunghe, molto più lunghe del previsto. Lo dimostrano i lavori infiniti del Centro, ma anche episodi minori pur se altrettanto significativi. Nel 2003 l’allora direttore del Pecci Daniel Soutif ingaggiò una battaglia per avere all’uscita dell’autostrada, tra i tanti cartelli che indicano le direzioni, anche l’indicazione del Pecci. Sarebbe stata sacrocrosanta. Ma ci credereste? Non c’è ancora….
riunione
di famiglia
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Le Sorelle Marx
Capitano Nemo
Palazzo Vecchio di prima mattina. “Manuele, vieni da me: ho un’idea geniale!”, urla eccitato il sindaco Nardella. Il Capo di gabinetto, interrompendo il suo instancabile lavorio per tentare di tenere in piedi la baracca comunale, lo raggiunge nella sala di Clemente VII. “Ieri sera, a cena, mi hanno proposto un progetto favoloso: per risolvere il problema della viabilità facciamo costruire un bus anfibio per scendere dai lungarni fin dentro il fiume. Una ganzata, eh Manuele!?”. “Mah, Dario, se lo dici tu... [a me mi sembra una badolada, una scemenza]. Ma, forse avremmo qualche problemino più urgente in tema di trasporto pubblico, no? Tipo finire la tramvia, la questione della TAV, le buche per le strade... così per fare qualche esempio, eh...”. “Ovvia Manuele, sei proprio antico! Il tram c’era negli anni ‘50! le buche per le strade mando l’assessore Giorgetti con badile e cemento e nel giro di qualche anno è tutto risolto. La TAV la rimandiamo, intanto. Ma questa cosa del bus anfibio non ce l’ha nessuno, a parte Amburgo in Germania per attraversare l’Elba. Me l’ha suggerito il Ruffilli; sai quello che prima era all’ATAF e
ora è all’ACI”. “Sì, bono quello! Non mi pare che abbia fatto sfaceli né all’una né all’altro. Ma quando l’hai visto?”. “L’altra sera a cena. Sapessi che vino buono che c’era!”. “Ah, ho capito... Bene e allora che si deve fare?”, interloquisce il praticissimo capo Gabinetto. “Fare? Ma che sei grullo, Manuele? Qui bisogna fare il meno possibile. L’importante è far finta, raccontare qualche cosa frizzante... come mi ha insegnato l’insuperabile Maestro Matteo. Lo sai che faccio? Un bel comunicato stampa. Ecco, senti un po’ qui: “So che è complicato dal punto di vista normativo ma ho chiesto all’Ataf di lavorarci, di studiare l’ipotesi”. Come ti sembra?”. “Guarda, Dario: perfetto, se vuoi essere sicuro che non si faccia nulla, fai benissimo a chiedere a ATAF di studiare la cosa”. “Vai, è fatta. Però voglio una foto (anche un fotomontaggio) con me alla guida del bus anfibio, con il cappello da capitano di marina. Mi raccomando, Manuele: fai presto e bene!”. Il capo Gabinetto esce e chiama il responsabile della comunicazione: “Ehi, Marco vai di là dal Capitano Nemo del Nautilus de noantri, che ha una bella badolada da raccontarti. Io torno a lavorare. Fulatun!”.
I Cugini Engels
Giani è umano
Grandissima scoperta! Eugenio Giani è uomo, in carne ed ossa, come noi! Non è l’uomo bionico, inossidabile e instancabile; Ercolino-sempre-in-piedi. Lo credevamo alter ego di Clark Kent che in una cabina telefonica si trasformava in un Superman de noantri. O più facilmente un Superpippo, trasformato dalla nocciolina (che trangugia in ogni buffet). Ha anche lui, come tutti noi comuni mortali, dei momenti di cedimento. Dopo il quarto buffet della giornata, la guida turistica alla delegazione del Ghana “ad illustrare la bellissima storia di Firenze” e cerimonioso scambio di fasce, l’inaugurazione della Giornata nazionale delle famiglie al museo (mentre già medita di istituire la Giornata nazionale delle famiglie allo stadio, e poi al parco, e poi alle giostre, tutte con buffet e taglio del nastro); dopo il secondo aperitivo e la terza cena di rappresentanza, la riunione dei Comitati per il Sì SPQF; conclusa la terza inaugurazione con discorso (pregevole iniziaMassimo Cavezzali cavezzalicartoons@hotmail.com
tiva), la seconda conferenza su Dante e aver piantato 30 lecci alla Festa del tartufo bianco a Corzano.... Ebbene sì, anche lui ha avuto un cedimento e si è concesso un momento di riposo, come chiaramente mostra la foto. Possiamo così concludere che Dio esiste... ma purtroppo non è Eugenio Giani.
Scavezzacollo di
15 OTTOBRE 2016 pag. 5 Danilo Cecchi danilo.c@leonet.it di
L
a storia della fotografia francese è ricca di nomi di grande rilievo, ed è gremita di autori che hanno lasciato tracce significative in molti settori, dalla fotografia commerciale, di moda e pubblicità, alla fotografia documentaria, dalla fotografia di ricerca estetica alla fotografia di reportage. In ciascuno di questi settori vi sono nomi noti al grande pubblico. Accanto a questi nomi vi sono anche autori meno noti, la cui presenza ed influenza è stata determinante nella crescita e nello sviluppo del linguaggio, della cultura e dell’arte fotografica. Uno di questi personaggi è sicuramente Daniel Masclet (1892-1969), che nella sua opera ha mostrato una grande capacità ed una grande coerenza stilistica e linguistica. Masclet non conduce degli studi regolari, impara a disegnare dal padre ed impara l’inglese ed il russo dalla madre. Fino dall’età di dieci anni impara a suonare il violino ed il violoncello, diventando a diciassette anni un virtuoso di questi strumenti. È solo al ritorno dalla Grande Guerra, nel 1919, che conosce il fotografo pittorialista Robert Demachy, che a sua volta lo presenta al barone Adolf De Meyer, raffinato fotografo ritrattista ed all’epoca (dal 1922) capo fotografo di Harper’s Bazaar a Parigi. Diventato assistente di De Meyer, Masclet ha modo di apprendere tutte le tecniche fotografiche, di illuminazione e di ripresa, oltre che di stampa in camera oscura, e già nella seconda metà degli anni Venti comincia a lavorare per Vogue. La sua attività professionale non si limita tuttavia al solo espletamento delle commesse ricevute, ma spazia in un approfondimento delle tematiche ed in una ricerca personale che lo porta a pubblicare nel 1933 il volume “NUS - La beauté de la femme - Album du Premier Salon International du nu photographique”. Nel secondo dopoguerra Masclet è presente in tutti i principali momenti della fotografia francese, è uno dei membri più influenti del “Group des XV” ed è tra i fon-
La ricerca dell’uomo di Daniel Masclet datori nel 1952 del club “Les 30x40” (o Club Photographique de Paris), organizza mostre, esposizioni e concorsi in cui è giudice, e riveste il ruolo di critico fotografico, pubblicando già nel 1947 il volume “Le paysage en photographie Estétique-Technique”, recuperando così quella dimensione di elaborazione culturale, così frequente fra i fotografi francesi, e che è invece mancata, con pochissime eccezioni, ai fotografi italiani della stessa epoca. Come fotografo, Masclet predilige il ritratto, isolando i suoi personaggi su fondi scuri, e ritornando sullo stesso volto anche a distanza di tempo, come nel ciclo dedicato alla “sua” Francesca. Masclet sperimenta diverse tecniche di stampa, fra cui le pseudo solarizzazioni (effetto Sabattier) rese popolari da Man Ray, e si dedica anche al paesaggio ed agli scorci urbani, isolando angoli particolari, ma interessandosi poco alle visioni più note della sua Parigi. “Se nelle mie immagini non ho mostrato che raramente le realizzazioni monumentali dell’uomo, come i grattacieli, i ponti e le strade, non è perché non apprezzo la loro grandezza o la loro bellezza, ma semplicemente perché nell’uomo, ciò che mi interessa, è l’essere umano prima del costruttore, perché ciò che lui costruisce durerà fino ad un certo punto, mentre l’espressione del suo essere può essere colta in una frazione di secondo, oppure sfuggirvi. Catturare questa frazione di secondo è, secondo me, la funzione più significativa della fotografia.” “Io mi occupo quasi unicamente dell’uomo. Vado di fretta. I paesaggi hanno l’eternità.” Nel 1971, due anni dopo la sua scomparsa, viene pubblicato il suo ultimo volume “Réflexions sur le portrait en photographie”, e trenta anni più tardi, nel 2001, gli viene dedicato il libro “Daniel Masclet - Photographe - Critique - Théoricien”.
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Enzo Minarelli
Laura Monaldi lauramonaldi.lm@gmail.com di
N
on sempre il fare poetico si riduce all’espressione linguistica di un concetto, né il fare artistico si qualifica come mera sintesi interpretativa del reale: è più opportuno affermare che l’estetica attuale è un connubio di esperienze e di possibilità, è il vasto campo dell’immaginario in cui si cala l’intellettuale, fra il razionale e il fantasmagorico, alla ricerca di nuovi strumenti e mezzi inediti per dare alla collettività una nuova immagine della comunicazione. Nel momento in cui il messaggio si fa sempre più soggettivo e introspettivo, l’artista contemporaneo sente il bisogno di uscire dalla dimensione ermetica e individuale che lo ha sempre visto protagonista, per scendere nella “piazza” della collettività e vivere da vicino le reazioni all’esperienza estetica, con l’obiettivo di raggiungere una più piena consapevolezza di ciò che l’Arte è, che può rappresentare e che potrà divenire in futuro. Per Enzo Minarelli la prassi artistica è una sintesi
dinamica di parola e immagine, di azione ed espressione: è la manipolazione analitica e filosofica del materiale linguistico elevato al suo più alto livello di intelligibilità. Dall’universale al particolare, il lessema di Enzo Minarelli viene decostruito e “ridotto” al minimo attraverso personalissimi processi artistici, capaci di rivalutarne le dinamiche grafiche e sonore. La
lingua diviene un flusso sonoro sul quale riflettere e far riflettere, con il quale comunicare e insegnare a percepire la bellezza che si cela dietro la non-banalità della sfera acustica, insieme ad azioni performative in cui l’artista veste i panni del demiurgo creatore/innovatore, in grado di stupire e dar vita alla meraviglia della percezione intersensoriale. L’informe sonoro acquista senso
Polipoeta
laddove il poeta-artista utilizza tutta la propria carica espressiva per guidare l’ignaro fruitore alla rivelazione. In tal senso la poesia fonetica diviene un Tutto composto da circostanze sempre diverse: suono, segno grafico, intonazione somatica divengono gli strumenti di una comunicazione letteraria che riporta alle origini della creazione linguistica. Poesia come bellezza di ogni singolo suono; visualità segnica come riscoperta dell’innocenza grafica; ritmo come armonizzatore e comune denominatore fra le parti di un contesto estetico che prima d’ora non aveva visto alcuna corrispondenza polivalente, nonostante il progresso tecnico e scientifico. Enzo Minarelli è un polipoeta in grado di fondere le diverse anime di un’unica grande realtà: l’ontologia estetica e l’essere in sé dell’evento fattosi Arte. In alto Chorus, 1984 Timbri e scrittura su carta Sotto Accenti, 1984 Timbri e scrittura su carta Courtesy Collezione Carlo Palli, Prato
15 OTTOBRE 2016 pag. 7 Simone Siliani s.siliani@tin.it di
E
ra il 1981; i movimenti studenteschi s’erano assopiti, carsicamente spariti nel sottosuolo. Frequentavo il quinto anno all’Istituto Tecnico Industriale “Leonardo da Vinci” e cercammo di rimettere in piedi un po’ di attivismo studentesco. Mitica fu la riconquista della sala stampa ormai chiusa da qualche anno, con tanto di ciclostile. Eravamo vagamente di sinistra, inconsapevolmente marxisti, ma con un senso d’inferiorità culturale rispetto ai licei. Forse fu per tutto questo che pensammo di organizzare un programma culturale autogestito e siccome Dario Fo era di scena a Firenze, al Teatro Tenda (laddove oggi si erge il Sachall), decidemmo di andare a chiedergli di fare un incontro con noi studenti dell’ITI. Con Marcello Mommarelli andammo ad incontrarlo: timidi ed imbranati come sanno esserlo solo i ragazzi che a 19 anni pensano, sognano di cambiare il mondo, gli chiedemmo di fare quest’incontro con gli studenti di Firenze. Ci disse di sì, volentieri; nel pomeriggio, prima dello spettacolo, lì al Teatro Tenda. Francamente non ce lo aspettavamo e quindi fu un lavoro non da poco organizzare in 48 ore la presenza degli studenti fiorentini. Neppure ricordo bene di cosa ci parlò, ma so di certo che ci affascinò; uscimmo dal Teatro Tenda camminando a 50 centimetri da terra. Soprattutto per l’incredulità di averlo incontrato e della sua disponibilità: non aveva ancora vinto il Nobel, ma per quelli di sinistra, di una sinistra libertaria, anarcoide, utopista era già un mito. Secondo ricordo, ma primo in ordine temporale: la prima volta che vidi uno spettacolo di Dario Fo, fu mio cugino a portarmici, sempre al Teatro Tenda. Avrò avuto 16 anni, doveva essere il 1979. Metteva in scena “La Storia della tigre e altre storie”. Non sapevo niente di lui e mi incuriosì che all’inizio dello spettacolo ci chiedesse di sostenere, al banchino in fondo, “Soccorso Rosso”. Ma quando iniziò la “Storia della Tigre” e “Il primo miracolo di Gesù Bambino”, rimasi folgorato. Mi aprì un mondo, straordinario; soprattutto la parte sui Vangeli aprocrifi, per uno come me che
Ricordando Fo
veniva dal mondo delle parrocchie. E da allora non ho mai perso un suo spettacolo, un suo libro. Forse per questo non rimasi stupito dell’assegnazione del premio Nobel per la Letteratura e le polemiche, simili a quella di Baricco sul Nobel a Bob Dylan che ritiene che egli non abbia niente a che vedere con la letteratura. Ma forse si dovrebbe discutere – e non lo possiamo fare qui – su cosa sia, oggi, la letteratura e forse si comprenderebbe che essa è ormai costituita da una pluralità,
fino a pochi anni fa inconcepibile, di forme, narrazioni e loro media estremamente varia. Ma ad una cosa la letteratura, quando è vera, resta legata: alla libertà, all’autonomia da ogni potere costituito, ad ogni piaggeria, accondiscendenza, omologazione. Nessuno più di Fo, in questo senso, ha meritato il premio Nobel per la Letteratura. Ma per me resta legato a quei ricordi giovanili, quando questa libertà, irrisione e autonomia dal potere, è l’unica cosa che conta.
15 OTTOBRE 2016 pag. 8 Michele Morrocchi michele@morrocchi.it di
Esiste un futuro per la cooperazione?
M
entre nel testamento di uno dei più potenti Tycoon italiani si leggeva che i suoi supermercati, in una sorta di duello di Conrad, non potevano essere venduti a nessuna coop, il movimento cooperativo italiano si ritrovava a Bologna per discutere e interrogarsi sul proprio futuro. Una tre giorni di riflessioni per capire se ha ancora un senso un’economia di mezzo nel tempo della vittoria del capitalismo, della fine delle utopie socialiste e della collettivizzazione. Coop in fondo in questi anni nel dibattito pubblico, soprattutto italiano, ha assunto spesso una connotazione negativa. L’assalto ideologico della destra berlusconiana sulla tassazione di favore, la polemica con Caprotti sui supermercati, fino al fenomeno delle cooperative spurie, ricordate da Susanna Camusso proprio nella tre giorni bolognese, soprattutto nel settore della logistica. Certo il movimento cooperativo ha al suo interno luci e ombre, ma non c’è dubbio che l’assalto che ha subito negli ultimi 25 anni ha a che fare anche con l’ideologia e la dottrina economica che hanno caratterizzato questo periodo. Una dottrina economica, notava l’economista Jean-Paul Fitoussi, che oggi mostra i segni del suo insuccesso nella incapacità di dare sbocco alla lunga crisi del 2008. Una crisi di fiducia, notava l’economista francese, prima che economica a cui la risposta di austerity di governi sempre più deboli ha portato alla nascita di paure e alla risposta dei populismi ormai in grado di contendere il governo delle Nazioni. Ed è proprio di nazioni senza ricchezza e ricchezza senza nazioni, come il titolo di un suo saggio di anni fa, che ha parlato Giulio Tremonti a partire dal suo libro Mundus furiosus. Il mondo, è la tesi dell’ex ministro, è a una svolta epocale paragonabile alla prima globalizzazione cinquecentesca, con le caravelle sostituite dai colossi dell’informatica. Una fase di trasformazione che ha origini lunghe e fenomeni di lunga durata. E’ il caso delle migrazioni: milioni di uomini spinti dalle guerre
e dalla televisione e che i muri non fermeranno, pur svolgendo questi ultimi per il professore, una funzione tranquillizzante per una popolazione, la nostra, sempre più anziana e terrorizzata. Migrazioni, guerre, figlie del disegno miope di esportare la democrazia, una finanza uscita dal controllo, una rete che ha prodotto innovazione ma anche terrore nel ceto medio per la trasformazione del lavoro; questi i mali di questa fase, dalla quale l’Europa per Tremonti può uscire in tre modi, o rimanendo come è ora in un lento consumo di se stessa, o crollando e franMichele Morrocchi michele@morrocchi.it di
A margine degli incontri della Biennale dell’economia cooperativa di cui si parla qui a fianco ho avuto modo di avvicinare il Professor Giulio Tremonti per consegnargli una raccolta della nostra rivista che, fin dalle sue origini cartacee con il Nuovo Corriere di Firenze, vede l’ex ministro come nume tutelare e la cui effige campeggia in copertina. L’origine del nostro nome deriva infatti, era il 2010, da una frase che nel momento di uno scontro tra Tremonti e Bondi, allora ministro della cultura, per dei pesantissimi tagli al ministero del secondo fu unanimemente attribuita all’ex ministro dell’economia. “Con la cultura non si mangia” questa la traduzione dei giornali che anche oggi è rimasta legata all’ex ministro; basta fare una piccola ricerca su Google per capire quanto questa frase sia ormai legata a lui. Proprio a Bologna però, chiedendomi il motivo del nome della rivista, Tremonti
tumandosi in stati isolati non più padroni del proprio destino oppure in una confederazione virtuosa che metta a comune i grandi temi e lasci liberi gli Stati sulla misura delle zucchine. Un analisi quella di Tremonti molto in sintonia (paradossale solo per i pochi che non hanno seguito il percorso teorico dell’ex ministro molto diverso dalla rappresentazione di lui quando era uomo di governo fino quasi a ipotizzare, alla Guzzanti, una dissociazione o un gemello) con l’intervento del premio Nobel Stigliz. L’economista americano ha affrontato la platea di cooperatori con i dati della disuguaglianza degli Stati Uniti, presi a modello e, purtroppo, a precursori anche per noi. Le disuguaglianze, è questa il punto centrale dei lavori di Stigliz, sono aumentate in modo incredibile negli ultimi 30 anni e oggi l’1% più facoltoso della popolazione americana è 300 volte più ricco del 99% della popolazione. Quello che è avvenuto negli ultimi anni è il crollo della classe media e con essa anche le nostre economie che su questa si fondavano. Con il sovrapprezzo di aver strapagato i banchieri che hanno
prodotto il crollo. L’aumento delle disuguaglianze ha aumentato le paure, cancellato le tutele e fatto sparire anche uno dei miti fondativi degli Stati Uniti, quello delle opportunità. L’ascensore sociale americano è bloccato e la società non ha più ricambi. Tutto questo è avvenuto per caso? Secondo Stigliz no, questo crollo è frutto della dottrina economica dominante a partire dagli anni ’80 e dalla quale è giunto il momento di uscire. Ma come? Per il premio Nobel serve una nuova fase di investimenti, in primis in fiducia. Dunque istruzione come mattone fondante, maggiore equità sociale tramite una tassazione progressiva e più concorrenza (con disdoro immaginiamo dei suoi adepti italiani protezionisti). In questo modello di crescita, che è una crescita di fiducia e socialità il modello cooperativo non appare finito, anzi, può rappresentare un precursore di una nuova fase economica. In questo senso le tre giornate di Bologna rappresentano una boccata di ossigeno e speranza anche fuori delle mura della cooperazione.
Se Tremonti non hai mai detto che con la cultura non si mangia mi ha smentito la frase, negando di averla mai affermata e chiedendomi, piuttosto perentoriamente, di riportare la smentita. Cosa che qui faccio molto volentieri. Primo perché sono passati sei anni, secondo perché grazie a quella frase abbiamo trovato un bel titolo per una rivista che è, per noi che la facciamo,
molto di più, terzo perché per il Professor Tremonti chi scrive ha una sincera e genuina ammirazione. Ammirazione più per il teorico che per lo statista ma che è innanzitutto riconoscimento della sua cultura, dimostrata anche nell’intervento bolognese, e di una capacità di analisi e sintesi figlia di studio, dedizione e intelligenza. Per questo spero che, al di là dell’arrabbiatura che ha avuto sul momento, il Professor Tremonti gradisca l’omaggio che settimanalmente gli portiamo sulla nostra copertina. Se siamo qui è anche merito suo e il fatto che questo possa essere frutto di una frase mai detta, rende tutto questo, come in un racconto di Cortazar, stupendo.
15 OTTOBRE 2016 pag. 9 Alessandro Michelucci a.michelucci@fol.it di
La lista dei genocidi dimenticati è ancora lunga. Accanto a questi, esistono altre tragedie epocali che stentano a uscire dal buio. Alcune non ci riusciranno mai. Proprio per questo è particolarmente prezioso l’impegno degli studiosi che cercano di portarle alla luce. Uno di loro è Fabio Garuti, autore del libro L’olocausto delle donne. 30 milioni di donne arse sul rogo in oltre 6 secoli di caccia alle streghe (Anguana, 2016). Come chiarisce il sottotitolo, quella che viene proposta è una “analisi storica sulle reali proporzioni di un genocidio dimenticato”. L’autore è Fabio Garuti, uno scrittore napoletano che si dedica allo studio di pagine storiche poco note. Sulla caccia alle streghe aveva già pubblicato Le streghe di Benevento. La grande bugia (Anguana, 2014). Il libro ricostruisce in modo sintetico ma non frettoloso la lunga persecuzione che costò la di
Francesco Gurrieri
Nella cultura artistica contemporanea Giuliano Gori ha avuto un ruolo determinante per la contaminazione dialogica fra “antico e contemporaneo” e per la sua primazia nell’intuizione del ruolo della “Land Art”. Molto presto, dalla frequentazione dell’ambiente artistico veneziano e romano, fu proiettato nell’esperienza del gruppo che mise a punto l’affascinante tema della Grand Arche per la Défence a Parigi, al Guggenheim di New York come consigliere, quale curatore della sezione Arti Visive alla “Città della Scienza” a Napoli; presenza ambìta nel World Monument Found, poi a Tokio e nei grandi musei del Giappone, in Spagna al museo di Valencia, fino alla prestigiosa Fondation Maeght a Saint -Paul-de- Vance. Giuliano Gori, oggi premiato a Pistoia col prestigioso “Leoncino d’oro” (già assegnato, con altri, a Tobino, Zeffirelli, Montanelli, Dorfles), ha identificato l’intera sua vita con l’arte contemporanea: l’ha amata, l’ha promossa e ha contribuito come pochi altri
Ginocidio
vita a un numero imprecisato di donne. Probabilmente meno dei 30 milioni denunciati da Garuti, ma questo ha poca importanza. Forse considerare la caccia alle streghe un genocidio è sbagliato, o perlomeno molto
Giuliano Gori
Il profeta della land art alla sua diffusione, soprattutto con le amministrazioni pubbliche, ove, tradizionalmente, risiede la maggior resistenza al rinnovamento e all’apertura alla contemporaneità. In ragione del suo rapporto con Henry Moore, Giuliano Gori accese il detonatore che scosse il nostro intero Paese: l’acquisizione della grande scultura “Large square form with cut” che, reduce dalla mostra fiorentina del 1972, ebbe la sua collocazione nello spazio pubblico di piazza San Marco a Prato (1973). Fu l’inizio dell’inarrestabile attenzione delle amministrazioni pubbliche per l’arte contemporanea, e per la scultura in particolare, per gli spazi urbani: quasi una ri-nascita della “scultura urbana”. Ma il suo capolavoro civile e culturale è il “tempio della Land Art” creato nella Fattoria
discutibile, date le notevoli differenze che separano i due crimini. Ma negli ultimi tempi sono stati proprio gli studiosi del genocidio a paragonarli. Lo studioso canadese Adam Jones, uno dei massimi esperti della materia, include la caccia alle streghe fra i genocidi nel suo sito www.genercide.org Garuti sottolinea che le accuse mosse dai tribunali ecclesiastici erano animate da una volontà persecutoria che colpiva donne emarginate, non allineate, legate a credenze precristiane. Questo spiega perché spesso le donne che reclamano una soggettività storica si richiamano alle vittime di questo olocausto dimenticato: tremate, tremate, le streghe son tornate, era lo slogan più popolare delle femministe. Un piccolo appunto, semmai, riguarda l’eccessivo spazio riser-
vato all’elenco di alcune vittime, che occupa circa un terzo del libro. La bibliografia, al contrario, risulta troppo succinta. Ma in pratica si tratta di dettagli che scompaiono davanti alla validità dell’opera. Scritto con appassionata competenza, L’olocausto delle donne è un libro che merita la massima attenzione. La riflessione che stimola va ben oltre la caccia alle streghe in quanto tale: i crimini dell’Inquisizione non hanno rappresentato una parentesi isolata, ma si sono iscritti in un contesto molto più ampio. Il loro vero obiettivo, come nota Garuti, era quello di “annientare totalmente la componente femminile della società”. Lo stesso motivo per il quale Cirillo di Alessandria fece massacrare Ipazia (415). Oggi, santo e dottore della Chiesa, viene festeggiato il 27 giugno. Se la nostra società non fosse condizionata dalla sudditanza nei confronti del cristianesimo, questa sarebbe apologia di reato. di Celle. Se, infatti, Documenta a Kassel e la Biennale di Venezia avevano azzardato alcuni esempi di opere ambientali, è nel 1981, che Gori intuisce la prospettiva incomparabile del dialogo natura-arte nel parco di Celle a Santomato di Pistoia. Sono nate così le singolari inimitabili installazioni di Richard Serra, Magdalena Abakanowicz, Hamilton Finlay, Dani Karavan, Fausto Melotti, Anne e Patrick Poirier, Hidetoshi Nagasawa, Robert Morris. Ne è seguito quello che possiamo definire l’effetto Celle: la moltiplicazione di piccoli e grandi “parchi d’arte” in Italia e in Europa”, forse fino allo stesso Parco “Louis Vuitton” a Parigi. Resta il fatto, davvero incontestabile, che la sensibilità e l’amore profondo per l’arte contemporanea di Giuliano Gori abbiano fatto da moltiplicatori alla riapertura di credito verso l’arte contemporanea, consolidando un dialogo esistenziale fra antico e contemporaneo, così essenziale per una realtà così storicamente sedimentata come lo spazio urbano delle nostre città europee.
15 OTTOBRE 2016 pag. 10 Simone Siliani s.siliani@tin.it di
“Per aver creato nuove espressioni poetiche all’interno della grande tradizione della canzone americana”, Robert Allen Zimmerman, al secolo Bob Dylan, è stato insignito del premio Nobel per la Letteratura. Si è infranto un altro grande tabù perché così l’Accademia svedese per le scienze ci dice che i confini della letteratura si sono allargati, anzi direi aperti. Ed è stato riconosciuto, anche da quell’alto consesso così paludato nella cerimonia, che le forme, le espressioni della poesia, della letteratura hanno varcato i confini stabiliti a partire dalla rivoluzione tecnologica di Gutemberg, per navigare in mari mai solcati prima. Anche se a pensarci bene, così è sempre stato: l’Odissea altro non è che un racconto (probabilmente fatto da diversi aedi, dei quali forse uno di nome Omero) di diversi racconti orali, anche cantati che poi ha trovato forma scritta. Ma certamente nell’età moderna la forma della poetica si è sempre accompagnata a media non solo cartacei e la letteratura certo non nasce con una delle sue forme più moderne, appunto il romanzo. Anche alle nordiche latitudini hanno compreso questa non nuova realtà. Meno invece personaggi, provinciali invero, come Baricco che – come il suo nume tutelare politico, ricordate “Fassina chi?” - cela il suo disappunto dietro un “Bob Dylan? Cosa c’entra con la letteratura?”. Lo ha servito a dovere Gianni Riotta: ‘Caro Baricco, Bob Dylan c’entra davvero molto con la letteratura. Tu, piuttosto, sei proprio sicuro di entrarci qualcosa, anche solo un pochino, di striscio magari?”. Dicendo ciò che tutti noi abbiamo pensato della domanda di Baricco: gli invidiosi hanno un loro posto nell’Inferno dantesco. Chi scrive è un dylaniano della prima ora; mai pentito e sempre entusiasta, anche ad ogni svolta del menestrello di Duluth. Ma, se ripenso al mio amore incondizionato per Bob Dylan e a come nasce, non posso che concludere che esso ha origine non dalle musiche e dalla sua inconfondibile voce gracchiante, ma dai testi delle sue canzoni, dalle liriche, come si dice in inglese. “Desire”,
l’album del mio primo incontro con Dylan e che fece sbocciare la passione, è forse uno dei più “letterari” (con buona pace di Baricco). Le storie di Rubin Carter (il boxeur di “Hurricane”), della “mistica bambina” “Isis”, dei colori di “Monzambique”, la biblica “One more cup of coffee (Valley below)”, la poetica “Oh, Sister”, l’epopea di “Joey”, la ipnotica “Black Diamond Bay”, e la struggente “Sara”, sono straordinari esempi di letteratura
contemporanea. O come altro classificare le lirycs di “Tangled up in blue” (con il mistero di chi sia il poeta italiano del XIII secolo di cui parla) o di “The Times they are a-Changin’”, o ancora delle più recenti “Jokerman” o “Tempest”? Sì, sono i testi letterari che mi hanno fatto innamorare di Dylan. Quando durante le lezioni di elettronica generale o sull’indigeribile Manzoni scolastico, copiavo sotto il banco sul diario i testi del
menestrello di Duluth per poi rileggerli mille volte in bus, durante la ricreazione: quei testi ci aprivano ai mondi nuovi, liberi e incorrotti della poesia, della letteratura. Dylan c’entra eccome con la letteratura, perché c’entra con la libertà, con significati nascosti dietro le forme desuete del reale, con le speranze e i sogni di milioni di persone in un mondo diverso e speranza e sogni, invero, creano mondi nuovi proprio attraverso la letteratura.
fa melodia ma non per questo tradendo la sua funzione letteraria. Che Dylan sia letteratura doveva essere fatto acclarato, indiscutibile persino per modesti scrittori sopravvalutati, estensori di banalità spacciate per novità e intellettuali del nuovo regime. Ma il Nobel a Dylan non è solo un meritato premio a un grande autore, è un risarcimento per un’intera cultura: è un premio a Kerouac e a Ginsberg, a quella che una volta chiamavamo controcultura americana, ed è un premio risarcitorio per la generazione
di mio padre, che il mondo l’ha scoperto più con Dylan che con Marcuse, più con All along the Watchtower (magari nella versione incommensurabile di Jimi Hendrix) che con il Corriere della Sera o l’Unità. Però poi alla fine è un premio anche per noi che i testi di Dylan o di Cohen (o di De André o De Gregori da queste parti) li scrivevamo sui diari mentre sui libri leggevamo Foscolo o Leopardi non capendo perché gli uni non si mischiassero ai secondi. Un colpo di rullante ha vinto il Nobel.
The times they are changed
Michele Morrocchi michele@morrocchi.it di
La migliore cosa che io ricordi scritta su Bob Dylan è l’incipit fulminante di Sergio Spadoni su queste pagine: un colpo di rullante che ha cambiato il mondo. Il colpo di rullante è quello che apre Like a Rolling Stone e quindi Highway 61 revisited. Dylan il mondo l’ha cambiato, piaccia o non piaccia, e l’ha cambiato con la musica e con le parole. Pensavo realmente che nel 2016 fosse inutile ragionare per distinzioni, se la canzone fosse metrica o musica. La parola cantata è musica e testo, messaggio che si
15 OTTOBRE 2016 pag. 11 Andrea Caneschi can_an@libero.it di
C
i fermiamo su una piattaforma rocciosa che sporge sul vuoto e ci permette di ammirare giù in basso la vallata che abbiamo percorso con il fuoristrada, dalle pendici del monte sul quale ci stiamo arrampicando fino all’ingresso ormai lontano. Una vista aperta e vertiginosa, su un paesaggio verde e bianco di pietre e roccia e boscaglia, guastato solo dalla presenza di un inquietante doppio filare di pini marittimi, assolutamente fuori contesto, forse dovuti all’interesse di qualche piccolo potentato locale che si è fatto comunque i suoi affari. Il tempo di riposare per pochi minuti e ci inoltriamo su un sentiero più stretto, lasciando la via principale che – dice la nostra guida – va a perdersi nel supramonte barbaricino, una volta percorso per tutta la sua estensione dai legnaioli toscani ingaggiati dal regno del Piemonte. La salita si fa più impegnativa, ci arrampichiamo in mezzo al bosco tra le rocce, su un sentiero a fatica riconoscibile nonostante la segnaletica dipinta sui macigni. In cima alla salita la via è sbarrata da una guglia rocciosa che si innalza a coprire la vista della valle, ormai sprofondata giù in basso. Bisogna superarla, attraverso una fessura che la nostra guida ci indica al termine di una breve arrampicata nella strettoia rocciosa. Dall’altra parte di nuovo la vista della valle, aperta e luminosa a quest’ora avanzata del mattino, e sulla nostra destra la parete rocciosa che abbiamo appena superato, sotto la quale si è aperta in lontane ere geologiche la dolina che stiamo per raggiungere. Percorriamo un fondo roccioso aspro, segnato dall’azione dell’acqua sulla pietra calcarea: la parete è scavata, modellata dalle acque del lago che in tempi remoti riempiva la vallata, mentre gli agenti atmosferici rigano e appuntiscono la pietra sulla quale stiamo camminando con tanti piccoli canali di scolo delle acque meteoriche. In cresta ci affacciamo sull’altro versante del monte, lasciamo correre lo sguardo sulle colline più basse coperte dalla macchia aspra che abbiamo già conosciuto e individuiamo il sentiero che se avessimo tempo e fiato ci porterebbe oltre, una decina di chilometri più avanti fino alla gola di Gorropu,
Gita sul monte Tiscali
riparo dalle intemperie e dal sole cocente dell’estate sarda; al centro della cavità i macigni crollati dal soffitto della caverna e intorno, lungo il bordo, il cui pavimento scivola verso il basso in prossimità delle pareti rocciose, rovine di manufatti, qua e là ricostruiti da recenti restauri. Non c’è molto da vedere, ma è forte un’atmosfera di appartata separatezza dall’esterno, sottolineata dalla enorme finestra naturale, alta sulla parete, unico ingresso al villaggio, che ci fa sentire per un momento parte di quell’esperienza primitiva di vita nelle prime comunità umane dell’isola. Ormai è ora di tornare. Giusto il tempo di dare fondo alle gradite riserve di cibo e bevande che l’organizzazione ci fornisce, e poi affrontiamo la discesa, lungo una via diversa, ancora più ripida della salita, che velocemente ci riporta fino al fuoristrada attraverso la macchia e su rustici ponteggi di legno di ginepro lucidati dal passaggio di tanti piedi. La stanchezza e il movimento dell’auto che ci riporta verso casa favoriscono il silenzio e la riflessione e fanno riaffiorare in noi l’emozione appena vissuta di questa affascinante discesa alle radici della storia.
profondamente intagliata dalle acque del rio Flumineddu. Sotto di noi possiamo vedere l’ampia cavità della dolina che la cresta che stiamo percorrendo delimita verso l’alto, ultimo residuo della copertura rocciosa crollata in epoche lontane. Aggiriamo la cresta per penetrare all’interno, attraverso una rustica scala predisposta modernamente per facilitare l’accesso ai visitatori; scopriremo dall’interno l’originale ingresso al villaggio, che si apre in
alto, come una enorme finestra che guarda la vallata che abbiamo percorso: la migliore posizione per controllare il territorio e difendere l’insediamento dai malintenzionati. Sul fondo della dolina, riparati dalla parete rocciosa che si eleva altissima, i resti delle abitazioni, conservate per millenni, ma quasi distrutte da un abuso scriteriato negli anni successivi alla scoperta del sito. Particolari condizioni di luce condizionano un microclima particolare, fresco, al
Finalmente a Firenze e in esclusiva per l’Italia Un Poyo Rojo, al Teatro di Rifredi da venerdì 21 a domenica 23 e da giovedì 27 a domenica 30 ottobre; spettacolo atipico, miscela esplosiva di danza, sport, sensualità, acrobazie e comicità che declinano insieme le molteplici variazioni intorno al tema della seduzione, esplorandone tutti i registri. Che si tratti di una coppia omosessuale o eterosessuale poco importa tanto il vocabolario e le strategie sono comuni nei due sessi. Due esseri si cercano, si misurano, si provocano, si affrontano, si desiderano, si rifiutano, si uniscono negli spogliatoi di una palestra. A partire dal movimento, senza dire una parola, questo straordinario duo ci propone, con humour e intensa energia, di sperimentare i diversi modi di entrare in contatto e di creare una relazione con l’altro. Negli spogliatoi degli uomini di una palestra aleggia l’odore del sudore di calzini e ascelle. Due
vivacità impressionanti, i due L’energia del Poyo Rojo una danzatori/atleti/acrobati cambiaragazzi frugano nel loro armadietto di lamiera, si squadrano per un po’, si misurano, si provocano, si giudicano a vicenda, si rifiutano, si affrontano, si desiderano, si uniscono. Due galli prima della battaglia. Niente parole, niente musica. Sguardi, una piccola radio e infine la lotta. Una danza frenetica che è anche un combattimento. Senza interruzioni, con una precisione e Foto Paola Evelina
no registro e modi di relazionarsi in uno spettacolo impregnato di umorismo che culmina in un gustoso finale. Con la vivace ed energica regia di Hermes Gaido, che lascia spazio a gustosi momenti di improvvisazione, tutti e tre fanno di “Un poyo Rojo” uno spazio di estrema libertà, una potenza scatenata di comicità fisica, un’irresistibile distorsione degli stereotipi maschili. Lo spettacolo, creato nel 2008 in un hangar ristrutturato di Buenos Aires, diventato poi El Teatro del Perro, segna da allora il tutto esaurito in Argentina. Poi i nostri sono approdati per ben due anni consecutivi al Festival di Avignone Off, sempre tutto esaurito, e ancora tutto esaurito al prestigioso Théâthe du Rond-Point di Parigi dove in questi giorni hanno ripreso le repliche interrotte lo scorso anno.
Bizzaria degli oggetti
Cristina Pucci chiccopucci19@libero.it
15 OTTOBRE 2016 pag. 12
di
G
rande e bel manifesto pubblicitario, databile intorno al 1930, litografia di tal Vittorio Cajani, nato a Milano nel 1890 e ivi morto nel 1940, pittore, allora famoso e quotato, grafico e disegnatore, purtroppo per lui, in antagonismo con Achille Beltrame, divenuto notissimo per le illustrazioni delle copertine della Domenica del Corriere, più famose del giornale stesso. Pubblicizza, e qui si va sul difficile, il “Tafanoide”, da quello che c’è scritto un prodotto di cui solo 100 grammi, in soluzione acquosa, sarebbero stati efficaci per proteggere dai morsi di tafani succhiatori di sangue, per 6 ore, 8 cavalli. Impossibile trovarne la composizione, su e-bay si trova una vecchia ed arrugginita lattina che lo conteneva, è citato in ben due romanzi, certo non particolarmente noti, che ricordano tempi andati e che lo nominano in mostra sugli scaffali di una drogheria, tipologia di negozio da anni del tutto sparita, vi si vendevano spezie, generi coloniali, prodotti per la casa ed anche alimentari. Il tafano è un orribile insetto, le cui punture penso siano ai più note nella loro dolenzia e lunghissima permanenza e nel loro drammatico, almeno a volte, ponfoide rosso, tumido e pruriginoso. Non punge elettivamente l’uomo, anzi non se ne cura se trova di meglio, sue vittime predilette sono i cavalli e altri grossi animali. Purtroppo, contrariamente a quanto reclamizzato da questo suadente manifesto, non risente per nulla di prodotti antiparassitari, siano essi chimici o naturali. È infatti attratto dal calore e non dagli odori e non permane mai sulle sue vittime per succhiarne il sangue, dopo averne lacerato la pelle, abbastanza a lungo da essere danneggiato dalle sostanze che vi siano state sparse. Dicono che siano utili, al giorno d’oggi, le trappole per tafani, ve ne risparmio la descrizione, evito anche di terrorizzarvi dettagliando i vari tipi di tafano e la loro enorme prolificità, i tipi di malattie che possono veicolare, oltre lo schock anafilattico, vi dico
dalla collezione di Rossano
Tafanoide
comunque che anche le loro larve non sono né facilmente rintracciabili né tanto meno eliminabili. Efficaci, nel liberare cavalli, asini, mucche e muli dai fastidiosi morsi delle femmine di tafano, i maschi si nutrono di nettari, sono le oche e le galline che li gradiscono come cibo e li beccano direttamente dai corpi delle loro prede. C’è però un Tale, e non di irrilevante importanza, che usa il tafano per un paragone positivo, Socrate “…. Ché se voi ucciderete me, non sarà facile troviate un altro
Le architetture
Pasquale Comegna di
Scale mobili per il paradiso
al pari di me il quale- non vi sembri risibile il paragone – realmente sia stato posto dal dio ai fianchi della città come ai fianchi di un cavallo grande e di buona razza, ma per la sua stessa grandezza un poco tardo e bisognoso di essere stimolato, un tafano. Così appunto mi pare che il dio abbia posto me ai fianchi della città; né mai io cesso di stimolarvi, di persuadervi, di rampognarvi, uno per uno, standovi addosso tutto il giorno, dovunque.” Il tafano come emblema del filosofo che stimola sé e gli altri ad interrogarsi in un continuo e stimolante alternarsi di domande e risposte. Fino al vero e proprio fastidio.
15 OTTOBRE 2016 pag. 13 Roberto Innocenti robin-illustratore@libero.it di
N
on è la prima volta che assistiamo alla mutazione genetica dalla rispettabile Professione di “comico” a quella discutibile di “predicatore”. Il “comico”, solitamente un essere dotato di autoironia, si incarica divertendosi, e almeno nelle sue intenzioni, divertirci, di farci scoprire il ridicolo che è in noi, il brutto che c’è, il patetico, l’arrogante, il cialtronesco, l’approssimativo, l’ingenuo che c’è in noi. Quando si riferisce ai “potenti”, e rivela, deride, le loro “brutture”, difetti, tic, inconsistenza, cafoneria, presunzione, arroganza, corruzione, abitualmente scambiate fra addetti, ma in chiave comica, viene premiato dalle risate liberatorie del suo pubblico, che si sente vendicato da quelle derisioni, che lo liberano momentaneamente dalla sua parte conformista, prudente, repressa, che c’è in noi, quale gene ereditato dalla storia, dal deposito di tristezze, offese e sottomissioni. Il comico non cessa d’essere tale quando ride della politica, delle istituzioni o delle cose sacre, protette, fra Patria e Religione. La comicità, l’ironia la satira, sono per natura anarchiche e contestatrici, di sinistra, mai accomodanti, mai moderate. Il comico cessa di essere tale, quando cessa di irridere qualsiasi potere, quando cessa di ridere della “politica”. Le religioni, la destra “patriottica”, i fascismi, non accettano mai la satira su di loro, ritenendosi custodi e detentori di valori sacri, non possono concedersi l’autoironia, essendo obbligati alla predicazione e alla retorica. Recentemente due comici molto famosi e applauditi, si sono mutati, da spassosi intrattenitori, in predicatori, approfittando dell’ascolto guadagnato durante la precedente più dignitosa vocazione. Se avessimo seguito con attenzione il percorso, la ”mutazione” che li ha portati verso l’impegno diretto in politica, in questo caso dalla “commedia buffa del potere” al “sacrificio per il bene della Patria”, della “gente”, del progresso di tutto quello di cui prima inducevano a ridere, non saremmo stupiti dagli eventi inaspettati. Da tempo raccolgo indizi delle
La decadenza dei comici
mutazioni dei due; ma ora mi interessa scrivere della notizia “calda” o almeno tiepida. Quindi, della conversione di Roberto Benigni. Già nel suo elogio, in un bagno di folla, dei “Dieci Comandamenti, derideva quei personaggi potenti che predicano bene e razzolano male: il tono comico era riservato a loro, non alle “Leggi del Signore”. Era già un segno di mutazione verso i toni moraleggianti, da predicatore. Poiché io comico non sono, qualcosa da dire, e da ridere, su quel sacro “non desiderare la donna d’altri” l’avrei trovato, in nome della causa femminile che rifiuta Lido Contemori lidoconte@alice.it di
Il migliore dei Lidi possibili
Doppia lettura fra Camera dei deputati e Senato della Repubblica
Disegno di Lido Contemori Didascalia di Aldo Frangioni
d’essere considerata proprietà privata. Sulla “datazione” evidente di un costume arcaico ritenuto morale eterna e immutabile, tuttora presente, atrocemente presente, e questo non fa ridere. Credo che il personaggio da “comico” a “saggio”, avvenga per presunti accumuli di cultura da donare al popolo ignorante, per educarlo. La mutazione da farfalla a bruco. C’è un segno, un’orma, una traccia, un indizio precedente che mi indusse, molto tempo fa, a rivedere il mio giudizio benevolo, quasi affettuoso, su Benigni. Nel suo film più brutto, anzi brutto-tout-court, dove il cinquantenne-burattino tenta di recitare con meno risultati della sua fatina statica. I critici non esprimono più giudizi non graditi altrimenti diventano sgraditi, ma io posso scrivere che: ci sono diversi episodi, di scene, di sequenze in quel film, chiaramente riferite, imitazioni di altrettante illustrazioni ricavate da edizioni classiche di Pinocchio. Sono tratte da illustrazioni del passato, e del presente; disegnate da Cavalieri, Mussino, Mozzanti e le mie, molto e ripetutamente
apprezzate e fatte passare per idee scaturite nell’Azienda Benigni&Co. Siccome Benigni è democratico, nei titoli di coda cita e ringrazia tutti i collaboratori, dagli scenografi agli operatori, gli elettricisti, i costumisti, i rumoristi, i musicisti, tutti gli aiutanti di questi, le comparse, ma nel lunghissimo elenco non figura nessuno illustratore, e non c’è traccia di me. Ho lasciato correre, anche se c’è un testo di Paola Pallottino dove chiaramente indica tutte le scene originali da cui sono state tratte quelle del film, compreso il finale dove l’ombra del burattino prende vita propria e lascia il bambino troppo buono e bravo per non annoiarsi. Vent’anni prima di un film realizzato senza badare a spese, quasi Hollywoodiano; dopo un Oscar, un fiasco. Spero che le quattro monete d’oro sotterrate abbiano prodotto molti frutti, per rimediare le perdite. È del tutto legittimo cambiare, col tempo, anzi, la curiosità e la conoscenza lo auspicano. Ma perché da comico trasmigrare nella noia del conformismo più banale sulle note tristi della predicazione, dell’esortazione, dell’implorazione, minacciando come vecchi arnesi della politica più retriva, l’Apocalisse, da un classico consunto copione. Tutte queste polemiche intorno all’argomento sono fuorvianti, eludono la domanda fondamentale: La Prima Parte della Costituzione, è mai stata applicata? Qualcuno tenta percorsi possibili, per la sua attuazione? O è forse un’utopia, un sogno impossibile, il frutto di una ideologia superata, impraticabile, fuori tempo, dalla quale bisogna uscire per assuefarsi a questa realtà di squallore e decadenza? Sopra i “Dieci Comandamenti” si è installata, quasi inviata dal Cielo, la “Legge del Mercato”, sacra e indiscutibile, composta da due soli articoli in codice che mi sono permesso di tradurre dal gergo degli specialisti, detti Prenditori: Art. 1 – “Trai da qualsiasi Atto, Merce o lavoro, il massimo del Profitto immediato” Art. 2 – “ Il Fine giustifica i Mezzi” Spero che Benigni ci faccia ancora ridere su questi ghiotti argomenti.
15 OTTOBRE 2016 pag. 14 di
Špela Zidar
L
a mostra Cemento, al Moo (Via San Giorgio 9A, Prato fino 2 dicembre) riflette sulla necessità dell’uomo di costruire; ingegnarsi ed inventare per andare sempre più in alto, unire i materiali, cementarli insieme, inserendoli nel paesaggio portandovi sia i benefici urbanistici che gli svantaggi legati all’eccessiva cementificazione. Anche l’atto del costruire nel lavoro di Franco Menicagli è sempre in relazione con l’ambiente circostante, che serve da contenitore alle sue sculture elastiche, permettendo loro di prendere forma. Al Moo l’artista presenta un’installazione ambientale, costruita con materiali poveri, composta da pilastri di supporto rivestiti da mattonelle di recupero che costituiscono le solide fondamenta dalle quali cresce una scultura organica di listelli di legno che come un’esplosione riempie entrambi gli spazi della galleria. Il punto di partenza dell’installazione sono i pilastri, apparentemente in cemento armato, nella società moderna il simbolo per eccellenza del costruire; dalla loro sommità fuoriescono ferri di richiamo sporgenti, che hanno ispirato l’artista durante i suoi viaggi nel sud Italia, e che rappresentano sia la futura possibilità di ulteriore sviluppo ed elevazione della struttura, sia il fallimento che ne ha fermato momentaneamente la crescita. Vecchie e colorate mattonelle di recupero, di quelle trovate nelle case dopo i lavori di ristrutturazione, fungono da cassaforma durante la realizzazione dei pilastri. All’interno viene colato non del cemento, ma gesso e schiuma poliuretanica, ovvero materiali fragili che contrastano con l’apparente solidità del pilastro. La scelta di utilizzare elementi di rivestimento come le mattonelle impiegandole come supporto strutturale, converte i rapporti tra contenuto e contenitore, inoltre le decorazioni e i pattern trovati sulle vecchie mattonelle risultano spesso familiari, in grado di innescare ricordi e relazioni nello spettatore, spaesato dal vedere un materiale appartenente alla sua storia o alla sua quotidianità, all’interno dello spazio espositivo. Questo trompe l’oeil del materiale, sia nella fabbricazione dei pilastri che nel loro rivestimento, è utilizzato con l’intento di rivelare l’idea di
Cemento una costruzione stabile, con i suoi riferimenti ad elementi strutturali, ma allo stesso tempo precaria e dipendente dal contesto che la ospita. L’artista così sceglie di completare l’installazione con la struttura aerea dalle forme morbide e ondulate dei listelli di legno che, uniti da fascette auto bloccanti, si elevano dai pilastri circoscrivendo e accarezzando lo spazio. Assumendo forme sinuose e delicate, sembrano sconfiggere la forza di gravità e fluttuare al suo interno in un equilibrio instabile, ma resistente. La progettualità minima permette all’artista di formare l’opera mentre la crea, facendola sembrare una forma vivente cresciuta all’interno dello spazio, fuggita al controllo sia dell’artista che dello spettatore. La scultura, ormai indipendente, riempie e penetra liberamente gli spazi che la contengono, seguendo regole e ritmi apparentemente propri. Tutto rimane essenziale, continuamente labile e in ridefinizione, in costante bilico tra lo stabile e il precario, tra le forme geometriche e quelle organiche. Un’opera, forte nella sua possibilità di adattamento e allo stesso tempo fragile nel suo essere effimera, che dipende quasi completamente dal suo contenitore architettonico, e che permette di
all’artista di indagare sul rapporto simbiotico tra uomo, opera e ambiente, consentendo allo spettatore la rilettura del suo rapporto con lo spazio.
Franco Menicagli
italiani sono diminuite. In alcune regioni di più in altre meno, ma in calo ovunque. Oggi un siciliano o un campano hanno un’aspettativa di vita inferiore di 4 anni rispetto ad un trentino o a un marchigiano (terremoti esclusi). Insomma cala l’aspettativa di vita e siamo fra gli ultimi Paesi dell’Ue nella spesa per la prevenzione. A forza di tagli e ritagli si finisce che chi tiene alla propria salute, la prevenzione deve pagarsela. In effetti siamo la Cenerentola d’Europa, spendiamo per questo solo il 4,1% delle risorse destinate alla sanità, posizionandoci stabilmente in fondo della classifica. E pazienza se chi non può permettersela muore qualche anno prima. Certo che per i 4 italiani su 10 che non hanno un lavoro è difficile far fronte a tasse, bollette, abbonamento Rai, dentista, ticket per gli esami diagnostici e farmaci. Del resto è risaputo
che il Pil pro-capite è mal distribuito. Nelle regioni del Sud è quasi la metà rispetto a quelle del Nord: 16.761 euro contro i 30.821 di quelle del Nord Ovest. Con la media nazionale più bassa dal 2004 ad oggi. Crescono le disuguaglianze: il 20% più ricco possiede il 61,6% della ricchezza, mentre il 20% più povero ne fa le spese, costretto a vivere con solo lo 0,4. E così oltre che ad essere più malati e con prospettive di vita più brevi la maggior parte degli italiani sono anche più poveri di 10 anni fa. Se nel 2014 il 6,8% della popolazione viveva in povertà assoluta, nel 2015 siamo arrivati al 7,6. Tradotto, vuol dire che oggi i veri poveri sono 4 milioni e 598mila, il numero più alto dal 2005. È come se tutti gli abitanti del Veneto vivessero in totale precarietà. Ma tutti con più probabilità di viaggiare in Maserati. Vuoi mettere.
Remo Fattorini
Segnali di fumo Difficile capire L’Italia. Ancora più difficile spiegare il carattere di questo nostro Paese ad uno straniero. Basta ricordare alcune recenti notizie di cronaca per rendersene conto. Siamo il paese dove si immatricolano più Maserati. Non solo, le vendite aumentano ogni anno: nel 2015 se ne sono consegnate 1.360, il 10% in più rispetto all’anno precedente. E anche il 2016 è iniziato sotto il segno del Tridente, con le vendite delle Maserati che vanno a tutto gas. Da Modena ci invitano a stare tranquilli: “le nostre vetture sono tutte Euro6, inquinano poco”. Sarà anche vero. Fatto sta che il Rapporto Osserva Salute 2015 sul benessere e la qualità dell’assistenza medica, ci dice che per la prima volta le aspettative di vita degli
15 OTTOBRE 2016 pag. 15
Penis enlargement
Giovanni Pianosi giovanni.pianosi@gmail.com di
i maschi africani come “sex machines” inarrivabili e inesauribili che se da un lato li avvicina, nel nostro immaginario più razzista di quanto ci piace ammettere, agli animali, dall’altro, però, ne fa dei temibili concorrenti che mettono in luce tutta la nostra inadeguatezza. Eppure “penis enlargement” promettono i volantini, e forse questa promessa che sembra così esplicita cela una reticenza. Seguendo la lezione di Carlo Porta, in realtà, più delle misure, quel che conta davvero è averlo “dur e
ch’el dura” (come si spiegherebbe altrimenti il successo del Viagra e derivati?) e allora vuoi mai sapere che anche gli africani, ogni tanto, perdono qualche colpo? E qui, a partire da un argomento che può anche apparire frivolo, le domande arrivano a grappoli e toccano questioni complesse e di grande rilievo. Perché la – diciamo così – vivacità sessuale degli africani, vera o presunta che sia, viene quasi sempre associata alla semplicità e “naturalità” (qualunque cosa questa parola significhi) della loro vita, alla loro spensieratezza: insomma sembrerebbero, gli africani, i perfetti testimoni della fondatezza del detto napoletano: ‘o cazzo nun vò penziere. Ma forse anche gli spensierati maschi sudafricani qualche pensiero ce l’hanno, come inducono a pensare i diffusissimi volantini. Almeno da quando Lévi-Strauss ha intitolato Tristi tropici il suo primo e fondamentale libro di etnologia occorre guardare alla vita degli altri, di tutti gli altri, con più attenzione e soprattutto con più rispetto. Il mondo, ovunque, è un posto maledettamente complicato.
In Loving Memory
Paella in teatro
In Loving Memory, Il cimitero agli Allori di Firenze di Grazia Gobbi Sica. Coordinamento di Maurizio Bossi. Con un saggio e schede sulla comunità russa di Lucia Tonini. Collana “Gabinetto Scientifico Letterario G.P. Vieusseux. Studi” Firenze, Olschki, 2016 Si tratta della prima pubblicazione dedicata al cimitero monumentale agli Allori di Firenze, originariamente destinato alle sepolture degli appartenenti a confessioni religiose non cattoliche e perciò popolato in gran parte di stranieri che, venuti a soggiornare in città, vi deposero la propria spoglia. Il volume si articola in una parte saggistica e in una di biografie dei defunti, guardando da un lato al cimitero agli Allori come a un vero e proprio museo all’aperto, con importanti testimonianze nel campo della scultura e delle arti.
Si aprirà sabato 15 ottobre alle ore 20 nel foyer del Teatrodante Carlo Monni “Paella in teatro”, la nuova rassegna in cui, una volta al mese fino a marzo, sarà possibile gustare il saporito piatto spagnolo, e, a seguire, vedere artisti, attori, cantanti e danzatori esibirsi in opere inedite, per provarle davanti a un pubblico. L’evento, nato in collaborazione con Cafè Dante, porta in Toscana una formula che ha visto protagonisti a Roma artisti affermati quali Niccolò Fabi e Valerio Mastandrea, che provavano così i propri progetti, capendone l’efficacia reale davanti a un pubblico. “Abbiamo pensato a una padella contenitore sia di cibo che di cultura. Con Paella uniamo la cultura del mangiare a quella del teatro. L’evento è solo su prenotazione (presso il Cafè Dante, in piazza Dante 43, e presso la biglietteria del teatro, in piazza Dante n.23, telefono 055 8940864).
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l turista che se ne va a spasso per Cape Town capita con una certa frequenza di vedere affissi qua e là volantini che, senza giri di parole, te ne promettono uno più grosso. E, per diversificare l’offerta, ti garantiscono anche un aiuto se hai problemi finanziari o se lei ti ha lasciato. Qualche volta la lista delle potenziali prestazioni comprende anche la rapida guarigione dalle emorroidi, misure per evitare l’infedeltà del coniuge o per togliere il malocchio, il successo in campo musicale o sportivo e via promettendo. Ma la questione del pene, come avrebbe detto Freud, resta centrale e così s’intitolano tutti i volantini: Penis enlargement. È ai maschi neri, in tutta evidenza, che si rivolge l’anonimo imbonitore perché quella del pene e delle sue manipolazioni a fini di enlargement et similia è un’ossessione tipicamente maschile che i maschi bianchi però, se del caso, affrontano più discretamente affidandosi alla tecnologia anziché alla stregoneria (sempre
We William’s Women Il 20 ottobre sarà la serata Www. We William’s Women sul palco del Teatro Cantiere Florida a inaugurare la Stagione Danza e il focus sul drammaturgo inglese, un omaggio tutto al femminile per indagare alcune figure, aspetti e “concatenazioni” shakespeariane. www.teatroflorida.it
che, in questi casi, la differenza sia significativa). Né pare che alle donne sudafricane, in particolare alle più svantaggiate che sono anche le più numerose e sono – guarda caso – quasi sempre nere, interessino granché misure e prestazioni di quell’arnese di cui, forse, farebbero anche volentieri a meno visti i deleteri effetti del suo uso sconsiderato di cui portano, quasi per intero, le conseguenze. Alla vista di quei volantini, c’è qualcosa di sorprendente per i maschi europei abituati a vedere
L immagine ultima
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15 OTTOBRE 2016 pag. 16
Dall’archivio di Maurizio Berlincioni berlincioni2@gmail.com
iamo ancora all’interno dei “Projects” e, come al solito, i bambini che giocavano in questi spazi erano principalmente neri o portoricani. Dalle nostre parti, almeno secondo quelli che sono i miei ricordi, ancora non esistevano queste strutture in cemento e labirinti formati con tubi Innocenti. O forse già esistevano ma io, non ancora coinvolto con famiglia e bambini a carico, non me n’ero mai accorto!
NY City, agosto 1969