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ATLANTE GUERRE SPECIALE COVID19 2020

ATLANTE DELLE GUERRE E DEI CONFLITTI DEL MONDO SPECIALE COVID19 2020

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ATLANTE DELLE GUERRE E DEI CONFLITTI DEL MONDO SPECIALE COVID19

Direttore Responsabile Raffaele Crocco (Asia centrale)

Segreteria Jessica Ognibeni

Coordinamento Emanuele Giordana (Asia Orientale, Asia Centrale)

Hanno collaborato Teresa Di Mauro (Caucaso) Elia Gerola (Usa, Oceania) Lucia Frigo (Europa) Luciano Scalettari (Africa)

In redazione Daniele Bellesi Alice Pistolesi (Vicino Oriente) Maurizio Sacchi (America Latina) Beatrice Taddei Saltini

Con il supporto di

Partner Redazione Associazione 46° Parallelo Via Salita dei Giardini, 2/4 38122 Trento info@atlanteguerre.it

Con il contributo di In collaborazione con Editrice AAM Terra Nuova S.r.l. Via Ponte di Mezzo, 1 – 50127 Firenze Tel. +39 055 3215729 info@aamterranuova.it www.aamterranuova.it

Con il sostengo di

Progetto grafico ed impaginazione Daniele Bellesi Progetto grafico della copertina Daniele Bellesi

Foto di copertina Un volontario della CRI (Croce Rossa Italiana) di Alzano Lombardo sta parlando con Claudio Travelli, paziente Covid19. Dopo essere stato visitato, Travelli, con la sua famiglia, decide di continuare le cure nella sua casa di Cenate Sotto (Bergamo) il 15 marzo 2020. Il giorno successivo - 16 marzo - la sua famiglia decide di chiamare nuovamente l'ambulanza perché le condizioni di Claudio stanno peggiorando. Claudio sta effettuando un secondo tampone Covid19, dopo che il primo si è rivelato negativo. Questa volta il test è positivo. ©Fabio Bucciarelli www.fabiobucciarelli.com

www.atlanteguerre.it Testata registrata presso il Tribunale di Trento n° 1389RS del 10 luglio 2009 Tutti i diritti di copyright sono riservati Finito di stampare nel settembre 2020 Grafiche Garattoni – Rimini


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EDITORIALE

Il Coronavirus non ha creato un Mondo migliore Ci abbiamo sperato, diciamolo: per lungo tempo abbiamo sperato che la grande crisi nata dal Covid19 creasse le condizioni per un Mondo migliore. Non sarà così. Sarà semplicemente un Mondo diverso. La pandemia non ha riequilibrato la distribuzione della ricchezza. Mancano i dati, ma l’impressione è che i ricchi lo siano diventati un po’ di più. Certo, il Pil mondiale è crollato ovunque, con punte del 30% negli Stati Uniti nei primi sei mesi del 2020, del 10-12% nell’Unione Europea, del 25% in Africa. Ma ad essere colpiti sono stati soprattutto i poveri. L’economia informale, quella di strada, che consentiva a miliardi di persone di vivere in Africa, America Latina e Asia, è stata spazzata via. I lavoratori dipendenti di Europa e Stati Uniti hanno visto i loro posti di lavoro sfumare, spesso con scadenti ammortizzatori sociali a disposizione. E mentre tutto questo accade, alcune cose non si fermano, immense risorse – che potrebbero essere impiegate per contrastare l’epidemia sul piano sanitario, sociale ed economico – vengono investite in altro. Ad esempio, in armi. Difficile sapere quale sarà il bilancio finale, nel 2020, ma intanto la spesa militare globale nel 2019 è stata di 1,9trilioni di dollari Usa. Significa 300 volte il budget a disposizione dell’Oms, l’Organizzazione Mondiale della Sanità. Considerando il riposizionamento militare e geopolitico di questi mesi e pensando alle troppe tensioni sociali nate nei Paesi a “democrazia limitata”, è facile immaginare un balzo in avanti o quanto meno un mantenimento del livello di spesa. In più, gli osservatori notano come “cyberwar” e criminalità abbiano fatto del Covid19 un nuovo teatro di operazioni. Le tensioni sono in aumento, lo dimostrano la nuova guerra fredda fra Stati Uniti e Cina, la posizione assunta da Nuova Zelanda e Australia contro Pechino, l’agitarsi fra vaccini certificati e movimenti militari di Russia e Turchia. Servirebbero forniture mediche, sanitarie, alimentari. Si risponde comperando aerei, elicotteri, sistemi d’arma. In questo scenario, era importate fare il punto “altro” della situazione, raccontare cioè come le cose stanno andando non tanto e non solo con la conta dei troppi morti e contagiati dal Coronavirus. È importante capire in quale Mondo rischiamo di vivere sopravvivendo alla malattia. È fondamentale sapere quali strumenti abbiamo per difendere diritti, democrazia e, dove si può, la pace. Questa piccola pubblicazione, vuole essere un contributo a tutto questo. Le foto che vedrete in questo Speciale e la foto di copertina sono tratte da un lungo reportage realizzato da Fabio Bucciarelli nelle zone della Lombardia più colpite da Coronavirus. È un lavoro realizzato per il New York Times e durato per tutta la lunga, prima, drammatica fase della malattia in Italia. Il servizio – al di là dei grandi riconoscimenti e premi internazionali – ha avuto il merito di far conoscere agli statunitensi, in quel momento ancora abbastanza inconsapevoli, la dura realtà del Covid19, con tutto il suo drammatico impatto sulla vita delle persone. Raffaele Crocco


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Il pronto soccorso dell'ospedale Papa Giovanni XXIII dove erano sotto osservazione i sospetti pazienti Covid19 il 21 marzo 2020. In quel momento, dato il crescente numero di contagiati, gli ospedali accoglievano più persone del previsto, con la conseguenza di mettere nei corridoi i pazienti in emergenza.

Un paziente Covid19 con complicazioni respiratorie che indossa una ventilazione con elmetto riposa sul suo letto dell'Ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo il 3 marzo 2020.


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MINE ACTION E COVID 19

Sapersi proteggere non è sempre una scelta La comunità internazionale attiva da circa 25 anni sul fronte della prevenzione da incidenti causati da ordigni inesplosi (Explosive Ordnance Risk Education – Eore) ha reagito interrogandosi su come il settore potesse svolgere un ruolo in termini di risposta all’emergenza determinata dal Covid19 dato che l’attività di prevenzione del rischio cerca di ridurre il pericolo di lesioni da ordigni esplosivi sensibilizzando donne, ragazze, ragazzi e uomini in base alle loro diverse vulnerabilità, ruoli ed esigenze e promuovendo comportamenti più sicuri. Apparentemente, alla luce di questa crisi Covid19, il modo più efficace per mitigare l’impatto del Covid passa ed è passato attraverso il cambiamento del comportamento che è proprio il campo e la competenza degli attori impegnati sul fronte internazionale della Mine Action in scenari bellici e post-bellici. Il cambiamento del comportamento a rischio è l’obiettivo perseguito e il risultato desiderato. Ma ovviamente non è facile, come in molti altri settori, vedi prevenzione Hiv, Wash (Water Sanitation Hygiene), sicurezza stradale, prevenzione dei matrimoni precoci, ecc. Questa nuova pubblicazione dell’Atlante, ci offre l’occasione di ricordare che, escluso l’approccio faccia a faccia per le limitazioni dovute al Covid19, la rete dei progetti della risk education internazionale è stata messa a disposizione con nuove modalità dalle varie organizzazioni e agenzie UN impegnate sul tema, con messaggi di prevenzione sul rischio ordigni e di prevenzione Covid19, in linea alle disposizioni e linee guida Oms. Uno sforzo collettivo Questo è stato il primo grande sforzo per assicurare comunque un’azione collettiva e coordinata. Diversi gli interrogativi ed i tentativi di risposta rispetto alle altre attività: per esempio il quasi fermo totale di progetti di bonifica con grave danno anche per piccole comunità che traggono reddito da questo impegno lavorativo. Oggi più che mai, bisogna rendersi conto che le operazioni di bonifica umanitaria sono quelle che consentono agli aiuti alimentari o ai mezzi di soccorso di operare, almeno in parte, in modo sicuro garantendone l’accesso. Queste operazioni, presumibilmente, subiranno l’impatto della crisi economica con un minore impegno di cooperazione internazionale nei prossimi anni. A dispetto di ciò, armi e guerre continueranno a vedere l’incremento di attività in un risiko mondiale, ove la ragione non ha ottenuto benefici dai segnali negativi globali della pandemia. L’Italia ha comunque mantenuto il suo impegno economico per la Mine Action nel 2020 con la volontà di mantenere una leadership basata sull’esempio in questo settore di cooperazione. Quando lavarsi le mani è un lusso Importante è non dimenticare che i diritti delle persone con disabilità e il loro accesso alle cure sono spesso limitati dallo stigma della disabilità in sé e che, in scenari tragici come quello disegnato dal Covid19, sono acuiti e non scemati. Le istituzioni nazionali responsabili della risposta all’emergenza Covid devono tenere conto della diversità umana e devono stabilire meccanismi che garantiscano l’uguaglianza e la non discriminazione basata sulla disabilità. Il nostro pensiero corre a coloro per i quali anche lavarsi le mani è un lusso così come avere una mascherina. A coloro che nel proprio campo potrebbero incontrare una mina… Sapersi proteggere non è sempre una scelta. Giuseppe Schiavello Direttore ItCBL Campagna Italiana Contro le Mine


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Il figlio di Teresina Gregis Ivan e il marito Franco la piangono dopo il funerale privato al cimitero di Alzon Lombardo, il 21 marzo 2020. Teresina, che soffriva di problemi respiratori, è morta a casa. Non è andata in ospedale a causa dell’alto numero di pazienti con Covid19 che stavano trattando. Un'operazione congiunta dell'esercito italiano e dei carabinieri per caricare le bare sui camion dell'esercito e portarle via dal magazzino dove erano raccolte a Ponte San Pietro, Bergamo Italia, il 24 marzo 2020. Causa Covid19 emergenza, cimiteri e servizi di cremazione nel bergamasco faticano a tenere il passo con l'enorme mole di lavoro e il loro regolare funzionamento non può essere garantito. Le bare vengono raccolte e trasportate nelle parti estreme della Provincia o anche in altre Province.


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INTRODUZIONE

Il Mondo post Covid è diverso e pare non sia migliore Presi dalla quotidiana lotta all’epidemia, forse non ce ne siamo accorti: il mondo è cambiato. E tanto. Il Covid19, piombato sul Pianeta nel 2020, ha modificato in profondità rapporto politici fra Paesi e potenze regionali, facendo nascere nuovi conflitti e generando un totale riposizionamento. Ciò che era latente è diventato scoperto: Cina e Stati Uniti sono in guerra non dichiarata, ma lo sono. La Russia cerca di riguadagnare consenso internazionale, ruolo, così come la Turchia, alle prese con il nuovo e vecchio sogno di impero Mediterraneo. L’Oceania ha riscoperto l’orgoglio della propria diversità. Il tutto mentre le economie traballano e gli esseri umani rischiano di tornare indietro di 50 anni nella lotta alla fame e alla miseria. Diciamolo: non è un bel quadro. Braccio di ferro Il gioco tornato di moda sembra esser braccio di ferro. E a stimolare virili richiami al confronto è sempre la Cina, onnipresente sulla scena internazionale e sempre meno simpatica ai rivali. Persino l’Oceania ha deciso di scendere in campo contro Pechino. In occasione dell’Aspen Security Forum del 5 agosto 2020, il primo Ministro australiano Morrison ha ammesso che ciò che fino a poco tempo prima risultava “inconcepibile e considerato impossibile” come un conflitto armato tra Australia e Cina, non è più tale. Insomma, il confronto in armi è possibile, se la Cina non smetterà di interferire. Ovviamente, Canberra non è sola, sa di essere appoggiata dalla Nuova Zelanda. I due Paesi hanno proposto di formare una “area comune” alle altre isole del Pacifico, hanno riaffermato i loro rapporti con Taiwan – che Pechino considera propria – e chiesto all’Oms di aprire un’indagine internazionale sulle responsabilità di Pechino nella diffusione del virus. Morale: le grandi isole del pacifico voglio fermare la Cina, bloccando gli investimenti del Dragone sui loro territori e a dispetto di una economia – la loro – sempre più dipendente proprio dai cinesi. Pechino ha risposto alzando i dazi sulle merci australiane. Canberra ha invece lanciato una poderosa campagna di acquisti d’armi. La Cina protagonista Pechino è comunque nei pensieri di tutti. Di Trump, ad esempio, che sembra dover passare alla storia come il Presidente del declino degli Usa. I dati sono impietosi: l’epidemia, che ha proprio negli Usa il picco, ha creato una disoccupazione record e, nel primo semestre del 2020, il Pil del Paese è crollato del 30%. Gli Stati Uniti non sono più – forse nemmeno sul piano militare – la superpotenza egemone e il Presidente ha scelto una strategia di difesa: no al multilateralismo, ritiro dagli scenari impegnativi e nuova Guerra Fredda, questa volta contro la Cina. Il risultato è nel massiccio investimento militare, nel progressivo disimpegno dalla Nato e nel dispiegamento delle flotte a controllo delle nuove aree sensibili: Mar della Cina e Artico. Quanto conta la flotta Nel Mar della Cina, Pechino vuol dettar legge. Lo sta facendo capire a tutti, con provocazioni ai vicini – Giappone soprattutto – sul possesso di isole e isolotti e potenziando la flotta. Gli Stati Uniti rispondono con manovre congiunte agli alleati nell’area. Poi, Washington ha ripreso a vendere aerei da combattimento – sono gli F16 – a Taiwan, mandando Pechino su tutte le furie. Il rischio d’incidenti – dicono gli osservatori – sta aumentando. Certo è, che il controllo dei mari resta vitale. Il 90% del traffico di merci e beni è ancora sull’acqua e, quindi, controllare le rotte, accorciarle, renderle e tenerle agibili, è fondamentale. Lo sa Mosca, che proprio sulla futura nuova rotta al Nord, la rotta Artica, punta per garantirsi un futuro. Il Presidente Putin sta affrontando la peggior crisi economica e politica della sua ormai lunga leadership. A dispetto degli annunci, l’epidemia continua a mietere vittime in Russia e l’economia è in ginocchio, con il mercato interno praticamente fermo e i ricavi della vendita del petrolio insufficienti a coprire i buchi della bilancia commerciale. Putin ha continuato a rilanciare, con un attivismo “soft” fatto di aiuti ai Paesi satellite di Europa e Asia Centrale, mantenendo le posizioni militari nel Vicino Oriente e,


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soprattutto, annunciando al Mondo di aver trovato un vaccino contro il virus. La notizia, arrivata all’inizio di agosto del 2020, è stata smentita dagli scienziati, scettici sul fatto che il farmaco funzioni, ma tant’è: Mosca è rimasta sulla scena. In questo quadro, le speranze vere di rilancio per Putin sono davvero a Nord, il quella rotta Artica che il ritiro del ghiaccio sta rendendo praticabile. I trasporti fra Asia, Europa e Nord America diventerebbero più veloci ed economici e praticamente tutta la rotta sarebbe davanti alle infinite e lunghe coste settentrionali della Russia. Come dire: Mosca diventerebbe la padrona del più grande nastro trasportatore della storia dell’uomo. I giochi dei grandi, i giochi dei piccoli Nel resto del Pianeta, le cose vanno avanti, esattamente come prima. Grandi crisi e guerre son ancora lì. Si combatte in Siria, Libia, Ucraina, Somalia, Yemen, India, Thailandia, Filippine, Myanmar. In Africa, la tensione è salita fra Etiopia, Sudan e Egitto per il controllo delle acque del Nilo. Il virus, poi, ha scompaginato molto sul fronte dei diritti. Nell’Est d’Europa le fragili democrazie hanno continuato a logorarsi, con gruppi dirigenti sempre più impegnati a smantellarle per curare i propri interessi e affermare le proprie oligarchie. L’elenco è lungo: Ungheria in testa, poi Polonia, Montenegro, Serbia. La Bosnia è stata al centro dell’ennesimo scandalo, per gli affari della famiglia presidenziale sulle attrezzature mediche. In Ucraina, sono diffusi i timori di un accordo opaco tra Kiev e Mosca sul Donbass. In Moldavia, Georgia e Bielorussia le elezioni non sembrano aver portato maggiore democrazia, anzi hanno scatenato le opposizioni e i dissensi. Nel Vicino Oriente si continua a morire. Lo si è visto in Libano, piegato dall’esplosione del porto di Beirut nei primi giorni di agosto del 2020. Troppi i morti e i feriti per non scatenare la protesta in un Paese che stava comunque rischiando di esplodere, pressato dal debito estero non pagato e dalla crisi economica. In Siria i soldati turchi continuano a combattere. Soldati turchi che sono diventati da esportazione e occupano aree nel Mediterraneo, per dare forma alla politica neoimperialista di Ankara, che cerca spazio anche grazie agli aiuti sanitari portati là dove interessa: Vicino Oriente, appunto, Balcani, Asia Centrale. La Turchia sta tornando protagonista sulla scena internazionale. Economia: è un disastro Ma il vero pericolo per tutti viene dal blocco dell’economia e dalla fatica a rialzarsi. Se gli Stati Uniti segnano la peggiore crisi economica della loro storia, l’Africa – che da 25 anni segnava una crescita robusta e costante nonostante tutto – è al tracollo. Il Pil crollerà, soprattutto perché a fermarsi è stata la cosiddetta economia informale, di strada, quella dei venditori ambulanti. È una tragedia che l’Africa condivide con America Latina e Asia. Si rischia di retrocedere di cinquant’anni, a livello planetario, nella lotta alla fame e alla miseria, cancellando i buoni risultati ottenuti a partire dal 1990. A frenare il futuro è anche il crollo delle rimesse degli emigrati, bloccate dal lungo lockdown e dalla conseguente chiusura delle frontiere. I circa 200milioni di migranti del Mondo, mantengono circa 800milioni di persone. Secondo la banca Mondiale, nel 2019 hanno mandato nei loro Paesi d’origine 554miliardi di dollari. Quest’anno, si prevede che l’importo diminuirà di circa il 20%, fino a scendere a 445miliardi di dollari. In alcuni casi, le rimesse sono buona parte del Pil interno ai Paesi. Tonga, ad esempio, ha il valore relativo più alto nel Mondo, con il 37,6%, ovvero 183milioni di dollari per il 2019. In Europa il Montenegro è il più minacciato: le rimesse rappresentano il 25% del Pil. In Ucraina è il 10,5%, in Albania il 9,4%. L’Unione Europea sotto pressione Tutto questo ha messo sotto pressione l’Unione Europea, che ha faticato a trovare solidarietà interna per uscire dall’epidemia ed era assolutamente impreparata sul piano della politica estera. Alla fine, i 27 Paesi hanno trovato un accordo sugli aiuti al proprio interno, sulle regole per averli, mettendo in campo il Recovery Fund da 750miliardi di euro. Interessante scoprire che mentre questo accadeva, dal bilancio comunitario venivano tagliati – da 15,5 a 3,5miliardi – i fondi per la cooperazione, mentre non venivano toccati i 13,5miliardi destinati alla difesa comune. L’Unione sembra aver deciso di puntare ad un modello di difesa armata sempre più integrato fra i vari Paesi, in grado di riempire i buchi lasciati dagli Sati Uniti, decisi a disimpegnarsi dal Vecchio Continente. È presto per dire che ci sarà un esercito europeo, ma le basi sono state gettate. La crisi da Covid19, con la sensazione di pericolo imminente e di insicurezza che si porta dietro, sembra confermare che le risposte che si trovano sono sempre, solo, risposte armate. Raffaele Crocco


Distribuzione dei casi di contagio nel mondo per regione secondo l’OMS

Western Pacific 1% Western Pacific 2%

Africa 1%

Africa 2%

Eastern Mediterranean 7%

Eastern Mediterranean 9%

South-east Asia 1%

South-east Asia 4%

Europe 21%

Americas 36%

Eastern Mediterranean 1%

FEBBRAIO

MARZO

APRILE

Europe 39%

Europe 55%

Western Pacific 77%

Western Pacific 2%

Western Pacific 1%

Western Pacific 2%

Africa 3%

Africa 5%

Africa 5%

South-east Asia 10%

South-east Asia 14%

MAGGIO

South-east Asia 21%

GIUGNO

Americas 54%

Europe 17%

Americas 59%

Eastern Mediterranean 4%

Eastern Mediterranean 9%

Eastern Mediterranean 13%

Americas 45%

Americas 54%

Europe 17%

L'avanzare del contagio: i numeri globali di casi totali e decessi

LUGLIO

Europe 9%

Le sei regioni per l’Organizzazione Mondiale della Salute

Il numero di persone positive e decedute per Covid19 secondo l'Organizzazione Mondiale della Sanità. Dati https://ourworldindata.org/covid-cases e https://ourworldindata.org/covid-deaths.

morti totali (cumulativi) alla fine di ogni mese contagi totali (cumulativi) alla fine di ogni mese Febbraio

2.921 85.237

38.524 807.308

Marzo

227.696

Aprile

367.985

Maggio

0

17.300.000 4.500.000

9.000.000

13.500.000

Coronavirus e fame nel mondo: ecco i Paesi a rischio Il World Food Program delle Nazioni Unite ha evidenziato come la pandemia di Coronavirus abbia esacerbato situazioni di povertà in moltissimi Paesi del mondo, con gravissimi impatti sulla sicurezza alimentare e il rischio di fame e carestie. Nella mappa, il "gruppo A" (in rosso) rappresenta gli Stati per cui il Wfp ha previsto un "rischio altissimo" mentre il "Gruppo B" (in ocra) rappresenta i Paesi a "rischio alto". Dati: Wfp, External Situation Report #9

South-east Asia Western Pacific

10.250.000

668.445

Luglio

Europe Africa

6.010.000

502.086

Giugno

Americas Eastern Mediterranean

3.140.000

Rischio altissimo

Rischio alto

18.000.000


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ASIA ORIENTALE

I tanti "casi" del Continente più vasto e popolato Il 23 gennaio 2020 la città cinese di Wuhan viene sigillata. Poi è la volta di Huanggang e quindi di Ezhou. Secondo l’Oms isolare una città grande come Wuhan è “senza precedenti nella storia della salute pubblica”. Ed è da qui che comincia la storia del Covid19. Per reagire, il continente più vasto e popoloso del Pianeta adotterà risposte diverse anche se si possono indicare tendenze e persino buone pratiche. Se la Cina è una sorta di Pianeta a sé, si può tentare una divisone: i Paesi alla frontiera con la Rpc: Cambogia, Laos, Vietnam, Myanmar (e Thailandia), vicini, ma tra i meno colpiti al Mondo. Paesi a grandi numeri, dall’Indonesia alle popolatissime Nazioni dell’Asia del Sud con esplosioni virali tardive, mal gestite e seminascoste. E ancora Paesi ricchi, tecnologicamente avanzati ma non sempre socialmente virtuosi (Corea del Sud, Malaysia, Singapore). Infine le aree della guerra più o meno conclamata, come nel caso degli endemici conflitti birmani (Vicino Oriente e Asia Centrale vengono trattati nelle rispettive sezioni), del conflitto Delhi Pechino e di quello Pechino Washington. Ma se il fenomeno Covid lo si legge nella chiave di una possibile tregua, la risposta è univoca: non ha funzionato. Peggio: cinesi e indiani si sono scontrati lungo la frontiera himalayana mentre (si veda la parte sugli Usa) è da mesi in corso un esercizio muscolare nella regione marittima Indo-pacifico che sta trasformando la guerra commerciale tra Washington e Pechino anche in una pericolosa dimostrazione di forza militare. Pianeta Cina In Asia orientale, la Cina resta pur sempre il Paese guida e non solo perché tutto è iniziato (o sembra essere iniziato) a Wuhan. Alle prese con nuove fiammate di virus, la Rpc ha reagito sempre con fermezza e precisione. Ma se la guerra al virus è, se non vinta almeno sotto controllo, altrettanto non si può dire per la guerra vera: gli incidenti sul confine con l’India a maggio e la tensione con gli Usa nei mari, hanno messo il Paese in allarme per un possibile nuovo conflitto con Delhi e uno ancora più pericoloso con Washington. Sia India, sia Stati Uniti stanno negoziando con Pechino ma con scarsi risultati. E se una guerra guerreggiata è al momento da escludere, i rapporti tra queste tre superpotenze sono tutt’altro che stabili e tranquilli e sono dunque “focolai” assai più gravi di quelli del virus. L’escalation coincide con gli attacchi verbali americani alla Cina (colpevole di aver diffuso il “virus cinese”) e si alimenta di antichi dissidi sulla frontiera tra Delhi e Pechino e su un’escalation di tensione con Washington cui la Cina ha reagito perdendo la sua tradizionale calma. Ne sono una prova le leggi restrittive imposte a Hong Kong e la spinta al rialzo della spesa militare. I Paesi della “cintura” Se si guarda una tabella salta all’occhio che in Asia solo quattro Paesi hanno decessi zero. Escludendo Timor Est (25 casi 0 decessi al 9 agosto 2020) e Turkmenistan (0 casi 0 decessi), gli altri sono Cambogia e Laos cui si può aggiungere il Myanmar (6 vittime) e da poco il Vietnam (10), casi questi ultimi recentissimi e nati da una seconda ondata del virus. Nei Paesi della “cintura” Sud della Cina, alla periferia dell’Impero dunque e i più vicini all’epicentro di Wuhan, abitano circa 180milioni di persone e sono Nazioni che ospitano comunità cinesi e un vasto via vai di lavoratori cinesi e non da e per la Cina. Non arrivano a 1500 casi. Innanzi tutto han chiuso subito le frontiere con la Rpc: scelta commercialmente dura, ma intelligente. Poi hanno isolato interi villaggi al primo caso (il Vietnam già da febbraio 2020) e allestito quarantene in luoghi come i monasteri (Myanmar) sapendo di avere strutture cliniche fragili e poco diffuse. I positivi sono stati subito isolati, identificati e resi noti per età, sesso e residenza. Sostenere che sono regimi autoritari o dittature mascherate (Phnom Penh è l’unica capitale che desta qualche sospetto sui numeri) è vero, ma riduttivo. Sembra semmai aver funzionato una logica culturale di autodisciplina di comunità dove la salute resta un bene collettivo da preservare. Disciplina, autodisciplina, trasparenza e rigore oltre alla pregressa esperienza della Sars. Più consigli e aiuti dalla Cina, interessata a non guastare i rapporti coi primi vicini del progetto Nuova Via della Seta.


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Il caso Indonesia La gestione del virus in Indonesia è stata invece ondivaga, con regole incerte e litigi tra Governo centrale, Province e Governatorato della capitale. Un’inchiesta della Reuters in aprile 2020 sosteneva che i morti fossero almeno due volte tanto i dichiarati. Dopo un inizio goffo e incerto, il Presidente Jokowi ha preso il comando con piani per affrontare il problema. Ma ci sono anche 270milioni di persone sparse su 17mila isole: è un Paese decentralizzato, con governi locali eletti dal popolo e una burocrazia inaffidabile. Il lockdown è stato poroso e lo Stato non è finanziariamente abbastanza forte da sostenere i danni all’economia. Il Governo ha evitato metodi draconiani anche per via di un passato militare e autoritario, ma la situazione resta preoccupante anche se i numeri sono sempre relativamente bassi (oltre 123mila casi e 5.659 decessi al 9 agosto). India, Pakistan, Bangladesh I numeri di Bangladesh, Pakistan e India (questi ultimi i più alti con oltre 43mila decessi), hanno sempre destato sospetti, sia per la scarsa capacita di test, sia per la difficoltà di individuare i malati, sia per mancanza di trasparenza. In India il virus ha rafforzato il nazionalismo del primo Ministro Narendra Modi e scatenato l’islamofobia, oltre a far pagare un caro prezzo ai migranti interni. Rispetto agli abitanti, tutti i grandi Paesi dell’Asia del Sud – così come l’Indonesia – registrano in realtà relativamente pochi casi e pochi decessi per Paesi tanto sovrappopolate (l’India con quasi un miliardo e 400milioni di abitanti, il Pakistan con oltre 200milioni, il Bangladesh con 160). Il trend ascensionale delle infezioni e dei decessi nei tre Paesi sembra però confermare l’ipotesi di governi che hanno cercato in tutti i modi di non allarmare le loro popolazioni, ma con prospettive che lasciano molti interrogativi. In India la vicenda Covid si è infine associata a un sempre più muscolare atteggiamento anticinese già visto a novembre 2019 nel boicottaggio indiano del Regional Comprehensive Economic Partnership (Rcep), che riunisce i 10 membri dell’Associazione delle nazioni del Sudest asiatico (Asean), Cina, Giappone, Corea del Sud, Australia e Nuova Zelanda. E rivisto a maggio negli scontri al confine. Ricchi, tecnologici, spietati Nei Paesi ricchi dell’Asia – con l’eccezione del virtuoso Giappone – spiccano i casi di Corea, Malaysia e Singapore: nonostante siano avanguardie tecnologiche con la patente di democrazie, un benessere diffuso e buoni ospedali si sono distinte per vistosi buchi neri “sociali”. Quando Seul ha visto una ripresa del contagio a maggio con un focolaio nei club Lgbtq+, si è diffusa una reazione razzista nei confronti del diverso, identificato come untore per le sue pratiche sessuali. Singapore e Malaysia hanno fatto altrettanto, se non peggio, coi migranti. La città-stato li ha rinchiusi in grandi dormitori dove sono scoppiati focolai di Covid19. La Malaysia ha messo molti migranti in prigione e perseguito i giornalisti che hanno raccontato la svolta autoritaria contro i più deboli: una forza lavoro immigrata cui Kuala Lumpur, come Singapore, non può rinunciare ma cui non sono stati garantiti diritti. Virus e conflitti La richiesta di tregua dell’Onu a marzo, riecheggiata dal Papa, non ha funzionato: né in India, né in Thailandia. Solo in parte nelle Filippine e nel Myanmar dove però il cessate il fuoco, decretato a Yangon il 10 maggio, ha escluso le aree…dove si combatte. Non sarebbe sbagliato dire che il Covid ha spinto semmai l’Asia verso una svolta autoritaria. La paura di nuove ondate non è comunque passata. È connessa soprattutto al fatto che gli ultimi casi di Covid19 registrati sono in gran parte di persone che fanno ritorno nel Paese d’origine. È il motivo per cui il Myanmar ha deciso di prolungare la chiusura degli aeroporti e praticare una strettissima sorveglianza su chi rientra via terra. Con una complicazione in più rispetto ai suoi vicini che hanno frontiere, seppur porose, fortemente controllate. Yangon ha invece a che fare con intere città e aree che sfuggono al controllo del Governo centrale quando non sono apertamente in guerra, come nel caso degli Stati del Rakhine e del Chin. Spinti dall’emergenza Coronavirus anche nei campi profughi bangladesi – che hanno raccolto l’esodo forzato dei Rohingya del 2016-17 – molti profughi hanno tentato e tentano clandestinamente di tornare in Myanmar: intercettarne alcuni ha permesso di scoprire che vi erano dei positivi. Lo stesso vale per gli sfollati interni nel Rakhine: circa 240mila che vivono in condizioni precarie di assistenza.


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ASIA CENTRALE

L'Asia centrale rischia di diventare una polveriera L’idea più originale – e non sono mancate in questo periodo, ammettiamolo – probabilmente l’ha avuta Shavkat Mirziyoyev, Presidente dell’Uzbekistan. Per rassicurare i viaggiatori e convincerli ad andare nel suo Paese come turisti, ha promesso di rimborsare 3mila dollari a chiunque – straniero – prendesse il virus durante la visita. La cifra è più o meno il costo delle cure mediche. Per altro, ne potranno usufruire solo i turisti cinesi, giapponesi, coreani o israeliani, gli unici che vengono da Paesi con cui si sono riaperte le frontiere, ma tant’è: una nuova via è tracciata, per sconfiggere il virus o almeno per addolcirne gli effetti. L’iniziativa di Mirziyoyev da l’idea esatta di quanto l’Asia Centrale sia in crisi per le conseguenze del virus. Gli equilibri politici, economici e militari dell’area rischiano di saltare. L’Iran – potenza media della Regione – ha subito lo shock di essere tra i Paesi più colpiti al Mondo. Nonostante le difficoltà e gli attacchi politici dagli Usa, ha mantenuto però alto il profilo di “gendarme” del Vicino Oriente. L’Afghanistan, già perso nelle proprie crisi politiche e militari, nell’epidemia moltiplica la propria fatica nell’avviare un qualsiasi processo di pace. Il numero di contagiati è alto, anche se incerto: una parte dei governi dell’area ha deciso di proclamare l’assenza di contagi, salvo trovarsi ad affrontare l’epidemia nei fatti. In più, le già fragili democrazie della regione hanno subito colpi letali, inferti da proclamati “stati d’emergenza”, la dove ci sono stati. Per i cosiddetti “khanati”, il disastro vero lo si misura nell’economia. Quasi tutta l’area dipende dalla vendita all’estero di idrocarburi, i cui prezzi sono precipitati, rendendo la bilancia commerciale quanto meno disastrosa. I venti dollari al barile del petrolio sono stati rovinosi. A questo si è aggiunto il turismo – recente scoperta di quei Paesi – letteralmente sparito e il blocco delle rimesse degli emigrati, causato dalla chiusura delle frontiere. Ovviamente, lo scenario cambia da Paese a Paese, ma solo con il sostegno economico ed i prestiti erogati dalle organizzazioni finanziarie internazionali (Fondo Monetario, Banca Mondiale, Banca Asiatica per lo Sviluppo, Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo) sarà possibile puntellare le deboli economie centroasiatiche. In più, l’intera Asia Centrale al termine della pandemia rischia di essere vulnerabile, stretta tra le manovre geopolitiche di Russia, Cina e Turchia che – non dimentichiamolo – nella zona esercita un certo fascino. Insomma, il rischio è che l’Asia Centrale diventi una polveriera. Iran: virus, sanzioni e tensioni Ponte tra il mondo Mediorientale e quello Centroasiatico, l’Iran è stato uno dei primi Paesi fuori dalla Cina a destare serie preoccupazioni per una rapida diffusione dell’epidemia. La Repubblica islamica in agosto si trovava ancora all’undicesimo posto nella classifica mondiale dei contagi con oltre 314mila casi e oltre 17mila decessi. L’Iran – solitamente protagonista della cronaca internazionale – è uscito dai riflettori della cronaca e non solo la partita col virus sembra tutt’altro che conclusa, ma continua la politica di sanzioni e continua lo stato di allerta continuo nelle acque del Golfo Persico, al netto di una crisi economica, già in essere prima della crisi, che si è ovviamente aggravata. Non di meno, Teheran non ha rinunciato alla sua presenza di gendarme nel Vicino Oriente dove la Siria gli ha offerto l’occasione per mostrare la sua influenza. Afghanistan: la pace difficile L’Afghanistan continua a destare forte preoccupazione non solo per la fragilità del suo sistema sanitario ma perché è un Paese in guerra ormai da quarant’anni. Ciò non di meno il virus sembra assai meno potente del conflitto che non si e fermato né per il Covid19 né per l’accordo firmato a Doha tra Talebani e Americani. Dopo uno stallo durato mesi la crisi interna al Governo di Kabul si è risolta in maggio con l’annuncio che il Presidente eletto Ashraf Ghani e il suo rivale elettorale Abdullah Abdullah avevano finalmente trovato un accordo di condivisione del potere: Ghani rimane al suo posto e Abdullah assume un ruolo guida nel processo di pace. Un accordo che però lascia prevedere nuovi scontri interni e una coabitazione difficile, come già in passato. Qualcosa però si muove: nel difficile processo negoziale tra Governo afgano e guerriglia, va segnalata – dopo la tregua per le ricorrenza di Eid el Fitr a maggio


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– quella per la festa islamica dell’Eid al-Adha tra luglio e agosto. Tregua rispettata dalle parti, ma turbata da un attentato a Jalalabad firmato dall’auto proclamato Stato islamico che, sempre in maggio, ha messo a segno altri eclatanti attentati sia a Kabul sia nella provincia orientale di Nangarhar dov’è più forte. I Talebani hanno preso le distanze dai diversi episodi ma ciò che resta del Califfato di al-Baghdadi non è da sottovalutare anche se guerriglia, Governo e Talebani sono tutti contro di lui. Kazakistan Il Kazakhstan si è mosso rapidamente. Le misure economiche sono state immediate, in aiuto della popolazione e delle imprese grazie a 60 miliardi di dollari del Fondo Nazionale, quindi subito disponibili. Già da aprile ha iniziato a rimborsare i cittadini per i mancati introiti, cercando di evitare un blocco produttivo generale. Sul piano sanitario, il governo si è mosso seguendo le orme dei Governi europei. Ha cioè dichiarato la chiusura di confini, scuole ed attività economiche non indispensabili. La reazione dei cittadini è stata duplice. Da un lato c’è stata la paura di un crack economico, con la corsa in banca e negli uffici postali, a ritirare i propri risparmi. Dall’altro, si è scatenato l’odio per tutto ciò che è cinese. Lo spettro della crisi economica resta. Il bilancio dello Stato, per il 2020, era tarato su un ipotetico valore del barile di petrolio di 55 dollari. I minori introiti avranno come conseguenza l’impossibilità di alimentare il Fondo Nazionale, con l’inevitabile ricaduta negativa sugli ammortizzatori sociali. Kirghizistan È considerato il Paese più democratico dell’intera Asia Centrale. Tradotto: qui il Governo ha dovuto fare i conti con l’opinione pubblica, che è più libera. Così, ha apertamente ammesso le proprie difficoltà. Il Kirghizistan sta applicando il più possibile delle misure simili a quelle applicate in Europa. Quindi, c’è stata la scelta della scuola a distanza, del distanziamento e del lockdown, rafforzato dal coprifuoco notturno nelle principali città. Le autorità hanno confermato di non poter sostenere economicamente la popolazione. Così, è diventato il primo Paese a ricevere l’aiuto del Fondo Monetario Internazionale per cause legate al Covid19. Altri aiuti sono negoziati con altre istituzioni e altri Paesi. Tagikistan La scelta iniziale del Governo è stata semplice: negare tutto, dire che non vi sono contagi da Covid19. Così apparentemente la vita è andata avanti come se niente fosse. Solo dopo maggio sono iniziati a circolare dati sul contagio. Intanto, la crisi economica, dovuta alla chiusura delle frontiere con la Russia e all’inflazione, ha iniziato a galoppare. Nessuno protesta, almeno apparentemente: in Tagikistan l’opposizione politica non esiste. Esistono la prigione o l’esilio. Turkmenistan Il governo, considerato uno dei più isolati e totalitari al Mondo, sostiene che Covid19 lì non è arrivato. Così come non ammette di rischiare una crisi economica senza precedenti. Il problema è che i prezzi di vendita del gas naturale seguono quelli del petrolio e si prevede vi sia un nuovo crollo. Tutto questo ha ripercussione pesantissime sul bilancio dello Stato: gli introiti derivanti dalla vendita del gas rappresentano il 70-80% del totale. Ci sono state proteste per la mancanza di generi alimentari. I negozianti non accettano i pagamenti con carte emesse in Turkmenistan ed il Governo ha trasformato in moneta locale tutti i conti correnti bancari in valuta estera. Uzbekistan L’Uzbekistan è tornato in lockdown l’8 luglio 2020, a causa di una seconda ondata di contagi da nuovo Coronavirus. Aveva allentato le misure tra maggio e giugno 2020. Un brutto colpo per il Paese, a cui comunque la pandemia ha dato ruolo e forza politica nella Regione. Il Presidente Shavkat Mirziyoyev è diventato un punto di riferimento nella geopolitica dell’Asia Centrale. Da subito, ha tentato di coordinare una risposta comune regionale. Ha organizzato gli aiuti all’Afghanistan, tentando di sfruttare le vecchie strutture statali ex-sovietiche.


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VICINO ORIENTE

Il Covid non fa tacere le armi nel vicino Oriente Quando il 23 marzo 2020 il segretario Generale Onu, Antonio Guterres, proponeva una tregua globale umanitaria, si è sperato che la pandemia potesse almeno mettere a tacere per un po’ le armi nel Vicino Oriente. Così non è stato e alla violenza diffusa nella Regione si sono sommate le problematiche sanitarie, economiche e geopolitiche. Yemen tra pandemia, guerra e locuste Per lo Yemen la pandemia si interseca con choc economici, scontri armati, inondazioni e l’invasione delle locuste. Secondo l’Onu e le agenzie collegate, a causa del Covid19, sarà il 40% delle popolazione a trovarsi a rischio insicurezza alimentare, a fronte del 25% stimato al febbraio-aprile 2020. Il crollo della produzione e delle esportazioni alimentari mondiali si somma alla diminuzione dei fondi umanitari internazionali e all’interruzione delle linee di comunicazione. Il Covid19 è anche una nuova causa di sfollamenti interni perché migliaia di yemeniti si allontanano dalle zone più colpite. Il Displacement Tracking Matrix ha registrato che oltre 10mila persone delle 100mila in fuga da gennaio a giugno, ha indicato la paura del virus e l’impatto dell’epidemia come motivo di esodo. La guerra, inoltre, non si è mai fermata e le parti hanno continuato i combattimenti, approfittando del Coronavirus per avanzare. Erdogan pigliatutto Stretta sui diritti sul fronte interno e diplomazia degli aiuti su quello esterno hanno caratterizzato la gestione dell’emergenza sanitaria della Turchia. La libertà di espressione e di stampa ha avuto il colpo di grazia: ampliato il controllo sulle notizie relative al Coronavirus e etichettate come “fake news” quelle in contrasto con i dati governativi. Giornalisti sono stati arrestati e migliaia di persone sono oggetto di indagine per la pubblicazione di post critici. Nel luglio 2020 il parlamento turco ha approvato una legge che conferisce alle autorità un potere maggiore di regolare i social media. Infine, Ankara ha sfruttato la pandemia per rinsaldare i rapporti politici con le aree di interesse, fornendo assistenza sanitaria a 57 Nazioni. Secondo molti osservatori questa ‘diplomazia degli aiuti’ di Ankara svela le ambizioni della Turchia a livello internazionale. L’attivismo del Paese è proseguito anche in Libia, dove Erdogan ha continuato a sostenere il Governo di Accordo Nazionale di Fayez Al Sarraj per ritagliarsi sfere di influenza nella Nazione ricca di petrolio e avere il diritto di svolgere attività di esplorazione petrolifera. La pandemia non ha poi fermato il conflitto in Siria ai danni della popolazione curda e nel Kurdistan Iracheno dove Ankara è un protagonista attivo. Sul piano economico il Covid19 ha fatto però riemergere le fragilità del Paese. Secondo i dati diffusi dalla Confederation of Progressive Trade Unions of Turkey Research Center, la pandemia ha creato difficoltà al 75% dei lavoratori e almeno 13milioni di persone ha perso il lavoro. Siria, la guerra infinita La Siria si è trovata ad affrontare l’emergenza Covid19 con alle spalle un quasi decennio di guerra. Nel Nordovest del Paese, la tregua stabilita da Russia e Turchia a marzo è finita poco dopo con la ripresa di combattimenti e bombardamenti aerei. Nei campi informali dove vivono gli sfollati l’acqua scarseggia e le infrastrutture sanitarie e civili sono decimate. A giugno una nuova ondata di violenza, nella zona Sud di Idlib, ha costretto centinaia di famiglie a lasciare anche quel rifugio di fortuna e alcune Ong che distribuivano il pane e altri beni ai civili hanno dovuto fermare le proprie attività. Anche nelle aree sotto il controllo governativo la popolazione è allo stremo. L’8 maggio l’Alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, Michelle Bachelet, ha accusato le milizie di approfittare della pandemia di Coronavirus per attaccare la popolazione civile. Al conflitto si somma la questione economica. Il valore della lira siriana è crollato di circa il 200% e i prezzi dei generi alimentari sono aumentati a dismisura. Milioni di persone si trovano al limite della sopravvivenza (+42% rispetto al 2019). Tutti motivi che hanno riportato la gente a manifestare. Drammatica poi anche la condizione degli oltre 5,5milioni di siriani rifugiati in Turchia, Libano, Giordania, Iraq ed Egitto.


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Proteste e crisi in Libano e Giordania La pandemia in Libano ha contribuito a soffiare sul fuoco. Il 7 marzo 2020 il Governo di Hassan Diab ha annunciato il default del Paese. Di pari passo con la crisi economica dall’ottobre 2019, il Paese è attraversato da un movimento di protesta che chiede la destituzione dell’establishment politico accusato di corruzione e clientelismo. Se durante il lockdown il movimento si è fermato, a giugno le proteste sono state rilanciate dall’aggravarsi della crisi economica. Crisi che incide sulla capacità di garantire i servizi di base ai suoi cittadini e al milione circa di rifugiati. In difficoltà anche i profughi siriani che si trovano in Giordania, dove la crisi economica collegata al Covid19 si fa sentire. Nel Paese, infatti, il turismo costituisce il 12,5% del Pil. Iraq, cresce la povertà Guerra, economia fragile e Governo sospettato di corruzione, rendono la gestione dell’emergenza sanitaria in Iraq estremamente complessa. Nel Paese, che ha centrato il suo reddito sul petrolio, in milioni hanno perso il lavoro e il Governo trova sempre maggiori difficoltà a pagare i salari. Il Ministero degli Affari sociali afferma che durante la pandemia il tasso di povertà nel Paese è cresciuto dal 22 al 34%. I più esposti al rischio di contagio sono quelli che vivono nelle baraccopoli e gli sfollati. L’Iraq, come il Libano, si trovava da ottobre 2019 in un momento di forte attivismo popolare. Migliaia di persone avevano animato le strade e le piazze per chiedere la fine della corruzione, della disuguaglianza e del regime settario. Nel mese di giugno il movimento è tornato nelle piazze sfidando la repressione. Accanto alla questione sanitaria, economica e politica (solo nel maggio 2020, al terzo tentativo, l’Iraq è riuscito a instaurare un nuovo governo), c’è quella legata al conflitto. A metà giugno la Turchia ha ripreso i raid aerei, bombardando località del Kurdistan iracheno. Le difficoltà dei Saud in Arabia Saudita La pandemia non ha risparmiato l’Arabia Saudita (a luglio 2020, il Paese con il maggior numero di infezioni in tutto il Golfo), ma a preoccupare il principe ereditario Mohammad bin Salman non sono tanto le questioni sanitarie, quanto quelle economiche. Gli effetti del lockdown e il calo del prezzo del petrolio stanno mettendo in difficoltà il Paese che ha preparato a maggio un piano di austerity, che secondo gli osservatori potrebbe rompere il patto sociale con la popolazione e frenare la portata delle riforme avviate. Anche il rituale viaggio alla Mecca ha risentito delle limitazioni del Covid19 riducendo la platea dei pellegrini. Israele e Palestina La pandemia in Israele e Palestina ha contribuito ad esacerbare animi e conflitto. Il piano di annessione delle terre palestinesi presentato dal Governo Netanyahu–Gantz per perseguire il disegno della ‘Grande Israele’ è stato maturato proprio nei mesi di lockdown e ha provocato manifestazioni e scontri. Ma l’annessione non è il solo motivo di protesta. Migliaia di israeliani nel mese di luglio hanno manifestato chiedendo le dimissioni di Netanyahu, incriminato per corruzione e malagestione della lotta al Coronavirus. Le tecnologie militari israeliane e dell’intelligenza artificiale sperimentate dalle forze armate e dai servizi segreti sono state adattate alle necessità mediche e sanitarie dovute al Covid19, soppiantando la gestione del ministero della Sanità. Grave la situazione nei Territori Palestinesi e a Gaza, dove ad aprile, per contrastare il Coronavirus, le agenzie Onu Unrwa e Ocha chiedevano, 48milioni di dollari di finanziamento. Crisi regionale La diffusione del Covid19 ha creato una serie di ripercussioni sulle economie della Regione. Il calo delle esportazioni, la riduzione delle rimesse dall’estero e le restrizioni alla mobilità stanno peggiorando o creando nuove crisi alimentari in una Regione interessata da un gran numero di guerre e conflitti e da milioni tra sfollati e profughi. A questo va poi aggiunto il crollo del prezzo del petrolio in Paesi in cui l’economia dipende da questa risorsa. La diminuzione è stata provocata dal rallentamento della produzione industriale globale e peggiorata dalla guerra commerciale tra due dei maggiori esportatori, Russia e Arabia Saudita. Alla situazione economica si associa quella politica e legata alle proteste antigovernative, aggravate dal forte disagio socio-economico. Conclude poi il quadro la repressione dei diritti ai danni di giornalisti e cittadini.


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AFRICA

In Africa il Covid 19 contagia anche i diritti democratici “Grazie a Dio la pandemia di Covid19 è finita. Ringrazio i tanzaniani di tutte le fedi. Abbiamo pregato e digiunato affinché Dio ci salvasse dalla pandemia che ha afflitto il nostro Paese e il mondo. Ma Dio ci ha risposto”. Parola di John Magufuli, Presidente della Tanzania, in una chiesa della capitale Dodoma, l’8 giugno 2020, tra gli applausi e le grida di giubilo. Vero? Con ogni probabilità no, ma non lo si sa, perché il capo dello Stato tanzaniano già dal 29 aprile aveva smesso di diffondere i dati del contagio nel Paese, quando c’erano 509 casi con 21 morti. Per fortuna, però, la quasi totalità dei governi africani non ha gestito così la pandemia, in stile Bolsonaro o Trump. Un’altra “maglia nera” tuttavia c'è, quella del Madagascar, dove non si minimizza la gravità della pandemia né si inneggia alla “grazia ricevuta”, ma si insiste a promuovere come curativo un “rimedio naturale”, il “Covid-Organics” (un preparato a base di erbe e spezie di cui l’Oms ha smentito l’efficacia) dal sapore molto amaro. Lo si promuove al punto che la ministra dell’Istruzione e della Ricerca scientifica aveva ordinato, a maggio, 2milioni di dollari di lecca-lecca, che dovevano “addolcire” per i bambini il farmaco naturale contro il virus. Un “investimento” giudicato inopportuno persino da Presidente Andry Rajoelina, che seppur difensore a spada tratta dell’estratto a base di erbe, davanti all’abnorme spesa in dolciumi ha dimissionato la ministra. Il Covid-Organics, in ogni caso, è stato esportato in altri Paesi africani, fra cui Congo, Gambia, Nigeria e la stessa Tanzania. La stragrande maggioranza dei Paesi africani, però, ha affrontato in tutt’altro modo la pandemia, cercando di adottare misure analoghe a quelle italiane e degli altri Paesi europei più prudenti: dal coprifuoco, al divieto di assembramenti, dal distanziamento sociale all’uso della mascherina, come pure alle campagne di sensibilizzazione sul lavaggio frequente delle mani e sull’uso dei dispositivi di prevenzione. Norme che, sì, sono state emanate, ma che nel Continente africano hanno scarsa efficacia, per tante ragioni: nelle baraccopoli e nelle sovrappopolate periferie urbane il distanziamento sociale è un'utopia; il lockdown è impraticabile da chi ogni giorno deve lavorare nei mercati informali o procurarsi il cibo per la giornata; avere accesso all'acqua è un'impresa per milioni e milioni di africani; sospendere i lavori a rischio è impensabile per chi non ha cassa integrazione o ammortizzatori sociali. Il risultato è che l'Africa a fine luglio 2020 ha superato il milione di casi (di cui oltre la metà, però, in Sudafrica e l'80% concentrato in 6 Paesi). La crescita lenta che aveva caratterizzato i primi mesi di diffusione del virus aveva fatto sperare che la giovane età media (metà di quella europea) e la minore mobilità sulle grandi distanze potesse evitare, almeno in parte, questo flagello all'Africa. Non è così. È sempre più evidente che il virus ha avuto un ritmo di diffusione assai più lento, ma ora il contagio accelera e il numero di casi è esponenziale. Insomma, il picco è ben lontano dall'essere raggiunto. L'elemento di speranza è di nuovo nella giovane età media delle popolazioni (il 60% del miliardo e 300milioni di abitanti del Continente è sotto i 25 anni): è probabile che siano moltissimi gli asintomatici e i paucisintomatici. In Africa la possibilità di accedere a cure efficaci è molto scarsa: i sistemi sanitari non sono nemmeno lontanamente paragonabili a quelli europei. Se guardiamo alla disponibilità di tamponi, laboratori di analisi, posti in terapia intensiva, respiratori, non c'è un solo Paese nel Continente che possa fronteggiare situazioni come quella statunitense o brasiliana. Occorre ricordare che l’Italia ha 41 medici ogni 10mila abitanti contro i 2 dell’Africa, la media dei posti letto di terapia intensiva del Continente all’inizio della pandemia era di 5 per milione di abitanti. Un dato emblematico è quello delle risorse dedicate alla sanità: la media mondiale è del 16%, quella africana dell’1%. La maggior parte dei Paesi, si diceva, continua ad avere un basso numero di casi. Ma, anche sotto questo profilo, occorre valutare con molta prudenza i numeri: come interpretare i dati di Stati come la Somalia, che vive in guerra da 30 anni; o come il Burkina Faso, che si trova a gestire la crisi pandemica nel mezzo di un’emergenza ben più grave con 850mila profughi in fuga da attentati, guerra civile e gruppi di estremisti islamici; oppure la RD Congo, alle prese con intere regioni destabilizzate dalla violenza sistematica, dalle bande armate e dai gruppi ribelli; il Centrafrica o il Sud Sudan, che hanno i sistemi sanitari fra i peggiori del mondo; o, ancora, la Libia, collassata dalla guerra civile. In definitiva, lo scenario che si prospetta è che il virus in Africa potrebbe rimanere in circolazione a lungo, forse anche per anni. Un problema di cui i governi africani sono ben consapevoli – hanno già chiesto ai Paesi donatori


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sospensione e tagli sul debito estero insieme ad aiuti consistenti per rafforzare le strutture medico-sanitarie – come pure lo sono le Ong e le agenzie Onu, che in gran parte hanno riorientato i loro interventi nei dispositivi di prevenzione e nella sensibilizzazione. Ad esempio, l’Unhcr, Alto Commissariato per i rifugiati, ha lanciato una forte campagna di raccolta fondi (750 milioni di euro) per tentare di fronteggiare la crisi umanitaria che si va delineando nelle tante realtà dove si concentrano sfollati e rifugiati, un’altra delle grandi categorie a rischio. Eppure, nonostante la grande preoccupazione che desta, la questione sanitaria rischia di non essere l’effetto peggiore della pandemia. Per l’Africa la vera catastrofe si verificherà (e si sta già verificando) per i “danni collaterali” della pandemia: le conseguenze economiche, sociali e politiche. Il Continente pagherà il prezzo più alto al coronavirus. La stima è che, a luglio 2020, la pandemia abbia provocato il crollo di un centinaio di milioni di persone sotto la soglia di povertà. Un effetto equivalente alla crisi mondiale del 2008. Gli africani, oltre a pagare al virus il proprio conto, saranno vittima, ancora una volta, delle crisi economiche altrui, dei Paesi ricchi e di quelli cosiddetti emergenti. Gli indicatori parlano di una recessione pesante: per il 2020 è previsto un calo (per la prima volta da 25 anni) dello 0,8 del Pil africano, quando prima della pandemia la stima era di una crescita del 3,2%. Una contrazione che sarebbe effetto della paralisi imposta dai lockdown messi in atto nei vari Paesi (a far data alla fine di luglio 2020 sono una quarantina quelli che impongono il coprifuoco o misure restrittive in comparti strategici come l’aviazione civile, il turismo, l’intrattenimento). Ma non solo. Le esportazioni di materie prime come pure le importazioni di prodotti lavorati e di generi alimentari ha subito un forte rallentamento, dovuto alle emergenze del Nord del Mondo; gli aiuti internazionali diminuiscono per via delle ingenti risorse assorbite dalle crisi, sanitaria ed economica, nei Paesi ricchi; un terzo problema è la riduzione delle rimesse dei migranti, che – ricordiamolo – costituiscono la prima voce di “aiuto” ai Paesi africani, superiore a quella del sostegno internazionale. Anche sotto questo profilo, la crisi pesantissima delle economie forti sarà pagata duramente dalle fasce di popolazione più vulnerabile, fra cui c'è la gran parte dei lavoratori stranieri affluiti in Europa, negli Stati Uniti e negli altri Paesi con economie forti. Senza contare la grave crisi del petrolio: il crollo del prezzo mette in ginocchio Paesi come la Nigeria, l’Angola, il Sud Sudan e tutti i produttori di greggio. Gli analisti prospettano la perdita di almeno 20milioni di posti di lavoro nel Continente. Una crisi economica che, con ogni probabilità, porterà a una riduzione delle entrate fiscali e alla conseguente necessità, da parte di diversi Paesi africani, di dover ricorrere a prestiti internazionali, aggravando la già pesante esposizione sul fronte del debito estero. Diritti sotto tiro C’è un’ultima grande categoria di contagiati, nel continente africano: i diritti democratici. Già prima, in molti Paesi, non godevano di buona salute, ma ora la pandemia ha legittimato, con la scusa della prevenzione dal virus, l’uso del pugno di ferro da parte di diversi governi. In Uganda, ad esempio, sono previste le elezioni l’anno venturo, nel 2021. Yoweri Museveni, al potere dal 1986 e candidato per l’ennesima volta alla presidenza, mantiene dall’inizio della pandemia il divieto di manifestazioni e comizi. Il Governo dello Zimbabwe, che pure non è fra i Paesi più colpiti dal Covid19, ha messo agli arresti più di 1.300 persone, giustificandone il fermo perché non indossavano le mascherine o avevano messo in atto assembramenti. In Kenya sono aumentati i casi di violenza da parte delle forze di polizia, come pure gli scandali per distrazione di fondi che dovevano essere impiegati per il contenimento dell’epidemia. E, ancora, l’Algeria: la società civile denuncia un crescente numero di arresti e condanne di attivisti vicini al movimento di protesta Hirak, nato all’inizio del 2019. Anche qui il regime ha vietato ogni forma di manifestazione e di protesta per “ragioni di salute pubblica”. Un divieto che dura dalla metà di marzo scorso. Infine, occorre considerare due fattori. Il primo. L’uso strumentale, da parte dei Paesi europei, della chiusura dei confini ai migranti africani per ragioni “sanitarie”. Già nei mesi di giugno e luglio 2020, con l’Europa ancora alle prese con la lotta al virus, gli esponenti sovranisti hanno gridato all’immigrato come un “untore”, presunto responsabile di riportare il virus nel Vecchio continente (come se non ci fosse già). È facile immaginare che cosa accadrà quando i Paesi europei saranno riusciti a minimizzare i contagi mentre in Africa i casi positivi saranno ancora moltissimi. Il secondo problema, che potrebbe essere il più drammatico, riguarda il vaccino. Quando sarà immesso sul mercato chi se lo potrà permettere? E chi se lo potrà permettere per primo? I Paesi ricchi, che hanno investito un fiume di denaro nella ricerca, accetteranno il principio che di fronte a una pandemia mondiale, il vaccino è per tutti, ossia un bene comune fondamentale? E anche ammesso che ciò avvenga, quanto tempo e quante risorse saranno necessari per distribuirlo nelle più remote e irraggiungibili regioni africane?


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USA

L'America di Trump e la guerra al "virus cinese" “A causa della malafede cinese il mondo sta soffrendo. L’aver tenuto nascosto il virus di Wuhan, ne ha permesso la diffusione nel mondo… Le autorità cinesi non hanno riportato i dati all’Oms, spingendola a indurre in errore il mondo… La Cina detiene oggi il controllo dell’Oms, nonostante versi solo 40milioni di dollari annui, rispetto a quanto gli Usa stanno pagando, 450milioni annui… Oggi termineremo la nostra relazione con l’Oms”. Questo ha ribadito il Presidente statunitense Donald Trump il 29 maggio 2020, durante un pungente discorso tenuto nel Giardino delle Rose della Casa Bianca, che ben evidenzia alcuni aspetti cruciali della risposta geopolitica di Washington alla crisi generata da Covid19: la sempre più accesa rivalità con Pechino, coinvolta in una sorta di nuova Guerra Fredda; l'applicazione della cosiddetta Dottrina della Ritirata; lo scricchiolante ruolo di unica superpotenza egemone dell’ordine globale. Dinamiche forse ineluttabili, caratteristiche anche della presidenza Trump pre-pandemia, ma fortemente catalizzate proprio dall’emergenza politico-sanitaria. Gestione schizofrenica Il 10 febbraio Trump dichiara sicuro: “Entro aprile, quando sarà un po’ più caldo, (il virus) scomparirà miracolosamente”. Da allora gli Usa sono però considerati dall’Oms l’epicentro della pandemia, anche a causa della schizofrenica e poco lungimirante gestione politica messa in campo dal Presidente. Con 5milioni di casi e circa 150mila morti ad agosto 2020, gli Usa sono il Paese più colpito al Mondo. Emblematiche rimarranno le immagini delle fosse comuni sull’isola di Hart Island a New York, ampliate per dare sepoltura hai troppi cadaveri accumulati; così come le foto dei senzatetto, che nel freddo marzo di Las Vegas sono stati costretti dalle forze dell’ordine ad una quarantena all’addiaccio in un parcheggio, mentre 147mila camere d’hotel erano libere a causa delle misure di distanziamento sociale. Proprio queste ultime hanno invece causato bruschi contraccolpi anche per la prima economia mondiale. Alle perdite finanziarie della Borsa di Wall Street che il 20 marzo era ritornata ai livelli del 2017, si aggiungono: l’impennata del tasso di disoccupazione che, con un +11% secondo solo alla Grande Depressione, ha raggiunto il 15%; la crescita del 43% nel numero di bancarotte; la diminuzione del Pil del 30% nel secondo quadrimestre 2020. Così, nonostante il "Global Health Security Index 2019" classificasse gli Usa come lo Stato più preparato del globo a fronteggiare crisi sanitarie di tipo pandemico, la saldatura tra le annose problematiche strutturali della società americana e la contingente Amministrazione Trump, hanno creato una congiuntura unica, che ha amplificato le esternalità politicosociali della crisi sanitaria, causando una marcata conflittualità interna. Hanno giocato un ruolo importante il sistema sanitario americano, privato, costosissimo e con 27milioni di persone prive di assistenza sanitaria, così come le profonde diseguaglianze e discriminazioni razziali che influenzano l’accesso alle cure stesse. L'effetto è stato quello della diffusione dell’epidemia secondo un evidente scelta socio-economica: i più poveri, residenti nelle periferie sovrappopolate e appartenenti a comunità etniche discriminate, sono stati i più contagiati. Anche i tassi di mortalità rispecchiano quello che può essere definito “razzismo sanitario”, che vede gli afroamericani avere circa il doppio della probabilità di morire di Covid19 rispetto ad un bianco. Cosa che ha probabilmente contribuito alla grande partecipazione alle manifestazioni del movimento #BlackLivesMatters, seguite al brutale assassinio di George Floyd, un afroamericano morto per asfissia procuratagli da un poliziotto durante un arresto il 25 maggio 2020. Business as usual? Altro fronte di scontro a tratti violento è quello sorto tra i sostenitori della necessità che l’interesse economico del "business as usual" prevalesse, con riaperture accelerate dell’indotto economico e l’alleggerimento precoce delle norme anti-contagio e i fautori del più cauto principio di massima precauzione sanitaria. Paradigmatico il caso del Michigan, dove a fine aprile un gruppo di uomini dichiaratamente repubblicani e armati di tutto punto, ha occupato la sede del Governo locale, chiedendo di attenuare le misure contenitive. Non meno significative ai fini della campagna elettorale che a novembre 2020 vede il democratico Joe Biden contendere l’Ufficio Ovale a Trump, sono poi le continue schermaglie tra il Presidente e gli amministratori locali democratici e la comunità scientifica. Dai primi, Trump è accusato di comportamento


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“immorale” per aver sottovalutato la minaccia multidimensionale di Covid19, agendo tardi, con scarsa leadership, coordinamento e determinazione, nonostante le evidenze scientifiche. Dai secondi, sono invece sistematicamente corrette e smentite, le dichiarazioni spesso prive di fondamento e logica scientifica del Presidente. Uno degli infettivologi più esperti al mondo, Antony Fauci, responsabile della gestione sanitaria dell’epidemia, anche a causa delle forti critiche ricevute dallo stesso Trump, che lo ha reso inviso ad una consistente parte dei propri elettori, è oggi costretto a vivere sotto scorta. Sono invece divenuti un forte alleato degli scienziati americani i social network, quali Twitter e Facebook, che seguendo quanto consigliato dall’Oms per prevenire le “infodemie”, ovvero le epidemie di disinformazione sanitaria generate dalla diffusione di fake news, hanno deciso di censurarne i generatori. Tra questi vi è anche Trump, più volte silenziato per le false informazioni diffuse circa Covid19, come ad esempio l’aver sostenuto che i bambini ne sarebbero immuni. Poco stretti attorno alla bandiera A livello interno, l’emergenza sanitaria non ha quindi generato l’effetto patriottico del “rally round the flag”, che in tempi passati di crisi ha visto la maggior parte della popolazione americana riunirsi attorno alla bandiera a stelle-strisce e alla figura del Presidente per affrontare unitariamente e trasversalmente la minaccia comune, molto spesso assicurando al Comandante in Capo la rielezione. Il dirompente impatto economico di Covid19 e le tensioni sociali scaturite hanno però fortemente polarizzato la società statunitense, riaprendo le sorti delle elezioni di novembre. A livello di politica estera americana la retorica trumpiana del nemico esterno e dell’America First, ha invece acuito tendenze geopolitiche già in atto: lo scontro ad ampio spettro con la Cina, l’anti-multilateralista disimpegno statunitense dai consessi internazionali, la nazionalista reticenza al coordinamento costruttivo con gli alleati più stretti. Il nemico pubblico numero uno Dopo la guerra commerciale, la rivalità tra Washington e Pechino ha trovato nella gestione della crisi sanitaria, un nuovo terreno di scontro. Da una parte Trump ha alimentato una narrazione fortemente accusatoria, ben testimoniata dal continuo apostrofare il nuovo Coronavirus come “virus cinese”, dall’altra le continue accuse di mancata trasparenza e di aver confezionato in laboratorio il virus. Le prime verranno presto vagliate tramite un’indipendente indagine internazionale, mentre le seconde sono invece state derubricate a complottismo da prestigiose pubblicazioni scientifiche. A ciò si è poi aggiunta dapprima la minaccia di ridimensionamento dei finanziamenti statunitensi destinati all’Oms e infine la decisione di uscirne. La forte ostilità nei confronti dell’agenzia Onu è dovuta alla presunta collusione/eterodirezione che l’Oms avrebbe dimostrato nella gestione pandemica con Pechino. Da ricordare vi sono poi maldestre politiche nazionaliste e unilaterali, che sono risultate ostili anche agli occhi dei più stretti alleati occidentali. Degna di nota la vicenda del marzo 2020, quando funzionari statunitensi provano, fallendo e irritando non poco la Cancelleria di Berlino, ad acquisire l’azienda farmaceutica tedesca CureVac, prima tra le grandi multinazionali ad elaborare un progetto di ricerca per un vaccino contro Covid19. Lo scontro tra l’Aquila e il Dragone, non va però considerato come la semplice ricerca di un capro espiatorio per la devastazione domestica della pandemia. Dal 2016 infatti, la presidenza Trump ha inquadrato e trattato la Cina come una superpotenza ostile, contendente la leadership globale Usa. Così la costante competizione realista per l’accumulo di un maggiore potere relativo, come all’epoca la Guerra Fredda, si verifica ad ogni livello, non più solo economico-commerciale (guerra dei dazi) ma anche politico-militare. Da una parte il numero di test eseguiti, la corsa al vaccino e le responsabilità per la diffusione del virus sono quindi politicizzati dai contendenti, così da incrementare il proprio soft power: acquisendo maggiore legittimità e prestigio internazionali per influenzare altri Paesi e organizzazioni. Dall’altra l’accelerazione della spirale conflittuale comporta anche il ricorso, sia simbolico che fattuale, al più classico hard power strategico-militare. Così nel luglio 2020, dopo aver accusato la Cina di spionaggio industriale tramite presunte operazioni di cyber-intelligence volte a impadronirsi di dati relativi ad un vaccino per Covid19, Washington ha chiesto a Pechino di chiudere il consolato di Huston. Emblema della degenerazione dei rapporti tra le due superpotenze è però il plateale e pericoloso, per il rischio di errori umani e dell’escalation bellica, dispiegamento di forze aeree e navali nel Pacifico. La Cina ha infatti incrementato frequenza ed entità delle esercitazioni e missioni di ricognizione militare nei pressi dello Stretto di Taiwan e delle contese isole artificiali nel Mar Cinese Meridionale, sul quale rivendica una sovranità contestata da Onu, Usa e Stati regionali. Washington ha invece deciso di esprimere disappunto per l’incremento dell’assertività politico-militare cinese realizzando dal maggio 2020 un massiccio “show of strength”. Ben tre portaerei: le USS Nimitz, Roosevelt e Regan, solcano contemporaneamente le acque del Pacifico-indiano, sostituendo al conciliante linguaggio della diplomazia, quello fragoroso e minaccioso delle onde che si infrangono sulle loro prue.


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AMERICA LATINA

Democrazia ed epidemia L'America Latina è ko L’8 luglio, il Presidente messicano Andrés Manuel López Obrador – Amlo, come viene chiamato- è volato a Washington per celebrare l’entrata in vigore della nuova versione dell’accordo di libero scambio nordamericano con il Presidente degli Stati Uniti Donald Trump. I due leader, contraddicendo la retorica nazionalista di entrambe le parti, hanno ostentato amicizia e celebrato le relazioni di buon vicinato, in un chiaro tentativo di spazzare sotto il tappeto i fallimenti politici ed economici che stanno caratterizzando il loro mandato. Il Messico ha superato i 46mila decessi da coronavirus, con più di 400mila casi confermati, 50mila dei quali registrati nella sola seconda metà di luglio. Città del Messico continua ad essere il luogo con il maggior numero di casi attivi, seguita da Guanajuato, lo Stato del Messico, Veracruz, e Yucatan. Anche se le cifre assolute sono inferiori a quelle del Brasile, se la cifra è messa in rapporto con quella degli abitanti, è evidente che l’infezione sta dilagando in modo drammatico. Nove Governatori hanno chiesto le dimissioni immediate di Hugo López-Gatell,lo “zar del Coronavirus” del Governo federale, denunciando che la sua strategia per combattere la pandemia sia fallita. E 11 Governatori han chiesto al vice ministro della Sanità di dimettersi. Ma la crisi non si limita certo al settore sanitario. Sullo sfondo i cartelli della droga La politica di Lopez Obrador aveva come epicentro la lotta al crimine. La sua linea, infatti, si basa sulla cessazione del confronto aperto con i cartelli della droga, nel tentativo di bloccare il drammatico aumento degli omicidi iniziato nel 2006 a seguito della “guerra” avviata dall’ex Presidente Felipe Calderón. Tuttavia, nel 2019, il Messico ha registrato oltre 35mila omicidi – un record assoluto – mentre la cifra per il 2020 prevede un aumento del 2,4%. Inoltre, i femminicidi sono saliti a 1.006, con una crescita di quasi il 25%. L’aumento dei delitti da parte dei cartelli indica che la criminalità organizzata ha acquisito potere, ampliando i margini di azione e impunità. La repressione da sola per altro non può risolvere il problema della violenza criminale. In 31 dei 32 Stati, il tasso di impunità è superiore al 90%, e in quelli di Tamaulipas e Veracruz raggiunge addirittura il 99,9% e il 99,8%. Queste cifre sono dovute solo in parte alla corruzione, poiché il sistema soffre di carenza cronica di pubblici ministeri e medici legali. Senza alcun piano per normalizzare la situazione, l’attuale amministrazione rischia di entrare nella storia come il periodo più violento in Messico dalla Rivoluzione (1910-1920). L’esperimento istituzionale ed economico di Amlo sembra condannato. Senza un’efficace applicazione della legge, crescita economica e investimenti esteri, l’emarginazione socio-economica non può che aumentare, lasciando ancora più spazio alla criminalità organizzata. Poiché Amlo non ha espresso alcuna intenzione di cambiare le sue politiche, ci sono poche possibilità che nei prossimi quattro anni del suo mandato presidenziale il Messico vedrà alcun miglioramento. Il problema, a questo punto, è che i messicani non hanno alternative. Amlo era l’alternativa, ma incapace di fornire risultati. Al momento, l’unica opzione praticabile è il ritorno al precedente sistema clientelare, corrotto e inefficiente del Pri (Partido Revolucionario Institucional) e del Pan (Partido de Acción Nacional). Il caso Brasile L’ex Presidente Luis Ignacio da Silva, “Lula”, liberato dopo più di 500 giorni di prigione con la motivazione di non aver mai avuto un giusto processo, ha dichiarato che l’attuale capo di Stato è da ritenere direttamente “responsabile per più di 66mila morti e 2milioni di contagi” per la sua gestione della pandemia, ricordando che ha nominato un ministro della Sanità “che non sa nulla di sanità, un militare”, e che l’attuale Presidente è totalmente impreparato per la sua carica, e che dovrebbe essere destituito, e processato per genocidio. Il 31 luglio, Jair Bolsonaro ha dichiarato di sentirsi debole, e che potrebbe avere “muffa nel polmone” dopo aver trascorso settimane in isolamento per aver contratto il Covid19.”Sono guarito dal Covid. Ho gli anticorpi, nessun problema. Nel mio caso particolare, prima ringrazio Dio, e in secondo luogo, i farmaci prescritti dal medico presidenziale: l’idrossiclorochina”, ha detto. Il Brasile è secondo solo agli Stati Uniti per numero di infezioni e decessi da coronavirus. Ma Bolsonaro ha minimizzato il virus per mesi. Il 31 luglio è apparso a cavallo all’aeroporto di Sao


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Raimundo Notato. Il video è stato pubblicato sulla sua pagina Facebook ufficiale. Facebook ha poi annunciato di aver effettuato un blocco mondiale sugli account di 12 sostenitori del Presidente Jair Bolsonaro, in ottemperanza all’ordine di un giudice brasiliano nel contesto di un’ inchiesta su una rete di fake news. Il giudice della Corte Suprema Alexandre de Moraes ha dichiarato che la società non ha rispettato pienamente una precedente sentenza che ordinava la chiusura degli account, affermando che questi erano ancora online e che pubblicavano dopo aver spostato la loro registrazione in località al di fuori del Brasile. La crisi istituzionale in Bolivia La Bolivia ha affrontato la pandemia nel pieno della crisi istituzionale seguita all’esilio forzato di Evo Morales, che, dopo aver vinto – come ormai concordano la maggioranza degli osservatori internazionali – le elezioni presidenziali del 2019, si è visto spodestare dalla Presidente della Camera, la conservatrice Jeanine Áñez Chávez. che ha colto l’occasione per sospendere i diritti di riunione e di movimento della popolazione. Ha sospeso le elezioni presidenziali del 3 maggio 2020, dichiarandole pericolose a causa dell’epidemia. Quando il Senato ha richiesto che le elezioni si svolgessero tra il 3 maggio e il 2 agosto, Áñez ha rifiutato di emanare il disegno di legge. Dopo ulteriori pressioni le elezioni si terranno il 6 settembre. Secondo tutti i sondaggi, il Mas, Movimiento al socialismo, è in testa. La gestione della pandemia da parte della Presidente ad interim è stata diretta a scongiurare la perdita del potere. Áñez ha approvato un decreto secondo cui coloro che diffondono “disinformazione” o non sono d’accordo con la gestione da parte del governo della crisi della salute pubblica potrebbero essere accusati di reati penali. Per questo motivo più di 100 persone sono state arrestate mentre venivano processati ex funzionari del Mas per corruzione e terrorismo e la polizia reprimeva brutalmente le proteste. Durante gli otto mesi di amministrazione Áñez la corruzione è dilagata e si sono verificati almeno 13 casi evidenti. A maggio, il ministro della Sanità è stato licenziato dopo aver acquistato ventilatori polmonari a tre volte il prezzo del produttore. Questi ventilatori sono stati successivamente ritenuti inadeguati per l’uso medico in unità di terapia intensiva. Poveri, pandemia, processo di pace in Colombia L’epidemia è decollata tardi in Colombia, ma quando è arrivata ha concentrato il suo impatto nella capitale. Bogotá registra quasi quattro casi su dieci rilevati nel Paese. Ma la stragrande maggioranza di essi è concentrata negli strati più poveri della popolazione. La parola “strato” in Colombia non è generica, ma ha una precisazione connotazione: tutte le abitazioni urbane sono classificate secondo una serie di parametri di qualità e vivibilità che vanno da 1 a 6. La classificazione di una casa in uno strato diventa praticamente un segno di classe. Secondo i dati pubblicati dalla Segreteria di sanità di Bogotà il 30 luglio, il 45% di coloro che sono morti durante la pandemia apparteneva a case nello strato 2 e il 25% allo strato 3. Un 17% viveva nell’ 1. Nove morti su dieci, quindi, appartengono alle classi più povere. Tutto questo in un Paese in profonda crisi sociale, che non riesce a uscire dalla violenza endemica, a cui tenta di porre rimedio il processo di pace fra la guerriglia delle Farc e il Governo. L’attuazione degli accordi è in dubbio, dopo 220 morti fra coloro che hanno deposto le armi e altri 300 fra leader locali e operatori umanitari. Fra essi, Mario Paciolla, trovato morto il 15 luglio a San Vicente de Caguán, dove indagava sulle molteplici violazioni degli accordi. Tutti questi dati confermano quanto si è andato delineando man mano che l’ America Latina si definiva come l’area del mondo in cui la pandemia ha colpito più duramente. Ovvero, che la diseguaglianza e la corruzione, gli ostacoli decennali che impediscono quasi ovunque la creazione di servizi sociali per tutti sono causa di morte e di miseria altrettanto potenti del Covid19. E spiegano anche perché l’Argentina e l’Uruguay, dove una tradizione diversa ha permesso di affrontare più efficacemente la crisi, rappresentino un’eccezione in un panorama da incubo, che non accenna a rischiararsi.


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EUROPA

L'Europa disunita davanti al Coronavirus È il 16 Marzo 2020 quando Ursula Von Der Leyen, Presidentessa della Commissione Europea, annuncia la chiusura dei confini esterni dell’Area Schengen: a causa dell’emergenza sanitaria, nessuno entra e nessuno esce dall’Unione. L’Oms annuncia: l’Europa è il nuovo epicentro della pandemia; i numeri del contagio hanno superato in brevissimo tempo quelli dell’Asia Orientale. Mentre il virus si diffonde in tutto il Continente, appare chiaro che serva una risposta condivisa in tutta l’Unione. Una risposta che le istituzioni europee presentano già tra marzo e aprile: da un lato, garantendo la condivisione di materiale sanitario tra tutti gli Stati Membri (dopo un’iniziale riluttanza di Paesi come la Germania, che inizialmente aveva bloccato l’export di mascherine e materiale ospedaliero); dall’altro, adottando grandissima flessibilità nell’applicazione di regole finanziarie e di bilancio, per far fronte alla crisi economica di portata globale. È un percorso che si concluderà solo il 21 di luglio, dopo settimane di negoziazioni per un piano che risollevi l’Unione guardando in particolare i Paesi più colpiti dalla pandemia: i dibattiti vedono scontrarsi gli Stati dell’Europa Meridionale – guidata da Italia e Spagna, simboli dell’Europa ferita dal Coronavirus – con i cosiddetti “Paesi frugali”, tra cui le Nazioni scandinave, Olanda e Austria, i virtuosi che non vogliono saperne di “condivisione del debito”. L’accordo finale raggiunto, così, non riguarda più solo i 750miliardi che l’Ue destina alla ripresa degli Stati Membri: riguarda anche l’immagine, offerta al mondo, di un’Unione che sa di doversi mostrare unita e capace di innovarsi. Diritti a rischio In ballo ci sono le vite di 447milioni di abitanti, minacciate da ogni punto di vista. Non solo dal Coronavirus che – dopo un picco complessivo nel mese di aprile – non abbandona il Continente e continua a registrare nuovi contagi e nuovi morti, facilitato dalla riapertura dei confini e delle attività produttive e sociali. A preoccupare i cittadini europei è soprattutto il mercato del lavoro. Il diritto al lavoro appare sempre meno scontato in un’eurozona che vede un crollo del Pil del 7,7% nel 2020: assistiamo a tassi di disoccupazione giovanile in ascesa vertiginosa e numeri record di lavoratori inattivi. La Commissione Europea ha inaugurato il fondo Sure per proteggere i lavoratori, ma si stima che la crisi economica da Covid19 costerà agli europei la perdita di quasi 12milioni di posti di lavoro. Intanto, anche il dritto all’informazione sembra diventare un privilegio: mentre infuria la pandemia, istituti europei come East StratCom Taskforce ed EU Vs Disinfo rilevano campagne di disinformazione orchestrate da Paesi terzi, Cina e Russia in testa. Lo scopo è quello di condizionare il dibattito politico a livello nazionale, estendendo la propria influenza nei Paesi resi più fragili dal virus: con un mix di notizie false o fuorvianti e di informazioni accuratamente costruite e presentate ad hoc, la narrazione russa o cinese entra prepotentemente nei social media europei. Gli Stati europei riconoscono la minaccia che queste strategie pongono alle loro democrazie, ma questo non basta: Stati e istituzioni europee dovranno lavorare assieme per bloccare ingerenze maligne nel settore dell’informazione. Proteggere l’Unione da queste nuove forme di aggressione significa difendere l’indipendenza dell’Europa a livello globale, la sua capacità di rivendicare scelte sulle sue future alleanze senza diventare un burattino delle superpotenze mondiali. Si tratta di un asset cruciale, in un momento storico nel quale la tensione tra Cina e Stati Uniti richiede all’Ue di prendere presto una posizione decisa, e la Russia lancia messaggi di forza con le sue esercitazioni militari sempre più eloquenti. Il caso Ungheria Come in molti Paesi dell’Europa dell’Est, tra cui Croazia, Serbia e Montenegro, anche l’Ungheria adotta un “giro di vite costituzionale” in nome della pandemia: l’emergenza sanitaria si trasforma in un’occasione per accentrare il potere in capo al governo di Viktor Orban. Il 30 marzo il Parlamento di Budapest aveva approvato una legge che concedeva ad Orban poteri autoritari per gestire lo stato di emergenza in cui versava il Paese: una volta rientrata l’emergenza la legge è stata ritirata, ma tra gli osservatori internazionali rimane il dubbio sulla legalità della mossa


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del Governo. Non solo restano in piedi le norme emanate durante l’emergenza, che limitano la libertà di stampa e i diritti delle persone Lgbtq+; la legislazione attuale prevede che in ogni momento il Governo (Unione Civica Ungherese) potrà dichiarare un nuovo stato di emergenza sanitaria, con il quale governare in modo autoritario senza dover richiedere l’autorizzazione del Parlamento. Elezioni in Polonia La gestione della pandemia in Polonia si intreccia con le elezioni governative e con la politica portata avanti dal governo di ultradestra del partito Diritto e Giustizia. Molti hanno accusato il Presidente Duda di rischiare vite umane pur di vincere le elezioni che, da maggio, sono state posticipate a luglio: con il 51% dei voti il Presidente Andrzej Duda (in carica dal 2015) si riconferma alla guida del Paese. La Coalizione Civica di Trzaskowski ricorre alla Corte Suprema chiedendo l’annullamento delle elezioni, lamentando forti ingerenze del Governo nelle comunicazioni sui media e nello spoglio dei voti per posta. A rischio non solo i diritti elettorali dei cittadini polacchi, ma anche i diritti della minoranza Lgbtq+ e delle donne: Duda, che ha fatto della sua aperta omofobia un cavallo di battaglia durante le elezioni (portando la Polonia ad essere ufficialmente “lo Stato peggiore in Europa per la tutela dei diritti Lgbt”), ha annunciato che il Paese uscirà presto dalla Convenzione di Istanbul contro la violenza domestica e sulle donne. Gli osservatori Ue, ribadendo gli avvertimenti lanciati negli anni passati, annunciano che la Polonia potrebbe dover uscire dall’Unione se continuerà a non rispettare gli standard di diritti civili, politici e umani richiesti dai Trattati istitutivi. Regno Unito, grande assente malato Caso eclatante, nonché grande assente dai tavoli europei, è il Regno Unito, che si trova ad affrontare la pandemia poche settimane dopo la sua uscita dall’Unione Europea. Dopo un iniziale approccio alternativo al virus, basato sull’acquisizione di un’immunità di massa, il premier britannico ha annunciato un lockdown forse tardivo e non stretto come quelli d’esempio sul Continente: le conseguenze sono state il record di morti in Europa, con 46mila decessi, e il fallimento del sistema sanitario (Nhs), acclamato come uno dei migliori del Mondo. Non è chiaro quale impatto avrà il virus sulla negoziazione di un trattato definitivo con l’Unione Europea, il cui termine ultimo è previsto per il 31 dicembre 2020: la pandemia porta nuove esigenze sul tavolo delle trattative e fa capire quanto potenzialmente dannosa sarebbe una Brexit senza accordo. Il primo Ministro Boris Johnson, anch’egli ricoverato in terapia intensiva ad aprile dopo aver contratto il virus, chiede pazienza al Paese che continua a vedere una crescita dei contagi durante l’estate: la speranza britannica è quella di un vaccino, al quale università e istituti di ricerca inglesi stanno lavorando con enormi investimenti privati e statali. Intanto, il movimento “Black Lives Matter” scuote la società civile: le proteste sui diritti dei cittadini di colore riaprono le ferite di una Nazione fortemente colonialista che, oltre a commemorare con statue e placche delle figure storicamente discutibili, continua a discriminare in base al colore della pelle. Non solo differenze nelle assunzioni e nei salari, ma anche negli accessi alle cure: secondo uno studio dell’Institute for Fiscal Studies le minoranze in Inghilterra e Galles sono molto più a rischio di morte per Coronavirus rispetto alle loro controparti bianche. Flussi migratori Il Coronavirus non ferma la tratta di esseri umani: le migrazioni nel Mediterraneo, dopo un crollo drastico tra marzo e aprile, tornano ai consueti numeri con il ritorno della stagione estiva. Con l’inasprirsi della guerra in Libia e la situazione in Medio Oriente e Nord Africa, dove la pandemia ha esacerbato crisi economiche e tregue infelici, le partenze sono più che duplicate rispetto al primo semestre dell’anno precedente. L’Italia, che ad aprile aveva sospeso gli sbarchi dichiarandosi “Paese di arrivo non sicuro” adducendo come scusa la pandemia in corso, è la dimostrazione che nessun Paese può gestire da solo la grande sfida sanitaria che si accompagna alle migrazioni. Il diritto umano alla salute è difficile da garantire quando le condizioni di chi sbarca sono difficilmente qualificabili come “umane”. L’Europa dovrà trovare una soluzione comune: Spagna, Grecia, Cipro e Malta chiedono all’Europa una revisione della Carta di Dublino sull’asilo, rivendicando una redistribuzione obbligatoria dei migranti; richiesta che difficilmente sarà accolta dagli Stati del Nord.


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CAUCASO

Nell'area russo-caucasica uno scenario complesso e poco rassicurante A diversi mesi dall’annuncio ufficiale di pandemia dell’Oms, nell’area russo-caucasica il Coronavirus si rivela catalizzatore di problematiche già esistenti. Oltre a fare i conti con un elevato numero di contagi infatti – fatta eccezione per la Georgia – sono sempre più evidenti le pesanti ricadute sulle economie già precarie con aiuti statali spesso insufficienti ad arginare le necessità del momento. Inoltre, la crisi che la pandemia ha generato non ha evitato che riprendesse vita il conflitto trentennale armeno-azero. Nell'area russo-caucasica lo scenario appare complesso e poco rassicurante. Se da un lato Russia e Azerbaijan, che hanno fatto dell’export di greggio la loro maggior entrata, soffrono una delle più grandi crisi degli ultimi anni, dall’altro è sempre più evidente come siano le piccole imprese e le categorie più deboli a pagare le più gravi conseguenze. In Russia Putin si riconferma al potere fino al 2036, mentre in Azerbaijan la pandemia ha fornito la scusa ideale ad Aliyev per sbarazzarsi dell’opposizione. Armenia e Georgia invece, nonostante l’enorme divario nel numero di contagi, affrontano una simile crisi economica. Si intravede un debole segnale di tregua sul fronte dell’Ucraina dell'Est dopo la firma dell’ennesimo accordo per un cessate il fuoco tra separatisti filo-russi ed Ucraini, mentre invece Armenia e Azerbaijan riprendono a scontrarsi. Putin e il Coronavirus È il 25 marzo quando il Presidente russo Vladimir Putin annuncia l’inizio di una settimana di “ferie pagate” per contrastare la rapida diffusione di Covid19 nel Paese. Contrariamente a quanto auspicato però, una settimana non risulta sufficiente, portando così al prolungamento delle “ferie” fino al 12 maggio, giorno in cui, nonostante il record di contagi, Putin dichiara la fine delle restrizioni. La responsabilità di valutare le misure adeguate da adottare per contenere la diffusione di Covid19 è affidata a questo punto ai soli governatori regionali. A detta dell’opposizione si tratta di una scaltra mossa del Presidente per tenersi il più possibile alla larga dalle critiche riguardo la gestione dell’emergenza. A fine luglio, l’aumento dei contagi continua ad essere preoccupante, ma soprattutto ad allarmare è la mancanza di dati attendibili sulla situazione nel Paese che rende lo scenario confuso e spaventoso. Ma la discutibile gestione dell’emergenza, non ha impedito a Vladimir Putin di confermare il suo proposito di guidare il Paese fino al 2036. Ad inizio luglio 2020, infatti, dopo una settimana di votazioni e numerose denunce di irregolarità, sono approvate pubblicamente con il 78% dei consensi le riforme costituzionali in realtà già ratificate dal Parlamento e dagli organi regionali competenti mesi prima. Tra i più importanti cambiamenti alla Costituzione vi è appunto la possibilità per il Presidente russo di ricandidarsi per altri due mandati. Crisi e movimenti sociali Da inizio luglio a Khabarovsk, nell’Estremo Oriente del Paese, decine di migliaia di manifestanti si riversano nelle strade della città per protestare contro l’arresto del popolare Governatore regionale Sergei Furgal, accusato di essere stato coinvolto in una serie di omicidi avvenuti circa 15 anni fa. Per l’opposizione si tratta dell’ennesima mossa del Cremlino per eliminare un avversario e infatti il notevole sfogo di rabbia innescato dall’improvviso arresto di Furgal, emerge come dura testimonianza del malcontento che il Presidente Vladimir Putin deve affrontare nel Paese. Inoltre, la recente vittoria del referendum considerato fraudolento dalla critica e da molti analisti è stata la miccia che ha fatto incendiare la rabbia popolare anche per la corruzione, le libertà soffocate ed i redditi stagnanti aggravati dalla pandemia. Senza dubbio il crollo del prezzo del petrolio e della valuta rappresentano un’enorme sfida per la Russia odierna, ma la vendita del greggio a prezzi più elevati, raggiunti attraverso i tagli alla produzione concordati dall'Opec, ha permesso alla Russia di reintegrare le sue riserve, consentendole di guadagnare tempo per gestire l’emergenza. Le manie egemoniche di Mosca però, impegnata oltre che a limitare i danni causati dalla crisi del greggio in una corsa contro il tempo per aggiudicarsi il primo posto nella scoperta di un vaccino, rischiano di oscurare un altro grande


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problema: la crisi delle piccole imprese. Queste aziende contribuiscono meno alla produzione nazionale rispetto a colossi statali come Gazprom e Rosneft, ma ricoprono una posizione particolarmente vivace nell'economia del Paese, con più di 18milioni di impiegati (circa un quarto della forza lavoro) e l’impegno in nuovi campi oltre a quelli del petrolio e del gas naturale. Fragile tregua sul fronte ucraino Intanto sul fronte ucraino sembra intravedersi una flebile tregua. Alla mezzanotte del 26 luglio 2020 entra in vigore il nuovo accordo per un cessate il fuoco “completo e onnicomprensivo” tra i separatisti filo-russi ed il Governo ucraino; l’ultimo di una serie di tentativi di tregua falliti nell’Est Ucraina. Il conflitto tra truppe ucraine e ribelli sostenuti dalla Russia a Donetsk e Luhansk, vicino al confine russo, ha ucciso oltre 13mila persone dal 2014. I combattimenti più importanti si sono conclusi dopo un cessate il fuoco nel 2015, ma periodici scontri continuano a uccidere soldati, separatisti e civili ucraini. Caucaso Meridionale L’Armenia continua a risultare il Paese caucasico più colpito dalla pandemia seguito quasi a pari merito dall’Azerbaijan, rispettivamente con circa 40mila e 30mila casi a fine luglio. In questo piccolo lembo di terra, la Georgia rappresenta invece un’inaspettata eccezione: al 30 luglio infatti, i positivi risultavano poco più di 1000. Non è ancora chiaro quali siano stati i fattori determinanti nel generare questo divario, anche se al momento si ritiene che in Georgia abbiano giocato un ruolo chiave nel contenere la diffusione del virus misure di lockdown severe e prolungate. Il declino economico di Armenia e Georgia pare essere molto simile, anche se il continuo aumento dei contagi potrebbe ulteriormente rallentare la ripresa dell’economia armena, dove il consistente pacchetto di aiuti statali non riesce a sostenere un’economia costituita anche, per circa un 20%, dal settore informale. In Georgia intanto, dopo mesi di trattative e proteste, il Parlamento ha approvato gli emendamenti che prevedono il passaggio da un sistema elettorale di tipo misto ad uno più proporzionale. In Azerbaijan destano preoccupazione soprattutto la crisi del prezzo del petrolio, maggior entrata del Paese, e quella dei settori turistico e dei servizi. Ma se da un lato le previsioni della Banca Mondiale e del Fondo Monetario sono positive riguardo alla capacità di Baku di varare importanti manovre economiche grazie alle grandi riserve di valuta estera di cui il Paese dispone e al basso debito estero, non si prospetta altrettanto positiva la situazione dei lavoratori che lamentano aiuti statali insufficienti. Inoltre, il Coronavirus ha fornito al Presidente azero Ilham Aliyev il contesto ideale per fare pressione, con numerosi arresti, sull’opposizione, definita dallo stesso Aliyev “nemica dell’Azerbaijan. Peggio degli armeni”. Tensioni al confine armeno-azero Alla notizia di una ripresa delle ostilità tra Armenia e Azerbaijan tra la zona armena di Tavush e il distretto azero di Tovuz, l’appello del segretario delle Nazioni Unite Antonio Gutierrez per un “cessate il fuoco globale” appare un eco lontana. I due Paesi, in conflitto da circa trent’anni per il territorio del Nagorno Karabakh, sono stati impegnati per cinque giorni nella peggior escalation militare, dopo la “guerra di aprile” del 2016, che ha causato vittime da entrambi le parti e danni alle abitazioni vicino al confine. Gli scontri questa volta sono avvenuti in una zona nevralgica; da là infatti passano l’oleodotto Baku-Tbilisi- Ceyhan, che dall’Azerbaijan porta il petrolio in Europa, il gasdotto South Caucasus Pipeline e la ferrovia Baku-Tbilisi-Kars. Un ulteriore inasprimento degli scontri genererebbe conseguenze disastrose per tutta l’area caucasica e potrebbe inoltre far diventare quest’area un nuovo teatro di scontri anche tra Turchia e Russia, che da tempo si contendono il controllo della zona.


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OCEANIA

L'asse Canberra-Wellington contro la Repubblica Popolare Cinese “Dovrebbe sembrare totalmente ragionevole e saggio, che il mondo desideri un’indagine indipendente su come sia potuto succedere tutto questo” dichiara il 29 aprile 2020 a Canberra il Premier australiano Scott Morrison, riferendosi alla necessità di comprendere quanto i Regolamenti Sanitari Internazionali siano stati rispettati sia dalla Cina, sia dall’Oms nella gestione delle prime fasi della pandemia di Covid19. Tanto è bastato però per ingenerare una serie di azioni e contro azioni reciproche al ribasso tra Pechino e Canberra, che hanno portato le relazioni tra i due Paesi ai minimi storici. Basti pensare che in occasione dell’Aspen Security Forum del 5 agosto, persino l’ottimista Morrison ammette che ciò che fino a poco tempo prima risultava “inconcepibile e considerato impossibile” come un conflitto armato tra Australia e Cina, non è più tale. La crisi sanitaria ha quindi accelerato il mutamento del quadro politicostrategico nella regione Indo-pacifico, gettando il Canguro ed il Dragone in una pericolosa dinamica conflittuale. Le ragioni dei più virtuosi Una ragione sta innanzitutto nel “potere dei dati” sviluppato da Australia e Nuova Zelanda, che essendo stati tra i Paesi occidentali quelli più efficaci e virtuosi nella gestione della crisi sanitaria, hanno rivendicato il diritto di chiedere spiegazioni in merito alle responsabilità di chi ha permesso il contagio. Entrambi sono stati indubbiamente favoriti dall’isolamento geografico naturale interno e verso l’esterno, ma sono anche responsabili di un’efficace gestione dell’emergenza. Quest’ultima si è concretizzata in stringenti ma precoci misure di distanziamento sociale, coordinate azioni di sorveglianza e prevenzione attiva del contagio tramite elevate quantità di test (1/5 della popolazione australiana e 1/8 di quella neozelandese), unite a efficaci e capillari meccanismi di tracciamento sociale dei casi positivi. Il successo è testimoniato dai dati: in Nuova Zelanda su una popolazione di quasi 5milioni i casi positivi totali sono stati inferiori a 1600, con poco più di 20 decessi; in Australia dei 25milioni di abitanti circa 20mila sono i positivi complessivi e poco più di 250 i deceduti. Gli approcci dei due Paesi risultano fondati sui medesimi elementi: applicazione rigorosa di misure basate su evidenze scientifiche e assoluta priorità del principio di massima precauzione sanitaria, finalizzata a tutelare il bene collettivo della salute pubblica a discapito degli interessi economici. I lockdown sono risultati efficaci ma costosi, almeno secondo le stime del Fmi, che ha previsto cali del Pil annuale del 6,7% in Australia e del 7,2% in Nuova Zelanda. Cionondimeno nell’estate 2020 la situazione tra i due Paesi cambia. Mentre Wellington non riscontra un incremento quotidiano superiore alle 10 positività da maggio, in Australia lo Stato di Victoria è il fulcro di una seconda ondata. Situazione di ritrovata emergenza che ha costretto a procrastinare l’attivazione della cosiddetta “Bolla di viaggio trans-tasmana”, un piano congiunto frutto della cooperazione tra gli esecutivi guidati da Morrison e dalla Premier neozelandese Jacinda Ardern annunciato il 5 maggio 2020. Quest’ultimo implica la riapertura coordinata delle frontiere navali e aeree innanzitutto per i collegamenti tra due Stati, per poi procedere con le altre isole della “Famiglia Pacifica”. La condizione necessaria è però che i livelli del contagio giornaliero in Australia risultino sotto controllo e prossimi allo zero. L’accordo prevede inoltre che sia necessario prevenire al massimo l’importazione dei contagi dall’estero, che nel caso della Nuova Zelanda sono ad esempio responsabili, diretti o indiretti, del 70% dei casi. Ecco il perché della chiusura delle frontiere a tutti coloro che non sono cittadini, i quali devono comunque rispettare una quarantena preventiva. La strategia del koala Il successo della terra dei koala è da ricollegare alla strategia, unica al Mondo, intrapresa dal Governo laburista di Wellington, che il 23 marzo annuncia l’intenzione di eliminare completamente la trasmissione comunitaria del virus. Unico Stato occidentale ad essersi fissato un così ambizioso obiettivo, la Nuova Zelanda è riuscita con un mese di completa chiusura delle frontiere, aperte solo a concittadini in rientro, e intensi sacrifici da parte della popolazione, ad annunciare il 27 aprile la vittoria nella lotta locale a Covid19. Le misure di quarantena obbligatoria e di limitazione delle libertà personali, particolarmente draconiane, sono risultate efficaci e accolte positivamente dalla popolazione


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grazie alle grandi capacità di leadership e di comunicazione mostrate dalla Premier. Nonostante stesse sottoponendo i propri concittadini ad un enorme sacrificio, la Ardern è infatti riuscita a motivarli e sostenerli costantemente: mostrandosi empatica e comprensiva. Famose rimarranno ad esempio le dirette Facebook durante le quali in pigiama e con una tazza di tè in mano, rassicurava la popolazione dal divano di casa. Difficili rapporti con Pechino Quello della primavera/estate 2020 è però da ricordare come il periodo nel quale le medio-piccole potenze oceaniche hanno alzato la testa in un contesto di unilateralismo statunitense e crescente aggressività cinese, mobilitandosi diplomaticamente contro la scarsa trasparenza e l’aggressività diplomatico-strategica di Pechino. Da una parte Canberra e Wellington hanno appunto chiesto all’Oms di istituire un’indagine indipendente circa l’origine dell’epidemia di Covid19; dall’altra hanno proposto di ammettere anche Taiwan, come osservatrice, alla 73° Assemblea Generale Oms. La seconda richiesta è stata stroncata dalla contrarietà cinese, inamovibile fautrice della “politica di un’unica Cina”, mentre la prima è stata accolta nel documento conclusivo del consesso, che parla di “un’investigazione globale, indipendente, imparziale e complessiva”. Le relazioni bilaterali tra Australia e Cina sono quelle che più hanno risentito delle mosse diplomatiche di Canberra, alle quali ha prontamente risposto sin dall’inizio la Cina. In aprile l’ambasciatore cinese in Australia, Cheng Jingye, mette in guardia sul rischio di boicottaggi commerciali qualora le richieste di trasparenza fossero continuate. Verso la metà di maggio vengono quindi imposti da Pechino un dazio dell’80% sulle importazioni di orzo australiano e il divieto di importare carne prodotta in 4 diversi mattatoi australiani. All’utilizzo ritorsivo del ricatto economico, fa seguito l’annuncio realizzato dal primo Ministro australiano il 19 giugno: “Alcune organizzazioni australiane sono attualmente oggetto di attacchi informatici portati avanti da un sofisticato e statale, attore informatico”. Non una situazione anomala, tuttavia intensità e frequenza delle operazioni informatiche offensive hanno seguito l’escalation diplomatico-commerciale con la Cina. Morrison non ha mai commentato in merito all’identità del Paese sospettato. Tuttavia, gli analisti del think tank Aspen non hanno dubbi, si tratta di Pechino. La Cina, tramite il portavoce del ministro degli Esteri, Zhao Lijian, ha squalificato come “prive di fondamento” le accuse. Una smentita indiretta è però giunta con le dichiarazioni del segretario di Stato Usa Mike Pompeo, che a conclusione di un incontro con l’omonimo cinese alle Hawaii il 18 giugno, ha dichiarato di aver intimato a Pechino di cessare la “coercizione informatica ai danni di Canberra”. Inoltre le indagini di informatica forense e cibernetica realizzate dall’alleanza dei “Cinque Occhi”, formata dalle agenzie d’intelligente di Usa, Canada, GB, Australia e NZ, hanno individuato similarità con l’hackeraggio subito nel 2019 dal Parlamento australiano e ricondotto sempre a Pechino. Per alcuni si tratterebbe quindi di un’azione ostile e para-militare, impiegata dalla Cina per segnalare il proprio disappunto. Covid19 ha quindi prodotto un mutamento significativo nelle relazioni bilaterali tra Pechino e Canberra e degli equilibri strategici nell’Indo-Pacifico. La situazione per l’Australia è però delicata. La Cina rappresenta il primo partner commerciale di Canberra, ricevendone il 32% dell’export soprattutto in ferro, carbone, gas e prodotti agricoli, è inoltre un importante fonte di turismo e iscritti universitari. Il rischio di più serie ritorsioni commerciali è quindi elevato e le conseguenze economiche potrebbero essere pesanti. Come nota ad esempio il consorzio Agribusiness Australia chiedendo al Governo di preservare e possibilmente ampliare le relazioni con Pechino, aderendo anche alla sua nuova “Via della Seta.” Vista però la spirale negativa delle relazioni tra Pechino e Canberra, l’Esecutivo australiano ha deciso di pubblicare un rivoluzionario documento strategico nel luglio 2020, il Strategic Defense Update. Il piano presentato è profondamente militarista, organizzato su 10 anni e mira a rafforzare la capacità militare deterrente nei confronti della Cina. Per fare ciò il Governo di Canberra ha destinato 190mliliardi di dollari all’acquisto di armamenti quali missili a lungo raggio, sistemi di sorveglianza sottomarina e al potenziamento umano e tecnico nell’ambito della cybersecurity. È inoltre stato stabilito che l’Australia darà precedenza alla partecipazione a missioni militari nella nuova zona di immediata priorità strategica: l’Indo-Pacifico, dove il Governo spera anche di riuscire a creare nuove alleanze di sicurezza collettiva, coinvolgendo maggiormente gli Usa, attualmente almeno a parole unilateralisti, oltre alle altre potenze regionali come Vietnam, India e Giappone. Nel frattempo nell’agosto 2020 alcune navi militari australiane sono salpate alla volta del Pacifico, dove con Giappone e Usa hanno svolto un’esercitazione militare che per modalità e tempismo è sembrata un chiaro segnale indirizzato a Pechino.


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INTERSOS

Non è più tempo di piccoli aggiustamenti In tanti hanno detto: nulla sarà come prima. Di sicuro, molto è cambiato già in questi mesi. Inizialmente identificata, e affrontata, come crisi sanitaria, la pandemia di Covid19 si è rapidamente trasformata in crisi economica, politica e sociale di portata globale. Il punto di vista del nostro lavoro ci ha consentito di osservarne l’impatto sul sistema degli aiuti umanitari, a partire dalle molte crisi nelle quali INTERSOS è presente, con l’accentuazione dei bisogni umanitari esistenti e con la creazione di nuovi. Una premessa, doverosa per i lettori di questo Atlante: mentre noi osservavamo una lunga quarantena, gli appelli internazionali ad un cessate il fuoco sono stati largamente ignorati. Nonostante dichiarazioni unilaterali e tentativi di tregua, in tutte le aree nelle quali INTERSOS opera si è continuato a combattere. Siamo di fronte a crisi complesse e spesso cronicizzate, nelle quali la pandemia somma emergenza ad emergenza. Di sicuro, a partire dall’individuazione dei primi focolai, la diffusione del virus non si è arrestata. E tutto lascia pensare che si protrarrà ben oltre il 2020. Quale è la dimensione reale del contagio? A causa dei forti limiti dei sistemi sanitari e della capacità di effettuare test, i numeri ufficiali non corrispondono spesso alla situazione che i nostri colleghi osservano sul terreno, ai report che riceviamo, così come alle analisi delle principali agenzie internazionali. Per questo, accanto alle statistiche ufficiali, i nostri operatori sul campo hanno il polso della situazione condividendo anche altre informazioni ed elementi, come il numero dei funerali. Discorso simile per quanto riguarda la capacità di garantire le cure necessarie. Nell’intero continente africano, secondo i dati del'Oms, all’inizio della pandemia esistevano solo 2mila ventilatori per l’ossigeno. Un esempio che ha attratto i titoli della stampa internazionale riguardava il Sud Sudan, dove il numero di vicepresidenti (5) era superiore a quello di ventilatori disponibili (4). La corsa contro il tempo di molti donatori per distribuire nuovi macchinari e materiali sanitari, non ha potuto cambiare la sostanza delle cose. L’impossibilità di gestire un numero elevato di casi, rende ancor più rilevante investire il massimo degli sforzi nella prevenzione: dalla diffusione di dispositivi di protezione individuale e corrette pratiche igienico – sanitarie, alle campagne di informazione, all’individuazione e isolamento dei casi sospetti. È quello che i team medici di INTERSOS, impegnati con cliniche mobili o nel sostegno alle strutture sanitarie locali, hanno fatto dall’inizio dell’emergenza. Ma la diffusione del nuovo coronavirus non è l’unico dato che preoccupa. Nei Paesi affetti da crisi umanitarie, gli effetti secondari della pandemia possono avere un impatto altrettanto, se non maggiormente, devastante. La sofferenza dei sistemi sanitari rende difficile la già difficile presa in carico di altre malattie epidemiche, come il dengue, il colera e la malaria, così come ha comportato l’interruzione di fondamentali programmi di vaccinazione, come quello contro il morbillo. Gravi sono gli effetti della sospensione delle cure per le malattie non trasmissibili. Secondo un’indagine pubblicata a inizio giugno dall’Oms, la metà dei 155 Paesi analizzati ha subito limitazioni al trattamento del diabete e dell’ipertensione, mentre nel 42% dei casi anche le terapie contro il cancro sono state ridotte o sospese. Ovviamente questo è avvenuto in misura maggiore nei Paesi con sistemi sanitari più fragili. Pesante, e ancora largamente da valutare, l’impatto della pandemia sulla salute mentale. Accanto alla crisi sanitaria, appaiono sempre più evidenti gli effetti della crisi socio – economica, soprattutto sui più vulnerabili. Tra i 40 e i 60milioni di persone, secondo la Banca Mondiale, stanno precipitando nella povertà estrema (si troveranno cioè a vivere con meno di 1,9 dollari al giorno). A causa della crisi economica globale e delle limitazioni al movimento di uomini e merci, soprattutto in aree che dipendono largamente dagli aiuti umanitari, si registra un generalizzato aumento dell’insicurezza alimentare. Il Wfp prevede che le persone costrette ad affrontare condizioni di insicurezza alimentare acuta possano raddoppiare, raggiungendo i 265milioni, con il rischio di dar vita a carestie multiple e diffuse in diverse aree del mondo.


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In un Paese come il Libano, dove le condizioni di vita dei circa 1,5milioni di rifugiati siriani dipende largamente dalla capacità di resilienza individuale, un’indagine compiuta dal team di protezione di INTERSOS ha rivelato che nel periodo del lockdown il 75% dei rifugiati intervistati ha avuto difficoltà ad acquistare cibo per la propria famiglia a causa della mancanza di denaro, il 77% non ha potuto pagare l’affitto, il 52% ha perso il lavoro o altre forme di income famigliare, il 23% non si è potuto procurare medicine e cure mediche necessarie. In tutti i contesti di vulnerabilità, l’isolamento e l’interruzione dei programmi scolastici condiziona la sicurezza di donne e bambini, più facilmente esposti ad abusi e traumi psicologici (anche nel caso della sospensione dei programmi scolastici, sono le ragazze a pagare il prezzo più caro, con un aumento dei meccanismi di adattamento negativo come i matrimoni precoci). L’aumento della violenza e della disuguaglianza di genere rappresenta un allarme a livello globale. Per tutte queste ragioni, l’approccio olistico alla protezione che caratterizza i programmi di INTERSOS rimane centrale nella risposta a questa emergenza. In questi mesi abbiamo fatto quanto necessario per garantire la continuità del nostro lavoro e garantire la sicurezza delle persone che assistiamo e del nostro staff. Spinti dalle circostanze, abbiamo sperimentato nuovi modi di lavorare e affrontato nuovi costi per sostenere i nostri progetti. Eppure, la sfida che abbiamo di fronte non richiede semplici adattamenti. Spesso le grandi crisi hanno determinato cambiamenti radicali nel sistema umanitario. Si pensi alla crisi del Biafra, che del moderno sistema delle Ong è stata in qualche modo l’inizio, o il genocidio del Rwanda, da cui sono scaturiti nuovi standard di intervento internazionali, o lo Tsunami in Indonesia del 2005, che ha imposto la sfida di un più tempestivo ed efficace coordinamento degli aiuti. Oggi la direzione è più incerta. A cominciare dai finanziamenti, e dalla preoccupazione che, ad un aumento dei bisogni, non corrisponda un’adeguata crescita delle risorse, e che, anzi, una riduzione sia già in atto. Se da un lato l’appello delle Nazioni Unite per uno stanziamento addizionale di quasi 10miliardi di dollari, che si sommano alla richiesta record di 28miliardi già effettuata a inizio anno, indica un’ambizione, dall’altra il gap tra risorse necessarie e risorse effettivamente disponibili rischia di approfondirsi. Ne vediamo già gli effetti in alcune crisi, come quella yemenita, dove l’ultima conferenza dei donatori ha garantito risorse dimezzate rispetto all’anno precedente. La crisi del multilateralismo e di un sistema di governo mondiale che sintetizzi e rappresenti in modo armonico le istanze dei singoli Stati, rischia di accentuare la tendenza in atto a un ripiegamento dei meccanismi decisionali in uno schema incentrato sulla difesa dell’interesse nazionale. Questo anche a scapito di un necessario riequilibrio tra Nord e Sud del mondo e del rafforzamento di una spinta, al momento ancora limitata, verso la localizzazione degli aiuti e l’emergere di nuove energie e comunità nei territori di intervento. Mai come oggi l’indipendenza, la neutralità e l’imparzialità dell’azione umanitaria, così come l’abbiamo conosciuta negli ultimi decenni, è in discussione, e la pur diffusa presenza di risposte solidaristiche “dal basso” fatica a trovare rappresentanza e a diventare massa critica di cambiamento. Ci troviamo dunque alle porte di una battaglia culturale (come ridefinire i confini universali del diritto e dell’azione umanitaria?) e di una battaglia di potere (tutelare l’autonomia dei principi umanitari, significa porsi il problema dei reali centri decisionali e di influenza che possano condizionarne l’applicazione). Al postulato che “nulla sarà come prima” dobbiamo quindi aggiungere che “se tutto cambierà, il come dipenderà dalle scelte che verranno effettuate”. Il Segretario Generale dell’Onu, António Guterres, ha definito la pandemia di coronavirus come “la più grande prova” che il mondo sia stato chiamato ad affrontare a partire dalla II Guerra Mondiale. Parole impegnative, considerando che proprio dalle ceneri della II Guerra Mondiale, il sistema delle Nazioni Unite e il moderno diritto umanitario hanno mosso i primi passi. Giovanni Visone


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I figli di Antonio Amato (41) salutano il padre prima che i volontari della CRI (Croce Rossa Italiana) lo portino all'ospedale di Dalmine (Bergamo) Italia il 17 marzo 2020. Le persone sospettate di essere contagiate non hanno potuto visitare i loro familiari in ospedale. Si sono riuniti solo quando i pazienti sono stati dimessi.

Teresina Coria (88 anni), sospettata di aver contratto il Covid19, è aiutata dal figlio Ezio e dai volontari della Croce Rossa italiana a sdraiarsi nella sua casa di Pradalunga, in provincia di Bergamo, il 15 marzo 2020. Ezio ha deciso di chiamare la CRI (Croce Rossa Italiana) perché sua madre mostrava i tipici sintomi del Covid19 - febbre e problemi respiratori - da diversi giorni.


Casi totali confermati per milione al Covid 19 al 31 luglio 2020

Nella Carta di Peters, ogni Stato è colorato con una differente intensità di colore: tanto piú scura, quanto elevato risulta essere il numero di persone contagiate da Covid-19 per milione di abitanti (European CDC - Situation Update Wordwide)

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2.000

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>15.000

Testa a testa: assistenza sanitaria contro militare

I grafici a barre mettono a confronto la percentuale del Pil di ogni Stato investita in spese sanitarie (dati Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico OECD, 2018 - Si noti che queste cifre non includono la spesa tramite assicurazioni private o spese vive) con quella investita in armamenti (dati Stockholm International Peace Research Institute SIPRI, 2018).

Indice

India

China

South Africa

Brazil

Mexico

Colombia

Turkey

Russia

Latvia

Poland

Greece

Croatia

Lithuania

Israel

Estonia

Portugal

South Korea

Spain

Slovenia

Italy

UK

Ireland

Japan

Canada

Austria

France

Sweden

Netherlands

Switzerland

Norway

Germany

0

U.S.

2500

NZ

5000

Czhechia

ATLANTE DELLE GUERRE E DEI CONFLITTI DEL MONDO SPECIALE COVID19

Finland

7500

Australia

1 Editoriale 3 Sapersi proteggere non è sempre una scelta (Pro capite, US$) è diverso eSpesa 2018 US$) 5 Spesa Ilsanitaria Mondo post 2018 Covid19 paremilitare non(Pro siacapite, migliore 8 Asia Orientale 10 Asia Centrale 12 Vicino Oriente 14 Africa 16 Usa 18 America Latina 20 Europa 22 Caucaso 24 Oceania 26 Non è più tempo di piccoli aggiustamenti

10000


Dopo questa lunga pandemia, dopo il tempo che si è fermato, dopo la paura che abbiamo avuto di perdere la vita, il lavoro, le sicurezze, dopo tutto questo, il Mondo non è diventato migliore, come speravamo. È solo diventato diverso. Raffaele Crocco

Associazione 46° Parallelo Via Salita dei Giardini, 2/4 38122 Trento info@atlanteguerre.it www.atlanteguerre.it


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