Territori 32

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I N Q U E S TO N U M E RO

Pubblicazione periodica dell’Ordine degli Architetti, Pianificatori, Paesaggisti e Conservatori della provincia di Frosinone

E DI TO R I A L E

ISSN 2284-0540 Febbraio 2021 - anno XXVIII - n. 32

L’architettura al centro

Reg. Tribunale di Viterbo n. 408 del 31/05/1994

Giovanni Fontana

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PROSPETTIVE

Direttore Responsabile Giovanni Fontana

Il possibile necessario

Comitato Scientifico Redazionale Daniele Baldassarre, Luigi Bevacqua, Federica Caponera, Giovanni Fontana, Valentina Franceschini, Giulia Maria Pia Giorgi, Stefano Manlio Mancini, Giorgios Papaevangeliu, Maurizio Pofi, Valeria Rotondo, Alessandro Tarquini

Paolo Vecchio

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MEMORIA E PRESENTE

Architettura viva Federica Caponera Intervista a Francesco Isidori

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CONCORSI

Progetto di casa a patio aggregabile Stefano D’Alessandro

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Coordinamento pubblicità D’Amico Graphic Studio via Fratelli Rosselli 1 - 03100 Frosinone telefono 0775.202221 e-mail: info@damicographicstudio.it Stampa Tipografia Editrice Frusinate - Frosinone

Forma, paesaggio e tecnologia Intervista ad Angelo Ianni

Segreteria di redazione Antonietta Droghei, Sandro Lombardi Progetto grafico e impaginazione Giovanni D’Amico www.damicographicstudio.it

S PA Z I O E P R O G E T T O

Valeria Rotondo

Responsabile Dipartimento Informazione e Comunicazione Laura Meloni

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ALTRI LI NG UAG G I

Ordine degli Architetti, Pianificatori, Paesaggisti e Conservatori della provincia di Frosinone

Artemisia Gentileschi e il suo tempo

Presidente Paolo Vecchio

Stefano Manlio Mancini

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Segretario Aladino Bancani

PROFESSIONE

Tesoriere Tiziana Di Folco

Focus accessibilità

Vice Presidente Massimo Penna

Walter Casali

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Vice Presidente (Junior) Walter Casali Consiglieri Giancarlo Di Mambro, Laura Meloni, Marco Odargi, Giuseppe Pistolesi

In copertina, Città del Sole, Roma 2007-2016, Labics, fotografia: copyright © Labics

Segreteria piazzale De Matthaeis 41 Grattacielo L’Edera 10o piano 03100 Frosinone tel. 0775.873517 - fax 0775.270995 e-mail: architetti@frosinone.archiworld.it pec: oappc.frosinone@archiworldpec.it www.architettifrosinone.it


S 1. Giovanni Fontana, Poema concreto, 1968-70.

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L’architettura al centro

E DI TO R I A L E

i fa un gran parlare di pandemia e di strategie operative post-Covid e, in questo contesto, si vanno riscoprendo gli insostituibili ruoli dell’architettura. È ben chiaro che tutto dovrà essere ripensato e riprogettato per far fronte ad inedite esigenze di definizione e di organizzazione degli spazi, sia nell’edilizia civile, sia nella città, dai servizi sanitari al verde pubblico, dall’aula scolastica al marciapiede. Non poche specificità funzionali richiederanno aggiornamenti delle tecnologie impiantistiche, nuovi accessori e materiali innovativi. Ma per molti versi si tratta di un discorso scontato, che necessita senza dubbio di una collocazione in ambiti più generali, perché l’architettura, a prescindere dalle specifiche contingenze, dovrebbe sempre svolgere di per sé un ruolo essenziale, basilare. Purtroppo da decenni le classi dirigenziali

hanno distolto l’attenzione dall’imprescindibilità di questa materia, con le disastrose conseguenze che sono – ahimè – sotto gli occhi di tutti. Oggi dobbiamo sostenere con forza, più che mai, l’urgenza di porre l’architettura al centro dell’interesse nazionale, non solo per la ripresa economica, ma per una miriade di aspetti che toccano, direttamente o indirettamente, qualsiasi ambito della vita sociale. Potrebbe sembrare ovvio ricordarlo in questa sede, ma ipotizzando l’incontro con un lettore non addetto ai lavori – magari un immaginario politico sprovveduto! – è bene rimarcare come la funzione dell’architettura sia fondamentale nella vita di un paese. È la disciplina di riferimento per disegnare gli spazi delle nostre azioni, indispensabile per il risanamento delle città in crisi e la riorganizzazione delle aree metropolitane, per il recupero dei centri storici e la rivitalizzazione degli antichi borghi, per la tutela del territorio e del paesaggio, per il recupero e la valorizzazione dei beni culturali, per la generale riconfigurazione territoriale, che inquadri le attività produttive nell’ottica della giustizia e della sicurezza sociale e preveda il potenziamento delle reti infrastrutturali, per garantire la qualità dell’edilizia pubblica e privata, investendo infine anche la sfera del design nelle sue varie componenti. Ma al di là di tutto ciò, c’è da aggiungere che l’architettura, oggi come non mai, deve essere intesa come disciplina che persegua le ragioni dell’equilibrio. Equilibrio in tutte le sue forme e in termini assoluti. Soprattutto equilibrio ambientale, a difesa dell’habitat naturale. Equilibrio che si opponga alla dissipazione dissennata delle risorse, che contribuisca drasticamente alla riduzione dell’inquinamento di acque, cieli e terre, che ponga di nuovo l’uomo nel baricentro delle forze, tornando a valorizzarne l’innato spirito di cooperazione, che una volta sapeva agire in armonia con il genius loci, contro le logiche dei potentati economici e del top management aziendale, ripiegati esclusivamente sui propri interessi, con uno sguardo miope, rivolto del tutto al proprio interno, che non si preoccupa di quanto può succedere negli spazi circostanti, se non per quel poco a cui lo obbligano le griglie normative. Oggi, mentre i piccoli imprenditori sono ridotti al collasso, la grande imprenditoria globalizzata si pone nell’ecosistema in termini di estraneità, come una sorta di tumore maligno all’in-


terno di un corpo di cui tradisce l’equilibrio, che si espande gradualmente soffocandone le funzioni, assorbendone le energie, assottigliandone la reattività, fino a consumarlo oltre l’estremo limite e portandolo quindi alla morte. Ogni giorno che passa è teatro di un conflitto subdolo, che nasconde i suoi segni dietro le luci e i colori smaglianti del mercato globale, ma che in realtà si realizza in termini di ingiustizia sociale e di attacco ai più elementari principi ecologici, al di là di ogni possibile sostenibilità. A fronte dell’arricchimento smodato, sorgono architetture smodate, fuori misura, fuori scala, fuori luogo, indici di uno status symbol che assurge ad allegoria dello strapotere che si abbatte su popolazioni sempre meno reattive, indebolite economicamente e sempre meno capaci, dal punto di vista socioculturale, di avanzare ogni sorta di strumento d’opposizione. Da tempo, ormai, i grandi interessi privati viaggiano su un binario opposto a quello dei bisogni pubblici. È questa la contraddizione che alimenta una dimensione conflittuale sempre più pressante. Purtroppo, alla fragilità dei nostri ambienti naturali e dei nostri spazi insediativi, corrisponde un’analoga fragilità sociale. Le collettività, ora ancor più sfibrate dall’attacco del virus, non riescono a contrastare il degrado ambientale, l’inquinamento, l’abbandono dei centri storici, il disfacimento di luoghi d’eccellenza che furono significativi cardini della storia umana; anzi, impegnate in quelli che potrebbero essere individuati come esercizi a vuoto, sono loro stesse che, invischiate in automatismi comportamentali, contribuiscono enormemente ad aggravare le

problematiche in atto. Nel calderone del consumismo globale, l’uomo sta annientando sé stesso, in progressione direttamente proporzionale alla sua convinzione dell’impossibilità di incidere sulla realtà. È paradossale! Noi tutti abbiamo responsabilità nella difesa del mondo in cui abitiamo da millenni e dove per millenni ancora dovremmo sperare di continuare a vivere. È fuor di dubbio che in quest’ottica possano svolgere un ruolo d’eccellenza le compagini socioculturali che abbiano a cuore un vero miglioramento della qualità della vita, secondo prospettive di crescita responsabile, di benessere non solo di tipo economico, ma anche biologico e intellettuale (morale e psichico). Tra queste dovrebbero collocarsi anche gli Ordini professionali. In particolare, gli Ordini degli Architetti potrebbero assumere una funzione pubblica di primaria importanza, rilanciando, nella giusta direzione, valori e conoscenze disciplinari, al fine del raggiungimento di una consapevolezza interna, da una parte, e di una coscienza esterna, dall’altra. Un Ordine dovrebbe svolgere, pertanto, un vero e proprio ruolo di politica culturale, che di conseguenza finirebbe inevitabilmente per avere risvolti di taglio socioeconomico. In questo senso, la funzione principale dovrebbe essere quella di sollecitare, galvanizzare la classe politica, incidendo e interferendo, più che quella della mera autotutela o del perseguimento di finalità corporativistiche. In tal modo potrebbe ritagliarsi nella vita pubblica uno spazio significativo di grande utilità, che potrebbe garantire un contributo essenziale in risposta alle istanze della società in crisi, assottigliando così l’incertezza del futuro. Giovanni Fontana

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PROSPETTIVE

di Paolo Vecchio Presidente OAPPC Frosinone

1. Human Technopole, Milano, Labics. Competition, 2019. (Immagine in doppia pagina: particolare del modello tridimensionale). Fotografie: copyright © Labics.

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egli ultimi dieci anni, i cambiamenti che hanno investito la nostra società hanno subito una forte accelerazione. Progressi ed innovazioni hanno reso la città globalizzata “connessa globalmente e sconnessa localmente, fisicamente e socialmente”. E la pandemia di Covid-19, con il distanziamento sociale, ne ha amplificato le evoluzioni. Evoluzioni e rivoluzioni che segneranno un drastico cambiamento. Anche l’architettura, la progettazione indubbiamente subiranno stravolgimenti, con effetti già evidenti da diversi mesi. Tuttavia, per quanto drastici possano essere questi mutamenti, è proprio con una risposta ambientale e sociale che si può scalfire e ribaltare definitivamente il modello di globalizzazione attuale, ricostruendo un orizzonte futuro di scambio a scala mondiale, basato sul rapporto responsabile con le risorse naturali, con i valori sociali della città e con la preservazione del nostro patrimonio umano e naturale. Strettamente collegate tra loro, tutela della salute e progettazione, hanno avuto nella società influenze determinanti nei diversi secoli. L’epidemia di colera, che devastò Londra nella metà del XIX secolo, fu all’origine della costruzione di un moderno sistema di fognature, così come i focolai di tubercolosi, scoppiati all’inizio del Novecento, stimolarono gli architetti a collaborare con il personale medico alla progettazione di sanatori, generando un’implementazione di sistemi di ventilazione e aerazione, in seguito adottati anche nell’architettura residenziale. Ad esempio, il sanatorio di Paimio, su progetto di Alvar Aalto, evidenzia come la grande innovazione architettonica tragga insegnamento dall’osservazione degli aspetti “umani” (in questo caso l’attenzione agli effetti benefici della luce solare sui degenti), apparentemente scontati, che in realtà offrono la soluzione a gran parte dei problemi architettonici. Per fare buona architettura oc-


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Il possibile necessario Il futuro degli architetti

«Caro David, mi chiedi cosa dovremmo fare noi ar-

per puro caso; raramente hai occasione di decidere

chitetti riguardo alla catastrofe ambientale che in-

in quale campo lavorare […]. Quindi possiamo fare

dubbiamente e ormai prossima. Alle disuguaglianze

la differenza lavorando su progetti che rispondano

sociali. Alla povertà. All’esaurimento delle risorse di

alle esigenze degli utenti. Fare un uso intelligente

questo pianeta. Riguardo alla pandemia, che ci ha

dello spazio, in realtà un compito tradizionale del-

posti in una condizione quasi surreale, difficile da

l’architetto, è ancora di fondamentale importanza».

descrivere […]. Caro David, la risposta è: niente

(Jacques Herzog: estratto da una lettera a David

[…]. A volte, come architetto, t’imbatti in qualcosa

Chipperfield, pubblicata su “Domus” il 13.10.2020)

corre capire profondamente la società in cui viviamo, umanizzarne i contenuti. Quello dell’architetto è un mestiere socialmente utile perché deve porsi come priorità il benessere delle persone. Capace di ascoltare, accogliere, annettere quelle che sono le tensioni tra la città e i suoi abitanti proponendo un’architettura che sappia rispondere alle esigenze della comunità. La sua polivalenza, le sue competenze e le sue responsabilità devono essere al centro dei processi di trasformazione urbana e del territorio, per tornare a definire l’immagine sociale e politica dell’architetto all’interno dell’attuale contesto socioeconomico

nei processi di rilancio dello sviluppo del Paese, a garanzia del futuro e della qualità delle nostre comunità. Servono progetti che abbiano nel loro dna uno scopo, un indirizzo, un obiettivo condiviso, concordato e mediato. Quasi una nuova filosofia del vivere che riconduca in sé un progetto, una comunità di persone, un pensiero rivolto al futuro. Un gesto di grande ingegno e competenza. Gestire la complessità di un territorio significa avere la possibilità di innalzarne il livello di civiltà e liberare le energie migliori. Ed è proprio promuovendo l’utilizzo dei concorsi di progettazione a due gradi presso pubbliche am-

ministrazioni e soggetti privati del territorio ed attivando iniziative di collaborazione e di supporto, che si valorizzerà la professionalità dei concorrenti e la qualità delle opere di architettura. A tal fine il 12 luglio 2019 a Roma è stato siglato un protocollo d’intesa tra il Consiglio Nazionale degli Architetti, Pianificatori, Paesaggisti, Conservatori (CNAPPC) e l’Ordine degli Architetti della Provincia di Frosinone insieme agli altri Ordini Architetti del Lazio. Impegnamoci tutti. Facciamo riemergere visioni e dibattiti. Sentiamoci stimolati a ritrovare l’entusiasmo nella nostra professione, puntando ad una sfida coraggiosa che ci permetta di arginare quel

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timore che ci fa sentire inadatti, incapaci ed arretrati rispetto a gran parte dell’Europa. In Italia, dove la storia umana, urbana, paesaggistica e artistica fa parte della cultura di ognuno di noi, fare l’architetto è terribilmente difficile, soffocato nella contemporaneità, dal peso di questa storia. La cultura della conservazione e la cultura del progetto di architettura, che muove dall’esistente, operano a partire dalla conoscenza pluridisciplinare propria della nostra figura professionale. Non solo. Siamo un paese occidentale, democratico, in cui la professione dell’architetto è rimasta per pochi, d’èlite. Esiste però un modo per promuovere l’architettura di qualità, che fa crescere progettisti, committenti e cittadini insieme: il concorso a due gradi, per l’appunto, l’unico strumento serio e democratico, volto a garantire la qualità dei progetti nell’interesse della collettività. Questi concetti sono stati profondamente analizzati durante uno degli eventi più significativi promossi dal nostro Ordine professionale, Qualità del progetto e Concorsi di Progettazione, tenutosi lo scorso 4 febbraio 2020 presso la nostra sede, con ospiti tre personalità di eccellenza nel panorama architettonico nazionale ed internazionale: il prof. arch. Gianluca Peluffo (Gianluca Peluffo & Partnes Architettura), il prof. arch. Luigi Prestinenza Puglisi (saggista, critico e storico dell’architettura) e l’arch. phd. Francesco Isidori (studio Labics insieme a Maria Claudia Clemente). Digressione doverosa che pone l’attenzione su un aspetto cruciale: la centralità del progetto di architettura. Un argomento ancora poco analizzato, per la scarsa consapevolezza, come anche per problemi legati a cultura e sensibilità, sul ruolo della disciplina dell’architettura nella vita di tutti i giorni. Diventa imprescindibile una grande operazione di sensibilizzazione sui temi alla base della profes-

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sione attraverso un’azione integrata di comunicazione, ad oggi abbastanza frammentaria, poco efficace e per certi versi anche distorta. Sì, distorta dal coinvolgimento di architetti mediatici, le famose Archistar che, concentrandosi soprattutto sulla “marketizzazione” della loro stessa immagine, nella realizzazione di progetti di sviluppo urbano, hanno tralasciato molto spesso aspetti importanti, come le relazioni simbolico-culturali, funzionali ed estetiche con il territorio. Raramente sono riusciti nella loro impresa di valorizzazione della città, incontrando difficoltà a stabilire un dialogo con le importanti stratificazioni storiche e culturali, che rappresentano un elemento essenziale della loro identità. Di certo sarebbe dovuto accadere il contrario, o meglio, avevamo aspettative migliori. In virtù della loro fama internazionale e del ruolo anche politico, le Archistar italiane avrebbero dovuto e dovrebbero, a maggior ragione dopo la grave situazione pandemica, farsi promotori e garanti di una Legge per l’Architettura, riportando al centro la qualità dell’architettura, della città e della vita. Urge pertanto contrastare l’indebolimento della nostra figura che oggi, nella ricerca dell’immediatezza, evita la contaminazione con il mondo esterno e si chiude in un immaginario fantastico di un’architettura autonoma, e lottare per riacquistare un ruolo sociale, “umano”. Desidero ricordare con soddisfazione il percorso che ha visto coinvolto anche il nostro Ordine e che ha portato all’approvazione da parte della Regione Lazio, nell’aprile 2019, della legge n. 6/2019 in materia di equo compenso e di tutela delle prestazioni professionali. Un provvedimento che ha permesso la promozione e la valorizzazione delle attività professionali, attraverso il riconoscimento del diritto all’equo compenso per i professionisti, compresi quelli non ordinistici, introducendo anche norme a ga-

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ranzia della certezza del pagamento dei compensi nei confronti dei privati. Di contro però, con rammarico, non posso non riflettere sulle operazioni sempre più frequenti, molto poco comprensibili da


2. Sanatorio di Paimio, Finlandia, Alvar Aalto, 1932. Fotografia: copyright © Alvar Aalto.

parte delle sopra citate Archistar, che remano contro la battaglia per la riaffermazione dei nostri diritti da professionisti. Se la città è diventata il luogo in cui la grande progettazione delle Archistar si rivolge ad un pubblico se-

lezionato, con progetti, idee e concept, il più delle volte gratuiti, annunciati in modo intenzionale e plateale, risultato di operazioni di comunicazioni sviluppate in un tempo che è contrario all’approfondimento e alla completezza,

che utilizzano affermazioni concettose e sintetiche, proprie della propaganda e pubblicità politica, allora l’architettura perde completamente la sua funzione, diventa semplicemente un’esecuzione di interessi dall’alto, ledendo

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ed impedendo di restituire dignità alla professione ed al ruolo di architetto. Economia e professione risultano profondamente investiti dalla crisi odierna. Per stimolare effetti positivi nel breve periodo sull’economia del Paese, occorrerebbe aumentare contestualmente la spesa per investimenti pubblici, incidendo nello stesso tempo sul suo potenziale di crescita “strutturale” a lungo termine. Per lunghi anni il mercato dei lavori pubblici è stato fondato su parametri selettivi di tipo quantitativo, riservato ai titolari di grandi strutture professionali, con tanti dipendenti e notevoli fatturati. Norme che di fatto avevano cancellato ogni riferimento tariffario, consentendo alle stazioni appaltanti di sottostimare l’importo da porre a base di gara in modo del tutto discrezionale, mortificando la professionalità dei liberi professionisti e la trasparenza nella scelta delle procedure di affidamento, che variano con il variare dei corrispettivi posti a base di gara. Grazie ai nuovi metodi adottati nel confronto con le istituzioni ed alle attività portate avanti dal Gruppo Operativo LL.PP. del CNAPPC, di cui mi onoro di far parte da più di tre anni, e all’unisono con la Rete delle Professioni Tecniche, nel corso degli ultimi anni, si è riusciti inoltre ad incidere notevolmente nella stesura del nuovo codice dei contratti e soprattutto del decreto correttivo del 2017 (a cui hanno seguito la L. n. 55/2019 e la L. n. 120/2020), inserendo una serie di emendamenti, in virtù dei quali: 1 - sono stati rilanciati i concorsi di progettazione favorendo l’accesso al mercato del lavoro anche ai giovani talenti ed ai titolari di strutture professionali medio-piccole; 2 - le stazioni appaltanti devono (e non più possono) calcolare l’importo dei corrispettivi da porre a base di gara negli affidamenti di Servizi di Architettura e Ingegneria, facendo riferimento al cosiddetto “Decreto Parametri” (art. 24 comma 8 del D.lgs. n. 50/2016).

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È di fine ottobre 2020 la presentazione del nuovo progetto ONSAI 2020, nato sull’impianto del precedente ONSAI 2017 e dalla proficua collaborazione tra CNAPPC e CRESME, che estende le attività di monitoraggio a tutti i bandi pubblicati dalle stazioni appaltanti in Italia, con l’obiettivo di verificare, attraverso l’uso di un’apposita check list, la compatibilità alle norme vigenti delle procedure relative a concorsi e ad affidamenti di servizi di architettura e ingegneria. L’osservatorio ONSAI 2020 offre a noi ordini territoriali, con l’aiuto di un gruppo di lavoro interno, gli strumenti per avviare un’azione di monitoraggio e di ve-

“La storia riappare sempre come filo conduttore, anche se per opposizione. Un filo conduttore nella trasformazione della città e nella trasformazione dell’uomo.” (Alvaro Siza Vieira)

rifica delle procedure di affidamento adottate sull’intero territorio nazionale, capitalizzando i dati raccolti, sulle criticità che si ripetono con maggiore frequenza, per segnalare alle istituzioni competenti le riforme necessarie per migliorare il quadro normativo del settore. Molteplici dunque le conquiste raggiunte, tuttavia non mancano criticità residue, per il superamento delle quali è necessario un nuovo intervento legislativo. Gli obiettivi prioritari riassunti brevemente sono: - Conclamare la centralità del progetto nei processi di trasformazione del territorio, seguendo il

percorso già tracciato, per lanciare definitivamente il concorso di progettazione a due gradi. - Puntare all’affidamento prioritario della progettazione ai liberi professionisti, valorizzando contestualmente il ruolo dei pubblici dipendenti per il controllo del processo di esecuzione dei lavori, dalla programmazione al collaudo. - Costituire un fondo di rotazione per alimentare gli affidamenti di progetti pubblici ai liberi professionisti, che abbia durata superiore ai cinque anni. - Semplificare l’intero processo di esecuzione delle opere pubbliche. - Puntare su un unico regolamento di attuazione del codice dei contratti, che possa costituire un punto di riferimento chiaro e certo per gli addetti ai lavori. - Criterio di rotazione incarichi LL.PP. che non lasci adito ad interpretazioni e sia definito anche nei tempi. In conclusione, come riuscire allora a focalizzare l’interesse sul valore intrinseco dell’architettura, ad ampliare lo sguardo sulla potenzialità della stessa di generare cambiamenti sociali, a migliorare la vita delle comunità locali e la sua coesione? In fin dei conti, la sintonia con il contesto è essa stessa il valore di un’architettura. Pensiamo al nostro Paese. Un territorio caratterizzato dalla presenza diffusa di borghi storici, che nei secoli hanno instaurato un sistema complesso di relazioni e rapporti tra ambiente costruito e ambiente naturale. Una rete di centri urbani morfologicamente caratterizzati da una lunga stratigrafia storica e quindi evolutivamente lenti, mediamente piccoli, con una decina di centri maggiori tra cui solo una piccola parte ha oggi logiche di crescita e sviluppo assimilabili a quelle delle grandi città europee. Singolarità e peculiarità di ciascuno dei piccoli medi-centri che hanno origini culturali storiche, oggi in parte preservate in termini di identità e caratteri tipici, ma dall’altra ostacolate dal confronto con i grandi centri.


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Urge progettare il Paese, avere visioni, immaginare strategie, investire in progetti strategici che rispondano alle esigenze della comunità, lavorando in rete con portatori di interessi pubblici e privati che hanno a cuore la necessità di

migliorare la qualità della propria vita e dell’ambiente in cui essa si svolge. E l’architettura, con indagini ed approfondimenti sulla cultura, sulla tradizione locale, può essere un proficuo ambito di riflessione

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sul ruolo dei territori, per rilanciarli come esempio virtuoso di centri inclusivi, duraturi e sostenibili. Dare futuro alle città e ai territori che abitiamo: uno degli obiettivi improrogabili per una visione strategica di possibile futuro.

3. Museo Guggenheim, Bilbao, Spagna, Frank Gehry, 1997. Fotografia: Wikimedia Commons. 4. 5. Human Technopole, Milano, Gianluca Peluffo & Partners. Competition, 2019. Fotografie: Binini Partners.

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MEMORIA E PRESENTE

Intervista a Francesco Isidori (Labics) di Federica Caponera

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uardare al mutamento continuo come condizione

lettiche di un processo e fertile motore produttivo.

propria dell’esistenza di oggetti ed esseri umani:

«Prendersi cura dell’architettura antica, moderna e

non essere, ma divenire. Autenticità, stratificazione,

contemporanea, è fondamentale per il nostro futuro,

materia. Conservazione e trasformazione come

per le prossime generazioni, per il nostro paese,

elementi del medesimo processo. Conoscenza

poiché la qualità dell’architettura determina la qua-

critica e proposta creativa, intese come fasi dia-

lità della vita della comunità». [Francesco Isidori]

Federica Caponera - Le architetture nei diversi periodi della storia, sovrapponendosi ed integrandosi con l’esistente, hanno conformato la “forma urbis” di oggi, frutto di trasformazioni continue. Nei confronti degli interventi contemporanei occorre però un ragiona-

miglie baronali romane e, nel Cinquecento, fu trasformato in Palazzo, per i Caetani, nel suo assetto definitivo dall’architetto Baldassarre Peruzzi. Un altro esempio straordinario in Italia è il Duomo di Siracusa, un impianto architettonico che cela al suo interno uno dei

conciliato il suo progetto con le preesistenze. Questo a testimonianza che alcuni esempi straordinari di architettura nascono proprio dalla riscrittura operata nel corso della storia. Perché allora oggi avere un atteggiamento remissivo nei confronti del

Architettura viva Qualità del progetto come visione di futuro

1. MAST, Bologna, 2006-2013. Fotografia: copyright © Labics.

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mento quanto più ampio, collettivo e condiviso, un’analisi profonda per valutarli come espressione del tempo, al di là di un mero giudizio legato al linguaggio. Francesco Isidori - Il discorso è molto complesso. La forma della città e la città si sono sempre costruite su se stesse attraverso trasformazioni continue che poi hanno prodotto la ricchezza della città storica come la vediamo oggi, nella contemporaneità, il cui valore è dato dalla forma dei segni e delle riscritture avvenute nel corso del tempo, che l’hanno resa particolarmente ricca di significati storici, dalla forte intensità visiva. Pensiamo al Teatro di Marcello a Roma, che nel Medioevo fu utilizzato come “roccaforte” delle fa-

più celebri e meglio conservati monumenti in stile dorico della Sicilia, il tempio di Atena, che nel VI secolo d.C. fu inglobato nella chiesa bizantina che si sovrappose all’originaria struttura templare dell’edificio. ll restauro, che seguì in seguito ai danneggiamenti del terremoto di fine Seicento, fu occasione per abbellire internamente la chiesa e per ricostruire all’esterno una facciata nuova, che fu realizzata nella prima metà del Settecento come una quinta teatrale sull’originale impianto bizantino. E ancora, la facciata di Santa Maria Novella a Firenze, capolavoro dell’architettura che non potrebbe essere tale se Leon Battista Alberti non fosse intervenuto su un edificio medievale incompiuto e avesse

passato? Perché impedire di aggiungere altri segni all’antico? Ovviamente non possiamo non farlo tenendo conto di tutto quello che poi è stata la storia recente in termini culturali di acquisizione della consapevolezza del valore della memoria. Nel Cinquecento probabilmente si aveva un’idea differente, oggi culturalmente opposta. Nel corso del Novecento, infatti, il restauro è gradualmente diventato una vera e propria scienza. D’obbligo il rispetto del valore della memoria, della conservazione e della possibilità di tramandare questi principi alle generazioni future il più possibile, non alterando i valori che sono giunti fino a noi. Una concezione culturale fondamentale, quindi, che non può di

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2. 3. 4. Palazzo dei Diamanti, Ferrara. Progetto originario vincitore del concorso. In corso di realizzazione. Fotografie: copyright © Labics.

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certo impedire di continuare il processo di trasformazione della storia, che ha sempre contraddistinto il nostro paese nelle varie epoche. La qualità del’intervento contemporaneo si misura nella capacità di saper riconoscere caso per caso le complessità, individuando la migliore soluzione che ogni luogo può accogliere e supportare. Nel nostro intervento ai Mercati

di Traiano a Roma, la passerella proposta in realtà era un percorso che già esisteva, impiantato sulle mura romane. Abbiamo sostituito quell’intervento rispettando i vecchi fori della struttura, sovrapponendovi ovviamente un segno contemporaneo, che poi, attraverso la sua morfologia, l’uso di un materiale quale l’acciaio corten, che ben si presta ad entrare in sintonia con il laterizio, e tutta una serie di

accorgimenti, ha permesso di non alterare l’immagine complessiva del sito, anzi, ha valorizzato la mescolanza tra antico e moderno. F.C. - Una riflessione sul “senso del contemporaneo e soprattutto sulla sua straordinaria normalità”. Il caso di Palazzo dei Diamanti. F.I. - Tutt’oggi riteniamo che l’intervento proposto in fase di concorso, che nasceva da una do-

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manda posta dalla città, ovvero da chi in quel momento aveva in gestione il sistema museale del Palazzo dei Diamanti, fosse un progetto che non andava ad alterare la percezione del monumento per una serie di ragioni. Innanzi tutto perché era un intervento sulla parte posteriore del manufatto, dove un tempo c’era il brolo, il frutteto del palazzo, che, rispetto alla compiutezza della fac-

ciata principale e all’assetto dell’edificio, si poneva al di fuori della sagoma dell’edificio stesso. Non aveva, come è stato scritto erroneamente, la volontà di completare il monumento, poiché elemento totalmente esterno ed estraneo all’edificio, né tantomeno di comprometterlo. Secondo elemento importante, proprio per come planimetricamente si conformava, l’intervento

era in grado di far percepire dall’entrata del cortile principale lo stesso rapporto di vuoto che oggi normalmente si ha quando si entra nel cortile del Palazzo e si osserva verso il giardino. Una percezione dello spazio aperto, sul quarto lato del Palazzo dei Diamanti, così come era in origine il progetto di Biagio Rossetti. Riteniamo che quell’intervento fosse compatibile ancora di più perché

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5. 6. 7. 8. Città del Sole, Roma, 2007-2016. Fotografie: copyright © Labics.

la parte posteriore del Palazzo dei Diamanti è la parte che non è stata ancora completata. Proprio quella sua incompiutezza la rende maggiormente disponibile ad accettare anche altri segni contemporanei. È come se fosse una storia aperta, non finita, che deve essere ancora scritta. L’intervento attuale, proposto successivamente alla diatriba, non ha più una volumetria; è semplicemente un percorso, un intervento molto leggero in legno, reversibile, che permette di collegare le due ali del palazzo. Ha l’obiettivo di valorizzare moltissimo il giardino, riattivando lo spazio verde retro-

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stante per essere fruito dalla città, oltre che da chi visita il Palazzo. In termini di linguaggio utilizza lo stesso criterio dell’intervento precedente: un’ossatura molto leggera, scarna, composta da un sistema trilitico con appoggi verticali ed una trabeazione orizzontale che riprende lo stesso passo e ritmo dell’intercolumnio della loggia principale del portico, confermandone la struttura geometrica. F.C. - Labics. Un laboratorio di ricerca, innovazione e sperimentazione. F.I. - Per noi i temi di ricerca principali sono due. Il primo, più inerente il linguaggio, è il concetto di struttura. Il concetto di struttura è per noi fondamentale. Non ci riferiamo naturalmente solo alla struttura portante; considerare il progetto di architettura una struttura ha un significato più ampio, in qualche modo filosofico; significa spostare il piano e l’attenzione dal disegno dell’oggetto al disegno dei principi che lo regolano. Tutto nasce quando abbiamo iniziato a progettare, per cercare di capire il perché della forma. Spaesati da un’epoca in cui ogni forma sembrava possibile, abbiamo cercato di ritrovare un’essenzialità, in un certo senso l’irriducibilità del progetto attraverso l’indagine sulla struttura. Il termine struttura ci parla dunque delle relazioni tra le cose e non delle cose stesse. Concepire un’architettura come una struttura implica dunque il considerarla non come un oggetto autonomo, ma come un sistema composto da diversi elementi tenuti insieme da una logica unitaria e soprattutto come un componente di un sistema più ampio, il contesto nelle sue diverse connotazioni. Progettare una struttura significa infatti mettere a sistema – in un’unica entità – tutte le componenti che confluiscono nel progetto. Una ricerca che mira a spogliare l’architettura di tutti gli elementi superflui per cercare questa essenzialità. Un po’ come quando Paul Klee cercava attraverso i suoi dipinti astratti di raffigurare non

ciò che vedeva di fronte al reale, ma la struttura del reale, ciò che non è visibile agli occhi, ma che in qualche modo appartiene alle leggi che organizzano l’universo. Questa è in sintesi il senso della nostra ricerca, che non vuol dire rinunciare alla forma, bensì motivarla e dargli struttura: mostrare l’essenza oggettiva del principio generatore alla base di un progetto. Il secondo tema, al primo estremamente correlato, riguarda la dimensione pubblica dell’architettura. In sintesi studia come l’architettura possa amplificare, arricchire, rendere più forte la sua relazione con lo spazio pubblico, sia all’interno che all’esterno dell’edificio. Proprio perché l’architettura non è mai neutrale, ma costituisce sempre un intervento di trasformazione del territorio alle varie scale. Nel suo intervenire nel contesto, l’architettura deve cercare delle relazioni forti con lo spazio pubblico, che appartiene alla società. E l’architettura, come arte pubblica, deve avere grande rispetto dello spazio della comunità. Un’architettura generosa, ospitale, capace di ridare qualcosa indietro alla dimensione pubblica e urbana. Le nostre architetture si pongono sempre nei confronti del contesto in cui si inseriscono con generosità, non concentrandosi su sé stesse, cercando al contrario di aprirsi ad una fruizione, pubblica, condivisa, collettiva. F.C. - Nel momento storico che stiamo vivendo, in cui l’architettura, prima di essere strumento per incidere sulla qualità della vita dell’uomo, è percepita, comunicata e si propone sempre più come strumento di marketing urbano e politico, che valore assume nella società il comunicare l’architettura come consapevolezza etica di impegno civile? F.I. - Il tema è molto delicato. Noi viviamo ancora sulla scia dei primi anni Duemila, periodo in cui gli architetti sono diventati a poco a poco delle star, con un’architettura sempre più spettacolare. Abbiamo

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È necessario che l’architettura venga promossa e tutelata dallo stato. Se manca questa attenzione, l’intera comunità ne risulta impoverita. Bisogna riaffermare l’importanza dell’architettura come opera di ingegno ed analizzare come, per garantire la qualità dell’ambiente in cui viviamo, sia indispensabile che l’architetto abbia una approfondita competenza sul progetto architettonico e paesaggistico...

assistito ad un crescendo di architetture in grado di sbalordire, sempre più adatte ad essere veicolate per stupire. Proprio in quegli anni uscì un libro molto interessante dell’architetto Nouvel e del filosofo Baudrillard, Architettura e nulla – Oggetti singolari 1, che poneva grande attenzione sulla singolarità dell’oggetto architettonico come elemento di design, puramente autoreferente. In realtà se ci pensiamo bene, l’architettura da sempre è stata uno strumento di marketing, destinata a rappresentare il potere politico, religioso. Il suo ruolo è stato centrale a partire dall’illuminismo fino a diventare, nel Movimento Moderno, protagonista di una rivoluzione culturale, nella riforma della città, della casa… Questo suo ruolo forte nell’immaginare la città nuova ha prodotto però anche tanti errori; tanti problemi strutturali delle nostre periferie risalgono ad una concezione che oggi è superata, ovvero la separazione tra funzioni, traffico, luoghi del commercio, del lavoro. Oggi si parla di una città totalmente diversa; vedi la città dei 15 minuti, città opposta a quella concezione quasi premoderna… È sacrosanto che l’architetto abbia un impegno civile. Noi stessi crediamo che l’architettura debba perseguire obiettivi che non siano meramente estetici, formali, ma debba cercare di costruire ambienti migliori per la qualità della vita di tutti. È impensabile che possa esistere un credo unico, così come è stato fatto nel Moderno: gli architetti affermavano che dell’architettura si dovesse fare quasi una religione. Esistono differenti possibili risposte e ogni risposta è locale. Saper cogliere ed esaltare le differenze culturali tra i vari ambienti, modulando il proprio modo di intervenire volta per volta, è una grande opportunità per noi progettisti. F.C. - Innalzare la qualità dell’ambiente costruito significa migliorare la qualità della vita delle persone. Prioritario il ruolo centrale del

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progetto nei processi di trasformazione del territorio… F.I. - Uno dei grandi problemi che abbiamo avuto in Italia dal dopoguerra in poi, è stata l’incapacità di immaginare le città ed il territorio in una visione unitaria, che fosse in grado di mettere insieme architettura e urbanistica. Purtroppo con il trascorrere delle epoche i due temi si sono nettamente scissi: da una parte l’urbanistica, preoccupata solo dei numeri e delle famose macchie colorate che zonizzavano le aree senza tenere conto della forma finale del territorio; dall’altra l’architettura, focalizzata sul singolo oggetto e manufatto. Questa scissione del progetto unitario della città, con la conseguente perdita di una visione dell’architettura, così com’era stato dal medioevo fino all’Ottocento, ha portato alla crescita incontrollata delle città, prive di una concezione d’insieme. Abbiamo assistito spesso al proliferare di brutti edifici, uno accanto all’altro, a strade, piazze e parchi non più disegnati, semplicemente pensati come una sommatoria di elementi incoerenti, scollegati gli uni dagli altri. Le città italiane confermano questo concetto e ne amplificano i caratteri: basta osservarle nella loro corolla di crescita a macchia d’olio intorno ai nuclei storici, con un’alterazione del rapporto tra la città stessa ed il territorio circostante. F.C. - L’urgenza nel nostro Paese di una Legge per l’Architettura… F.I. - Se ne parla purtroppo da tanto, troppo tempo. Due anni fa al MAXXI abbiamo proposto l’iniziativa “Verso una legge per l’architettura” con l’aiuto di Margherita Guccione, direttore MAXXI Architettura, e di un gruppo di architetti, tra cui Simone Capra, Alberto Iacovoni, Claudia Clemente. Quattro appuntamenti per riaccendere la discussione su un tema non più rinviabile: la necessità di una legge per l’architettura. L’obiettivo era quello di mettere in evidenza temi e urgenze fun-


zionali per coloro che sono chiamati ad intervenire con la norma, ma ancor di più con azioni culturali su tutto il territorio nazionale, professionisti, amministratori e società civile, che sono chiamati ad intervenire per la qualità dello sviluppo urbano in Italia. Gli appuntamenti intendevano offrire un contribuito concreto, attraverso testimonianze e dialoghi, sulle questioni più urgenti che rimettevano al centro il progetto, per discutere, diffondere e argomentare quanto di buono era stato prodotto, e proporre visioni e soluzioni possibili. Il tutto partendo da un assunto fondamentale: l’architettura è parte integrante della nostra vita, ne rappresenta la qualità, incide nelle nostre azioni e fa da sfondo ai nostri gesti quotidiani. È necessario che l’architettura venga promossa e tutelata dallo stato. Se manca questa attenzione, l’intera comunità ne risulta impoverita. Bisogna riaffermare l’importanza dell’architettura come opera di ingegno ed analizzare come, per garantire la qualità dell’ambiente in cui viviamo, sia indispensabile che l’architetto abbia una approfondita competenza sul progetto architettonico e paesaggistico, e come sia fondamentale che la regia di un intervento di trasformazione sia affidata soprattutto al progetto architettonico, come strumento capace di comprendere e bilanciare le diverse istanze e competenze di settore coinvolte, in un approccio inclusivo e non specialistico. Si deve capire che il concorso di architettura rappresenta la migliore procedura per garantire la qualità del progetto: si mettono in competizione e si confrontano le diverse soluzioni che comprendono le istanze economiche, di indirizzo politico, tecnologiche e funzionali all’interno di una visione culturale d’insieme. Strettamente legata ai concetti esposti è l’urgenza di una pubblica amministrazione preparata, formata per accogliere ed affrontare i concorsi. Ci tengo a ribadire il principio fon-

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damentale: prendersi cura dell’architettura antica, moderna e contemporanea, è fondamentale per il nostro futuro, per le prossime generazioni, per il nostro paese, poiché la qualità dell’architettura determina la qualità della vita della comunità. Il contemporaneo non è considerato in Italia come in grado di produrre cultura. Da questo derivano una serie di episodi passati, recenti e, purtroppo, forse anche futuri. L’amaro destino dell’Accademia della scherma di Luigi Moretti al Foro Italico lo conferma, essendo stata prima abbandonata, poi trasformata in aula bunker e poi di nuovo chiusa senza un progetto. Se a livello culturale, come paese non investiamo delle risorse, il paese si impoverisce sempre di

più, sia culturalmente che economicamente. Pensiamo a ciò che è stato l’effetto Bilbao: un produzione di flussi turistici e, quindi economici, ingenti. L’Italia non ne ha bisogno. Avrebbe sicuramente bisogno di continuare con la storia che oggi in qualche modo si è interrotta: una storia virtuosa, costellata da straordinari esempi di architettura, che, dall’epoca romana fino ad oggi, illuminano il nostro paesaggio. L’architettura può offrire molto alle nostre città. La vera sfida consiste nel volerglielo chiedere. N O T A

1. Jean Baudrillard, Jean Nouvel, Architettura e nulla. Oggetti singolari, Milano, Electa, 2003.

9. Allestimento delle Tabernae e passerella pedonale di Campo Carleo ai Mercati di Traiano, Roma, 1999 - 2004. Fotografia: copyright © Labics.

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CONCORSI

di Stefano D’Alessandro

I

l tema del concorso, che prevede il progetto di un’unità abitativa singola da destinare ad una giovane coppia con due figli piccoli, che possa a sua volta essere “assemblata” in serie in modo da formare un edificio più complesso, è stato molto stimolante. Nel progetto si è voluta estremizzare la ricerca, cercando di coniugare le esigenze di un edificio in linea, con le caratteristiche di un’unità abitativa di base a patio. La casa a patio è una tipologia utilizzata sin dai tempi dei romani ed è caratterizzata da una relazione continua tra spazi interni e spazi esterni, di esclusiva pertinenza dell’alloggio e caratterizzati da una totale privacy. Una casa unifamiliare a patio è abbastanza semplice da realizzare

diante una falda con inclinazione opposta rispetto alla copertura dell’altro. Il volume più grande ospita la zona notte (camera matrimoniale, camera dei bambini, un bagno) ed ha dimensioni esterne di 5,50 m x 12,50 m; il volume più piccolo ospita la zona giorno (angolo cottura, soggiorno, pranzo) ed ha dimensioni esterne di 4,50 m x 10,50 m. I due corpi di fabbrica sono separati da un patio di 3,50 m x 7,00 m pavimentato con listoni in pietra ricostruita con finitura a effetto legno, e avente, nella parte centrale, una zona riempita con terra, ricoperta da un prato superficiale con un albero al centro. La superficie di calpestio è di 94,09 mq, mentre la superficie del patio è di 24,50 mq. La struttura portante verticale è realizzata con

l’estradosso del solaio. L’alloggio ha un’altezza netta di 3,00 m ed è coperto con una controsoffittatura da 30 cm di spessore, che ospita al suo interno il sistema di condizionamento dell’aria. Le coperture dei due corpi di fabbrica sono realizzate con solai inclinati Plastbau Metal da 30 cm di spessore e sono completamente rivestite con pannelli fotovoltaici. Lo spazio ricavato nel sottotetto servirà per ospitare tutta l’impiantistica relativa. Il piano di calpestio dell’unità abitativa è rialzato di 1,50 m rispetto il piano di campagna. Sia la zona notte che la zona giorno affacciano totalmente verso il patio interno; tale caratteristica permette, nella stagione più calda, che esso possa essere utilizzato come elemento distributivo degli ambienti, creando

Progetto di casa a patio aggregabile Sicurezza nella tecnologia costruttiva dal punto di vista della composizione; più complesso è cercare di assemblare un alloggio a patio in modo da creare un edificio in linea con unità su più livelli, ciascuna con il suo patio privato. Nel progetto, la casa unifamiliare singola è estremamente semplice nella sua composizione. Essa è costituita da due volumi, nettamente separati e collegati tra loro da un terzo volume centrale vetrato. I primi due, hanno dimensioni leggermente diverse tra loro, in pianta, e sono coperti ognuno me-

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setti portanti della serie “muro Plastbau 3” con i seguenti spessori: lastra interna in EPS da 5 cm di spessore; lastra esterna in EPS da 5 cm di spessore; setto di calcestruzzo da 30 cm di spessore; finitura esterna in ceramica da 5 cm di spessore lordo; finitura interna con spessore lordo da 5cm; ogni setto verticale, quindi, avrà uno spessore totale di 50 cm. I solai sono realizzati con pannelli casseri autoportanti Plastbau Metal, con spessore di 30 cm, compresa la finitura dell’intradosso e del-

una continua correlazione tra interno ed esterno. Il volume più piccolo, di collegamento fra i due corpi di fabbrica principali, funge sia da ingresso che da congiunzione tra la zona notte e la zona giorno. Esso è rifinito con una vetrata a tutta altezza con vetro satinato nella parte anteriore, mentre la vetrata che affaccia verso il patio è a tutta altezza anch’essa, ma realizzata con vetro trasparente; con questa soluzione, il visitatore che accede alla casa ha, come primo impatto, la vista

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del patio attraverso la vetrata d’ingresso. Sia l’edificio singolo che l’edificio aggregato presentano una diversa conformazione dei prospetti anteriore e posteriore che li distingue nettamente, mentre i prospetti laterali sono privi di aperture. Il prospetto anteriore, più “estremo”, è caratterizzato da una finestra a nastro orizzontale e una verticale; la prima costituisce l’affaccio dell’angolo cottura (ottenuto nello spazio compreso tra la cucina e i pensili della stessa), mentre la seconda costituisce l’affaccio della stanza da bagno. Il prospetto posteriore, più tradizionale e “domestico”, è caratterizzato dagli affacci, identici e a tutta altezza, del soggiorno e della camera da letto matrimoniale, mentre il patio si prolunga verso l’esterno della casa, rendendo possibile la vista del

suo albero oppure, nell’edificio aggregato, degli alberi dei patii alle diverse altezze. La singola casa a patio può essere “assemblata” con altre case a patio, in modo da generare un edificio aggregato su due livelli con di-

7. La casa a patio è una tipologia architettonica utilizzata sin dai tempi antichi e si è sviluppata nei secoli particolarmente nelle regioni mediterranee, per il clima favorevole. 8. Pianta a quota +1,50 m, pianta a quota +5,15 m, prospetto anteriore, sezione B-B e prospetto posteriore. 7

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stribuzione a ballatoio esterno. Una delle caratteristiche che si è voluta ottenere è quella di poter riconoscere nell’edificio aggregato i prospetti delle singole unità, come se l’edificio nella sua complessità fosse ottenuto con una


1. 2. 3. 4. La cellula abitativa è estremamente semplice nella sua composizione. È costituita da due volumi nettamente separati e collegati tra loro con un terzo volume centrale vetrato, che funge anche da ingresso alla casa. Il prospetto posteriore, più tradizionale e “domestico”, è costituito dagli affacci, identici e a tutta altezza, del soggiorno e della camera da letto doppia, mentre il patio alberato si prolunga verso l’esterno. 5. 6. Una delle esigenze fondamentali, al fine della salvaguardia della privacy, è che nessuno degli alloggi dei livelli superiori abbia degli affacci verso i patii degli alloggi dei livelli inferiori. Questo vincolo condiziona il modo di assemblare l’aggregato, con la possibilità di realizzare esclusivamente una composizione lineare fino a un massimo di tre livelli, attraverso il semplice accostamento e sovrapposizione delle unità abitative di base. 8

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La casa a patio è una tipologia utilizzata sin dai tempi dei romani ed è caratterizzata da una relazione continua tra spazi interni e spazi esterni, di esclusiva pertinenza dell’alloggio e caratterizzati da una totale privacy...

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9. La copertura è realizzata con solai inclinati, costituiti da pannelli casseri autoportanti. I pannelli fotovoltaici sulle falde assolvono al fabbisogno energetico della unità abitativa.

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sorta di “copia e incolla”. Per questo motivo si è rinunciato deliberatamente ad una struttura più complessa di distribuzione verticale anteriore con ascensori (realizzabile comunque), rendendo possibile l’accesso agli alloggi del secondo livello con semplici scale, dato che la presenza dell’ascensore è d’obbligo dal terzo livello in poi. Tali alloggi, comunque, possono essere ugualmente accessibili dagli utenti diversamente abili mediante l’adozione di montascale. Un’altra caratteristica fondamentale è la totale assenza di affacci degli

alloggi del livello superiore verso il patio degli alloggi del livello inferiore, dato che l’unità di base è priva di affacci sulle pareti laterali; in tal modo viene salvaguardata l’esigenza di privacy di questi spazi esterni privati. Le caratteristiche tecniche e dimensionali di questa composizione sono simili a quelle dell’unità singola isolata, tranne la variazione delle dimensioni in lunghezza e altezza del complesso, dovuta alla “sommatoria” delle unità di base. Il ballatoio esterno di distribuzione è posto alla quota delle unità del primo livello (+1,50

m) e rivestito nel medesimo materiale dei patii, diventando così una sorta di “prolungamento verso l’esterno” di essi. Gli alloggi del secondo livello, invece, sono posti a quota +5,15 m. È anche possibile, tuttavia, realizzare un edificio aggregato su un unico livello, attraverso il semplice accostamento delle unità abitative di base, oppure è anche possibile l’aggregazione su tre livelli. In questo caso, però, è necessario prevedere una struttura separata di distribuzione verticale con ascensori anteriore al complesso.

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10. Una delle caratteristiche che si è voluto ottenere, è quella di riconoscere nell’edificio aggregato i prospetti delle unità singole, come se l’edificio nella sua complessità fosse ottenuto con una sorta di “copia e incolla”. Sia nell’edificio singolo che nell’edificio aggregato è stata mantenuta una netta distinzione tra il prospetto anteriore e quello posteriore, mentre i prospetti laterali sono privi di aperture. 11. Un’altra caratteristica è la totale assenza di affacci degli alloggi del livello superiore, verso il patio degli alloggi del livello inferiore, dato che l’unità di base è priva di affacci sulle pareti laterali; in tal modo viene salvaguardata l’esigenza di privacy degli spazi esterni privati.

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Concorso di idee “Un guscio per vivere in sicurezza e armonia”

12. Si è rinunciato deliberatamente a una struttura più complessa di distribuzione verticale anteriore con ascensori (realizzabile comunque), rendendo possibile l’accesso agli alloggi del secondo livello con semplici scale.

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Bandito da Poliespanso Srl, con il patrocinio di: - Politecnico di Milano. Polo territoriale di Mantova; - Ordine degli Architetti della Provincia di Mantova; - AIPE Associazione Italiana Polistirene Espanso; - Collegio Costruttori Edili - ANCE Mantova; - ANIT Associazione Nazionale per l’Isolamento Termico e Acustico.

Il progetto è stato finanziato da: - Regione Lombardia (Struttura Ricerca e Innovazione); - Camera di Commercio di Mantova; - Provincia di Mantova; - Associazione Industriali di Mantova; - Laboratorio TE.MA del Politecnico di Milano, Polo Regionale di Mantova; - Fondazione Università di Mantova; - API Industria Mantova.

Membri della commissione giudicatrice: - Sergio Cavalieri, Presidente Ordine Architetti di Mantova; - Federico Coghi, Rappresentante Collegio Costruttori di Mantova; - Fabrizio Schiaffonati, Professore Ordinario del Politecnico di Milano; - Alberto Zacchè, Ammin. Delegato Poliespanso Srl.

Il concorso è un’iniziativa promossa da Poliespanso Srl e dal laboratorio TE.MA Technology Environment & Management del Politecnico di Milano, Polo Regionale di Mantova, nell’ambito della ricerca MA.IN Mantova Innocenter, finalizzata alla sperimentazione di nuove modalità di trasferimento della conoscenza dell’Università al sistema della Piccola e Media Impresa.

territori

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13. La vetratura esterna a tutta altezza dei ballatoi e dei due corpi laterali dell’edificio aggregato, è corredata di elementi frangisole esterni metallici. 14. Particolare del volume laterale dell’edificio aggregato, che contiene le scale e gli ascensori. 15. Vista dall’interno del ballatoio di distribuzione degli alloggi al livello superiore, dell’edificio aggregato. 16. Vista dall’interno di uno dei due corpi di fabbrica laterali contenente le scale e gli ascensori, con le vetratue a tutta altezza e gli elementi frangisole. 17. Lo studio di un elemento di distribuzione verticale con ballatoi vetrati dell’edificio aggregato, prevede la realizzazione di due corpi di fabbrica laterali vetrati contenenti scale e ascensori.

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S PA Z I O E P R O G E T T O

Intervista ad Angelo Ianni di Valeria Rotondo

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arliamo di un progetto innovativo che coniuga forma, paesaggio e tecnologia e che spicca per coraggio ed eleganza discreta nel panorama in cui sorge. E parliamo di una storia personale, dell’architetto Enrico Ianni e della villa che ha disegnato per sé e la sua famiglia e che ora porta il suo nome: “Villa Enrico”. Progettata alla fine del 2009, costruita negli anni successivi e ultimata nel 2016 su un crinale di collina nella Valle di Comino, è stata anche descritta come la casa intelligente. Ne parliamo con l’architetto Angelo Ianni, fratello di Enrico. Valeria Rotondo - Suo fratello ha lasciato una preziosa eredità: ha

architetti nella progettazione degli spazi al fine di aumentare la “qualità” abitativa degli edifici. “Villa Enrico” in questo senso racchiude in sé gli elementi necessari ad esaltare il comfort abitativo. La tecnologia svolge un ruolo importante, ma altrettanto importante è lo spazio, la fruibilità dello stesso, il rapporto con la luce, sia naturale che artificiale, e nello stesso tempo con il paesaggio circostante. Le ampie vetrate separano l’interno dall’esterno solo come barriera fisica, non visiva: instaurano un dialogo con il paesaggio, lo spazio interno diventa esterno e viceversa e l’imposizione forzata dello spazio vissuto al chiuso trova respiro nel pae-

sistemi tecnologici si avvale? A.I. - Già nella fase progettuale, costruire un edificio a “zero” emissioni era un obiettivo prioritario e la tecnologia è stata importante per raggiugerlo: la domotica, il riscaldamento a pavimento con pompa di calore, il solare termico e il fotovoltaico creano la giusta combinazione per esaltare il comfort nel pieno rispetto dell’ambiente. V.R. - Qual è il ruolo della domotica? A.I. - In una precedente intervista Enrico aveva dichiarato “Il sistema domotico ci ha permesso di coniugare al meglio le esigenze funzionali ed estetiche. Uno dei nostri

Forma, paesaggio e tecnologia

Un sistema “domotico” coniuga al meglio esigenze funzionali ed estetiche affrontato una riflessione sul significato di comfort abitativo e dato delle risposte concrete ed efficaci. Il lockdown ha costretto tutti ad una permanenza prolungata in casa. Per molti non è stato facile adattarsi ed adattare le attività di lavoro, studio, sport all’interno dello spazio domestico. Ora forse ci rendiamo conto di quanto sia importante. Angelo Ianni - Il periodo che stiamo vivendo, legato alla pandemia e al lockdown, rafforza ancora di più la responsabilità degli

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saggio percepito. La luce naturale caratterizza gli spazi con giochi di ombre, quasi imponendo loro un ritmo, mentre la luce artificiale con i sui effetti cromatici caratterizza le superfici conferendo un calore particolare agli ambienti. V.R. - Oltre al comfort, l’attenzione all’impatto ambientale e alla sostenibilità energetica fanno di questo progetto un esempio da seguire. Usa tecnologie che ne facilitano la gestione e ne migliorano le prestazioni. Di quali

obiettivi era quello di realizzare un’abitazione in cui lo spazio fosse in grado di trasmettere una sensazione di comfort e di benessere”. La domotica svolge quindi un ruolo fondamentale: garantisce una gestione intelligente del clima, dell’energia e della sicurezza. La sapiente combinazione di termostati e cronotermostati ha permesso di creare configurazioni climatiche multizona, attraverso l’impostazione di temperature diverse in ogni ambiente della casa per consentire inutili

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1. 2. Vista esterna in notturna: il portico e l’illuminazione esterna. Le ampie vetrate della zona giorno, da cui si accede al porticato, mettono in relazione lo spazio interno e lo spazio esterno. 3. Tavole del progetto: prospetti. 4. Vista esterna dal giardino con l’uliveto. 5. Vista esterna da Sud-Ovest. 6. Vista esterna da Nord-Owest. 7. Vista esetrna da Nord-Est. Fotografie: Archivio Ianni.

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8. Pianta del livello interrato, del piano terra e del primo livello. La pianta a forma di “L” aperta verso la valle, abbraccia il panorama con vista sulla Valle di Comino e le montagne dell’Abruzzo. 9. 10. 11. 12. La zona giorno: pranzo e soggiorno. La zona giorno è posta al piano terra e affaccia sul portico antistante con un’ampia vetrata. 13. L’ingresso. 14. La cucina, comunicante con il soggiorno e la zona pranzo. Fotografie: Archivio Ianni.

sprechi di energia. I pannelli di supervisione domotica offrono inoltre un controllo globale dell’abitazione, con la possibilità di azionare scenari e verificare in ogni istante lo stato di funzionamento del sistema casa. Tutti gli impianti, riscaldamento, illuminazione, chiusura, si possono controllare da remoto.

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V.R. - La tecnologia e l’estetica trovano una sintesi armoniosa attraverso ciascuna delle scelte progettuali. La prima non prevale mai sulla seconda e non invade prepotentemente gli ambienti. A.I. - Sì, le soluzioni tecnologiche avvolgono ogni ambiente in modo discreto, garantendo massimo comfort abitativo, ma anche il calore tipico che una realtà abitativa richiede. L’anima tecnologica della


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casa è racchiusa nel sistema domotico “Chorus” di Gewiss: un sistema completo, tecnologicamente evoluto, in grado di garantire comfort, design e risparmio energetico. Un nuovo modo di pensare all’abitazione, che pone al centro il benessere delle persone all’interno dell’ambiente, migliorandone la qualità della vita negli spazi domestici. Progettista, calcolatore e direttore dei lavori: Arch. Enrico Ianni Collaudo Strutturale: Ing. Tommaso Michele Secondini Opere in calcestruzzo armato: CO.GE.OS. Costruzioni Generali

V.R. - Tecnologia a servizio dell’architettura, quindi. Le scelte compositive e funzionali, lo spazio, i materiali. A.I. - Fulcro dell’idea originaria del progetto erano la fusione con il paesaggio e l’esaltazione della bellezza dello stesso. La forma viene dettata dalla posizione in cui l’edificio viene ubicato, dall’affaccio verso la Valle di Comino: di qui la

Snc, Boville Ernica, FR Opere in acciaio: AFE Srl Tecnologia dell’acciaio, San Giorgio a Liri, FR Sistemazioni esterne: DAPET Costruzioni Snc, Casalvieri, FR Impianto elettrico: DM Domotica

di Erminio De Marco, Picinisco, FR Impianto termo idraulico: Pietro Sabatini, Picinisco, FR Opere murarie e finiture: Frongione Costruzioni, Atina, FR

forma a “L” aperta verso la valle, che provoca una piacevole dissimmetria e va ad esaltare il panorama verso le montagne del Parco Nazionale d’Abruzzo. Ancora, le ampie vetrate della zona giorno, da cui si accede al porticato, mettono in relazione lo spazio interno e lo spazio esterno. Le limitazioni delle norme urbanistiche hanno fatto sì che gli spazi interni risultassero misurati ed essenziali, ma non hanno impedito al committente, che nel caso specifico coincide con il progettista, di soddisfare le proprie esigenze. V.R. - L’edificio si compone di due volumi ben distinti, uno per la zona notte e uno per la zona giorno. A.I. - La zona giorno, comprendente il soggiorno–pranzo e la cucina, è posta al piano terra ed af-

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Fulcro dell’idea originaria del progetto erano la fusione con il paesaggio e l’esaltazione della bellezza dello stesso. La forma viene dettata dalla posizione in cui l’edificio viene ubicato, dall’affaccio verso la Valle di Comino: di qui la forma a “L” aperta verso la valle, che provoca una piacevole dissimmetria e va ad esaltare il panorama verso le montagne del Parco Nazionale d’Abruzzo...

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faccia sul portico antistante con un’ampia vetrata. Questa parte dell’edificio è realizzata con una struttura in acciaio che caratterizza tutto il porticato (la cui copertura è sostenuta da sottili pilastri ancorati a terra con cerniere), conferendogli leggerezza ed eleganza in contrapposizione al volume della zona notte, più chiuso e con struttura in cemento armato. La zona notte, con pareti ventilate rivestite a doghe orizzontali, è costituita da una camera padronale, con bagno e cabina armadio, da altre due camere e servizi. Le camere sono servite da un lungo corridoio da cui, attraverso una piccola scala a chiocciola, si accede al sottotetto adibito a stanza “dell’architetto”. Qui una porta finestra apre su un terrazzo che affaccia verso la Valle di Comino. Tra i due blocchi, l’ingresso; di fronte al portone d’ingresso, una scala dalle linee pulite ed essenziali che conduce al piano seminterrato, dove sono i garage, il lo-

cale tecnico, la lavanderia, la cantina e un locale di servizio. V.R. - Non dev’essere stato facile dimostrare che si possono proporre soluzioni alternative valide ed efficaci anche lontano dalle forme consolidate e consuete della tipologia edilizia residenziale. A.I. - C’è equilibrio misurato tra i due blocchi, tra le superfici rivestite e non, tra pieni e vuoti. Completa questo equilibrio la presenza del verde: un giardino curato ma molto naturale con prato e piante di ulivi, che circonda l’architettura e apre la vista al paesaggio. In questo edificio, oltre alla grande padronanza compositiva e alla conoscenza tecnologica, il progettista ha dimostrato coraggio nel proporre un’architettura che si contrappone alla forma del costruito molto radicato al territorio e da cui spesso si fa fatica ad uscire. Ma d’altronde il ruolo dell’architetto è anche questo... osare. Grazie Enrico.


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ALTRI LI NG UAG G I

di Stefano Manlio Mancini

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ispetto ad alcuni decenni fa, la condizione femmi-

addirittura uccisa per mere deficienze sul piano

nile è variata moltissimo. Tuttavia, anche se sul

etico e culturale. Questa considerazione costitui-

piano dei diritti l’uguaglianza con l’uomo è stata

sce un motivo ulteriore per rivisitare la vicenda

acquisita, si verificano ancora episodi di discrimi-

umana e professionale di Artemisia Gentileschi,

nazione in ambito lavorativo e sociale. Alle grandi

grande donna e artista geniale, vivace interprete

difficoltà che ne derivano, si aggiungono ancora

del suo tempo, alla quale nel 2016 fu dedicata una

pregiudizi e violenze. Sono numerosi i casi in cui

prestigiosa mostra a Roma, negli spazi di Palazzo

la donna viene minacciata, stuprata, violentata o

Braschi1 [n.d.r.].

Premesse: il padre Orazio e Roma - Artemisia Gentileschi nacque a Roma l’8 luglio 1593 da Orazio e Prudenzia di Ottaviano Montoni, primogenita di quattro figli e unica femmina, era quella dotata di mag-

Artemisia era una città fremente, in pieno cambiamento. La città eterna era in quel momento poi un grande centro artistico e la sua atmosfera colma di cultura e di arte costituiva un ambiente

cantieri), a svariati interventi urbanistici (i quali sovrapposero all’antica e angusta città medievale la progettazione di una nuova maglia funzionale di strade più larghe ed efficienti, scandite da immense

Artemisia Gentileschi e il suo tempo gior talento. Orazio Gentileschi era un pittore nativo di Pisa dagli iniziali stilemi tardo-manieristi che, stando a quanto ci riferisce il critico Roberto Longhi, prima di trasferirsi a Roma “[…] non dipingeva, ma lavorava semplicemente di pratica, a fresco”2. Fu solo dopo l’arrivo nell’Urbe che la sua pittura toccò il suo vertice espressivo, risentendo grandiosamente delle innovazioni del contemporaneo Caravaggio, dal quale trasse l’abitudine di servirsi di modelli reali, senza idealizzarli o addolcirli e, anzi, trasformandoli in una potente quanto realistica drammaticità. La Roma degli anni giovanili di

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unico in Europa. La Riforma Cattolica, in effetti, costituì per l’Urbe un’eccezionale spinta propulsiva, e portò al restauro di numerose

“Finché sarò in vita avrò sempre il controllo della mia essenza” (Artemisia Gentileschi)

chiese paleocristiane (e, dunque, a un sostanziale incremento di committenze, che coinvolse tutte le maestranze impegnate in quei

piazze e abbellite da sontuose residenze gentilizie), al miglioramento del sistema di circolazione dell’acqua e alla realizzazione di nuove fontane. Roma era molto vivace anche dal punto di vista sociale: nonostante l’alta densità di mendicanti, ladri e prostitute, in città accorrevano numerosi pellegrini (che sentivano il richiamo della città santa con l’evidente intento di consolidare la propria fede, visitando i vari luoghi sacri) e molti artisti, di cui parecchi fiorentini (durante il Cinquecento, infatti, ben due Medici salirono al soglio pontificio, rispettivamente sotto il nome di Leone X e Clemente VII)3.

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1. Artemisia Gentileschi, “Autoritratto in veste di Pittura” (1638-39); olio su tela, 98,6×75,2 cm. Londra, Kensington Palace. 2. Artemisia Gentileschi, “Ritratto di gonfaloniere” (1622); olio su tela, 208×128 cm. Bologna, Collezioni Comunali d’Arte, Palazzo d’Accursio.

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Fanciullezza - Battezzata due giorni dopo la sua nascita nella chiesa di San Lorenzo in Lucina, la piccola Artemisia diventò orfana di madre nel 16054. Fu verosimilmente in questo periodo che ella si accostò alla pittura: incoraggiata dal talento del padre, la bambina spesso lo osservava affascinata mentre si cimentava con i pennelli, fino a sviluppare una venerazione totale e una lodevole voglia di emulazione. La formazione della Gentileschi avvenne, nell’ambito artistico romano, proprio sotto la guida del padre, che fu perfettamente in grado di sfruttare al massimo il precoce talento della figlia. Ripercorrendo il percorso didattico proprio degli aspiranti pittori del tardo Rinascimento, Orazio avviò la figlia all’esercizio della pittura

per prima cosa spiegandole come predisporre i materiali adoperati per l’esecuzione dei dipinti: la macinazione dei colori, l’estrazione e la purificazione degli oli, il confezionamento dei pennelli con setole e pelo animale, l’approntamento delle tele e la trasformazione in polvere dei pigmenti furono tutte pratiche che la piccola metabolizzò nei primi anni. Appresa una certa confidenza con gli strumenti del mestiere, Artemisia perfezionò le proprie capacità pittoriche soprattutto attraverso la copia delle xilografie e dei dipinti che il padre aveva sotto mano – non era raro, per gli atelier dell’epoca, essere forniti di incisioni di personaggi come Marcantonio Raimondi e Albrecht Dürer – e, contestualmente, sostituì la madre ormai defunta

nelle diverse incombenze della conduzione familiare, dalla gestione della casa e del vitto all’assistenza dei suoi tre fratelli minori. Frattanto, la Gentileschi fece propri stimoli decisivi anche dalla intensa scena artistica capitolina: fondamentale fu la conoscenza della pittura di Caravaggio, artista che aveva sbalordito il pubblico realizzando gli scandalosi dipinti nella cappella Contarelli in San Luigi dei Francesi, inaugurata nel 1600, quando Artemisia non aveva che sette anni5. Alcuni critici del passato hanno addirittura supposto l’ipotesi di una frequentazione diretta tra la Gentileschi e Caravaggio, che spesso visitava lo studio di Orazio per procacciarsi le travi da sostegno per le proprie opere6. Molti, tuttavia, ritengono questo particolare poco credibile alla luce delle incalzanti restrizioni paterne, a causa delle quali Artemisia studiò la pittura confinata entro le mura domestiche, non potendo servirsi degli stessi percorsi di apprendimento intrapresi dai colleghi maschi: la pittura, all’epoca, era infatti reputata una pratica quasi esclusivamente maschile, e non femminile. Pur tuttavia, la Gentileschi subì ugualmente l’influsso della pittura caravaggesca, anche se mutuato attraverso le pitture del padre7. Nel 1608-1609 il rapporto tra Artemisia e il padre mutò da un discepolato ad una collaborazione attiva: la Gentileschi, infatti, incominciò ad intervenire su alcune tele paterne, per poi creare piccole opere d’arte autonomamente (anche se di dubbia attribuzione), dove dà prova di aver recepito e assimilato gli insegnamenti del maestro. Fu nel 1610 che concepì quella che secondo vari critici è la tela che sancisce ufficialmente l’entrata della Gentileschi nel mondo dell’arte: si tratta del notevole Susanna e i vecchioni. Nonostante i differenti dibattici critici – molti, infatti, sospettano a ragione aiuti da parte del padre, deciso a far conoscere le precoci qualità artistiche della figlia-allieva – l’opera si può ben reputare la prima prova artistica di rilievo della giovane


Artemisia. La tela lascia inoltre intuire “come, sotto la guida paterna, Artemisia, oltre ad assimilare il realismo del Caravaggio, non sia stata indifferente al linguaggio della scuola bolognese, che aveva preso le mosse da Annibale Carracci”8. Anche se i pochi documenti giunti fino a noi non ci danno notizie particolareggiate sulla formazione pittorica di Artemisia, si può supporre che abbia avuto origine nel 1605 o nel 1606 e che sia culminata intorno al 1609. Questa datazione viene confermata da diverse fonti: innanzitutto, una nota lettera che Orazio inviò alla granduchessa di Toscana il 3 luglio 1612, nella quale egli asseriva con vanto che la figlia in soli tre anni di apprendistato aveva raggiunto una perizia paragonabile a quella di artisti maturi:9 “Questa femina, come è piaciuto a Dio, havendola drizzata nelle professione della pittura in tre anni si è talmente appraticata che posso adir de dire che hoggi non ci sia pare a lei, havendo per sin adesso fatte opere che forse i prencipali maestri di questa professione non arrivano al suo sapere”. Da questa missiva, dunque, possiamo facilmente desumere che la Gentileschi sia diventata artisticamente matura tre anni prima del 1612, cioè nel 1609. Ad avvalorare questa tesi c’è un’altra fonte, ossia la ricca documentazione che ricorda le diverse committenze rivolte a Orazio Gentileschi posteriori al 1607: ciò lascia immaginare proprio che la figlia abbia cominciato a collaborare con lui a partire da questa data circa. Certo è che la Gentileschi nel 1612 era ormai divenuta un’esperta pittrice, a tal punto che suscitò perfino l’ammirazione di Giovanni Baglione, uno dei suoi biografi più conosciuti, il quale scrisse che: “Lasciò egli figliuoli, ed una femmina, Artemisia nominata, alla quale egli imparò gli artificj della pintura, e particolarmente di ritrarre dal naturale, sicché buona riuscita ella fece, e molto bene portossi”. (Giovanni Baglione10) Cresciuta quindi nel mondo del naturalismo caravaggesco, Arte-

misia si formò, come abbiamo già detto, nella bottega paterna, che primeggiava nella riproduzione realistica di materiali e particolari quotidiani. La giovane poi acquisì da Orazio l’attitudine a registrare tutto ciò che osservava e sviluppò una notevole capacità di ritrarre la figura umana, che è il tratto per il quale è più conosciuta ed apprezzata. Lo stupro - Questa sua innata inclinazione per le Belle Arti fu motivo di vanto e d’orgoglio per il padre Orazio, che nel 1611 decise di assegnarle come guida Agostino Tassi, un virtuoso della prospettiva in trompe-l’œil con cui collaborava all’esecuzione della loggetta della sala del Casino delle Muse, a palazzo Rospigliosi. Agostino “lo smargiasso” – come era spesso soprannominato – era sì un pittore talentuoso, ma aveva un’indole irascibile e sanguigna e un passato più che burrascoso: oltre ad essere implicato in diverse traversie giudiziarie, era un furfantesco sperperatore e per di più fu anche mandante di svariati omicidi11. Malgrado ciò, Orazio Gentileschi aveva grande ammirazione di Agostino, che frequentava costantemente la sua abitazione, e fu felicissimo quando acconsentì ad avviare Artemisia alla prospettiva. I fatti, però, presero un andamento tutt’altro che piacevole. Tassi, infatti, perse la testa per Artemisia (che all’epoca aveva solo diciotto anni) e tentò di sedurla diverse volte, sebbene la sua passione non fosse assolutamente corrisposta. Egli, infatti, era volto ad una strumentalizzazione erotomane del corpo femminile, e, quando, nel maggio del 1611, subì l’ennesimo rifiuto, approfittò dell’assenza di Orazio e stuprò Artemisia. Questo evento doloroso, universalmente famoso, condizionò in modo tragico la vita e la carriera artistica della Gentileschi che, vistasi portare via la propria verginità, restò sconvolta12. L’efferato stupro avvenne nell’abitazione dei Gentileschi in via della Croce, con la compiacenza di Cosimo Quorli, furiere della camera apostolica, e di una tale Tuzia,

vicina di casa che, in assenza di Orazio, era solita accudire la ragazza. Artemisia raccontò l’avvenimento con parole agghiaccianti: “Serrò la camera a chiave e dopo serrata mi buttò su la sponda del letto dandomi con una mano sul petto, mi mise un ginocchio fra le cosce ch’io non potessi serrarle et alzatomi li panni, che ci fece grandissima fatiga per alzarmeli, mi mise una mano con un fazzoletto alla gola et alla bocca acciò non gridassi e le mani quali prima mi teneva con l’altra mano mi le lasciò, havendo esso prima messo tutti doi li ginocchi tra le mie gambe et appuntendomi il membro alla natura cominciò a spingere e lo mise dentro. E li sgraffignai il viso e li strappai li capelli et avanti che lo mettesse dentro anco gli detti una stretta al membro che gli ne levai anco un pezzo di carne”. (Artemisia Gentileschi13) Il processo - Dopo aver stuprato la ragazza Tassi arrivò perfino a blandirla con la promessa di sposarla, così da porre rimedio al disonore causato. Occorre rammentare che all’epoca vi era l’opportunità di estinguere il reato di violenza carnale allorché fosse stato seguito dal cosiddetto “matrimonio riparatore”, contratto tra l’accusato e la persona offesa: d’altra parte, all’epoca, si riteneva che la violenza sessuale danneggiasse una generica moralità, senza oltraggiare in primo luogo la persona, sebbene questa fosse “coartata nella sua libertà di decidere della propria vita sessuale”14. Artemisia cedette dunque alle lusinghe del Tassi e si comportò more uxorio, seguitando ad avere rapporti intimi con questi, nella speranza di un matrimonio che non avvenne mai. Orazio, da parte sua, non fiatò sull’episodio, sebbene Artemisia l’avesse informato immediatamente. Fu soltanto nel marzo del 1612, quando la figlia scoprì che Tassi era già sposato, e quindi impossibilitato al matrimonio, che il padre si infuriò per lo sdegno e, nonostante i rapporti professionali che lo legavano al

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3. Artemisia Gentileschi, “Giuditta decapita Oloferne” (1617); olio su tela, 158,8×125,5 cm. Napoli, Museo Nazionale di Capodimonte. 4. Artemisia Gentileschi, “Nascita di San Giovanni Battista” (1635 ca.); olio su tela, 164×258 cm. Madrid, Museo del Prado. 5. Artemisia Gentileschi, “Giuditta e la fantesca Abra” (1613 ca.); olio su tela, 114×93,5 cm. Firenze, Galleria Palatina, Palazzo Pitti. 6. Artemisia Gentileschi, “Giuditta con la sua ancella” (1625-27); olio su tela, 182,2×142,2 cm. Detroit, The Detroit Institute of Arts. 6

Tassi, inviò una rovente querela a papa Paolo V per sporgere denuncia al suo perverso collega, accusandolo di aver deflorato la figlia contro il suo volere15. La petizione così recitava: “Una figliola dell’oratore [querelante] è stata forzatamente sverginata e carnalmente conosciuta più et più volte da Agostino Tasso pittore et intrinseco amico et compagno del oratore, essendosi anco intromesso in questo negozio osceno Cosimo Tuorli suo furiere; intendendo olre allo sverginamento che il medesimo Cosimo furiere con sue chimere abbia cavato dalle mane della medesima zitella alcuni quadri di pitture di suo padre et in specie una Juditta di capace grandezza. Et pechè, B[eatissimo] P[adre], questo è un fatto così brutto et commesso in così

grave et enorme lesione et danno del povero oratore et massime sotto fede di amicizia che del tutto si rende assassinamento”16. Fu così che iniziò la vicenda processuale a carico del Tassi. La Gentileschi era ancora fortemente sconvolta dall’abuso sessuale, che non soltanto la condizionava sotto il profilo professionale, ma la umiliava come persona e, oltre a ciò, infangava il buon nome della famiglia. Ciò nonostante ella affrontò il processo con una apprezzabile dose di coraggio e forza di spirito: ciò non fu cosa da poco, tenendo conto che l’iter probatorio fu tortuoso, intricato e particolarmente aggressivo. Il corretto andamento dell’attività giudiziaria, infatti, fu continuamente pregiudicato dall’impiego di falsi testimoni che, noncuranti dell’eventualità di un’ac-

cusa per calunnia, mentirono sfacciatamente sulle circostanze conosciute pur di ledere la reputazione della famiglia Gentileschi17. Artemisia, secondo la consuetudine, fu inoltre costretta parecchie volte a visite ginecologiche lunghe ed umilianti, durante le quali il suo fisico fu sottoposto alla eccessiva curiosità della plebe di Roma e agli attenti occhi di un notaio addetto a stilarne il verbale: le sedute, in ogni caso, provarono una concreta lacerazione dell’imene accaduta quasi un anno prima18. Per appurare l’attendibilità delle dichiarazioni rese, le autorità giudiziarie ordinarono addirittura che la Gentileschi fosse soggetta ad un interrogatorio sotto tortura, così da accelerare – secondo la mentalità giurisdizionale diffusa dell’epoca – l’accertamento della

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verità. Il supplizio scelto per l’occasione era quello cosiddetto “dei sibilli”, e consisteva nel legare i pollici con delle cordicelle che, con l’azione di un randello, si stringevano sempre di più fino a stritolare le falangi. Con questa dolorosa tortura Artemisia avrebbe corso il rischio di restare priva delle dita per sempre, danno enorme per una pittrice della sua grandezza. Lei però voleva vedere ammessi i propri diritti e, nonostante i dolori che fu costretta a soffrire, non ritrattò la sua deposizione19. Fu così che il 27 novembre 1612 le autorità giudiziarie condannarono Agostino Tassi per “sverginamento” e, oltre a ingiungergli una sanzione pecuniaria20, lo condannarono a cinque anni di reclusione o, in alternativa, all’esilio perpetuo da Roma, a sua completa discrezione. Come era prevedibile, lo smargiasso scelse l’allontanamento, pur tuttavia non scontò mai la pena: egli, infatti, non si allontanò mai da Roma, poiché i suoi potenti committenti romani reclamavano la sua presenza fisica in città. Ne risultò che la Gentileschi vinse il processo solo de iure e, al contrario, la sua reputazione a Roma era completamente compromessa: erano molti i romani a prestare fede ai testimoni prezzolati del Tassi e a considerare la Gentileschi una “puttana bugiarda che va a letto con tutti”21. Sconcertante fu anche la quantità di sonetti licenziosi che videro la pittrice protagonista22. Nonostante il trauma, in questo periodo arduo Artemisia realizzò alcune delle sue opere più ispirate, tra cui la Danae (1612 ca.). Risulta difficile stabilire con sicurezza quali altri pittori l’artista conoscesse direttamente ma è certo che la pittrice recepì i gesti eloquenti, la luce drammatica e gli scorci intimi che caratterizzavano il linguaggio visivo della pittura romana del tempo. Artemisia a Firenze - Il 29 novembre 1612, precisamente il giorno seguente al triste epilogo del processo, Artemisia Gentileschi si sposò con Pierantonio di Vincenzo Stiattesi, un pittore fiorentino

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di modesto livello che “[…] ha la fama d’uno che vive d’espedienti più che del suo lavoro d’artista”23: le nozze, celebrate nella chiesa di Santo Spirito in Sassia, furono completamente organizzate da Orazio, il quale volle predisporre un matrimonio riparatore, in pieno ossequio con la morale dell’epoca, in maniera da restituire ad Artemisia, stuprata, illusa ed offesa dal Tassi, uno status di sufficiente onorabilità. Dopo aver firmato il 10 dicembre di quello stesso anno una procura al fratello notaio Giambattista, cui affidò la gestione dei suoi affari economici romani, Artemisia si trasferì immediatamente con il novello sposo a Firenze, così da allontanarsi per sempre da un padre troppo oppressivo e lasciarsi alle spalle un passato da scordare. Abbandonare Roma fu una scelta sulle prime dolorosa, ma enormemente liberatoria per la Gentileschi, che nella città medicea ebbe un incoraggiante successo. Firenze in quel momento stava attraversando un periodo di vivace fermento artistico, soprattutto grazie alla politica illuminata e al gusto raffinato di Cosimo II de’ Medici, valente governatore che si dilettava con grande sensibilità anche di poesia, musica, pittura e scienza, rivelando un gusto dilagante in particolare per il naturalismo caravaggesco. La Gentileschi fu introdotta nella corte di Cosimo II dallo zio Aurelio Lomi, fratello di Orazio24 e, una volta giunta nell’ambiente mediceo, impegnò le sue migliori energie per avere intorno a sé le intelligenze culturalmente più vivaci, gli ingegni più aperti, intessendo una fitta rete di relazioni e di scambi. Tra i suoi amici fiorentini vi erano le più illustri personalità del tempo, fra cui lo scienziato pisano Galileo Galilei (1564-1642), con il quale intraprese una fitta corrispondenza epistolare, e Michelangelo Buonarroti il Giovane (1568-1646), nipote del famoso artista. Quest’ultimo fu un personaggio di fondamentale rilievo per la maturazione pittorica di Artemisia: gen-

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7. Artemisia Gentileschi, “Allegoria dell’Inclinazione” (1615-16); olio su tela, 152×61 cm. Firenze, Casa Buonarroti. 8. Artemisia Gentileschi, “Susanna e i vecchioni” (1610); olio su tela, 170×119 cm. Pommersfelden, Collezione Graf von Schönborn.


tiluomo di corte vivamente immerso nelle vicende artistiche della sua epoca, il Buonarroti inserì la Gentileschi nell’élite dell’affascinante mondo fiorentino, le assicurò parecchie commissioni e la mise in contatto con altri potenziali clienti. Di questo produttivo legame artistico ed umano – basti considerare che Artemisia definiva Michelangelo “compare” e si reputava una “figliola” legittima – ci resta la splendida Allegoria dell’Inclinazione, opera commissionata dal Buonarroti alla giovane pittrice cui destinò la notevole cifra di trentaquattro fiorini. Il trionfale riconoscimento delle qualità pittoriche della Gentileschi raggiunse l’apice il 19 luglio 1616, quando fu ammessa – prima donna della storia – alla prestigiosa Accademia del Disegno di Firenze, istituzione alla quale sarebbe rimasta iscritta fino al 1620. Degno di nota era anche il legame della pittora con l’attività mecenatistica di Cosimo II, il quale in una lettera del marzo 1615 indirizzata al Segretario di Stato Andrea Cioli ammise chiaramente che si trattava di “un’artista ormai molto conosciuta a Firenze”25. Il soggiorno in Toscana, in sostanza, fu molto fruttuoso e prolifico per la Gentileschi, che in questa maniera ebbe finalmente modo di far prevalere per la prima volta la sua personalità pittorica: basti pensare che il cognome scelto durante gli anni fiorentini fu “Lomi”, in relazione ad una ferma volontà di affrancarsi dalla figura del padre-padrone. La stessa cosa non si può dire per la sua vita privata, che contrariamente fu molto avara di soddisfazioni. Lo Stiattesi, infatti, era molto algido dal punto di vista affettivo, e fu presto chiaro come il loro matrimonio fosse regolato da rapporti di pura convenienza piuttosto che dall’amore. Egli del resto si rivelò un gestore fallimentare del patrimonio finanziario familiare e giunse ad accumulare enormi debiti. Artemisia, nello sforzo di ristabilire una situazione economica decorosa, fu costretta addirittura a rivolgersi alla benevolenza di

Cosimo II per ripianare una sanzione di mancato pagamento. Il matrimonio con lo Stiattesi fu comunque allietato dalla nascita del primogenito Giovanni Battista (20 settembre 1613), seguito da Cristofano (8 novembre 1615) e dalle figlie Prudenzia (spesso ricordata come Palmira; nata il 1º agosto 1617) e Lisabella (13 ottobre 16189 giugno 1619)26. In questo periodo Artemisia realizzò La Conversione della Maddalena (1616-17 ca.), Giuditta che decapita Oloferne (1620-21 ca.), Giuditta decapita Oloferne (1617). A proposito della tela di Giuditta che decapita Oloferne, ambientata in una scena notturna e oggi agli Uffizi, scrive l’Argan che la “nota personale, nella lirica pittorica di Artemisia, è l’ambigua, cupa bellezza che s’accompagna, con contrasto tipicamente barocco, ad immagini di sangue e di morte: motivo all’origine caravaggesco, ma ripreso con un compiacimento letterario ben lontano dall’angoscia autentica del Caravaggio”27. E ancora, la pittrice “risolve la struttura compositiva della scena in un gruppo di figure compatto il cui fulcro drammatico è costituito dalla testa riversa di Oloferne. Il sangue sprizza a raggiera e cola sui candidi lini bianchi; Giuditta28 è materialmente aiutata dall’ancella. Il tema interpretato nei suoi aspetti più violenti supera in efferatezza le interpretazioni caravaggesche”29. Il ritorno a Roma e il soggiorno a Venezia - Ben presto, però, la Gentileschi meditò l’intenzione di andarsene dalla Toscana e tornare di nuovo nella nativa Roma. Questa voglia di fuga non fu suggerita unicamente dal successivo deterioramento dei rapporti con Cosimo II, ma anche dalle quattro gravidanze e dalla spaventosa situazione debitoria conseguente al tenore di vita lussuoso del marito, che aveva accumulato passività finanziare con bottegai, carpentieri, farmacisti. A completare questa serie di eventi vi fu lo scandalo che esplose quando si venne a sapere che Artemisia aveva intrecciato

un rapporto segreto con Francesco Maria Maringhi, amante con il quale trascorse notti infiammate dall’amore e dalla lussuria30. Furono tutte queste avvisaglie di un malessere, che Artemisia avvertiva come superabile solamente con il rientro a Roma: sarebbe tuttavia rimasta fortemente legata alla città toscana, come risulta dalle varie lettere spedite ad Andrea Cioli, cui domandò inutilmente di assicurarsi una chiamata a Firenze sotto la protezione dei Medici. Questo non fu sufficiente a distoglierla dal fare ritorno a Roma. Dopo aver richiesto nel 1620 il permesso al Granduca per recarsi nella città eterna in modo tale da riprendersi da “molte mie indisposizioni passate alle quali sono giunti anche non pochi travagli dalla mia casa e famiglia”, Artemisia fece ritorno nell’Urbe nel febbraio dello stesso anno, e nel 1621 si stabilì in un confortevole alloggio in Via del Corso con la figlia Palmira, il marito e alcune servitrici: tale ritorno in patria ci è testimoniato da una tela del 1622 denominata Ritratto di un gonfaloniere, quadro conosciuto oltretutto per essere uno dei suoi pochi dipinti datati31. A questo punto la Gentileschi non era più ritenuta una giovane pittrice priva di esperienza e intimorita, così come apparve agli occhi dei Romani dopo la ratifica del processo contro il Tassi: al contrario, al suo rimpatrio a Roma parecchi protettori, pittori e appassionati d’arte, sia italiani che stranieri, ammiravano con vero entusiasmo le sue capacità artistiche. Non più dominata dall’insopportabile personalità del padre, Artemisia in questi anni riuscì finalmente a frequentare assiduamente l’élite artistica di quel tempo, nel segno di un’interazione più libera con i colleghi ed il pubblico, ed ebbe la possibilità pure di conoscere per la prima volta lo smisurato patrimonio artistico romano, sia quello classico e protocristiano che quello dell’arte a lei contemporanea (non va dimenticato che il padre Orazio la segregava in casa per il suo essere donna).

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Nell’Urbe, infatti, la Gentileschi riuscì a stringere rapporti di amicizia con autorevoli personalità dell’arte, e sfruttò maggiormente le opportunità offerte dal milieu pittorico romano per estendere i propri ambiti figurativi: ebbe saldi contatti principalmente con Simon Vouet e forse perfino con Massimo Stanzione, Jusepe de Ribera, Manfredi, Spadarino, Gramatica, Cavarozzi e Tournier. Siamo ben lontani, però, dal poter ricostruire facilmente i diversi sodalizi artistici intrecciati durante questo secondo soggiorno romano dalla Gentileschi. I fruttuosi risultati di questo ulteriore soggiorno nella città eterna sono evidenziati nella Giuditta con la sua ancella, un olio su tela oggi conservato a Detroit. Nonostante la salda fama artistica raggiunta, il carattere forte e la rete di ottimi rapporti, il soggiorno di Artemisia a Roma non fu però così ricco di commissioni come l’artista avrebbe voluto. L’apprezzamento della sua pittura era probabilmente limitato alla sua abilità di ritrattista e alla sua capacità di presentare le eroine bibliche: erano a lei precluse le considerevoli commesse dei cicli affrescati e delle grandi pale di altare. Ugualmente complicato, per l’assenza di fonti documentali, è seguire tutti gli spostamenti di Artemisia in questo periodo. È sicuro che tra il 1627 e il 1630 si trasferì, probabilmente alla ricerca di migliori commissioni, a Venezia: ciò è documentato dalle lodi a lei rivolte da letterati della città lagunare, che ne celebrarono calorosamente le qualità di pittrice. È da menzionare, infine, il probabile viaggio a Genova, che la Gentileschi avrebbe fatto in questo periodo, seguendo il padre Orazio. Si è supposto che Artemisia abbia accompagnato il genitore nella città ligure (anche per chiarire il persistere di un’affinità di stile che, a tutt’oggi, presenta difficoltà nell’attribuzione di taluni dipinti all’uno o all’altra); non vi sono mai state però sufficienti prove in merito, e sebbene diversi critici in passato siano stati affascinati dalla supposizione di un viaggio di Artemisia

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nella Superba, al giorno d’oggi questa ipotesi è definitivamente scartata, anche in seguito a vari rinvenimenti documentari e pittorici. Genova del resto non è ricordata nemmeno quando la Gentileschi, rivolgendosi a don Antonio Ruffo in una missiva datata 30 gennaio 1639, elenca le diverse città, nelle quali ha dimorato durante la sua vita: “Qualunque parte io sono stata mi è stato pagato cento scudi l’una la figura tanto a Fiorenza, quanto a Venetia e quanto a Roma e a Napoli”32. Il trasferimento a Napoli e la parentesi inglese - Nell’estate del 1630 Artemisia si diresse a Napoli33, ritenendo che vi potessero essere, in quella città piena di cantieri e di appassionati di belle arti, nuove e cospicue occasioni di lavoro. La Napoli dell’epoca, oltre ad essere capitale del viceregno spagnolo e la seconda metropoli europea per abitanti, dopo Parigi34, era arricchita da un rilevante ambiente culturale, che aveva visto nel secolo precedente l’imporsi di personalità del valore di Giordano Bruno, Tommaso Campanella e Giovan Battista Marino. Conservava, oltre a ciò, tracce di un grandissimo fervore creativo, che vi aveva concentrato artisti di grande fama, primi fra tutti Caravaggio, Annibale Carracci, Simon Vouet; vi operavano in quegli anni anche Jusepe de Ribera e Massimo Stanzione (poco tempo dopo vi sarebbero arrivati anche il Domenichino, Giovanni Lanfranco e altri ancora)35. Di lì a poco il trasferimento nella città partenopea fu definitivo e qui l’artista sarebbe rimasta – ad eccezione della parentesi inglese e di spostamenti temporanei – per il resto della sua esistenza. Napoli (anche se con una certa persistente nostalgia per Roma) fu così per Artemisia una specie di seconda patria, nella quale si occupò della sua famiglia (lì diede, infatti, marito, con adeguata dote, alle sue due figlie), riscosse dimostrazioni di grande considerazione, fu in buoni rapporti con il viceré Duca d’Alcalá,

ebbe rapporti di scambio alla pari con i maggiori artisti ivi presenti (a partire da Massimo Stanzione, con il quale ebbe un’intensa collaborazione artistica, motivata da una viva amicizia e da chiare consonanze stilistiche). Tra le prime opere dipinte nella Capitale meridionale, vi sono l’Annunciazione del 1630 (Museo di Capodimonte) e la Nascita di San Giovanni Battista del 1635, appartenente ad una serie di tele con storie del Santo (Museo del Prado) per l’Eremitaggio di San Giovanni nel parco del Buen Retiro a Madrid, realizzata su commissione del viceré, conte di Monterrey, da Massimo Stanzione, con l’intervento inoltre di Paolo Finoglio. A Napoli poi, per la prima volta, Artemisia riuscì a dipingere ben tre tele per una chiesa, la cattedrale di Pozzuoli, restaurata dopo l’eruzione del Vesuvio del 1631: l’Adorazione dei Magi, San Gennaro che placa le fiere nell’Anfiteatro Flavio e San Procolo con Nicea. Appartiene al primo periodo napoletano anche la tela Corisca e il satiro in collezione privata. In queste opere Artemisia dà prova, ancora una volta, di sapersi adeguare ai gusti artistici dell’epoca e di riuscire a mettersi alla prova con altri soggetti rispetto alle varie Giuditte, Susanne, Betsabee, Maddalene penitenti. Nel 1638 Artemisia si diresse a Londra, presso la corte di Carlo I. Quello inglese fu un soggiorno che fece interrogare a lungo i critici, dubbiosi per la breve durata del viaggio, tra l’altro poco documentato. Artemisia, infatti, era ormai fortemente radicata nel contesto sociale ed artistico di Napoli, dove spesso aveva committenze importanti da illustri mecenati, come Filippo IV di Spagna. L’esigenza di predisporre la dote per la figlia Prudenzia, prossima a sposarsi nell’inverno del 1637, la costrinse presumibilmente a tentare di trovare un modo per aumentare il proprio gettito finanziario. Fu perciò che, dopo aver esaminato inutilmente la possibilità di stabilirsi presso diverse corti italiane, decise di andare a Londra,


senza però eccessivo entusiasmo: la prospettiva di un soggiorno inglese, indubbiamente, non le appariva per niente allettante. A Londra la pittora raggiunse il padre Orazio, che frattanto era divenuto pittore di corte e aveva avuto l’incarico della decorazione di un soffitto (allegoria del Trionfo della Pace e delle Arti) nella Casa delle Delizie della regina Enrichetta Maria, a Greenwich. Dopo tanto tempo padre e figlia si ritrovarono uniti da un rapporto di collaborazione artistica, ma niente lascia supporre che la causa del viaggio londinese fosse solo quella di soccorrere il padre ormai anziano e malato. Indubbiamente Carlo I la pretendeva alla sua corte e un rifiuto era inevitabile. Carlo I era un appassionato collezionista, pronto a dilapidare il denaro pubblico pur di appagare le sue ambizioni artistiche. La notorietà di Artemisia doveva averlo attratto, e non è un caso che nella sua collezione ci fosse una tela della pittrice di grande fascino, l’Autoritratto in veste di Pittura. Artemisia riuscì ad avere pertanto a Londra una sua attività autonoma, che protrasse per un po’ di tempo anche dopo la morte del padre nel 1639, anche se non risultano opere attribuibili con sicurezza a questo periodo. È noto che nel 1642, ai primi sintomi della guerra civile, Artemisia aveva già abbandonato l’Inghilterra, dove del resto non aveva più senso rimanere dopo la morte del padre. Quasi niente si sa degli spostamenti seguenti. Certo è che nel 1649 era di nuovo a Napoli, in corrispondenza con il collezionista don Antonio Ruffo di Sicilia che fu sua guida e buon committente in questo secondo periodo napoletano. L’ultima missiva al suo mentore a noi nota è del 1650 e ci dà testimonianza di come l’artista fosse ancora in piena attività in questo momento. Artemisia si spense nella città partenopea il 14 giugno 1653. Esempi di opere attribuibili a questo successivo periodo napoletano sono un Trionfo di Galatea in collezione privata, realizzato grazie all’aiuto del modesto Onofrio Palomba, una

9. Artemisia Gentileschi, “Autoritratto come suonatrice di liuto” (1617-18 ca.); olio su tela, 65,5x50,2 cm. Hartford, Wadsworth Atheneum Museum of Art CT.

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Susanna e i vecchioni oggi a Brno, un’altra, sempre insieme al Palomba, alla Pinacoteca Nazionale di Bologna e una Madonna e Bambino con rosario conservata all’El Escorial. Artemisia fu sepolta presso la Chiesa di San Giovanni Battista dei Fiorentini a Napoli, sotto una lapide che recava due sole parole: “Heic Artemisia”. Allo stato attuale questa lapide, così come la sepoltura dell’artista, è andata perduta in seguito alla ricollocazione dell’edificio36. A lungo pianta dalle due figlie superstiti e da pochi amici carissimi, i denigratori non

persero invece occasione per screditarla con lo scherno. Tristemente famoso è il sonetto composto da Giovan Francesco Loredano e Pietro Michiele, che recita così: “Co’l dipinger la faccia a questo e a quello / Nel mondo m’acquistai merto infinito / Nel l’intagliar le corna a mio marito / Lasciai il pennello, e presi lo scalpello / Gentil’esca de cori a chi vedermi / Poteva sempre fui nel cieco Mondo; / Hor, che tra questi marmi mi nascondo, / Sono fatta Gentil’esca de vermi”. (Giovan Francesco Loredano, Pietro Michiele37).

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B I B L I O G R A F I A

TIZIANA AGNATI, Artemisia Gentileschi, in “Art e Dossier”, vol. 172, Giunti, 2001. EMMA BERNINI, ROBERTA ROTA, Storia dell’Arte. Il Cinquecento e il Seicento, Laterza, Bari 2001. JUDITH WALKER MANN, Artemisia e Orazio Gentileschi, Skira, Milano 2001. LUCA BORTOLOTTI, LOMI, Artemisia, in Dizionario biografico degli italiani, vol. 65, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma 2005, http://www.treccani.it/enciclopedia/artemisia-lomi_(Dizionario-Biografico)/. GIORGIO CRICCO, FRANCESCO PAOLO DI TEODORO, Il Cricco Di Teodoro. Itinerario nell’arte. Dal Barocco al Postimpressionismo, Versione gialla, Zanichelli, Bologna 2012. ANNA BANTI, Artemisia, con uno scritto di ATTILIO BERTOLUCCI, SE, Milano 2015. MARIALUISA VALLINO, VALERIA MONTARULI, Artemisia e le altre: miti e riti di rinascita nella violenza di genere, Armando Editore, Roma 2015.

Artemisia Gentileschi e il suo tempo, catalogo della mostra omonima, Skira, Milano, 2016. ELISA MENICHETTI, Artemisia Gentileschi libera da ogni stereotipo. Un talento versatile nella Napoli del Seicento, Università di Siena, 2016. N O T E

1. Tra i grandi eventi svoltisi a Roma tra il 2016 e il 2017, è da annoverare senza dubbio la mostra “Artemisia Gentileschi e il suo tempo”. È stato un viaggio nell’arte della prima metà del XVII secolo sulle tracce di una grande e vera donna. Una pittrice eccellente, un’intellettuale vivace, che non si limitava alla tecnica pittorica sublime, ma che seppe, quella tecnica, coniugarla secondo le esigenze dei diversi committenti, modificarla, dopo aver assimilato il meglio dai suoi contemporanei, così come dagli antichi maestri, pittori e scultori. L’esperienza umana e professionale di Artemisia Gentileschi, eccezionale artista e donna di carattere, entusiasma il pubblico anche perché ella è vista come una pioniera dell’affermazione del talento femminile, dotata di un temperamento e una volontà unici. Una dote che le consentì, giovanissima, arrivata a Firenze da Roma, prima del suo genere, di entrare all’Accademia delle Arti e del Disegno di Firenze; che le fece imparare, già grande, a leggere e scrivere, a suonare il liuto, a vivere il mondo culturale in senso lato; una volontà che le permise di superare le violenze familiari, le problematiche economiche; una libertà, la sua, che le concesse di scrivere lettere appassionate al suo amante Francesco Maria Maringhi, nobile raffinato quanto fedele e tenero compagno di una vita. Un’indole la sua, che anche sotto tortura (nel processo che il padre intentò al suo violentatore Agostino Tassi) le fece dire: “Questo è l’anello che tu mi dai et queste le promesse”, potendo così ironizzare, fino al limite del sarcasmo, sull’effimera promessa di un matrimonio riparatore. La mostra che si è aperta il 30 novembre 2016 al Museo di Roma a Palazzo Braschi, con il patrocinio del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo, promossa e prodotta da Roma Capitale, Assessorato alla Crescita culturale - Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali e Arthemisia Group e organizzata con Zètema Progetto Cultura, e che ha coperto l’intero arco temporale della vicenda artistica di Artemisia Gentileschi, ha consentito ai numerosissimi visitatori di ripercorrere vita ed opere dell’artista a confronto con quelle dei colleghi: circa 100 sono state in totale le opere in mostra, provenienti da ogni parte del mondo, da prestigiose collezioni private come dai più importanti musei,

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in un confronto serrato tra l’artista e i suoi colleghi, frequentati a Roma, come a Firenze, ancora a Roma e infine a Napoli, con quel soggiorno veneziano di cui molto è da esplorare, così come la breve e intensa parentesi londinese. L’esposizione, che è rimasta aperta fino al 7 maggio del 2017, è nata da un’idea di Nicola Spinosa ed è stata curata da quest’ultimo per la sezione napoletana, da Francesca Baldassari per la sezione fiorentina, e da Judith Mann per la sezione romana. È stata inoltre accompagnata da un catalogo edito da Skira, che presenta i diversi periodi artistici ed umani di Artemisia e riporta le schede delle opere esposte, frutto dei più recenti studi scientifici e degli ultimi documenti rinvenuti. Oltre quindi ai magnifici capolavori di Artemisia come la Giuditta che taglia la testa a Oloferne del Museo di Capodimonte di Napoli, Ester e Assuero del Metropolitan Museum di New York, l’Autoritratto come suonatrice di liuto del Wadsworth Atheneum di Hartford Connecticut, sono state esposte la Giuditta di Cristofano Allori della Galleria Palatina di Palazzo Pitti a Firenze o la Lucrezia di Simon Vouet del Národní galerie v Praze di Praga, solo per citarne alcuni: dopo i dipinti della prima formazione presso la bottega del padre Orazio, quelli degli anni fiorentini, evidenziati dai lavori dei pittori conosciuti alla corte di Cosimo de’ Medici, come Cristofano Allori e Francesco Furini, ma anche i punti di contatto con Giovanni Martinelli; altri recano ripercussioni, e non solo, della sua amicizia e frequentazione con Galileo Galilei, come del mondo, allora nascente, del teatro d’opera. Scandite all’interno di un itinerario cronologico, le opere posteriori di Artemisia sono state messe in relazione con quelle dei pittori attivi in quegli anni fecondi a Roma: Guido Cagnacci, Simon Vouet, Giovanni Baglione, fonti d’ispirazione rispetto ai quali la pittrice adegua, di volta in volta, il suo stile poliedrico e mutevole. A conclusione, i dipinti eseguiti nel periodo napoletano, quando ormai Artemisia può contare su una sua bottega e sulla protezione del nobile Don Antonio Ruffo (1610-1678), sono opere in cui, grazie ai confronti, si è potuto comprendere il suo rapporto professionale con i colleghi partenopei: da Jusepe de Ribera e Francesco Guarino a Massimo Stanzione, Onofrio Palumbo e Bernardo Cavallino; tele come la magnifica Annunciazione del 1630 – esposta anch’essa in mostra – emblematiche di questa fiorente contaminazione, scambio e confronto. Nella prima sezione della mostra le opere di Artemisia esposte sono state: Susanna e i vecchioni (1610), Danae (1612 ca.), Giuditta e la fantesca Abra (1613 ca.) accanto al David con la testa di Golia (1610 ca.) di Orazio Gentileschi e Maddalena in meditazione di Jusepe de Ribera. In mostra anche Giuditta consegna la testa di Oloferne alla serva di Giovanni Baglione, La morte di Cleopatra e Santa Cecilia di Antiveduto Gramatica, Giuseppe e la moglie di Putifarre (1610) di Lodovico Cardi detto Il Cigoli e Maddalena penitente di Carlo Saraceni. Le opere di Artemisia presenti nella seconda sezione sono state: La Conversione della Maddalena (1616-17 ca.), Giuditta che decapita Oloferne (1620-21 ca.), Giuditta decapita Oloferne (1617, da Capodimonte il cui prestito è stato concesso dal 17 febbraio 2017), Giaele e Sisara (1620); accanto superbe tele quali Giuditta con la testa di Oloferne (1620) di Cristofano Allori, Giuditta e la fantesca (1620 ca.) di Andrea Commodi, Pietà (1618) e Davide uccide Golia (1620-22 ca.) di Filippo Tarchiani, Venere piange la morte di Adone (1625-26 ca.) di Francesco Furini, Apollo che scortica Marsia (1630 ca.) di Bartolomeo Salvestrini, Noli me tangere (1618 ca.) di Battistello Caracciolo. L’opera di Artemisia esposta nella terza sezione invece è stata l’Aurora (1625 ca.), insieme ad Arianna abbandonata da Teseo nell’isola di Nasso (1625-30 ca.) di Francesco Morosini, detto il Montepulciano, Ghismunda riceve il cuore di Guiscardo (1635 ca.) di Mario Balassi, Olimpia abbandonata da Bireno (1640 ca.), Maddalena (1630 ca.) e Le tre Grazie (1635-40 ca.) di Giovanni Martinelli, Tarquinio e Lucrezia (1640 ca.) di Felice Ficherelli, detto il Riposo. Opere di Artemisia presenti nella quarta sezione sono state:


Santa a mezzo busto (1630 ca.), Ritratto di gonfaloniere (1622), Ritratto di dama con ventaglio (1620-25 ca.) insieme ad opere quali Il suicidio di Lucrezia (1624 ca.) e La circoncisione (1622) di Simon Vouet, Giuseppe e la moglie di Putifarre (1620 ca.) e Giaele e Sisara (1620 ca.) di Giuseppe Vermiglio, Giuditta con la testa di Oloferne (1626) di Domenico Fiasella, Sibilla (1618-21 ca.) di Orazio Gentileschi, Salomè con la testa del Battista (162728) di Charles Mellin, David con la testa di Golia (1625-26 ca.) di Nicolas Regnier. Opere di Artemisia esposte nella quinta sezione sono state: Ester e Assuero (1626-29 ca.), Lasciate che i pargoli vengano a me (1629-30 ca.), Annunciazione (1630), Cleopatra (1640-45 ca.), Corisca e il satiro (1635-37 ca.), Maddalena penitente (1640-42 ca.), Nascita di San Giovanni Battista (1635 ca.) accanto ad opere come Salomè con la testa del Battista (1625 ca.) di Battistello Caracciolo, Madonna con il Bambino nella bottega di San Giuseppe (1640-42 ca.) e Compianto su Cristo morto (Pietà) (1633) di Jusepe de Ribera, Lucrezia (1630-35 ca.), Commiato di San Giovanni Battista dai suoi genitori (1634-35 ca.) e Loth e le figlie (1635-40 ca.) di Massimo Stanzione, Santa Lucia (1645 ca.), Santa Cecilia al cembalo (1640-45 ca.) e Maria Maddalena pentita (1640-50 ca.) di Francesco Guarino, Allegoria della pittura (1645) e Santa Lucia (post 1645) di Bernardo Cavallino, Giuditta mozza la testa di Oloferne (1635 ca.) di Filippo Vitale. Opere presenti nella sesta ed ultima sezione sono state, infine: Loth e le figlie (1628) di Orazio Gentileschi e Cleopatra (163940 ca.) di Artemisia Gentileschi. 2. R. LONGHI, Gentileschi padre e figlia (1916), Abscondita, Milano 2011, p. 17; E. MENICHETTI, Artemisia Gentileschi libera da ogni stereotipo. Un talento versatile nella Napoli del Seicento, Università di Siena, 2016, p. 6. 3. Artemisia Gentileschi in Wikipedia, l’enciclopedia libera, https://it.wikipedia.org/wiki/Artemisia_Gentileschi#Giovinezza. 4. L. BORTOLOTTI, LOMI, Artemisia, in Dizionario biografico degli italiani, vol. 65, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma 2005, http://www.treccani.it/enciclopedia/artemisia-lomi_(DizionarioBiografico)/. 5. Artemisia Gentileschi in Wikipedia, cit., https://it.wikipedia.org/ wiki/Artemisia_Gentileschi#Fanciullezza. 6. T. AGNATI, Artemisia Gentileschi, in “Art e Dossier”, vol. 172, Giunti, 2001, p. 13. 7. E. MENICHETTI, Artemisia Gentileschi libera da ogni stereotipo, cit., pp. 7-8. 8. Artemisia Gentileschi in Wikipedia, cit., https://it.wikipedia.org/ wiki/Artemisia_Gentileschi#Fanciullezza. 9. G. COLOSIO, L’Annunciazione nella pittura italiana da Giotto a Tiepolo, Teseo, Roma 2002, p. 632. 10. Le vite de’ pittori, scultori, architetti, ed intagliatori, dal pontificato di Gregorio 13. del 1572. sino a ‘tempi di papa Urbano 8. nel 1642. Scritte da Gio. Baglione romano. Con la vita di Salvator Rosa napoletano pittore, e poeta scritta da Gio. Batista Passari, nuovamente aggiunta, Napoli 1733, p. 245. 11. M. VALLINO, Artemisia Gentileschi: l’opera pittorica di una donna violata, in http://marialuisavallino.it/artemisia-gentileschilopera-pittorica-di-una-donna-violata/. 12. M. VALLINO, V. MONTARULI, Artemisia e le altre: miti e riti di rinascita nella violenza di genere, Armando Editore, Roma 2015, p. 179. 13. L. CORCHIA, Artemisia Gentileschi: la rivincita dell’arte, in http://restaurars.altervista.org/artemisia-gentileschi-la-rivincitadellarte/, 12 gennaio 2016; D. PASCARELLA, Artemisia Gentileschi, l’arte e lo stupro, in http://terredicampania.it/cultura/ artemisia-gentileschi-l-arte-lo-stupro/08/03/2016/. 14. Artemisia Gentileschi in Wikipedia, cit., https://it.wikipedia. org/wiki/Artemisia_Gentileschi#Il_processo. Cfr. anche M. TAZARTES: “[nel Seicento lo stupro] non [era] tanto la violenza sessuale, quanto la mancata promessa di matrimonio, dopo una relazione carnale con una donna vergine”, citato in A. DUSIO, Artemisia, tutto tranne che femminista e genio ..., in “Il Giornale”, 13 giugno 2016, http://www.ilgiornale.it/news/cultura/artemisia-

tutto-tranne-che-femminista-e-genio-926591.html. 15. Artemisia Gentileschi in Wikipedia, cit., https://it.wikipedia. org/wiki/Artemisia_Gentileschi#Il_processo. 16. Da un processo per stupro, in http://www.artemisiagentileschi.net/stupro.html, 2006. 17. Artemisia Gentileschi in Wikipedia, cit., https://it.wikipedia. org/wiki/Artemisia_Gentileschi#Il_processo; L. BORTOLOTTI, LOMI, Artemisia, in Dizionario biografico degli italiani, cit.. 18. S. VREELAND, La passione di Artemisia, Neri Pozza Editore, Vicenza 2009. “Io, Diambra Blasio, ho toccato ed esaminato la vagina di donna Artemisia e posso affermare che non è vergine. Lo so perché ho messo le dita dentro la sua vagina e ho trovato l’imene rotto. Posso dirlo per la mia esperienza di levatrice di dieci o undici anni”. 19. Artemisia Gentileschi in Wikipedia, cit., https://it.wikipedia.org/ wiki/Artemisia_Gentileschi#Il_processo. 20. M. DALLA POZZA, Il processo per stupro nel ‘600: il caso di Artemisia Gentileschi, in http://www.softrevolutionzine.org/ 2014/ il-processo-per-stupro-nel-600-il-caso-di-artemisia-gentileschi/?doing_wp_cron= 1516068302.45671892166137695312 50, 6 febbraio 2014. 21. A. D’AGOSTINO, Artemisia Gentileschi, una donna che sfidò il proprio tempo, in http://www.lundici.it/2014/07/artemisia-gentileschi-una-donna-che-sfido-il-proprio-tempo/, luglio 2014. 22. Da un processo per stupro, cit.; Artemisia Gentileschi in Wikipedia, cit., https://it.wikipedia.org/wiki/Artemisia_Gentileschi# Il_processo. 23. E. MENICHETTI, Artemisia Gentileschi libera da ogni stereotipo, cit., p. 11. 24. Orazio aveva preso a Roma il cognome “Gentileschi” invece di Lomi proprio per distinguersi dal fratellastro Aurelio, pure fecondo pittore. 25. T. AGNATI, Artemisia Gentileschi, cit., p. 21. 26. L. BORTOLOTTI, LOMI, Artemisia, in Dizionario biografico degli italiani, cit.; Artemisia Gentileschi in Wikipedia, cit., https://it.wikipedia.org/wiki/Artemisia_Gentileschi#A_Firenze. 27. G.C. ARGAN, Storia dell’arte italiana, vol. 3, RCS Sansoni Editore, Firenze 199220, p. 250. 28. Giovane e bella eroina ebrea che, secondo la tradizione biblica, liberò la propria città, Betulia, dai nemici, recandosi nel campo avverso, seducendo con la sua particolare avvenenza il loro generale, Oloferne appunto, e decapitandolo con la sua stessa spada. Cfr. P. ADORNO, L’arte italiana. Le sue radici greco-romane e il suo sviluppo nella cultura europea, vol. 2, G. D’Anna, Messina - Firenze 1992, p. 795. 29. E. STROCCHI, in Storia dell’arte italiana, diretta da C. BERTELLI, G. BRIGANTI, A. GIULIANO, vol. 3, Electa/Bruno Mondadori, Milano 1991, p. 289. 30. F. SOLINAS, Sono Artemisia e ardo d’amore, Il Sole 24 Ore, 18 settembre 2011, http://www.ilsole24ore.com/art/cultura/201109-17/sono-artemisia-ardo-amore-143920.shtml?uuid=AaJBYF5D&refresh_ce=1. 31. T. AGNATI, Artemisia Gentileschi, cit., p. 9. 32. Bollettino d’arte, Roma, https://archive.org/stream/bollettinodarte10italuoft/bollettinodarte10italuoft_djvu.txt; Artemisia Gentileschi in Wikipedia, cit., https://it.wikipedia.org/wiki/Artemisia_ Gentileschi#Di_nuovo_a_Roma_e_poi_a_Venezia. 33. A confermare questa cronologia restano alcune sue lettere del 23 e 24 agosto e del 21 dicembre 1630. 34. T. AGNATI, Artemisia Gentileschi, cit., p. 37. 35. M. BOSSE, A. STOLL, Napoli, Viceregno spagnolo. Una capitale della cultura alle origini dell’Europa moderna, Vivarium, Napoli 2001. 36. Vita & passioni di una “pitturessa”, Il Sole 24 Ore, 18 settembre 2011, http://www.ilsole24ore.com/art/cultura/2011-09-17/ vita-passioni-pitturessa-151339.shtml?uuid=AaOgcG5D. 37. R. LEFEVRE, Pittori, architetti, scultori, laziali nel tempo, Gruppo culturale di Roma e del Lazio, Palombi, Roma 1989, p. 191; Artemisia Gentileschi in Wikipedia, cit., https://it.wikipedia. org/wiki/Artemisia_Gentileschi#Napoli_e_la_parentesi_inglese.

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PROFESSIONE 46

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roppo spesso non teniamo in considerazione un pacchetto legislativo tra i più avanzati in Europa. Sono trascorsi ventotto anni dall’emanazione della Legge 104/ 92, che, sotto il profilo dell’accessibilità e del superamento delle barriere architettoniche, ha senza dubbio costituito, a suo tempo, un punto di riferimento ed un notevole arricchimento di quanto già disposto dai precedenti provvedimenti legislativi, con particolare riferimento alla L. 118/1971 e alla L. 13/1989, considerata certamente come “pietra miliare” rispetto ai diritti delle persone con disabilità. Al DM 236/89 è dato il compito di intervenire e chiarire alcuni aspetti fondamentali indispensabili alle soluzioni di progetto: - definire le barriere architettoni-

quella di essere fruibile comodamente, ed in modo sicuro, da parte del maggior numero possibile di persone. Ovvero da parte di un’utenza ampliata che comprenda anche anziani, bambini piccoli, incidentati, persone con disabilità, ecc. Questo aspetto rappresenta l’essenza dell’Universal Design, inteso come progettazione attenta e responsabile per qualsiasi tipo di prodotto/progetto. Tale atteggiamento culturale, peraltro ancora poco diffuso, se venisse generalizzato avrebbe evidentemente numerose ricadute positive sul sistema delle soluzioni tecniche, che devono essere considerate in modo trasversale e per ogni operazione progettuale, a qualsiasi scala, sia nell’ambito di nuove opere che nella modifica o recupero di spazi già costruiti. È necessario mettere in atto azioni

Focus accessibilità Un futuro per tutti che e i livelli di accessibilità, visitabilità e adattabilità; - introdurre la possibilità di ricorrere a “soluzioni tecniche alternative” rispetto alla progettazione sulla base del principio prestazionale. Tutto questo ha rappresentato un livello di innovazione invidiabile, che ha collocato la legislazione italiana del tempo tra le più innovative a livello internazionale. Le prescrizioni normative per l’accessibilità ed il superamento delle barriere architettoniche possono rivelarsi come una buona opportunità e un valore aggiunto per la realizzazione delle opere e per la loro agevole utilizzazione. In realtà qualsiasi operazione edificatoria deve anche avere tra le sue primarie finalità ed imprescindibili caratteristiche prestazionali,

e comportamenti per evitare che si continui a costruire e ristrutturare immobili o impianti realizzando, ancora oggi, ostacoli architettonici e/o facendoli permanere, limitando la corretta ed agevole possibilità d’uso ad un’ampia fascia di popolazione, peraltro in continua crescita. Promuoverne i diritti ed il benessere è una finalità che, alla luce dell’attuale pandemia, assume un significato ancora più profondo in quanto legato alle grandi difficoltà che le persone fragili stanno affrontando. Proprio dall’Onu è arrivato un messaggio in questa direzione, ricordando come le persone con disabilità rappresentino “uno dei gruppi più esclusi nella nostra società, tra i più colpiti in questa crisi in termini di vittime”. Occorre, pertanto, elevare il livello


generalizzato di attenzione e spingere verso una “normale” e diffusa cultura dell’accessibilità ed appare particolarmente urgente l’esigenza di provvedere, da parte di tutti gli enti pubblici, ad un’efficace e costante azione di informazione e “formazione permanente” di tutto il personale tecnico, con particolare riguardo alle progettazioni delle opere pubbliche e di quelle private aperte al pubblico. Tutte le prescrizioni per il superamento delle barriere architettoniche non devono essere considerate come un ulteriore vincolo alla buona progettazione: esse si configurano come un valore aggiunto finalizzato ad elevare gli standard qualitativi dell’opera. Questo perché potrà essere maggiormente godibile e risultare certamente più sicura per tutti. Reca la data del 7 dicembre 2020 la revisione del Testo Unico Edilizia, DPR 380/2001 da parte del tavolo tecnico istituito presso il Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici. Di fondamentale importanza è il recepimento totale di una serie di proposte di emendamento presentate dal CNAPPC, frutto del lavoro sinergico tra Gruppo Operativo Nazionale Accessibilità e Istituzioni. Tra le principali, l’inserimento nel testo dei principi della convenzione ONU sulle persone con disabilità (art. 133); il tentativo di superamento dello stereotipo della “barriera”, mettendo al centro la “persona”; l’integrazione del testo con le disabilità cognitive e sensoriali (art. 12); la conferma dei principi già presenti nelle norme vigenti, quali l’utilizzo di soluzioni alternative nella progettazione (art. 11), volte al superamento del concetto di applicazione delle nozioni dimensionali che sottolineano la disabilità. Gli emendamenti accolti sottolineano inoltre l’importanza della promozione della qualità della progettazione per tutti, della sostenibilità ambientale oltre all’accessibilità, che deve comprendere anche la visitabilità e l’adattabilità delle costruzioni (art. 1 e art. 8),

requisiti già presenti nelle norme vigenti. Appare rilevante, infine, che nella nuova progettazione o ristrutturazione di costruzioni ad uso pubblico, siano stati ampliati i sistemi e gli accorgimenti atti ad eliminare le barriere architettoniche (art. 133). Tutto ciò in linea con il Goal 10 dell’Agenda 2030, che punta alla eliminazione di leggi, politiche e pratiche discriminanti, e con la Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità del 2006 che, introducendo un vero e proprio cambio di paradigma nell’approccio al tema della disabilità, ha invitato gli Stati membri a ideare e implementare interventi che da una modalità settoriale e speciale approdino a un approccio globale. Anche a livello territoriale i singoli ordini hanno enormemente intensificato la loro azione di stimolo, informazione e verifica, nei con-

“Il passaggio a cui l’architettura deve giungere, per motivi estetici e non solo etici è quello di studiare uno spazio che possa parlare ed essere pienamente vissuto a vari livelli, dalle più svariate condizioni dell’uomo” (Giovanni Michelucci1)

fronti dei professionisti iscritti, per garantire che le progettazioni a tutti i livelli rispondano in maniera corretta alle diverse e cogenti prescrizioni normative. In quest’ottica la nostra realtà ordinistica ha intrapreso un virtuoso percorso, iniziato nel marzo 2019

con il Convegno “Progettazione Universale - la teoria e la pratica: obblighi professionali, norme, criteri progettuali e casi studio”, organizzato dall’OAPPC Frosinone, con il patrocinio dell’OAR, dell’Osservatorio Accessibilità dell’OAR, dell’Ordine degli Ingegneri della Provincia di Frosinone e con la società partner Benito Urban. Si è trattato dell’avvio di una ricerca per sollecitare un rinnovamento culturale sull’argomento, elevando il livello generalizzato di attenzione, e per spingere verso una “normale” e diffusa Cultura dell’accessibilità. L’OAPPC di Frosinone, con l’Osservatorio sull’Accessibilità per la Progettazione Universale dell’Ordine degli Architetti di Roma e l’OAR, è stato inoltre tra i promotori del 2o concorso fotografico “Obiettivo accessibilità”, e, con l’intera Federazione Architetti PPC Lazio, della 3a edizione di quest’anno. Ragionare in termini di “accessibilità”, intesa come possibilità di fruizione di luoghi e spazi, naturali o costruiti che siano, può aiutare molto a cambiare, o addirittura a rovesciare il punto di vista della questione. Poche settimane fa si è arrivati all’istituzione del secondo Osservatorio per l’Accessibilità d’Italia, dopo quello dell’OAR. Abbiamo creato un tavolo di lavoro integrato, finalizzato alla lettura delle criticità ambientali, che inficiano la fruibilità di spazi e servizi di pubblico interesse, e alla definizione di strumenti per indirizzare la pianificazione, programmazione, realizzazione e gestione di interventi su spazi e servizi per innalzarne il grado di accessibilità. Orientato allo sviluppo di processi e azioni innovative volte a migliorare l’accessibilità degli spazi urbani, a sensibilizzare l’opinione pubblica sulle problematiche della fruibilità della città e per diffondere la cultura dell’inclusione, il gruppo di lavoro rappresenta il primo processo partecipativo attuato sui temi dell’accessibilità nei comuni della Provincia di Frosinone. Si tratta di un esperimento che coin-

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1. Locandina del Convegno “Progettazione Universale la teoria e la pratica: obblighi professionali, norme, criteri progettuali e casi studio”, 28 marzo 2019, Sala Convegni, Palazzo della Provincia, Frosinone. Autore Dip. Formazione OAPPC FR. 2. Gruppo di lavoro, convegno “Progettazione Universale la teoria e la pratica: obblighi professionali, norme, criteri progettuali e casi studio”, 28 marzo 2019, Sala Convegni, Palazzo della Provincia, Frosinone. Autore Arch. Enzo Nuzzolo. 3. Locandina 2o concorso fotografico “Obiettivo Accessibilità”. Autore OAR. 4. Locandina 3o concorso fotografico “Obiettivo Accessibilità”. Autore OAR.

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volgerà con crescente interesse una discreta moltitudine di attori pubblici e privati. Un buon progetto di architettura deve necessariamente avere l’accessibilità come “punto di forza”. Esso, nei modi opportuni, deve proporsi come visibile immagine spaziale, rappresentativa e simbolica delle conquiste culturali del terzo millennio. Questi grandi temi dell’architettura, intesa anche come

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ineludibile missione sociale, interessano prima o poi tutti noi. Il semplice trascorrere del tempo modifica comunque fisiologicamente le caratteristiche e le conseguenti esigenze di ciascuno. Accessibilità è un termine che racchiude in sé un significato qualitativamente positivo di cui si dovrebbe connotare qualsiasi progetto a qualunque scala, dal contesto urbano fino al semplice elemento di arredo

o di design: ritengo che debba essere considerata come una caratteristica che oltre ad “eliminare per superare” sia in grado di “proporre per migliorare”.

Walter Casali Vice Presidente (Junior) N O T A

1. (G. Michelucci, Quaderni della Fondazione Giovanni Michelucci” n. 6/7 dicembre 1985, pag. 125).




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