Innovazione scientifica e tecnologica

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Dario Martini matr. 267526

corso di Storia dell’innovazione scientifica e tecnologica prof.ssa Raimonda Riccini / clasDIP / IUAV / AA. 2008/’09

L’essere umano si distingue dai suoi fratelli terrestri per una spiccata tendenza al linguaggio, alla logica, ed alla gestione di artifici profondamente complessi, nonché condivisi a livello di società. L’individuazione di queste tre categorie discriminanti non ha certo la presunzione dell’esaustività, ma va riconosciuto come traccino nella loro evoluzione fenomenologica, nei limiti del loro delinearsi puramente intuitivo, un profilo abbozzato ma già a tutto tondo della figura umana. E non certo nella loro analisi specifica e limitata, bensì nello studio dei processi di catalizzazione ed esaltazione reciproca, veri centri critici e cuori pulsanti della rete rizomatica di qualunque tipo di analisi sociologica: La proprietà di linguaggio affina e rinvigorisce gli strumenti dialettici, i quali a loro volta influenzano le scelte pratiche, che a loro volta costituiscono, come avremo modo di trattare in seguito in riferimento all’ambito specifico del disegno industriale, un banco di prova, di studio, e di rielaborazione dei contenuti e delle forme del pensiero, nonché un immaginario di riferimento per la genesi di approcci analitici nuovi e non di rado rivoluzionari rispetto alle precedenti tradizioni. Tutto questo in modo difficilmente prevedibile ed intimamente complesso. Perché non bastano le categorie epistemologiche del ragionamento induttivo e deduttivo a descrivere il percorso storico delle conseguenze dell’osservazione della realtà materiale. Come ebbe modo di constatare già nel 1975 Paul Feyerabend, nel suo celeberrimo e specialmente all’epoca controverso ‘Contro il Metodo’, lo stesso percorso scientifico non può prescindere da contaminazioni ed influenze contrarie all’apparente necessità di restare nel più assoluto rigore metodologico, croce e delizia della storia della scienza, nata come metodo per la ricerca di una verità oggettiva sulla natura delle cose, e spesso fossilizzata tra le sue stesse strutture portanti, in un accademismo tradizionalistico che difficilmente lascia spazio alla discutibilità del sistema, condizione necessaria per lo schiudersi di teorie effettivamente capaci di portare a significativi passi avanti nel ridisegno della logica del tutto. La scienza è un sistema logico, ma non certo un sistema indipendente. È anche ed innanzitutto un’attività umana, che non deve richiudersi nel suo specifico ma cercare, sempre pur restando nella coscienza della sua identità, quante più contaminazioni possibili con le altre sfere del pensiero. Non ritengo necessario per comprendere questa realtà guardare allo specifico degli esempi forniti da Feyerabend, poiché è più che sufficiente una conoscenza anche distratta delle grandi rivoluzioni scientifiche per rendersi conto di come esse non si sarebbero mai poste senza un intreccio culturale di ben altra eterogeneità. Una conclusione forse scontata ma certamente utile di questa mia riflessione può essere individuata nella necessità di superare la tradizionale contrapposizione tra ambiti metodologici e non, tra scienza ed arte, tra filosofia e poetica, contrapposizione che nello specifico dell’attività culturale inerente al disegno industriale ritengo già ampiamente superata, ma che perdura purtroppo in molte altre realtà, richiudendole nella loro riflessività storica e limitandole a timidi orizzonti di crescita. Scienza, filosofia, arte, letteratura, altro non sono che differenti direzioni concettuali dello stesso sistema culturale, figlie della stessa figura, l’uomo. Il centro di ognuna di esse è necessariamente l’uomo, e non solo per motivi etici, ma anche per il motivo prettamente pratico che slegando la centralità delle culture dal loro rapporto con l’uomo si perde la loro capacità di dialogo. È a questo punto lampante come il linguaggio scientifico ed il linguaggio artistico, ad esempio, siano solo in apparenza distinti e difficilmente comunicanti, se non addirittura contrapposti, perché la loro più intima ontologia è quella dello stesso linguaggio, il linguaggio umano, e la loro prospettiva di sviluppo è, parimenti, la stessa, ovvero la prospettiva sociale. Potrà sembrare una puntualizzazione inutilmente speculativa e praticamente inefficace, ma penso che sia evidente l’esatto contrario. Senza un inquadramento centrato sulla figura umana e sulla sua


natura molteplice, le culture perdono la conoscenza della loro interrelazione. E questo si risolve difficoltà di comunicazione, contrapposizioni inutili e controproducenti, e mancanza di vera evoluzione. L’evoluzione nasce in corrispondenza del confronto, della commistione, della comunicazione reciproca. E questo è esattamente ciò che riconosce ed evidenzia Iskender Gökalp nella sua ripresa del terzo modello di Aitken, centrato sull’interrelazione sottosistematica. Gökalp sostiene che ciò che Aitken chiama “mercati di interazione tra sottosistemi” altro non sia che lo spazio della comunicazione sociale. Il traduttore è l’uomo. È l’uomo che tesse la matassa dei sistemi e delle forme della loro interdipendenza, ed è la prospettiva sociale l’ambiente in cui l’evoluzione sistematica – di qualunque natura sia il sistema in analisi – progredisce e cambia morfologia. L’uomo è un animale sociale, ebbe modo di dire Seneca. E dai tempi di Seneca l’umanità ha cambiato il suo ambiente e le sue applicazioni, ma non certo la sua natura profonda. Linguaggio evoluto, competenza logica, e capacità di generare meccanismi protesici riconsegnano all’animale uomo la competitività senza la quale non avrebbe riscontrato il successo biologico. Secondo Arnold Gehlen l’uomo è “un animale incompiuto, indeterminato, carente”. Ma ha il pregio della versatilità. Informaticamente parlando, è una sorta di general purpose machine. È superiore a qualsiasi macchina in grado di eseguire compiti, poiché è capace di elaborarli. È meno specializzato a livello applicativo, ma molto più sofisticato speculativamente, e questo si realizza nella sua capacità di ingegnare situazioni applicative, strategie di risoluzione di problematiche, e di conseguenza di compensare quella stessa mancanza di adattamento con un’adattabilità estrema. In altra parole, la risposta evolutiva alla mancanza di una specializzazione è stata la capacità di specializzarsi flessibilmente. L’uomo non ha pregi fisiologici, ma proprio per questo, posto il fattore sovversivo dell’intelligenza astratta e materiale, non ha nemmeno limiti, è aperto al futuro. Sin dagli albori della sua storia, l’animale uomo ha saputo intessere una fitta rete di contatti e relazioni, veicolate non di rado da interfacce materiali di varia natura, dalla selce al personal computer. Il sistema di artefatti e protesi che si è progressivamente creato ha consentito all’uomo di risolvere problematiche trascendenti le potenzialità del singolo esemplare di homo sapiens, e ben presto è passato da supporto migliorativo a strumento indispensabile, enormemente più potente del singolo uomo. Il momento in cui, per dirla con la terminologia di Maldonado, autore di imprescindibili osservazioni sul tema, la techne ha superato l’uomo in potenza applicativa, è un elemento cardine della condizione contemporanea. La macchina diventa più potente dell’uomo, ed è così che l’uomo comincia ad averne paura, a sentirsi – e ad esserne effettivamente – condizionato, per non dire reso schiavo. Parlando di “potenza” della macchina intendo soltanto la sua energia intrinseca, la sua capacità di compiere determinate azioni, fisiche o elaborative che siano, di una determinata complessità, ma mi riferisco al significato fisico del termine, cioè energia nel tempo. La macchina non è soltanto in grado di svolgere compiti interdetti all’uomo, ma anche e soprattutto di svolgerli in tempi sempre più brevi, e di migliorare le sue capacità in modo esponenziale. Il tempo della macchina si sfasa così dall’orologio umano, rendendo il dialogo sempre più complesso da seguire. Ciò che un tempo avveniva in una decade è oggi in grado di realizzarsi in pochi mesi, per non dire giorni. La macchina accelera, mentre l’uomo è vincolato al suo tempo. E qualsiasi tentativo di accelerazione umana si rivela controproducente. Allo stato attuale dell’integrazione uomo-macchina, l’uomo è e rimane il frutto di un equilibrio biologico sostanzialmente statico. Ed è così che si sente inadeguato di fronte all’incedere della tecnica che egli stesso ha creato, e di cui fatica sempre più a tenere salde le redini. Questa condizione è ben raccontata dalla produzione letteraria ed artistica dello scorso secolo e del giorno d’oggi. Chi non ricorda Charlie Chaplin schiacciato da enormi ruote dentate, pesantissime strutture hardware, l’onnipresenza del Grande Fratello orwelliano, rappresentazione apocalittica della convergenza mediatica verso un sistema nato per essere circondato e gestito da uomini, e cresciuto fino a circondarli esso stesso, diventano un organismo unico e dittatoriale,


braccio perfetto di un ipotetico regime incontrollato, o il senso di profondissima impotenza che trasuda la trama di Minority Report, immagine di una società vittima ignara di un software capace di alterare il fluire degli eventi, apparentemente perfetto, ma praticamente suscettibile di errori, errori le cui conseguenze non possono essere evitate. La storia del cinema, forse più della stessa letteratura stampata, segue e rappresenta le più profonde inquietudini dell’uomo post-moderno, costituendone l’immaginario visuale. E se è vero che già il medium costituisce nel suo porsi un imprescindibile messaggio, allora è evidente come il sistema socio tecnico stia davvero superando qualunque barriera sociale. Già il semplice fatto che ciò che prima era discusso in sedi specifiche e con tempistiche accademiche da una cerchia ristretta di specialisti passi per schermi televisivi ed apparecchi mobili di proprietà di tutti, a qualsiasi ora ed in qualsiasi momento, comunica la crescente permeazione della techne nella sfera sociale, e la sua evoluzione slegata da qualunque controllo da parte dell’utente, che non può non seguire l’incedere della tecnica, non può non entrare nel sistema ed essere tanto avvantaggiato quanto reso schiavo dalle sue dinamiche, gestite da una assoluta minoranza, nelle cui mani è custodito il futuro dell’umanità. Dagli albori della tecnologia informatica la legge di Moore è sempre stata rispettata. Ogni due anni e mezzo le capacità elaborative del computer medio raddoppiano. Questo è in realtà il frutto di un lavoro ingegneristico non privo di difficoltà, momenti critici, periodi di stasi e ricrescita. Ma nonostante la difficoltà del compito ed i limiti fisici incontrati nel processo di miniaturizzazione, che costringono a ricerche elettrochimiche sempre più approfondite, e alla ricerca di materiali e processi produttivi sempre più sofisticati, l’andamento di crescita non è mai variato. Gli elaboratori sono diventati sempre più potenti, sempre più rapidi, sempre più sofisticati. Si stima che nel 2050 un singolo computer da $ 1,000 avrà un potere di calcolo superiore a quello dell’intera popolazione mondiale, geni compresi. E questo ipotizzando una popolazione ovviamente molto superiore a quella attuale. Altra osservazione: ci saranno indubbiamente molti più computer che abitanti. Uno scenario del genere impone grandi interrogativi. Chi ne detiene le chiavi? Ci è davvero sfuggito tutto di mano? Io penso di no. E la risposta è semplice. La tecnologia è nata per l’uomo e per l’uomo si è evoluta. Ha poi raggiunto livelli di potenza superiori a quelli del suo stesso creatore, ma senza di esso rimane una macchina inutile. La tecnologia deve essere libera di evolversi, ma si deve evitare una focalizzazione ristretta delle prospettive. Al pari della scienza, che non è schiava ma utente e madre del suo metodo, e la cui attività di ricerca, anche per quanto riguarda la ricerca pura, non è mai fine a se stessa, bensì destinata all’uomo, ai suoi bisogni, ai suoi interrogativi ed alla sua curiosità, la tecnologia deve smaltire l’ebbrezza del suo autocompiacimento e occuparsi ancora dell’uomo. La tecnologia non si evolve per una ragione intrinseca, ma per rispondere ai bisogni dell’uomo – siano essi bisogni primari o voluttà. Senza un’adeguata interfaccia con l’uomo la tecnologia è socialmente inutile, spreco di risorse, progresso apparente, poiché privo di effetti esterni. In questo quadro ritengo, e sono in questo supportato da tecnologi e uomini di cultura indubbiamente più a conoscenza della materia del sottoscritto, tra i quali posso citare lo stesso Maldonado, o più divulgativamente le posizioni critiche di Andrea Branzi, che il ruolo del design, ed in particolare della ricerca e della sperimentazione progettuale sviluppate intorno alle necessità dell’uomo e della sua dimensione, siano assolutamente centrali. Il design determina l’accettazione o meno di una tecnologia, e in un quadro di sana competizione merceologica basata sul design, evolve le posizioni critiche e la cultura materiale degli individui, che non secondariamente influenza il loro modo di porsi nei confronti della quotidianità, e non soltanto a livello comportamentale ed esteriore. Spesso la tecnologia gioca sul mito della quantità, dei numeri, delle prestazioni. Ebbene, le prestazioni lasciano il tempo che trovano. La qualità reale degli oggetti tecnici si determina in base a ben altri fattori. Il fattore determinante è l’uomo. L’uomo con il suo pensiero scientifico, artistico, filosofico. L’uomo con la sua individualità. L’unico modo per governare la tecnologia è la cultura. E non è sufficiente parlare di cultura tecnologica, bensì di cultura in senso lato. L’eccellenza nella sperimentazione tecnologica non si dimostra tale finché non incontra l’uomo. A


titolo d’esempio, la ricerca sui microprocessori, svolta oggi quasi monopolisticamente nel settore consumer da Intel, è un grande strumento, ma rischia di restare tale finché non incontra un progetto di altro livello e spessore, un’interfaccia. La qualità dei sistemi informatici risiede nella loro interfaccia. L’hardware è nulla senza il software, e la tecnologia è nulla senza cultura. Questo non è purtroppo compreso dalla maggior parte della popolazione, bensì da una cerchia tutto sommato estremamente ristretta. La rimanente quota parte si limita ad un livello di utenza. E questo rapporto di utenza tende silenziosamente all’inversione. Se la tecnologia era nata per servire l’uomo e la sua evoluzione, oggi è l’uomo che rischia di diventare strumento della tecnologia, del suo progresso privo di anima, e dei suoi organi, tra i quali spicca il mercato, argomento che meriterebbe accurate osservazioni, che qui non farò. L’unico strumento in grado di gestire l’iperbole tecnologica, e in generale il processo di complicazione dei sistemi socio-tecnici, è sempre lo stesso che diecimila anni fa ha consentito ai nostri progenitori di sopravvivere ed espandersi, tra condizioni ambientali avverse e concorrenti biologici iper-specializzati, apparentemente invincibili. Questo strumento è la cultura. La cultura umana tutta, nella sua accezione più olistica. Ad una crescente diffusione tecnologica rischia di corrispondere un’involuzione del pensiero critico, mentre sarebbe necessaria una sua progressiva crescita. Il problema non è la tecnologia. La tecnologia di per sé non è né amica né nemica. Il problema è la sua gestione, il suo progetto. Il problema è l’uomo. Per gestire la complessità del presente occorrono grandi investimenti culturali, occorre apertura mentale, occorre spirito critico ed esigenza, occorre il saper chiedere ed esigere una qualità concreta, una qualità usabile, una qualità di rapporto con l’umano ed il sociale. Bisogna sapere cosa chiedere alla tecnologia, e lavorare affinché sia questo a realizzarsi. Occorre una competenza diffusa. E ritengo che il mezzo al giorno d’oggi più pervasivo per diffondere questo genere di cultura trasversale, tecnica e sociale, materiale e astratta, tecnologica ed umana, sia indubbiamente il design.


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