DAVID DALLA VENEZIA
MANNI ART GALLERY
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Copertina/Cover: 615, Olio su tela/Oil on canvas cm.195x130 2009 • Interno/Interior: 561, Olio su tela/Oil on canvas cm.60x120 2007
DAVID DALLA VENEZIA
A cura e con testi di/Curated and with texts by
ANDREA PAGNES
26 agosto - 26 settembre 2010
MANNI ART GALLERY
2路O路1路O
598
Olio su tela/Oil on canvas cm.35x33 2008
AD UN AMICO TO A FRIEND
AD UN AMICO
Caro David, Ho sempre ritenuto che il processo che conduce alla realizzazione di un’opera d’arte maturi attraverso una tensione creativa nei confronti della realtà, della storia (dell’arte, ma non solo), della propria esperienza vissuta, in riferimento al proprio immaginario; mentre l’atto della creazione artistica, sentito soprattutto come momento liberatorio, sia motivato soprattutto per via di una precisa necessità cognitiva e urgenza esistenziale: configurare una propria Weltanshauung (e quindi non tanto dettato da particolare predisposizione, né da semplice “decisione preterintenzionale”). Questi sono solo alcuni degli elementi fondamentali che stanno alla base della poetica e dei codici espressivi appartenenti a certi pittori figurativi contemporanei, penso a Francis Bacon, Graham Sutherland, ma anche a Juliao Sarmento e Wainer Vaccari. Tali codici derivano da una singolare disposizione dell’Essere quando - intimamente - si attiva per immergersi e scandagliare le pieghe più riposte dell’invisibile, per poi tradurle in modo a sé “chiaro” e così ricondurle, inevitabilmente trasformate in immagine, all’Essere stesso. C’è un impegno in tutto questo: artistico, etico, anche civile. E’ l’impegno che si dimostra attraverso uno sforzo instancabile che risiede tutto nel “dovere d’artista”: plasmare alchemicamente frammenti, residui di una memoria genetica e collettiva che a tutti appartiene, ma che pochi riescono a comprendere appieno nel suo “farsi e disfarsi”, a “vedere e scrutare da dentro” con sguardo attento e concentrato. Conoscendoti e avendo avuto il privilegio di collaborare e affiancarti più di una volta nel tuo percorso, oggi ho la certezza che, attraverso il tuo lavoro, sei senz’altro riuscito a costruire negli anni un dialogo possibile, denso di senso, tra te e gli altri: i beneficiari delle tue opere, quelli a cui, in certo modo, provi a consegnare consapevolmente te stesso. Se tecnicamente ti sei affinato studiando e affrancandoti da un’ampia gamma d’influenze e matrici culturali, l’originalità della tua opera non ha mai avuto alcun cedimento né tematico, né di concetto sin dagli esordi. Anzi, sempre più si è caratterizzata – consolidandosi - in virtù di un atteggiamento di sfida cosciente a modelli imposti, trend sterili e predeterminati, avari di valore intrinseco, intensità, qualità, portata comunicativa. Prodotti-derivati di una prosaicità conforme, evidente e uniforme al “non-ideale” ai quali hai sempre rifiutato di aderire. E’ da considerazioni simili che, nel tempo, la tua “agenda” di pittore si è dimostrata efficace nello sviluppare un pensiero e portare avanti un attacco. Forse, l’obiettivo potrebbe anche essere stato quello di sostituire il deserto di solitudine che talvolta circonda il cuore degli individui con l’illusione lirico-filosofica di un non-inizio (vivificandolo con una continua sorpresa – e conseguente riflessione – sulle cose del mondo, belle o brutte che siano); oppure estinguere o demolire il presente, recuperando una traccia iniziale (comune a tutti perché universale) attraverso uno scavo infaticabile di quelli che sappiamo essere i recessi più impervi della nostra percezione e della nostra comprensione. Eppure, non essendo “qualunque” il metodo con cui hai scelto di fare pittura, proprio attraverso questo stesso metodo hai saputo ribadire – ancora una volta e di più rafforzandola – la nostra appartenenza (in quanto esseri umani) ad una realtà che non è solo psicologica, ma allo stesso tempo psichica, affettiva e razionale. Infatti, per quanto possa essere frutto di una mia personale sensazione, ho sempre rilevato – per quanto rarefatto – un che di “spietato” nelle tue tele: come se l’illusione di chi “che cosa” sta cercando, sia irrimediabilmente vanificata sul nascere, disintegrata nel tentativo stesso di portarla in vita. Ma questa è anche l’unica realtà che un’opera d’arte (in quanto tale) è in grado di affrontare. D’altronde, la materia di cui si compongono e si nutrono i tuoi quadri non è da identificarsi semplicisticamente come “il mezzo”. La meta-realtà che da anni affronti, scandagli e misuri con la tua pittura, la sai ormai immergere in te stesso così bene, al punto da riuscire ad identificarti quasi del tutto con essa. Questo fa sì che poi tu la restituisca intatta, anche “accessibile” a noi chi “guardiamo e contempliamo”. Senza dover soffermarsi a tutti i costi nell’analisi di quelli che potrebbero anche apparire come tuoi conflitti interiori, silenzi, stupori, essere in grado di vivere, proprio nel momento stesso della creazione pittorica, il profondo significato della meta-realtà (quando ti accingi a stringerla nella rappresentazione e che consegnerai all’immagine), ti consente di rivolgerti al reale in maniera più sincera, onesta, sobriamente distaccata, cogliendone così quegli elementi che sono i più emozionali ma, anche, i più “piattamente” drammatici. Come ha intelligentemente rilevato Claudio Manni, quella stessa spietatezza di cui accennavo poc’anzi, a volte si mostra come derisione delle insidie del quotidiano alla nostra stabilità, un efficace antidoto
per individuare e riappropriarsi di un equilibrio interiore che respinge tutte le oppressioni esterne per riportarci alla nostra giusta dimensione, anche una critica – per quanto mai deliberato J’accuse – alla presunzione umana di potere tutto. Non ti è mai interessato muoverti come un funambolo tra impressione ed espressione, volontà ed istinto (tipico di certa pittura contemporanea), anche perché quei termini non sembrano certo appartenere alla singolare natura del tuo vocabolario creativo. E’ piuttosto “la costruzione dell’enigma” che ti permette, al culmine del suo svolgimento, di liberare la tua illimitata energia compositiva. Un enigma che tutto contiene poiché tutto registra: tragedia, riscatto, catarsi, e che, come tale, ha come destino quello di essere lucidamente risolto. Anziché chiedere ai tuoi soggetti dipinti d’inserirsi nella connivenza con il “tutto quotidiano”, rifuggire l’aneddotica, misurarsi nel dialogo infinito tra gli opposti, portare in primo piano l’autore-demiurgo che tenta di dominare e controllare la materia, comporre, scomporre, indurre l’osservatore ad una riflessione costante sulla consapevolezza di una possibile rivoluzione etica in grado di avviare un nuovo mondo sociale (che non deve essere cercato altrove, poiché è qui, ora, dove noi tutti viviamo, operiamo e esistiamo), offri un’immagine “altra ma concreta” di una quasi perfezione in costante movimento, un qualcosa di ineffabile che permetta allo spirito di staccarsi dalla viscosità apparente di ciò che si mostra come “scoraggiante stabilità borghese”. La giustapposizione d’oggetti, la visione di un mondo che sta appena oltre la soglia della realtà fisica, l’esplorazione della vita interiore, inconscia, immaginata, restituita attraverso elementi familiari o d’uso comune, la loro solidità, la loro separazione nello spazio che è stato loro assegnato sulla tela, il confronto/dialogo segreto che può aver luogo tra i diversi elementi, non solo è indice di un’attenzione alla semplicità del dato ordinario, ma anche controprova di uno stile che punta maggiormente (e con eleganza) allo stato più nascosto dell’Essere. La “selezionata tribù” di personaggi e oggetti che popola i tuoi quadri, è linguaggio vero e proprio. Ciò che a prima vista potrebbe sembrare illogico agli occhi del fruitore, o anche semplicemente rimosso e mistificato da chi ne è l’artefice, diventa invece credibile, poiché sono i soggetti stessi a “dire e confermare” l’esistenza di una “logica alternativa”, non finalizzata, non banale. D’altronde, come diceva De Chirico: «C’è molto più mistero nell’ombra di un uomo che cammina sotto il sole che in tutte le religioni del mondo.» Ciò che affiora in superficie è la sostanza stessa di cui si compone la materia: la sostanza è implicita nella materia ed esiste in quanto materia stessa. Allo stesso modo i significati risiedono nei significanti: compito dell’artista è quello di disvelarli, attribuendo loro un aspetto che nasce da un processo di sintesi e sottrazione del superfluo. Basandosi principalmente sul puro atto del fare, all’artista importa innescare un flusso continuo, dinamico, tra opera e realtà e viceversa. Dell’esistenza – il più “sensibile” di tutti gli elementi che usa e a cui affida la sua ricerca – è sempre pronto a coglierne gli impulsi più interni, per trasmetterli nuovamente, seppur manipolati. Tuttavia, nella tua produzione pittorica, non si assiste mai ad un “fantasmagorico intervento”, come spesso invece accade nell’arte contemporanea, né t’insabbi volutamente o meno in troppo difficili contestualizzazioni. Penso invece che la qualità della tua arte sia da rilevare in quell’urgenza comunicativa di cui dicevo all’inizio. Un’urgenza che si muove lungo un insieme di tracce binarie, tali da esaltare sia la qualità della materia usata per fare pittura, sia per trasformare quella materia stessa in una riserva di codici simbolici da cui attingere la propria conoscenza: vuoi per districare motivazioni ideologiche specifiche, che per definire un rapporto più immediato con ciò che uno sente più vicino, attuale o senza-tempo, in sintesi per essere in grado di esaminare a fondo più contraddizioni fenomenologiche che a tutti noi appartengono in quanto ci costituiscono. Senza escludere la carica emotiva che s’innerva nell’atto creativo di qualsivoglia operazione artistica, la memoria sola può conservare il suo valore funzionale e confermare la qualità dell’esperienza. Proprio alla luce di questo, credo che essere riuscito a trasformare il controverso “attore” delle tue prime tele in linguaggio vero e proprio – essenziale, destrutturato, in relazione con – abbia contribuito a rendere il significato della tua pittura più potente ed esplicito, come più flessibile il discorso della pittura con l’altro da sé. Si avverte sempre più una fascinosa serenità nel circondarsi delle tue tele. E questo “personaggio” dipinto (lui/te) – questo linguaggio – è oggi in grado, da solo, di definire il proprio dinamismo, poiché dotato di metodo e di un’intensità comunicativa che sembra stia ormai al di là di qualsiasi preliminare storico. Andrea Pagnes
TO A FRIEND
Dear David, I have always maintained that the process that leads to the realization of a work of art matures through a creative tension between truth, history (the history of art, but not only), and one’s own lived experience, with reference to the imagination. The act of artistic creation meanwhile, felt above all as a liberating moment, is motivated primarily by a precise cognitive necessity and existential urgency to form one’s own Weltanshauung and therefore not so much dictated by a particular predisposition nor by simple unintended decision. These are some of the fundamental elements that are at the base of the poetics and the expressive codes of certain contemporary figurative painters – I think of Francis Bacon, and Graham Sutherland, but also to Juliao Sarmento and Wainer Vaccari. Such codes of expression derive from a singular disposition of the being to immerse itself and plumb the deepest recesses of the invisible and then to translate them in some way that is “clear” to the self and, inevitably transformed into an image, to the being itself. There is an engagement in all this: artistic, ethical, even civic. It is an engagement that is demonstrated through an untiring effort that resides wholly in the artist’s duty to mould mysteriously fragments, remnants of a collective genetic memory that belongs to all but which few succeed in understanding fully in the “making and unmaking of itself ”, “to see and to scrutinize from within with a careful and concentrated regard”. Knowing you and having had the privilege of collaborating with you and of being beside you more than once along your path, today I am certain that, through your work you have undoubtedly succeeded in constructing, over the years, a meaningful dialogue between yourself and others, the beneficiaries of your works, those to whom in a certain way you have tried to convey an awareness of yourself. While you have refined yourself technically by studying and freeing yourself from a wide range of influences and cultural matrices, from the beginning the originality of your work has never yielded, not in theme nor in concept. Indeed, more and more it is characterized – consolidating itself – by an attitude of conscious challenge to established models, sterile and predetermined trends of little intrinsic value, intensity, quality, or communicative capacity, products derived from a conventional prosaicness, obvious and uniform to the “non-ideal” that you have always refused to follow. It is from considerations like this that, in time, your agenda as a painter has been demonstrated to be effective in developing a thought and carrying it forward. Perhaps the objective could also have been to replace the desert of solitude that sometimes encircles the heart of an individual with the lyrical philosophical illusion of a non-beginning (enlivening it with a continuous surprise – and consequent reflection – on the things of the world, beautiful or ugly that they might be); or to extinguish or to demolish the present, to recover an initial trace (common to all because universal) through an indefatigable exploration of what we know to be the most inaccessible recesses of our perception and of our understanding. Nevertheless, not being just any method by which you have chosen to paint, it is true that through that very method you have known how to reassert – yet again and reinforcing it even more – our belonging (in our capacity as human beings) to a reality that is not only psychological, but at the same time psychic, affective and rational. In fact, for as much it may be the fruit of one of my personal feelings, I have always found something “pitiless” in your canvases: as if the illusion of that something being sought is irretrievably useless at birth, disintegrating even in the attempt to bring it to life. But this is also the unique reality that a work of art is capable of confronting. On the other hand, material which makes up and which nourishes your pictures is not to be identified simplistically as “the means”. By now you know how to immerse within yourself the meta-reality which you have confronted, investigated and measured for years in your painting, to the point of identifying yourself almost completely with it and showing it in such a way that it is complete and accessible to us – “who look and who contemplate”. Without having to linger upon analyzing those things which could appear to be your interior conflicts, your silences, surprises, capacity for living, exactly in the moment of the pictorial creation, the profound significance of the meta-truth allows you to address yourself to what is real in a sincere, honest, soberly detached way: that same moment when you are ready to capture the meta-reality and consign it to an image, thus collecting those elements which are the most excitable but also those which are most unimaginatively dramatic. As Claudio Manni cleverly found, that same pitilessness which I have just pointed out sometimes manifests itself as a derision of the daily snares in our stability, an effective antidote in order to identify and regain an inner equilibrium that rejects all external pressures and brings us back to our just dimension – even
to a dimension critical to the human presumption of omnipotence – how little is J’accuse thought about. You have never been interested in moving yourself about like an acrobat between impressions and expressions, between will and instinct (typical of certain contemporary painting), also because those terms do not seem to belong to the singular nature of your creative vocabulary. It is rather “the construction of the enigma” that allows you, at the apex of its development, to free your limitless compositional energy. An enigma that is in everything since it records everything: tragedy, redemption, catharsis, and that, as such, its destiny is to be clear-headedly resolved. You do not ask the subjects of your paintings to become part of the everyday connivance, to escape the anecdotal, to pit themselves into the infinite dialogue between opposites, to bring to the foreground the author – the demiurge that tries to dominate and control the subject, to compose, to decompose, to induce the observer to a constant reflection on the knowledge of a possible ethical revolution capable of starting a new social order (which does not have to be sought elsewhere, since it is here, now, where we all live, operate and exist). Instead you offer an image “other but concrete” of a quasi-perfection in constant movement, an ineffable something that allows the spirit to detach itself from the apparent viscosity of that which shows itself as “discouraging bourgeois stability”. The juxtapositioning of objects, the vision of a world that stands just beyond the threshold of physical truth, the exploration of the inner, unconscious, imagined, life through elements that are a familiar or of common use: their solidity, their separation in the space that is assigned to them on the canvas, the secret confrontation or dialogue that can take place between the various elements is not only an index of an attention to the simplicity of ordinary data, but also the verification of the style that leans heavily and with elegance on the most hidden state of being. The “selected tribe” of characters and objects that populate your pictures, is well and truly a language. That which at first sight might seem illogical to the eyes of the observer, or simply remote and mystified by whomever created it, becomes instead credible, since it is the subjects themselves who announce and confirm the existence of a logical alternative, not finalized, not banal. On the other hand, as De Chirico said: «there is much more mystery in the shadow of a man who walks in the sun than in all the religions of the world.» What emerges on the surface is the substance itself of which the material is made up: the substance is implicit in the material and exists in as much as the material itself does. In the same way the meanings reside in the signifiers: it is the task of the artist to uncover them, giving them an aspect that is born from a process of synthesis and removal of the superfluous. Basing himself mainly on the pure act of doing, it is important to the artist to create a continuous, dynamic flow, between work and reality and viceversa. Of his existence – the most “sensitive” of all the elements that he uses and to which he entrusts his search – he is always ready to seize upon the deepest impulses, in order to transmit them anew, although manipulated. However, in your art, one is never a witness to a phantasmagoric process, as often happens in contemporary art, neither do you intentionally or otherwise cover yourself with very difficult contextualizations. I think instead, that the quality of your art derives from revealing that urgency to communicate that I mentioned at the beginning. An urgency that moves along a set of binary tracks, such as to exalt both the quality of the material used to make the painting, as well as to transform that same matter into a reservoir of symbolic codes from which knowledge is drawn: you want to unravel any specific ideological motivations in order to define a more immediate relationship with what you feel closest to, either currently or in a timelessness, in synthesis to be able to examine in depth more phenomenological contradictions that belong to all of us in as much as we are made of them. Without excluding the emotional content that innervates the creative act of any artistic exercise, the memory alone can conserve its functional value and confirm the quality of the experience. In the light of this, I believe that having succeeded in transforming the controversial “actor” of your first canvases into a real language – essential and dismantled – you have contributed to rendering the meaning of your painting more powerful and explicit, and the discourse of the painting with one’s other self, more flexible. One perceives more and more a bewitching serenity surrounding you canvases. And this painted “character” (him/you) – this language – can today, by itself, define its dynamism, since it is endowed with a method and communicative intensity that seems by now to be beyond any historic preliminary. Andrea Pagnes
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Olio su tela/Oil on canvas cm.30x30 2006
CHOSES D’APRÈS NATURE
(τα μετα τα φισικα)
CONVERSAZIONE Andrea Pagnes: Una definizione della tua pittura potrebbe essere questa, pensare attraverso la rappresentazione; in particolare quando sembri dire che l’“io” nel quadro è l’immagine riflessa dell’autore stesso, cioè di te. Se così è, trovo che in ciò vi sia qualcosa di più profondo da sviscerare. Non ti limiti, infatti, all’approfondimento del o dei personaggi in relazione alla composizione, né all’immedesimazione con essi. Soprattutto nei tuoi ultimi lavori ho la sensazione di assistere ad una frantumazione dell’io narrante in più “parti”: un’io caleidoscopico che mette in atto una propria trasformazione, per diventare interprete responsabile di più ruoli diversi. David Dalla Venezia: Negli ultimi anni infatti le cose si sono un po’ “complicate”... E questa complessità si realizza più che in una frammentazione in una moltiplicazione dei punti di vista e delle mie visioni. Perché più che di una divisione si tratta di un ulteriore spiegarsi dell’io, che proprio come un foglio di carta piegato si apre svelando di volta in volta quel che vi può esser segnato sopra. Un foglio di carta non può esser piegato più di sette volte, chissà l’io?! Poi può anche capitare che il foglio si strappi… e l’enigma si imbrogli maggiormente. Fatto a pezzi, smembrato e riunito in un polittico, immobile risorgente nella pittura. AP: Nel tuo autoritrarti, credo tu abbia fatto un ulteriore passo in avanti. Sembra tu sia riuscito a distillare in modo chiaro e lineare anche un tuo senso di “attitudine teatrale” del tutto particolare, evidenziando una “reale appartenenza scenica delle forme” che, a mio vedere, possiedi da sempre, per “fermarle” poi in una sorta di curata istantanea, restituendo il significato dell’immagine, in forma più organica, alla pittura. DDV: Metto in scena ciò che vedo, dentro e fuori di me, e se la pittura è essenzialmente vedere allora non può che esser anche teatro – sottolineando quella radice thau che implica sempre il vedere. Ti dirò di più, il pittore si è spesso immedesimato nell’attore, o meglio nella maschera impersonificata dall’attore. Nella casa studio di Rembrandt parenti, amici ed allievi erano costantemente coinvolti in messe in scena teatrali e musicali, in un miscuglio di vita e rappresentazione. Ho poi sempre in mente il Gilles di Watteau e la sua espressione di stupore rassegnato – non posso non immaginare che quello sia Watteau stesso – e come a partire da quel momento il procedere della crisi del pittore nel suo tempo si sia manifestato in una massiccia presenza di Pierrot, Pulcinella ed Arlecchini. E lo stupore, il thauma (di nuovo il vedere…), è essenza e motore della rappresentazione, sia essa pittorica o teatrale. AP: Sperimentatore metafisico. Dai tuoi esordi ad oggi lo hai ben dimostrato. Oggi, forse, non sarebbe più giusto invece identificarti come un compositore, raffinato, della forma che dice di ciò che dietro ad essa si cela? DDV: Bel paradosso questo dell’esperimento metafisico! La fisica è empirica, la metafisica è teorica (ancora questa radice…). AP: Mi ha sempre colpito (a volte anche ispirato) l’uso che fai della metafora in pittura (non dell’allegoria!) quale forma di economia espressiva, per dirla con Borges; e in te non tanto per condensare l’accadimento in un’immagine, quanto per stringere una sequenza di percezioni, la precaria frammentarietà del mondo che ci gira intorno, anche per graffiare una semplice emozione facendola così davvero propria, e riviverla completamente attraverso la memoria stessa della pittura. DDV: In effetti un dipinto potrebbe esser considerato come una teoria di cose viste, un catalogo di esperimenti visionari. E attraverso la composizione ricomporre ciò che ti si pone davanti alla ricerca di quel che si nasconde nell’evidenza. AP: C’è una tensione “carnale” forte ed evidente in tanta parte dei tuoi lavori, un riferirsi alla “questione corporale” che sembra quasi essere uno dei temi centrali della tua poetica, quasi a voler affermare una sorta di vivida veridicità che sembra contraddistinguere ciò che dipingi. In questa tensione si addensano molte cose: caducità, ricerca d’equilibrio, dialogo empirico, sorpresa e affermazione senza pietà; cose che sono in quanto esistono, come allo stesso modo esiste ciò che a quelle stesse cose è contrario o complementare. DDV: La magia della pittura è proprio il trasformare una materia in altra cosa, far sì che dei semplici pigmenti mescolati ad un qualche liquido possano diventar altro, pelle, sudore, sangue. C’è un che di lussurioso e tracotante in questa carnalità della pittura, sarà per questo che dà tanto fastidio agli iconoclasti. AP: C’è un che di necessità pagana in tutto questo, senz’altro frutto di un’attenta riflessione, a volte anche ludica: un atteggiamento da giocoliere sciamanico nel dirsi, nell’analizzarsi, che rivela all’altro (all’osservatore, a te stesso?) quanto sia indispensabile conoscere la nostra conformazione e la natura di ciò che ci costituisce. DDV: Si racconta che Leonardo avesse dipinto una meravigliosa Madonna, così verosimile e viva che il committente gli avesse poi chiesto di togliere gli attributi religiosi per poterla contemplare e gioirne senza blasfemia. La pittura si fa gioco di ciò che rappresenta ed un bel dipinto rimane tale anche quando non si sa più nulla di ciò che si è voluto rappresentasse. E credo che molti pittori nel tempo si siano divertiti con colori, pennelli alle spalle dei grandi committenti e delle grandi dottrine e religioni. È la medesima soddisfazione che si ha quando per la prima volta si riescono a far volteggiare tre palline in aria senza farle cadere! AP: Recuperare la “bella” pittura per evolverla. Penso qui al tuo impegno organizzativo per portare la Kitsch Biennale 2010, ed il suo ispiratore Odd Nerdrum, proprio a Venezia nelle sale di Palazzo Cini a San Vio. Guardare all’indietro e procedere avanti (un po’ come l’Angelo della Storia di Walter Benjamin). Credi possa avere senso ed essere utile questo, per ridefinire e riqualificare (almeno in parte) la pittura italiana contemporanea?
DDV: In realtà non c’è recupero, poiché non c’è mai stato alcun abbandono. La pittura ha continuato ad esserci così come è comparsa nei secoli passati e sempre con le stesse eccellenze. Quel che è accaduto è che molti vi hanno rinunciato per diventare artisti, hanno rinunciato all’eterno per immergersi nel loro tempo alla ricerca del sempre nuovo. Un pittore non si cura del proprio tempo, e si confronta con modelli ed esempi che sono i più grandi e perfetti conosciuti. Cosa si può fare di più di Leonardo, Michelangelo e Tiziano? Si può solo cercare, arduamente, di avvicinarcisi il più possibile. Non c’è evoluzione. È come quel motivo della Prima Sinfonia di Mahler che, sotterraneo, ritorna sempre uguale a se stesso riemergendo tra lo squillare delle trombe! Perciò non c’è alcun bisogno di riqualificare la pittura contemporanea italiana (né di altri luoghi); ci sono già, come ci sono stati nel più recente passato, molti pittori di grande qualità in Italia (e nel mondo). Sono semplicemente inattuali come lo è appunto la pittura. L’importanza di Nerdrum, oltre che nel suo genio pittorico, sta proprio nell’indicare come non sia necessario esser attuali, ovvero partecipare al conformismo dell’Arte. Nerdrum, e con lui molti altri, chiama Kitsch questa incarnazione della pittura nel nostro tempo. Ho fortemente voluto portare qui a Venezia, in Italia la Kitsch Biennale per contribuire mostrare e dimostrare che esiste un’alternativa al dominio dell’Arte e dei suoi dogmi, come si sono sviluppati nell’ultimo secolo, e come questa alternativa sia a portata di mano o meglio d’occhio. AP: Immergersi nella legge compositiva di ciascuna tua opera, attingere ai tuoi quadri come possibili serbatoi di ispirazione e conoscenza, significa attuare un processo di mutua comprensione in essere tra te, l’altro da te (l’osservatore/fruitore come tuo doppio) e ciò di cui dipingi, oppure c’è di più? DDV: Beh, mi sembra già abbastanza quel che hai detto! Però c’è forse un qualcosa di più, la dimensione temporale. Dipingere è anche un viaggio nel tempo, nel passato e nel futuro. AP: Avere qualcuno per cui dipingere è vivificante? Chi è, se c’è, questo qualcuno per David Dalla Venezia? DDV: All’inizio e per molto tempo ho dipinto essenzialmente per me, per il piacere di imparare e fare un dipinto in tutte le sue fasi pratiche, tendere la tela, prepararla, tingerla, tracciarne le linee di struttura e trovarvi le immagini. Per la necessità di poter vedere la fuori le mie visioni. Ora, forse, sto iniziando a dipingere anche per loro, per i quadri! C’è un filo che li lega ed intravedo un sentiero, un senso, così quelli che faccio sono ulteriori pezzi che li collegano l’uno all’altro alla ricerca di una coerenza. Ed infine dipingo anche per i miei figli, per come mi osservano dipingere e per le parole spontanee e dirette che mi dicono guardando le immagini comparire. Non hanno dubbi, dicono quello che vedono, e questo è molto rilassante. AP: Ho sempre apprezzato molto quello che hai scritto e scrivi in materia d’arte. Come anche alcuni testi che sono stati scritti su di te da Lucien d’Azay ad Emanuela Pezzetta. Da alcune nostre conversazioni, ricorderai che nel 1990 nacque anche un mio libro. Ma è il modo schietto e franco con cui si sono evolute le tue considerazioni estetiche (dalla mostra del 1998 al Bac Art Studio di Venezia, a quella della Galleria Davico di Torino nel 2008), che merita senz’altro un’attenzione particolare. DDV: Scrivere mi piace, ma è per me un processo pesante e lento che mi costa molta fatica. Quando mi metto a scrivere poi, non so perché, tendo a confessarmi... a confessare il senso di inadeguatezza che mi pervade ogni volta che mi metto a pensare a quello che faccio e provare a darvi un senso. Dipingere mi viene tanto più facile ed è per questo che sono un pensatore che dipinge, altrimenti sarei forse stato un pensatore che scrive. Ad ogni modo mi piace vedere cosa può scrivere un’altra persona di me e della mia pittura, come nel caso della fine analisi psicologica di Lucien d’Azay, o le tue profonde e sentite parole che introducono questo catalogo. In altri casi c’è bisogno di metodo e mi rivolgo a qualcuno che possa appunto dare, come nel caso di Emanuela Pezzetta per l’evento Who Killed Cattelan?, rigore scientifico al testo. AP: La capacità e il coraggio di metterti così facilmente in discussione è indice di maturità. Non senti l’esigenza di raccogliere in un volume analitico – ora che sei nel mezzo del cammino della tua vita – tutto ciò che di te c’è stato? DDV: Sinceramente credo di esser solo ora arrivato al punto in cui potrò cominciare a combinare qualcosa. Questi primi vent’anni di lavoro in realtà sono stati anni di apprendistato e di preparazione. Non è ancora il momento di ricapitolare, ciò che farò in futuro darà forse senso a quel che ho fatto finora. Ne riparleremo spero tra altri vent’anni!
CONVERSATION Andrea Pagnes: A definition of your particular way of painting could be the following: to think through representation, especially when it seems that the “Self ” in the picture is the reflection of the author himself, which is you. If so, I find that there is something deeper to be exhausted. Actually, you are not only focused to deepen the characters in relation to the composition, or to merely identify “yourself ” with them. Especially in your last works, while observing them, it is like to attend a crushing of the “narrator” in several “parts”: a kaleidoscopic narrator’s ego, which is fragmented to implement continuous transformations, while becoming more responsible by interpreting different roles. David Dalla Venezia: Over the last few years, things became a little bit more ‘complicated’... And this complexity is achieved through a multiplicity of point of views, different perspectives, and of course through the evolution of my visions as well. It’s more than a fragmentation process. It is a further explanation of the Self, that just as a folded piece of paper, once you “open” it, it reveals from time to time what can be marked there above. A sheet of paper cannot be folded more than seven times, but the Self ?! Then it may happen that the sheet be torn… that enigmas entangle and ball up on and on: torn apart, dismembered and re-assembled into a polyptych, to resurge still but properly into painting. AP: In the paintings where you portray yourself, I think you have made a step forward. It seems you are able to distil a clear and straightforward sense of “theatre attitude”: unique and yours, which, in my view, you have always had. You openly demonstrate a real skilfulness to deal with a system of “scenic forms”, which you freeze into polished snapshots. In this way you bring back the meaning of the image to painting in a more organic way, as it is its natural belonging. DDV: I enact what I see, in and out of me. If the painting is essentially “to see”, then it can also be theatre - assuming that the root thau always involves seeing. I’ll tell you more: the painter has often identified himself with the actor; he has often embodied into it virtually, by putting himself into the actor’s shoes. In the home studio of Rembrandt, relatives, friends and students were constantly involved in theatre and music mise en scene: a mixture of life and representation. I have always in my mind Gilles Watteau and his expression of surprise resignation - I cannot imagine that that is Watteau himself - and how, from that moment, the painter’s crisis process of that time has started, manifesting a strong presence of Pierrots, Harlequins and Pulchinellos inside the paintings. The wonder, the thauma (again “to see”...), is the essence and the engine of the representation, be it in painting or theatre. AP: Since the very beginning of your career, you have been demonstrating to be a sort of “metaphysical investigator”, explorer of the ineffable. However, today, I find more appropriate to portray you as a refined composer of forms, which tell of what it lies and hides behind them. DDV: Nice paradox! The physics is empirical; the metaphysics is theoretical (once again ... this root). AP: I am impressed (and sometimes inspired too) by “how” you use metaphors in painting (not allegories!) as a way of “expressive economy” (assuming a Borges statement), but not just to condense the occurrence into the image, rather to tighten a sequence of perceptions, the precarious fragmented world that revolves around us, or even to scratch the simplest emotion to make it really yours, and hence re-live it through painting’s own memory. DDV: In fact, if a painting might be regarded as a theory of “being seen” things, or a catalogue of visionary experiments, through the composition someone can reconstruct what stands in front of him, and searches for what lies in the evidence. AP: There is strong and clear “carnal” tension that appears in many moments of your work, a reference to the “body issue” that is one central theme of your poetry. This also declares a sort of vivid truthfulness that distinguishes what you paint. A lot of things are gathering because of this tension: caducity and precariousness, to look for balance, empirical dialogue, claim, surprise, and affirmation without mercy; all things that exist, as in the same way exist all those other things, which are contrary and/or complementary. DDV: The magic of painting is just to transform matter into something else, so that simple pigments mixed with some liquid can become another thing: skin, sweat, blood. There is something luxurious and “abundantly arrogant” in this carnality of painting, which is maybe what causes so much trouble to iconoclasts. AP: I see something pagan in the need of all this; undoubtedly it is a result of a careful reflection, sometimes playful, a sort of juggling shamanic attitude to give indications to analyze and think to “who we are”; a revelation to the “other” (the observer? yourself ?) how essential is to know our nature, our constitutive elements, what we are made of. DDV: It is said that Leonardo had painted a beautiful Madonna, so vivid and veracious that the purchaser had asked him to remove the religious attributes, to be able to contemplate and enjoy the picture without blasphemy. Painting often makes fun of what it represents, and a beautiful painting remains always so, even when we know nothing about what it would have had to represent. I think many artists have had fun with colors and brushes behind major clients and major doctrines and religions. It’s the same satisfaction that comes when for the first time you manage to twirl three balls in the air without dropping them!
AP: “Looking back and carry forward” (as Walter Benjamin stated in the Angel of History): recovering the “good” painting to evolve and develop it. I think here to your recent organizational commitment to bring the Kitsch Biennale 2010, conceived by Odd Nerdrum, in Venice at Palazzo Cini). Does this make sense to redefine and upgrade (at least in part) contemporary Italian painting? DDV: Actually there is no recovery, because there never was any neglect. The painting has continued to exist as in the past, and always with the same excellence. What happened is that many have renounced just to become “an artist”, giving up the “eternal” to enjoy the search for the “ever new”. A painter does not care of his own time, but compares himself with models and examples that are the largest and most perfect known. What more can be done after Leonardo, Michelangelo and Titian? You can only try, hard, to reach their quality as much as you can. It’s like that motif of the First Symphony of Mahler, which runs underneath and always returns the same to itself, emerging from the blare of the trumpets! So there is no need to re-qualify the contemporary Italian painting (and equally of all the other places); many painters of great quality are already here, in Italy, around the world, as there were many good painters in the recent past. They are just simply not-up-to-date, as - actually - painting is too. The importance of Nerdrum, as well as of his pictorial genius, lies in indicating that it is not necessary to be up-to-date at all, to participate in accordance with the today Art conformism. Nerdrum, and with him many others, called Kitsch this incarnation of painting in our time. I strongly wanted to bring here in Venice the Kitsch Biennale to give my contribution, to show and demonstrate that there is an alternative to the Art domain and its dogmas, how they have been developed over the past century, and how all this is so close to our eye. AP: To immerse yourself in the law of composition of each of your work, draw on your pictures as possible reservoirs of inspiration and knowledge; is to implement a process of mutual understanding between you, the other (the viewer/fruiter as your double) and what you paint, or is there more? DDV: Well, I think what you’ve said is already sufficient! Although there is perhaps something more: the temporal dimension. Painting is a journey through time, past and future. AP: Having someone “for who” to paint is vivifying? Who, if any, is this “someone” for David Dalla Venezia? DDV: Initially and for a long time I painted mainly for myself: the pleasure to learn and make a painting in all its practical phases, stretching the canvas, preparing and dyeing, outlining the structure to find the images. I was pushed by the need of being able to see out my visions. Now perhaps I’m starting to paint for them: for the pictures! There is an invisible thread that binds them, and there I see a path, a way. Therefore, the paintings I’m doing now are further pieces that connect them one to each other: it is a quest to look for a coherent consistency. And finally I paint for my children, I like to paint and observe them, listening to the spontaneous and direct words that they say while watching the images that appear onto the canvas surface. They have no doubt, they say what they see, and this is very relaxing. AP: I’ve always appreciated what you wrote and write on art. As well as some texts that were written about you, like the ones by Lucien d’Azay and Emanuela Pezzetta. Some of our conversations, in 1990, have been organized in a book of mine. But it is the so candid and frank way with which your aesthetic considerations have evolved (from the exhibition at Bac Art Studio of Venice in 1998, to the one at Davico Gallery of Turin in 2008) that deserves special attention. DDV: I like to write, but for me it is a slow and laborious process. When I start writing then, for some reason, I tend to confess myself... manifesting a sense of inadequacy that comes over me, whenever I start thinking about what I do and try to give it a sense. To paint is much easier that is why I am a thinker who paints otherwise I was a thinker who writes. Anyway I like to see what someone else can write about my painting: the sharp psychological analysis of Lucien, or your deep and heartfelt words that introduce this catalogue. In other cases the primary requirement is a “method”, so I turn to someone who can give (as in the case of Emanuela for Who Killed Cattelan? event), more scientific rigor to the text. AP: Today, the ability and courage you have to put yourself into question easily is a sign of maturity. Now that you’re in the middle of the journey of your life, don’t you feel the need to collect in a catalogue raisoné the many experiences you have pursued with your painting through the years? DDV: Honestly, I think I’m only now reaching the point where I can start to do something. These first twenty years of work were in fact years of training and preparation. It is not yet time to recap, and all the things I will do in the future will probably sense what I’ve done so far. I hope we’ll talk about that in another twenty years!
572
Olio su tela/Oil on canvas cm.41x33 2008
DIPINTI PAINTINGS
504
Olio su tela/Oil on canvas cm.162x130 2006
610
Olio su tela/Oil on canvas cm.41x33 2009
579
Olio su tela/Oil on canvas cm.35x33 2008
553
Olio su tela/Oil on canvas cm.30x30 2007
533
Olio su tela/Oil on canvas cm.46x38 2007
574
Olio su tela/Oil on canvas cm.35x33 2008
608
Olio su tela/Oil on canvas cm.35x33 2008
597
Olio su tela/Oil on canvas cm.41x27 2008
573
Olio su tela/Oil on canvas cm.55x46 2008
543
Olio su tela/Oil on canvas cm.33x24 2007
563
Olio su tela/Oil on canvas cm.27x22 2007
612
Tempera su seta su tavola/Tempera on silk on wood cm.23.7x16.5 2009
516
Olio su tela/Oil on canvas cm.35x27 2006
562
Olio su tela/Oil on canvas cm.25x75 2007
622
Olio su tela/Oil on canvas cm.35x27 2010
193
Olio su tela/Oil on canvas cm.111x71 1998
531
Olio su tavola intelata/Oil on canvas on wood 11.8x14.2 2008
564
Olio su tela/Oil on canvas cm.22x27 2007
616
Olio su tela/Oil on canvas cm.27x35 2009
620
Olio su tela/Oil on canvas cm.97x73 2010
565
Olio su tela/Oil on canvas cm.38x46 2007
621
Olio su tela/Oil on canvas cm.41x27 2010
589
Olio su tela/Oil on canvas cm.130x97 2008
607
Tempera su seta su tavola/Tempera on silk on wood cm.23.7x16.4 2009
DAVID DALLA VENEZIA Ha studiato storia dell’arte e filosofia all’università di Venezia. Dal 1987 al 1989, in stretta collaborazione con l’artista giapponese Hiroshi Daikoku, inizia a dipingere realizzando 12 grandi dipinti murali sulle palizzate di legno dei cantieri di restauro per le strade di Venezia. Nel 1989 la sua prima mostra personale ha luogo presso la galleria Bac Art studio di Venezia. Dal 1990 al 1992 vive e lavora a Nizza partecipando a esposizioni collettive nella regione (XXIII Festival Internazionale della Pittura di Cagnes-sur-Mer, IV Biennale Internazionale d’Arte Contemporanea dove vince il 1° premio per la pittura). Nel 1992, in occasione della partecipazione alla mostra “Corale” curata da Andrea Pagnes presso la Fondazione Bevilacqua-La Masa, rientra a Venezia dove da allora vive e lavora. Da allora ha dipinto ed esposto in Italia e all’estero sviluppando il suo stile, perfezionando la tecnica pittorica in un continuo confronto con la tradizione e la contemporaneità. Nel 2010 insieme a World Wide Kitsch, associazione promotrice del movimento Kitsch che fa capo al maestro norvegese Odd Nerdrum, ha organizzato e curato l’esposizione internazionale di pittura figurativa Kitsch Biennale 2010 a Venezia presso Palazzo Cini a San Vio. He studied art and philosophy at the University of Venice. From 1987 to 1989, in close collaboration with the Japanese artist Hiroshi Daikoku, he starts to paint making 12 large murals on the wooden palisades of restoration sites in the streets of Venice. In 1989 his first personal exhibition took place at the Bac Art Studio Gallery in Venice. From 1990 to 1992 he lived and worked in Nice, where he took part in group exhibitions in the region (23rd Cagnes-sur-Mer International Painting Festival and the 4th International Contemporary Art Biennial, where he won first prize for painting). In 1992, on the occasion of his participation in the “Corale” exhibition, as curated by Andrea Pagnes at the Fondazione Bevilacqua-La Masa, he moved back to Venice and has lived and worked here since that time. He has since continued to paint and exhibit in Italy and abroad, developing his style and perfecting his painting technique while always seeking a comparison with contemporary art. In 2010 together with World Wide Kitsch, the association promoting the Kitsch movement and who refers to the Norwegian painter Odd Nerdrum, he organized and curated the Kitsch Biennale 2010 in Venice in Palazzo Cini at San Vio. www.daviddallavenezia.com www.whokilledcattelan.org ANDREA PAGNES Andrea Pagnes ha raggiunto il suo Diploma di Master in Critico d’Arte e Museologia e la Laurea in Lettere e Filosofia a Venezia, il Diploma di attore di Teatro Sociale Isole Comprese Teatro Firenze, ed in Scrittura Creativa (metodo Raymond Carver, Roma). Ha pubblicato saggi d’arte, prosa e poesia e ha lavorato come traduttore, giornalista e curatore indipendente e coordinatore di progetti specifici per diverse edizioni della Biennale di Venezia. Come artista visivo, ha esposto i suoi dipinti, sculture ed installazioni a livello internazionale. The Fall of Faust – Considerations on Contemporary Art and Art Action che raccoglie saggi da lui scritti nell’ultimo decennio è recentemente uscito i tipi VestAndPage, Firenze. Andrea Pagnes has achieved his Master Diploma in Art Critic and Museology and the Degree in Modern Literature and Philosophy in Venice, the Diploma of Social Theatre Actor from IsoleComprese Teatro Florence, and in Creative Writings (method Raymond Carver, Rome). He has published art essays, prose and poetry and worked as translator, journalist and independent curator and coordinator for site projects for several Venice Biennales. As visual artist, he exhibited his paintings, sculptures and installations internationally. The Fall of Faust – Considerations on Contemporary Art and Art Action a collection of his essays written in the last decade has been recently published by VestAndPage, Florence. www.andreapagnes.it www.vest-and-page.de
Venezia, agosto 2010/Venice, August 2010
Stampato in 500 copie in occasione dell’apertura della/Printed in 500 copies in the occasion of the opening of the
MANNI ART GALLERY
Traduzione/Translations
Michael Barbour Roy
© 2010 Manni Art Gallery © 2010 David Dalla Venezia (per le immagini) © 2010 Andrea Pagnes (per i testi)
Con il supporto di/Sponsored by
Con la partecipazione di/With the participation of
MANNI ART GALLERY via Sandro Gallo 97/A-B Lido, Venezia 30126 - I