L'architettura dei Bunker: la forza e la necessità del riuso

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L’ A RC H I T E T T U R A D E I B U N K E R la forza e la necessitá del riuso

GUIDA DAVIDE 1

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L’ A RC H I T E T T U R A D E I B U N K E R : la forza e la necessitá del riuso

POLITECNICO DI MILANO SCUOLA DI ARCHITETTURA - URBANISTICA - INGEGNERIA DEL COSTRUITO CORSO DI LAUREA IN PROGETTAZIONE DELL’ARCHITETTURA ANNO ACCADEMICO 2017 - 2018

SESSIONE DI SETTEMBRE

GUIDA DAVIDE

RELATORE: ARNALDI ARNALDO

MATRICOLA: 859996

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Alla fine del XX secolo paesaggi di tutto il mondo sono popolati da edificazioni belliche. Elementi nati con lo scopo di proteggere, resistere e attaccare, mostrando in toto la loro forza e la loro resilienza, ci appaiono oggi quasi come dei monumenti dimenticati, vestigia di un territorio che sembra non appartenergli più. Il bunker è uno degli esempi di architettura militare più diffuso ancora oggi nelle nostre città, sulle nostre coste e nelle nostre campagne; la sua capacità di proteggere e di garantire vivibilità a chi vi si nascondeva doveva essere coniugata con una semplicità ed una velocità realizzativa non indifferente. Al giorno d’oggi è possibile reinterpretare questa tipologia costruttiva, proiettandola nella civiltà odierna? Costruzioni di questo tipo erano pensate per la vita e la sopravvivenza dei battaglioni militari: la loro costruzione era studiata in modo tale da essere il meno visibile dall’esterno, ma capace di poter osservare un ampio campo visivo dall’interno; questo aspetto fa sì che oggi la questione non sia immediatamente visibile ai nostri occhi. Inoltre la capacità di resistere ad eventuali attacchi riduce drasticamente la qualità degli spazi che oggi ci appaiono assai lontani dal concetto di vivibilità. Rifunzionalizzare questi manufatti significa dichiarare apertamente e rafforzare il loro valore socioculturale; questo richiede l’applicazione di una rilettura critica di ogni singolo elemento architettonico, che nella sua semplicità è capace di raccontare la sua storia.

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INDICE

INTRODUZIONE

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1. CHE COS’ È IL BUNKER? 1.1 1.2 1.3 1.4

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Cenni storici Caratteristiche e matrice architettonica del bunker L’influenza dell’architettura militare nella società La situazione europea e il caso dell’Atlantikwall

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2. NUOVI SCENARI: LA QUESTIONE DEL RIUSO

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1.1 1.2

Il fascino del degrado e la potenzialità dei manufat- ti di guerra L’implicazione sociale del riuso

3. LE POSSIBILITÀ DEL RIUSO 3.1 3.2 3.3

Il riuso: tecniche ed esempi Il caso albanese dei “Concrete Mushrooms” Suggestioni e possibili riusi futuri

CONCLUSIONI

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“Il bello è solo il primo grado del terribile”

-R. Rilke

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INTRODUZIONE

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L’architettura militare rappresenta uno dei temi più delicati del nostro tempo: strutture figlie del genio militare, costruite con una rapidità impressionante e attraverso una meticolosa pianificazione, si ritroveranno dopo poco tempo a non avere più alcuna utilità all’interno della società del dopoguerra. Eppure, queste strutture possiedono un enorme potenziale. Durante la Seconda Guerra Mondiale il continente europeo in particolare ha visto la costruzione di linee di difesa mastodontiche che avrebbero avuto l’enorme responsabilità di respingere le incursioni nemiche sfruttando le moderne tecniche costruttive e qualsiasi altro mezzo a disposizione per garantire la miglior difesa, secondo l’ideale della “guerra totale”. La Linea Maginot, l’Atlantikwall e il Vallo Alpino sono solo alcune delle enormi fortificazioni di questo periodo, erette per proteggere i confini nazionali e non solo: un complesso sistema di strutture, ostacoli, postazioni, sistemi di inondazione, caserme e depositi con lo scopo di salvaguardare gli eserciti e garantirne il supporto in caso di attacco. Nonostante ciò molte delle linee di fortificazione si sono rivelate inefficaci contro gli attacchi dei nemici e, dopo la fine della guerra, sono state dismesse o riutilizzate per gli stessi scopi, ove possibile. Ma la maggiore parte di queste costruzioni sono state abbandonate al loro destino, a causa degli enormi costi di demolizione richiesti ma soprattutto per il loro “scomodo” passato, che non permetteva di vedere in questi manufatti la possibilità di una nuova vita, di un riuso. Tra queste i bunker rappresentano la tipologia più evidente e più diffusa sul territorio. Il riuso permette di cogliere il significato dell’opera attraverso una rilettura critica: ridare vita ai bunker è una necessità morale oltre che un’opportunità sociale. 11


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1. CHE COS’È IL BUNKER?

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1.1 Cenni storici Il termine bunker deriva dalla parola inglese bunk, che significa “cuccetta” ed ha probabilmente origine dal termine dello svedese antico bunke, con cui si indicavano le tavole per proteggere il carico di una nave. I bunker sono strutture militari difensive, nella maggior parte dei casi ipogee, per garantire una ridotta visibilità e mimetizzarsi con l’ambiente circostante, utilizzate in larga parte nei due conflitti mondiali e durante la Guerra Fredda. Erano impiegati principalmente per la difesa delle incursioni nemiche, ma erano talvolta rifugi per armi e munizioni e rimesse di mezzi acquatici. I bunker si differenziano dalle casematte che sono invece singole costruzioni o singoli locali che ospitano l’arma (cannone o mitragliatrice), mentre i bunker posso essere un complesso di costruzioni e ospitare quindi una o più casematte. Essi rappresentavo le costruzioni più utilizzate da parte degli eserciti grazie alla loro semplicità costruttiva e alla possibilità di garantire la sopravvivenza dei fruitori per un determinato periodo di tempo. Dalla fine del XIX secolo fino agli anni ’70 del secolo scorso centinaia di migliaia di bunker sono stati costruiti in Europa: lungo la Linea Maginot (lo sbarramento che proteggeva i confini francesi orientali) sono stati costruite circa 10 mila opere su una distanza di circa 2 mila chilometri tra il 1928 e il 1940; lungo il Vallo Alpino, voluto da Mussolini per difendere i confini italiani, si contano circa 3000 opere. l’Atlantikwall rappresenta una delle fortificazioni più imponenti del mondo moderno: una linea difensiva lunga circa 12 mila chilometri che

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proteggeva tutte le coste occidentali del continente europeo, dal sud della Francia fino al nord della Norvegia, costruita per volere di Hitler dal 1942 al 1945 con oltre 15000 fortificazioni. L’Albania è un caso assai curioso: durante la dittatura del leader comunista Enver Hoxha sono stati costruiti centinaia di migliaia di bunker per sorveglianza e deposito armi; nel 1983 si contano 173 mila bunker di cemento in tutto il paese, mai utilizzati per il loro scopo iniziale. Alla fine del secondo conflitto mondiale la maggior parte queste strutture sono ovviamente diventate obsolete dal punto di vista militare, a causa dell’incessante progresso tecnologico avvenuto nel dopoguerra. Solo alcune strutture sono rimaste attive, principalmente le basi utilizzate come rimesse di sottomarini, come ad esempio la base sottomarina di Brest, in Bretagna, una delle più imponenti basi militari tedesche. Questa base, così come tutte le opere militari della Germania Nazista furono realizzate dall’organizzazione Todt, un gruppo di ingegneria civile e militare guidato dall’ingegnere Fritz Todt che dal 1943 al 1945 costruì fortificazioni in tutta Europa, ricorrendo ai lavori forzati dei prigionieri nei campi di concentramento. Altre basi sottomarine sono state riconvertite in musei e centri culturali, così come altri sono stati restaurati e aperti al pubblico; per molti altri si pensava ad una demolizione con riciclo di cemento e acciaio, ma questa operazione risultava complicata e poco conveniente a causa della loro posizione spesso isolata. Ed ecco che centinaia di migliaia di bunker sono stati abbandonati al proprio destino, subendo i segni del tempo e i vandalismi, che li hanno trasformati da manufatti della guerra a manufatti del degrado.

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la base sottomarina di Saint Nazaire, nella Francia occidentale

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1.2 Caratteristiche tecniche e matrice architettonica del bunker Quando si parla di bunker generalmente si pensa ad una costruzione in cemento armato priva di qualsiasi apertura verso l’esterno, chiusa ermeticamente che serve a nascondere qualcuno o qualcosa, ma la grande varietà di tipologie esistenti e le diverse finalità correlate rendono la questione più complessa di quanto si creda. Le tipologie più semplici sono i bunker a protezione dei soldati in prima linea dagli attacchi provenienti dall’alto; di solito sono piccole costruzioni parzialmente ipogee che fanno parte di un sistema di trincee e a volte presentano una porzione apribile verso l’alto per permettere il contrattacco. Esempio celebre sono quelli costieri dell’Atlantikwall che subirono l’invasione americana durante lo sbarco in Normandia. I bunker per l’artiglieria invece sono generalmente grosse strutture, di solito arretrate rispetto ai bunker di difesa sopra citati, e presentano una grossa apertura dove era alloggiata l’arma con la sua blindatura protettiva. I bunker personali sono invece enormi strutture, di solito completamente interrate, costruite per proteggere e nascondere personalità particolarmente rilevanti e sono progettate per resistere a massicci attacchi nemici; sono forniti di un sistema di ingressi e scorciatoie per permettere ai fuggitivi di mettersi al riparo in fretta. Infine, la tipologia dei bunker industriali, ovvero costruzioni generalmente di grandi dimensioni utilizzati per lo stoccaggio di

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merci, archiviazioni, esperimenti e qualsiasi altra operazione che in altri contesti risulterebbe rischiosa. Caratteristica comune di questa tipologia di costruzioni è lo spessore delle murature: generalmente va dai 2 metri ai fino a 4,5 metri di calcestruzzo, a seconda della resistenza che deve essere in grado di garantire; in molti casi l’area della muratura è superiore a quella dello spazio utilizzabile. Questo spazio risulta per la maggior parte dei casi progettato ben oltre la logica dell’Existenzminimum: altezza ridotta (solitamente 2,2 metri), corridoi stretti, stanze piccolissime, accesso tramite scale alla marinara, ingressi a botola, ecc. ogni centimetro risparmiato diminuiva la probabilità di avvistamento da parte del nemico, aumentando quelle di sopravvivenza. All’interno di questi spazi le camere di combattimento rappresentavano uno dei punti deboli della struttura: ospitavano le postazioni difensive ed avevano quindi delle aperture verso l’esterno; di solito queste fessure erano ridotte al minimo indispensabile ed erano rinforzate con delle piastre di acciaio che venivano poi annegate nel calcestruzzo. Un altro punto debole della struttura erano gli ingressi: solitamente porte o botole in ferro, per garantire una resistenza pari a quella delle murature esterne con un peso ridotto, permettendone l’apertura.

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dettaglio di un bunker d’osservazione dell’Atlantikwall

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pianta a sezione del bunker

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Ma se da un lato i bunker sembrano essere delle costruzioni semplici e veloci da realizzare, dall’altro la loro rete impiantistica ne rivela la loro complessità costruttiva: i sistemi di ventilazione, di filtraggio aria e di comunicazione richiesero uno sforzo tecnologico non indifferente. Nei bunker era in funzione un sistema per il ricambio dell’aria, strettamente dipendente dalla compartimentazione degli ambienti realizzata con le porte stagne. L’impianto di ventilazione era costituito da un sistema composto da saracinesche e tubazioni che permetteva di convogliare l’aria proveniente da prese esterne. L’impiego degli aggressivi chimici nella Prima Guerra Mondiale aveva obbligato a adottare un sistema di protezione collettiva dai gas di combattimento all’interno dei bunker. Questo sistema prevedeva la chiusura ermetica di locali interni tramite porte stagne e l’installazione di un sistema centralizzato di ventilazione e filtraggio dell’aria prelevata tramite una serie di prese esterne poste possibilmente in luoghi defilati dal tiro. Di solito era anche prevista la comunicazione tra le varie opere: lungo il Vallo Alpino molti dei bunker erano inizialmente collegati attraverso fotofoni, apparecchi per comunicazione audio attraverso onde elettromagnetiche a infrarossi. Successivamente fu introdotta la rete telefonica. Altro leitmotiv dell’architettura dei bunker sono le forme curve e smussate; questo è principalmente dovuto a due motivi: il primo è dovuto ad un aspetto statico in quanto la cupola, ad esempio, resiste meglio agli sforzi verticali dovuti ai bombardamenti; il secondo invece è la mimetizzazione con l’ambiente circostante: visto che la maggior parte dei bunker si insedia in contesti naturali e isolati, la

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interno di una casamatta della Linea Maginot, nell’Alta Provenza

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loro forma organica permette una migliore mimesi con la natura. Addirittura, per migliorarne il camuffamento venivano ricoperti di foglie ed arbusti oppure, ove possibile, venivano incassati nelle rocce delle montagne (come nelle opere sul Vallo Alpino). Altra tecnica di camuffamento consisteva nel rendere il bunker simile ad un rifugio di montagna o ad una piccola abitazione, rivestendo il cemento grezzo con legno o pietra; testimonianze di questa tecnica sono presenti soprattutto sul Ridotto Nazionale Svizzero, che proteggeva i confini elvetici durante la Seconda Guerra Mondiale. Il camuffamento è un aspetto fondamentale di queste costruzioni: obbligava il progettista a studiare il territorio e a reinterpretarlo, cercando di applicare la soluzione più in sintonia con l’ambiente circostante; una vera e propria operazione architettonico – paesaggistica. Osservando i bunker abbandonati sulle coste dell’Atlantikwall sembra di guardare opere di Land Art che potrebbero essere state realizzate da Michael Heizer: la loro conformazione segue le dune ondulate delle spiagge della Normandia, ma la loro matericità se ne distacca nettamente. Il lavoro svolto da Paul Virilio nel suo “Bunker Archeology” attraverso questi territori ne testimonia la loro potenza e la loro forza evocativa. Interessante è il paragone di Virilio con le costruzioni funerarie del mondo antico: le mastabe egiziane piuttosto che i tumuli etruschi, con una sostanziale differenza però: quest’ultime conservavano la morte, mentre i bunker conservavano la vita.

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Sistema di bunker del Vallo Alpino mimetizzati in una montagna delle Dolomiti

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Da sinistra verso destra: Mastaba Egiziana a Sakkaba, bunker su una spiaggia a sud della Bretagna, “Complex City�, opera di Michael Heizer del 1960.

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1.3 L’influenza dell’architettura militare nella società I bunker, ma più in generale tutta l’architettura militare del XX secolo, rappresentano il paradigma del pensiero architettonico dell’epoca. All’inizio del novecento l’architettura ha progressivamente subito un cambiamento di rotta: Gli ornamenti dell’Art Nouveau lasciavano spazio alla durezza delle forme stereometriche del razionalismo e la rivoluzione del cemento armato permise sperimentazione architettoniche che pochi anni prima erano solo utopie. In realtà questa rottura con il passato deriva, come tutti i movimenti artistici rivoluzionari, da motivi sociali: la rivoluzione industriale e il progresso tecnologico hanno spinto l’arte stessa a cambiare rotta: i temi da trattare non sono più la religione, l’aristocrazia, il patriottismo, bensì le invenzioni, la macchina, la velocità, il pulsare delle nuove città, sopprimendo il carattere ornamentale dell’arte ottocentesca per la spontaneità di quella novecentesca. L’architettura diventa quindi essenza, la sua potenza è data dalla sua semplicità e dalla sua matericità. L’espressività della costruzione in cemento però, nel caso dell’architettura civile, veniva occultata a favore di una pulizia architettonica (quello che usualmente chiamiamo il “ritorno all’ordine), come se questa estetica potesse in qualche modo contenere e stemperare i drammi dell’uomo del novecento, come se il ritmo serrato degli edifici razionalisti potesse dare all’essere umano stesso una regola da seguire, un punto di riferimento, in una società in cui il progresso ha spazzato via ogni sicurezza rispetto al futuro.

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L’architettura militare da questo punto di vista rappresenta la costruzione più spontanea in assoluto: in una situazione in cui l’aspetto estetico non aveva alcun ruolo né significato, ecco che prende il sopravvento l’essenza stessa del manufatto, in cui ogni singolo elemento e ogni singola forma deriva da un preciso scopo (architettonico o militare che sia) e dove l’estetica è il punto di arrivo, e non di partenza, del processo progettuale. Uno degli aspetti più interessanti dell’architettura dei bunker è sicuramente l’approccio architettonico: la loro spontanea matericità e la loro forma anticipano quelli che sono i caratteri dell’architettura organica e soprattutto di quella brutalista. La guerra determinerà il fallimento del razionalismo, che lascerà spazio alle sperimentazioni formali di Scarpa e Kahn, dove la costruzione si libera degli schemi rigidi del passato e lascia sfogo alla sua essenza e alla sua sensorialità, proprio come avevano fatto i bunker qualche anno prima. Dal momento in cui queste costruzioni hanno perso la loro utilità per anni nessuno ha compreso la loro importanza, sia storica che architettonica, né il ruolo che esse avrebbero potuto avere all’interno della società, probabilmente perché l’attenzione era diretta più su quello che la guerra aveva distrutto, piuttosto che su ciò che aveva lasciato. Un altro aspetto fondamentale di queste costruzioni è il loro peso sociale: l’edificazione di svariate linee di difesa lungo i confini europei ha richiesto un impiego di risorse difficile da immaginare. Milioni di tonnellate di cemento e acciaio e centinaia di migliaia di lavoratori impiegati nella “bunkerizzazione” dell’intero continente hanno pesato gravemente sull’economia europea; a questo si deve sommare il fatto che molte di queste edificazio-

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ni, per diversi motivi, sono rimaste pressoché inutilizzate; questo spiega perché i bunker non hanno ancora trovato un vero ruolo all’interno della società del dopoguerra. Una prima riflessione, a debita distanza dalla guerra, su quella che è l’architettura dei bunker è stata la loro importanza archeologica, come se fossero dei resti di un’antica civiltà da conservare e tutelare per il solo ricordo della stessa. Ma se da un lato questa operazione permette di raccontare la storia di un determinato manufatto, dall’altra non permette allo stesso di diventare un nuovo simbolo per la società. Questo gesto, seppur più complicato della semplice “archeologizzazione” poiché richiede uno sforzo interpretativo maggiore, rappresenterebbe un messaggio importante per la società del XXI secolo, che non si limita alla conservazione ma cerca di restituire una nuova vita a questi manufatti, pur senza alterarne l’identità.

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Frank Lloyd Wright , Guggenheim Museum, New York , 1943

Torre di osservazione su una delle isole delle isole del Canale della Manica

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Erich Mendelsohn , Torre Einstein, Posdam , 1924

Torre di osservazione sulla costa atlantiche

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Sopra: postazione di fuoco nella regione Pays de la Loire; sotto: Frank Loyd Wright, Casa sulla Cascata, Pennsylvania

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Sopra: tipica apertura per postazione di fuoco; sotto: Carlo Scarpa, Tomba Brion, San Vito D’Altivole (TV), dettaglio cappella

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1.4 La situazione europea e il caso dell’Atlantikwall Nel settembre 1942 la Germania Nazista, che stava già combattendo su due fronti, decise di fortificare tutta la costa occidentale del continente europeo per riuscire a fronteggiare l’imminente invasione da parte delle forze alleate. Il piano era di costruire 15 mila fortificazioni sorvegliate da 300 mila uomini su lunghezza di 5 mila chilometri che andava dal nord della Norvegia fino alle coste spagnole. Numeri enormi se si considera che il tutto doveva essere pronto entro soli 7 mesi. Nonostante l’ingente quantità di risorse impiegate per realizzare questo folle progetto, l’Organizzazione Todt (che stata costruendo fortificazioni in tutta Europa) riuscì a completare solo il 30% delle costruzioni previste. Di conseguenza nel novembre 1943 il maresciallo Erwin Rommel fu nominato supervisore delle difese costiere occidentali e subito mise in evidenza la vulnerabilità del Vallo Atlantico, dovuta principalmente all’impiego di maggiori risorse sul fronte orientale dove la situazione si stava facendo problematica. Rommel al suo arrivo ritenne che le difese costiere erano assolutamente insufficienti, poiché sarebbero state facilmente sconfitte dall’aviazione alleata che era decisamente più preparata; di conseguenza attuò alcune soluzioni per poter migliorare la situazione: ordinò la costruzione di bunker più piccoli, anche per un solo soldato, in modo da velocizzare i tempi di costruzione e fece dislocare sulle spiagge francesi diversi campi minati e sistemi di difesa che sarebbero serviti a contenere e rallentare lo sbarco degli alleati come ostacoli subacquei e picchetti di legno per impedire l’atterraggio di alianti. Per velocizzare i tempi furono costretti ai lavori forzati circa un milione di lavoratori francesi.

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Nonostante l’intervento di Rommel, i lavori del Vallo Atlantico non furono mai ultimati e fu poco considerata la probabilità di uno sbarco su una spiaggia, mentre si pensava che l’invasione sarebbe avvenuta in una delle città portuali delle coste francesi. E invece il 6 il giugno 1944 l’esercito alleato arrivò proprio sulle spiagge normanne e riuscì a sfondare quella che sarebbe dovuta essere la linea difensiva più potente d’Europa evitando intelligentemente le Isole del Canale. Queste erano le aree più densamente fortificate di tutta Europa a causa della loro importanza propagandistica, poiché rappresentavano un territorio Britannico occupato dai nazisti, ma erano di fatto irrilevanti dal punto di vista strategico.

Manifesto originale della costruzione dell’Atlantikwall

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Dopo la guerra non ci fu alcun interesse da parte dei paesi coinvolti a voler tutelare le costruzioni del Vallo Atlantico, poiché rappresentavano le sofferenze di anni di guerra e sfruttamenti, e furono per la maggior parte abbandonate o demolite. Molti bunker sono stati sommersi dall’oceano, altri si sono deteriorati; solo in pochi casi sono stati considerati come un patrimonio da conservare e tutelare: in Belgio le linee difensive naziste vicine alla città portuale di Ostenda sono diventate un museo a cielo aperto. L’ Atlantic Wall Open Air Museum include oltre 60 bunker e circa due mila trincee visitabili, grazie alla decisione del principe Carlo Teodoro di non demolire le strutture militari ma di lasciarle a testimonianza dell’occupazione tedesca. Un altro esempio di conservazione delle strutture dal Vallo Atlantico è la batteria Todt, una serie costruzioni vicino a Audinghen, nel Pas De Calais, a nord della Francia. Qui sono state conservate quattro importanti casematte, di cui una è diventata un museo, il “Musée du Mur de l’Atlantique”, dove al suo interno sono stati ricostruiti gli ambienti e le situazioni così com’erano durante la guerra. Questi esempi sono fondamentali perché riescono a comunicare alla società del XXI secolo la vita e le abitudini dei soldati al fronte, cose che non dovrebbero mai essere dimenticate. Per la maggior parte delle costruzioni del Vallo Atlantico però, come nel resto dell’Europa, il destino è stato quello dell’abbandono. Nonostante molte istituzioni francesi abbiano sollevato la questione di considerare le strutture come monumento nazionale, nessun governo ha deciso di affrontare il problema.

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Alcune casamatte recuperate all’interno dell’ Atlantic Wall Open Air Museum di Ostenda

Il bunker princiale del Musée du Mur de l’Atlantique a Audinghen

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Alcune personalità hanno dimostrato un profondo interesse artistico – culturale per il lascito delle costruzioni del Vallo Atlantico, come il già citato Paul Virilio, che nel suo Bunker Archeology pone sotto i riflettori d’Europa i bunker della costa occidentale francese, nonché la loro importanza archeologica, storica e sociale. Il suo lavoro comprende una serie di scatti in bianco e nero dei bunker più interessanti della costa francese fatti dall’autore stesso nel corso degli anni ’50, dove mette in risalto il loro carattere metafisico ma soprattutto il loro rapporto con il paesaggio. Insieme al lavoro fotografico affianca il rilievo architettonico: piante e sezioni delle principali tipologie dell’Atlantikwall permettono di comprendere per la prima volta la matrice architettonica e l’organizzazione spaziale di queste costruzioni, il che costituisce il primo passo per una reinterpretazione e, successivamente, per un riuso. Un altro lavoro che ha portato l’architettura dei bunker all’attenzione mediatica è stato quello di Jean-Claude Gautrand, importante fotografo francese, che nel 1977 pubblica “Forteresses du Derisoire”. Il suo lavoro è molto simile a quello di Virilio, ma i suoi scatti sono molto più soggettivi: il forte contrasto e il gioco di luce - ombra mettono in evidenza l’aspetto materico e sensoriale del cemento armato, mentre le inquadrature sono utili non tanto per comprendere la tipologia architettonica, quanto per focalizzarsi su un dettaglio o su uno scorcio interessante. La teatralità delle foto di Gautrand rivela il fascino di queste opere, che ormai iniziano a subire i segni del tempo e che creano uno spazio quasi onirico e poco riconoscibile, come fossero delle cupe scenografie.

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Jean-Claude Gautrand, Forteresses du Derisoire, 1977

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2. NUOVI SCENARI: LA QUESTIONE DEL RIUSO

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2.1 Il fascino del degrado e la potenzialità dei manufatti di guerra Nelle fotografie di Virilio e Gautrand si percepisce un cambio di rotta: per la prima volta i bunker della seconda guerra mondiale non vengono visti come dei resti testimoni di un triste avvenimento da dimenticare, bensì vengono osservati, analizzati e interpretati come elementi di un paesaggio urbano in trasformazione; non sono più vestigia del territorio da cancellare ma patrimonio da salvaguardare. Non è un caso che questo cambiamento avvenga proprio in questo momento, a cavallo tra gli anni ‘60 e ‘70: la fine del boom economico del dopoguerra e la dismissione industriale che prese piede a partire dalla fine degli anni ‘60 iniziarono a suscitare interesse per i manufatti abbandonati, poiché erano testimoni di un passato e potevano rappresentare un’opportunità futura. In questi anni tantissime industrie che avevano trovato impiego nella società del dopoguerra chiusero irrimediabilmente i battenti lasciandosi alle spalle un enorme patrimonio edilizio apparentemente senza futuro. A questo si aggiunge la questione dello spreco: fino agli anni ‘50 l’espansione delle città e l’urbanizzazione non tenevano conto del consumo di suolo e di risorse che un’incontrollata edificazione avrebbe generato. E da questo momento ecco che gli edifici abbandonati iniziano ricoprire un ruolo importante, probabilmente anche dovuto alla tendenza artistico - architettonica che stava cambiando, che lasciava spazio a ricerche più evocative e spontanee, abbandonando l’approccio iconico. Se prima il cemento grezzo e le componenti strutturali di un edificio venivano tassativamente nascoste, ora questi

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elementi diventano la nuova espressione del linguaggio architettonico; allo stesso modo l’arte povera di Kounellis e Merz rappresenterà, a partire dalla metà degli anni ‘60, un nuovo modo di esprimersi attraverso oggetti e materiali di uso comune, dissociandosi dall’arte figurativa del passato. Queste tendenze contribuiranno ad alimentare l’interesse e la sensibilità nei confronti dell’abbandono e, successivamente del riuso.

Mario Merz, Igloo

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Il tema dell’abbandono diventa sempre più centrale con il passare del tempo; alla fine degli anni ’80 il fenomeno Urbex (abbreviazione di Urban Exploration) si diffonde il tutto il mondo: una serie di persone provenienti da svariati campi (fotografi, architetti, storici, archeologi, ecc.) si imbattono in strutture abbandonate di qualsiasi tipo, alla scoperta di un patrimonio architettonico di cui a volte non si conosce nemmeno l’esistenza. Con il passare degli anni questa pratica ha avuta una forte influenza, sia sociale che politica; è divenuta un impegno per segnalare, salvaguardare e proteggere questi luoghi dal completo decadimento. Molti appassionati di questa attività cercano di valorizzare questi ambienti e proporli alle piattaforme mediatiche per far conoscere le meraviglie perdute dei propri paesi e portando avanti anche progetti di sensibilizzazione e raccolte fondi. A poco a poco il fascino del degrado influenzerà svariati campi artistici: dall’architettura alla scultura, dalla fotografia al cinema. Fascino che deriva non tanto dall’aspetto estetico in sé, quanto da quello che potrebbero offrire questi edifici e da cosa potrebbero diventare. Naturalmente quando si parla di manufatti della guerra la situazione diventa più complicata, in quanto la memoria e il significato dell’opera stessa hanno un valore diverso rispetto a qualsiasi altro tipo di edifico o costruzione. Eppure, essi rappresentano una delle categorie più diffuse quando si parla di edifici abbandonati sia per il loro triste passato, sia per le difficoltà di demolizione a causa delle loro peculiarità costruttive. In particolar modo i bunker abbandonati subiscono continuamente atti di criminalità, vandalismo, essendo stati progettati principalmente per nascondere ciò che era al suo interno e quindi terreno fertile

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per attività illecite. Per aggirare il problema in molti casi si è scelto di murare gli accessi, seppellendo per sempre questi manufatti e la loro possibilità di nascita. Uno degli esempi più infelici è proprio una delle strutture militari più importanti in assoluto: il Bunker di Adolf Hitler a Berlino, che dopo la fine della guerra fu tristemente demolito e sigillato. La costruzione, quasi completamente sotterranea, presentava un complesso sistema di accessi, stanze e sistemi di difesa, che sarebbero potuti diventare un monumento dal valore sociale inestimabile. Questa scelta fu principalmente dovuta alla volontà di evitare qualsiasi manifestazione o tributi da parte di movimenti neonazisti cercando di eliminare qualsiasi possibilità di “ricaduta”, ma di fatto si è negata l’opportunità alle generazioni future di poter osservare e rivivere la storia nei posti in cui è stata scritta. Al suo posto oggi sorge un parcheggio; solo un pannello commemorativo posto nelle vicinanze segnala la presenza di quello che è stato probabilmente il manufatto di guerra più importante del ‘900.

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Il bunker di Adolf Hitler a Berlino prima e dopo la sua demolizione

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2.2 L’implicazione sociale del riuso Il riuso è uno dei temi architettonici più attuali e discussi del nostro tempo: l’eccessivo consumo di suolo e di risorse ha portato a riflettere su quello che è il patrimonio edilizio in disuso. Oggigiorno, la maggior parte delle proposte architettoniche riguarda interventi sull’esistente; si è aperto dunque un vasto scenario di quelle che sono le varie possibilità di riutilizzare un manufatto abbandonato, di quali potrebbero essere gli obbiettivi di questa pratica e di come perseguirli. I bunker, ma più in generale tutte le costruzioni belliche, non sono stati considerati subito come un esempio di strutture da poter riutilizzare, come avrebbe potuto essere una fabbrica abbandonata o qualsiasi altro edifico civile; per un loro riuso si intendeva al massimo un intervento di tipo conservativo, che si limitasse a comunicare la sua storia. In effetti, la particolarità di questi manufatti rende difficile pensare ad una trasformazione radicale che suggerisca una funzione differente da quella iniziale. Le piccolissime camere, la quasi totale mancanza di aperture verso l’esterno, la loro posizione spesso isolata e tanti altri fattori hanno contribuito per decenni ad evitare la strada del riuso. Recentemente però, diversi progetti di architettura hanno provato ad intraprendere una strada che non si limitasse semplicemente all’archeologizzazione, ma che cercasse di ridare una nuova vita a questa tipologia di edifici, cercando di reinterpretare i suoi principi attraverso un’altra funzione. Questo approccio rappresenta una sfida interessante e un’opportunità per le centinaia di migliaia di bunker sparsi in tutta Europa e nel mondo che fino ad ora, tranne che in pochi casi, non hanno mai ricevuto la giusta 56


considerazione. La più grande difficoltà di un approccio di questo tipo è sicuramente la conservazione dell’identità, nel senso che la trasformazione deve ridare vita all’opera senza snaturarla, in modo tale che si legga la sovrapposizione degli interventi che hanno contribuito ad ottenere quello che si sta osservando e vivendo; diversamente, si perderebbe la vera essenza e la storia dell’edificio, che nel caso del bunker o di una qualsiasi altra architettura militare rappresenterebbe una grave mancanza. Il riuso dei bunker rappresenta una vera e propria vittoria sociale: attraverso l’architettura si supera l’orrore della guerra conservandone la memoria, trasformando un relitto bellico in una nuova opportunità. Quando si entra nel merito del riuso ci si scontra sistematicamente con l’identità del manufatto, con la sua storia e il suo ruolo all’interno della società, mettendo il progettista di fronte a delle scelte che vengono influenzate da questi elementi. Non sarebbe corretto esporre una teoria sulla prassi del riuso, poiché ogni edificio ha la sua storia e il suo ruolo sociale; il medesimo discorso vale per le architetture di guerra, dove più ogni altro tipo di edificio, la conservazione della sua storia è una prerogativa fondamentale. Sebbene la trasformazione rappresenti una metodologia interessante, ci sono dei casi in cui questi luoghi hanno un valore storico tale che un approccio di questo tipo rischia di occultarne l’identità. È il caso di strutture di particolare importanza storica, dove un riuso di tipo conservativo rappresenta l’approccio più pertinente, a patto che il manufatto e la sua storia vengano messi

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a servizio della comunità. Un esempio è sicuramente il Bunker Soratte, costruito vicino Roma per volere di Mussolini nel 1937. Si tratta di un complesso sistema di gallerie, camere e passaggi segreti per una lunghezza totale di circa 4 chilometri che sarebbero dovute servire da rifugio antiaereo per le alte cariche dell’Esercito Italiano. Durante gli anni della Guerra Fredda fu convertito nel bunker antiatomico del Governo Italiano, ma i lavori si interruppero bruscamente nel 1972 per ragioni ignote. Recentemente gli spazi sono stati sottoposti ad un progetto di recupero e di allestimento, con un percorso museale denominato “il percorso della memoria”, oggi parzialmente percorribile. Dal punto di vista sociale quindi, il riuso implica una serie di riflessioni su quelli che sono gli obbiettivi da perseguire e gli aspetti che si vogliono mettere in evidenza con questa azione. Nel caso dei bunker, nonostante le varie problematiche da considerare, ci sono tantissime opportunità che possono restituire alla comunità questi edifici e che permetterebbero di guardargli con occhi totalmente differente da quelli con cui lo facciamo oggi. Il loro stato conservativo spesso pessimo è testimone del loro non – ruolo all’interno della società di oggi. Ma recentemente una serie di personalità proveniente da vari campi stanno dimostrando il loro interesse verso questo problema, attraverso progetti, articoli, eventi e quant’altro, tentando di innescare un interesse comune su un tema particolarmente delicato.

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Uno dei corridoi di fuga del bunker Soratte

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3. LE POSSIBILITÀ DEL RIUSO

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3.1

il riuso: tecniche ed esempi

In questo capitolo vengono presentati una serie di progetti che affrontano le varie possibilità di riuso dei bunker, ognuno con una logica, un obbiettivo e di conseguenza un risultato differente. Si tratta di progetti che cercano di svelare le identità nascoste di questi edifici, portandoli all’attenzione mediatica, molte volte anche attraverso interventi provocatori, che spesso riescono più di ogni altro progetto a trasmettere un messaggio in maniera più chiara e diretta.

Magdalena Jetelová, proiezioni laser delle citazioni di Paul Virilio in Bunker Archeology, 1995

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BUNKER PAVILION Progettista: B-ILD Luogo: Fort Vuren, Paesi Bassi Anno: 2014 Il progetto è la trasformazione di un vecchio bunker costruito nel 1844 e facente parte del complesso Hollandsche Waterlinie, una linea difensiva basata su sistemi idrici che attraversa la parte centrale dell’Olanda passando per diverse città, tra cui Utrecht. Già dichiarato monumento nazionale insieme ad altre costruzioni della linea, è stato convertito in una casa vacanze temporanea. Visto il successo dell’operazione, il governo olandese decise di non smantellarlo rendendolo permanente. L’edificio è un piccolo blocco di calcestruzzo armato seminterrato, circondato da un verde rigoglioso; il suo ingresso è segnalato da una piccola collinetta rialzata e dal fronte in cemento nel quale è scavata la porta di ingresso, secondo i canoni del mimetismo militare. Al suo interno uno spazio minimale: 30 metri quadri utilizzabili scanditi da pareti spesse quasi due metri per una superficie muraria che è quasi il doppio dello spazio vivibile. Gli ambienti vengono modulati attraverso elementi scomponibili e multifunzionali, che sfruttano le rientranze delle masse murarie per garantire quanto più spazio possibile. E così piccole nicchie inizialmente pensate per depositare armi e munizioni, o magari per ripararsi da un eventuale attacco nemico, diventano dei piani cucina piuttosto che armadi scorrevoli. La stanza

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principale, di dimensioni 3x3 alta 1,8 metri funziona come soggiorno e camera da letto, e perciò contiene una serie di elementi adattabili ad entrambi gli usi: gli sgabelli possono essere usati come comodini, il tavolo può essere ribaltato per ottenere più spazio, i letti possono essere nascosti, e così via. L’utilizzo del legno crea un forte contrasto con quello che è la rudezza del cemento grezzo.

La camera principale del Bunker Pavillion

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All’esterno dell’edificio un piano di legno leggermente sollevato dal suolo permette di svolgere diverse attività; un aspetto curioso è che la dimensione del deck di legno è la stessa di quella del bunker compresa di tutte le murature; questo ci aiuta a comprendere la quantità di spazio utilizzabile rapportata all’enorme massa di cemento che lo circonda. Questo progetto interpreta quindi questa tipologia di costruzioni attraverso un intervento delicato, che affronta la complicata sfida di rendere uno spazio duro come quello di un bunker un ambiente caldo ed accogliente. Un intervento di interni pensato per dare qualità ad ogni singolo spazio, in un luogo in cui ogni centimetro quadrato può fare la differenza; allo stesso tempo è un intervento di tipo paesaggistico, dove attraverso il deck esterno non solo viene data la possibilità di vivere lo spazio esterno, negata dal bunker, ma viene segnalata la sua presenza all’interno del paesaggio, occultata dal suo mimetismo.

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Confronto tra la pianta della casa e quella del deck esterno: le loro dimensioni sono identiche

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Il lato di ingresso del bunker e il suo deck esterno

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THE FEUERLE COLLECTION Progettista: John Pawson Luogo: Berlino, Germania Anno: 2016 Ci troviamo a Kreuzberg, un quartiere a sud del centro storico di Berlino. Qui sorge un ex bunker delle telecomunicazioni risalente alla Seconda Guerra Mondiale che si sviluppa su due piani per una superficie totale di 6480 mq. L’iniziativa è partita dal collezionista di arte contemporanea e asiatica Désiré Feuerle, che dagli anni ’90 cominciò a collezionare sculture e oggetti d’arte cinese antica. Il progetto è incentrato sul dialogo tra periodi storici e culture diverse e offre la possibilità di percepire l’arte antica da una prospettiva insolita, immergendo il visitatore in un’esperienza di tipo sinestetico. L’intervento si basa principalmente sull’aspetto allestitivo del percorso museale: muri bianchi, giochi di specchi e luci soffuse conferiscono al luogo un’atmosfera onirica e pacifica, mantenendo l’imponenza della costruzione bellica. Il minimalismo degli interventi favorisce il dialogo tra la brutalità delle pareti in cemento e l’eleganza delle sculture orientali. Il percorso si compone di uno spazio per esposizioni temporanee al piano terreno, mentre il piano interrato si compone di tre spazi: Sound Room, Lake Room e Incense Room. La Sound Room è un’esperienza sensoriale accompagnata dai suoni del compositore americano Jhon Cage; la Lake Room ospita il “lago”, un bacino idrico artificiale utilizzato per riscaldare il museo tramite una pompa di calore geotermica; infine la Incense Room, uno spazio 70


dedicato alla cerimonia cinese dell’incenso, una pratica spirituale dalla tradizione millenaria. La collezione riunisce opere di artisti contemporanei internazionali, mobili cinesi di età imperiale in pietra, legno e legno laccato, risalenti a diverse dinastie, dalla Han alla Qing (200 a.C. – XVIII sec) e sculture Khmer, dal VII al XIII sec. Per quanto riguarda le opere di arte contemporanea compaiono i nomi di Cristina Iglesias, Adam Fuss, Nobuyoshi Araki, Anish Kapoor, Zeng Fanzhi e James Lee Byars.

Gioco di specchi nella Sound Room

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Scorcio della Lake Room sul “camino� del bacino idrico

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TIRPITZ MUSEUM Progettista: BIG Luogo: Blåvand, Danimarca Anno: 2017 Ci troviamo sulla costa occidentale della Danimarca, nella località di Blåvand; questo è uno dei territori più grermiti di bunker militari dell’Atlantikwall, in quanto le sue coste guardano direttamente quelle dell’Inghilterra e sarebbero potute essere terreno di approdo per le truppe alleate. Qui la comunità si è domandata più volte cosa farne di queste costruzioni, cercando in ogni caso di tutelarne la loro storicità. La maggior parte dei bunker sono in condizioni buone e liberamente visitabili, altri sono diventati delle vere e proprie opere d’arte come le sculture dell’artista inglese Bill Woodrow, che nel 1995 ha trasformato alcuni piccoli bunker delle spiagge di Blåvand in muli, sovrapponendo alla costruzione in cemento due elementi di metallo che raffigurano la testa e la coda. Il progetto di BIG rappresenta un ulteriore passo in avanti per il riuso di questi manufatti: esso è un centro culturale basato sul racconto della Seconda Guerra Mondiale, in particolare degli aspetti che hanno caratterizzato il fronte occidentale del conflitto. L’intervento progettuale lavora per antitesi rispetto al bunker preesistente: quest’ultimo diventa il landmark di riferimento, il punto di partenza del percorso museale che successivamente si sviluppa all’interno di camminamenti scavati e camuffati nelle dune sabbiose, in contrasto con quello che è la potente presenza 74


della costruzione in cemento. Il “museo invisibile” si sviluppa su una superficie di 2800 mq; all’arrivo, i visitatori vedono subito il bunker e successivamente, mentre si avvicinano, i tagli e i percorsi che conducono verso il centro del complesso museale. Il cortile centrale consente l’accesso ai quattro spazi della galleria sotterranea. Le esposizioni, disegnate dallo studio olandese Tinker Imagineers, mostrano esperienze tematiche permanenti o temporanee. Ogni galleria ha un suo ritmo che si relaziona alla storia: alto e basso, notte e giorno, cattivo e buono, caldo e freddo.

Schema concettuale dei percorsi “scavati”

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Il vecchio bunker invece è stato pensato come un elemento da cui osservare l’intervento ipogeo e il paesaggio circostante, attraverso il patio centrale, che molto probabilmente era stato pensato per ospitare il cannone o comunque l’arma a difesa della fortezza. Il patio ospita la scala a chiocciola che permette di arrivare sulla copertura del bunker, sormontata da una cupola trasparente. Di notte la cupola viene illuminata, svolgendo la sua funzione di landmark anche in mancanza di luce naturale. L’elemento più interessante di questo intervento, oltre che al lavoro di antitesi con il bunker preesistente, è la rievocazione dei due aspetti principali di un manufatto di guerra: da un lato la necessità di osservare e vigilare, mettendosi in mostra, dall’altro l’esigenza di nascondersi e di ripararsi.

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Sopra: vista dall’alto notturna dell’area museale; sotto: il bunker preesistente che apre la strada al percorso interrato.

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La vista del cortile centrale da una delle sale espositive

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BUUNKER 599 Progettista: RAAAF, ATELIER DE LYON Luogo: Diefdijk, Paesi Bassi Anno: 2010 Questo progetto è un altro intervento di riuso di uno dei 700 bunker della Hollandsche Waterlinie. Qui siamo a Diefdijk, un piccolo paese a sud di Utrecht, dove sorgono diversi bunker che spesso si trovano in prossimità dell’acqua, poiché la linea difensiva in questione si basava su sistemi di inondazione artificiali, attraverso la creazione di bacini acquatici abbastanza profondi da non permettere alla fanteria di avanzare, ma allo stesso tempo abbastanza bassi da non permetterne la navigazione. È proprio in questa logica che è stato costruito il bacino d’acqua su cui si affaccia il bunker numero 599, che serviva molto probabilmente per riparare i soldati che dovevano occuparsi di sbaragliare il nemico bloccato nella trappola acquatica. Si tratta di un piccolo fabbricato in cemento armato costruito nel 1940, come dice la scritta incisa nel cemento, che poteva ospitare fino a 13 soldati. L’intervento consiste in un taglio, della larghezza di circa 1 metro, che divide il bunker in due parti, effettuato attraverso l’utilizzo di un disco diamantato. La parte sezionata viene attraversata da un camminamento artificiale che si prolunga fino al bacino idrico, diventando un vero e proprio molo. Questa operazione consente in primis di vivere ed osservare gli interni di questo manufatto, che per la natura stessa dei bunker risultano essere sempre intangibili, e di stabilire un contatto diretto tra quella che 80


è la strada (il luogo da cui si arriva), il bunker, che non è più un ostacolo da evitare ma anzi un elemento che apre la strada verso l’orizzonte, e l’acqua. Si tratta di un intervento radicale che ribalta completamente la logica di una costruzione bellica: il bunker, che per ovvie ragioni deve essere tenace e resiliente, non può nulla contro il gesto artistico. Esso, dal punto di vista sociale, rappresenta la definitiva vittoria dell’architettura su quelli che sono i drammi della guerra, donando alle sue testimonianze un nuovo inizio.

pianta e sezioni dell’intervento progettuale

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In questo caso si tratta principalmente di un intervento di tipo paesaggistico, più specificatamente potrebbe essere inteso come un intervento di land art, in quanto lavora in perfetta sintonia con il paesaggio circostante attraverso un intervento concettuale e, per certi versi, metafisico. In realtà questi sono caratteri che sono già emersi da considerazioni precedenti, che già vedevano questi manufatti come “elementi artistici”; questa tipologia di intervento potrebbe essere quindi considerata come un naturale processo di trasformazione di questi edifici, che ora dichiarano apertamente la loro debolezza senza dimenticare la loro ormai passata imponenza.

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Il bunker prima e dopo il “taglio�

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Il percorso che attraversa il bunker 599 fino al lago artificiale

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3.2 Il caso albanese dei “Concrete Mushrooms ” Dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale le truppe tedesche liberarono l’Albania, in cui rapidamente presero potere le minoranze comuniste che istituirono la Repubblica Popolare d’Albania, una dura dittatura con a capo il primo segretario del Partito Comunista Enver Hoxha. Inizialmente il regime era un paese satellite della Jugoslavia di Tito, la quale sperava in una sua annessione; ma quando nel 1948 la Jugoslavia venne espulsa dal Cominform a causa del deteriorarsi dei rapporti con l’URSS, l’Albania fece un rapido voltafaccia, rompendo ogni rapporto con Belgrado. Hoxha si dichiarò marxista-leninista e prese come modello la dittatura di Stalin; nel frattempo temeva un’ imminente invasione jugoslava, per cui a partire dal 1950 iniziò a costruire i primi bunker difensivi lungo i confini potenzialmente ostili. Il ritmo della costruzione dei bunker aumentò esponenzialmente a partire dal 1968, anno in cui la crisi sino – sovietica allontanò le due fazioni comuniste di URSS e Cina, determinando l’uscita dell’Albania dal Patto di Varsavia che invece si schierò dalla parte della Cina comunista. In questo periodo la dittatura si inasprì: lo stato dei diritti umani si fece critico a causa della limitazione di alcuni diritti civili come la libertà di parola, di religione, di stampa e di associazione con la giustificazione che ciò fosse necessario per garantire stabilità ed ordine sociale. Nel 1976 la morte di Mao Tse-tung mise fine ai rapporti tra Cina e Albania che portò Hoxha ad avviare una politica di repressione e di autarchia, chiudendo ogni rapporto con altri paesi esteri; la costruzione dei bunker continuò ininterrottamente in tutto il pa86


ese fino alla sua morte, avvenuta nel 1985. Da questo momento il regime comunista cominciò ad indebolirsi, fino a lasciare definitivamente posto alla democrazia, che nel 1992 introdusse una politica più liberale e aperta ai rapporti internazionali. Il piano di Hoxha prevedeva la costruzione di un totale di 750 mila bunker su tutto il territorio nazionale: sulle coste, nelle città, sui passi di montagna e in ogni altro posto in cui il nemico avrebbe potuto attaccare. Questa bunkerizzazione è costata più del doppio della Linea Maginot ed ha impiegato il triplo del cemento rispetto alla fortificazione francese, comportando non solo un enorme peso monetario per l’economia albanese, ma anche un grosso impatto sociale. La strategia di Hoxha si basava sulla militarizzazione di tutto il popolo albanese: ogni cittadino doveva essere in grado di utilizzare armi da fuoco e, all’occorrenza, raggiungere il bunker più vicino e difendere la nazione dal nemico. Alla caduta del regime le centinaia di migliaia di bunker che ancora facevano parte del landscape albanese, ancora minavano le città e le coste rappresentando forse il ricordo più triste della storia di questa nazione. Ad oggi il numero delle costruzioni rimaste in piedi è ancora oggetto di discussione: alcune fonti dicono che oltre 170 mila bunker sono ancora in buono stato conservativo; molti sono stati demoliti e riciclati, ma questa strada è stata presto abbandonata a causa degli enormi costi che, a scala nazionale, avrebbe comportato. Ad ogni modo, questi manufatti sono diventati parte della società del XXI secolo, adattandosi alle varie circostanze. La popolazione, consapevole della difficoltà ma anche dell’inutilità di eliminare questi piccoli edifici diventati ormai un vero e proprio

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simbolo della comunità albanese, ha in qualche modo cercato di utilizzarli in svariati modi: da superfici per street art o graffiti a rifugi per senzatetto, da sedute a trampolini per tuffi, e tanti altri impieghi “di fortuna”, che non rappresentano una vera e propria idea di riuso ma testimoniano la volontà da parte della popolazione di voler utilizzare questa risorsa. E così nel 2008 Elian Stefa e Gyler Mydyti, due studenti albanesi del Politecnico di Milano, avviano un’iniziativa chiamata “Concrete Mushrooms”, dalla forma di questi piccoli bunker che ricorda un fungo. Il loro obbiettivo principale è quello di accrescere la consapevolezza delle opportunità che possono offrire queste costruzioni, attraverso una serie di trasformazioni semplici ed economiche, in modo tale che possano essere effettuate da chiunque. Ma la logica interessante di questa idea è quella di ribaltare la tendenza xenofoba che ha caratterizzato il regime comunista, lasciando spazio all’apertura verso altre culture, all’ospitalità e al turismo, che negli ultimi anni sta subendo una crescita esponenziale. Per quanto possano sembrare tutti molto simili, i bunker albanesi presentano varie tipologie e dimensioni, a seconda del pericolo da fronteggiare, dall’orografia del paesaggio, dei punti strategici e da tanti altri fattori. Le coste e le grandi città sono i luoghi più popolati dai funghi di cemento, ma come già detto sono visibili su tutto il territorio nazionale.

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Un riuso “spontaneo� di un bunker sulle coste di Valona

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Due tipologie di bunker albanesi tratto da “Concrete Mushrooms: Bunkers in Albania”

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I ragazzi di Concrete Mushrooms suddividono i bunker in 3 tagli differenti (S, M, L) e riconoscono inoltre differenti tipologie aggregative, poiché di solito la costruzione prevedeva una serie di postazioni ad una certa distanza le une dalle altre, piuttosto che un solo bunker isolato, in modo tale da rendere più efficace la difesa attraverso il fuoco incrociato. E così un gruppo di 5 – 6 bunker della tipologia S può diventare un campeggio con accampamenti realizzabili in pochi minuti, aree ristoro, servizi igienici, ecc. L’attività del camping si è rapidamente diffusa in tutta la nazione a partire dal crollo del comunismo, sia nelle località montane che in quelle marittime; un intervento di questo tipo permetterebbe la realizzazione di accampamenti freschi e confortevoli utilizzando pochi elementi: aste di legno, ganci, corda e picchetti. Un’altra tipologia aggregativa ricorrente è un gruppo di 3 bunker collegati da un piccolo tunnel in cemento, che all’occorrenza si può trasformare in un accampamento che può ospitare fino a 6 persone. Naturalmente per garantire questo tipo di utilizzo è necessario un progetto che preveda la messa in sicurezza dei bunker (praticamente tutti i bunker sono stati privati di porte e finestre, per poter recuperare metallo da vendere o riutilizzare), una costante manutenzione e un’efficace comunicazione che metta al corrente il fruitore del servizio offertogli e di come poterlo utilizzare. Per i bunker di tipo medium ci sono diverse opportunità: la loro dimensione permette di ospitare 4 - 5 persone contemporaneamente e di svolgere diverse attività; molti sono stati trasformati in piccoli negozi, cafè, saloni di tatuaggi e addirittura piccoli

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Ipotesi di creazione di una serie di accampamenti attraverso l’utilizzo di semplici strumenti da camping ; tratto da “Concrete Mushrooms: Bunkers in Albania”

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Sopra: un bunker trasformato in un bar; sotto: il bunker diventa un luogo di ritrovo per giovani artisti.

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B&B, sempre attraverso interventi minimi ed estremamente economici. I bunker più grandi invece non vengono esplicitamente indicati all’interno dell’iniziativa, poiché esistono differenti possibilità di riuso, considerando che la dimensione consente di percorrere svariate strade; un esempio importante è il BunkArt di Tirana, un importante museo progettato all’interno del bunker personale di Hoxha, dove un percorso attraverso opere ed istallazione innovative racconta la triste storia del regime comunista di questo paese. Un altro lavoro interessante sui bunker albanesi è stato fatto dall’artista e designer Olia Miho, che ha realizzato una serie di spunti progettuali sotto il nome di “Concrete Cathedrals”. Il controverso progetto consiste in alcuni monumenti che non commemorano le vittime del regime, bensì coloro i quali, attraverso la ribellione e la propaganda, hanno contribuito a sovvertirlo. L’idea consiste nel trasformare alcuni bunker in dei landmark attraverso un forte gesto artistico, che in realtà però nasconde un accesso sotterraneo che porta ad un bagno pubblico. Il gesto si basa sulla definizione di sporco dell’antropologa Mary Douglas, che lo definisce un’offesa contro l’ordine. Il bunker, che ha sempre rappresentato lo strumento di mantenimento dell’ordine, si ritrova ad essere ora contenitore di “sporcizia” e quindi di disordine, ribaltando metaforicamente l’ideale di ordine e rigore del comunismo di Hoxa.

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3.2

Suggestioni e possibili riusi futuri

Abbiamo visto come, attraverso differenti approcci progettuali, si possono raggiunge risultati estremamente differenti. I progetti presentati partono da obbiettivi molto diversi, ma con lo scopo comune di offrire un punto di vista differente rispetto a quello che si ha nei confronti di architetture come quella dei bunker, dove la strada del riuso ha dovuto attendere parecchio tempo prima di essere anche solo presa in considerazione, per i vari motivi già trattati. In realtà questi progetti di riuso rappresentano, se vogliamo, ancora un approccio sperimentale, nel senso che non appartengono ad una pratica consolidata, ma sono una serie di interventi puntuali, limitati ad un solo manufatto. Uno degli aspetti che più è emerso in questo studio è che nella maggior parte dei casi, questi manufatti non sono stati pensati per essere autosufficienti, bensì fanno parte di un complesso sistema connesso e coordinato: se prendiamo in considerazione i luoghi in cui sono collocati i progetti analizzati noteremo subito che il bunker riutilizzato è solo uno dei tanti che appartiene a quel determinato sistema difensivo. Forse è questa la caratteristica che viene a mancare in tutti i progetti studiati: la capacità di prevedere un intervento che non si esaurisca al singolo edificio, ma che possa in qualche modo coinvolgere il resto del sistema a cui appartiene, anche se in questo caso gli strumenti necessari alla trasformazione sarebbero dovuti essere differenti.

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La superficie della Hollandse Waterlinie nei Paesi Bassi

Fortezze

Bunker

Controllo acqua

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Linee d’acesso


Questa strategia è stata in parte affrontata nel progetto Concrete Mushrooms dei bunker albanesi, in cui si cerca di prevedere una sorta di riuso “di massa”, che non si concentri su un solo manufatto ma che getti le basi per una pianificazione. Nonostante l’iniziativa non preveda un vero e proprio progetto (poiché si tratta solo di alcune idee di riutilizzo senza un vero e proprio intervento architettonico) è un importante segnale di consapevolezza delle potenzialità di queste architetture. Ma se da un lato la pianificazione consente di prevedere una trasformazione di più manufatti, dall’altro rischia di indebolire l’unicità del progetto facendolo diventare solo una ripetizione dello stesso. Un modo per risolvere il problema potrebbe essere quello di ideare una metodologia, una matrice che contenga un concetto progettuale che possa poi essere declinato ai vari casi, mantenendo comunque un fattore comune. Questo criterio risulta più efficace nel riuso di tipo artistico – paesaggistico, dove sarebbe più facile individuare l’unicità dell’intervento; è il caso dei muli di Bill Woodrow in Danimarca, dove la riconoscibilità delle installazioni contribuisce a renderle un vero e proprio pezzo di paesaggio. Questo intervento, come anche altri, compie un’azione molto importante: ribalta la logica mimetica dei bunker, la loro necessità di non farsi vedere, per dichiararsi apertamente e diventare un punto di riferimento nel paesaggio urbano. Questo è forse una degli aspetti più importanti per il riuso dei bunker, poiché il fatto che in molti casi queste costruzioni non siano immediatamente osservabili ha in qualche modo contribuito a non farne riconoscere un ruolo.

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I muli di Bill Woodrow sulle coste di BlĂĽvand

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Un’altra strategia efficace per un riuso mirato alla consapevolezza sociale è l’apertura di questi edifici verso l’esterno: i bunker, come già sottolineato, sono per loro natura delle costruzioni chiuse in sé stesse, quasi serrate e inaccessibili, e questo ha sicuramente contribuito al loro oblio. L’esempio del bunker 599 in Olanda rappresenta bene questo concetto: il suo taglio permette a chiunque di osservare e vivere l’interno della costruzione. Anche in questo caso si tratta di un’operazione provocatoria fatta attraverso un capovolgimento concettuale; credo che questo modo di operare sia particolarmente efficace quando si parla di riuso di bunker, poiché, data la particolarità e la storia di queste costruzioni, solo un gesto concettualmente molto forte riuscirebbe a conferirgli la giusta importanza. E così i luoghi della guerra, del dolore, del nascondiglio e del silenzio è bene che diventino i luoghi della comunità, dello scambio sociale, dell’arte, ma anche della riflessione e della meditazione. Al contrario, il mantenimento di questo aspetto introverso dell’architettura dei bunker porta invece ad un progetto di interni, ponendosi la difficile sfida di donare qualità architettonica a degli spazi che sono stati progettati per non averla. Questo approccio permette di conservare un carattere fondamentale di questi manufatti, ma funzionerebbe solo nei casi in cui segnalare la loro presenza all’interno del territorio non risulta essere un aspetto fondamentale. Ci troviamo quindi di fronte a approcci diametralmente opposti, ma non è detto che si debba necessariamente seguire una delle due strade anzi, credo che in molti casi un approccio ibrido sia altrettanto interessante, poiché ogni progetto necessita di elementi proveniente da entrambi i campi.

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Come già detto, ad oggi questa pratica ha purtroppo visto pochi esempi significativi, tutti concentrati negli ultimi 10 anni; è quindi una tendenza molto recente che ha suscitato la curiosità e l’interesse di molte persone, provocando diversi dibattiti sul come e perché ripensare a queste strutture. Ad oggi però davvero poche istituzioni hanno preso a cuore i bunker abbandonati, provando ad ipotizzare un futuro impiego delle strutture belliche, tra cui la già citata Hollandse Waterlinie olandese che da qualche anno sta pensando ad un riutilizzo dei suoi manufatti, portando all’attenzione mediatica questo interessante sistema difensivo. Questo potrebbe essere un ottimo esempio da seguire per il futuro di questi edifici che, solo in Europa, superano tranquillamente il milione di unità rappresentando ancora una fortissima presenza all’interno del nostro paesaggio urbano. È necessario agire prima che l’azione del degrado cancelli per sempre la memoria di questi luoghi, anche se in molti casi è stata la repressione del passato a distruggerli. Ora che ci troviamo ad una distanza di sicurezza tale da riuscire a guardare al futuro, il riuso è una necessità che non può più essere rimandata.

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INNESTO

ESPLOSIONE

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INCRESPATURA

ONDA

Olia Miho: modelli di studio per interventi artistici di disgregazione dei bunker albanesi

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“L’arte non riproduce ciò che è visibile, ma rende visibile ciò che non sempre lo è”

- Paul Klee

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CONCLUSIONI

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Quando parliamo di riuso dei bunker abbandonati i primi quesiti che ci si pone sono: come poter riutilizzare queste strutture? In che modo i manufatti della guerra posso trovare spazio all’interno della società odierna? La varietà di situazioni, di obbiettivi perseguibili e di opportunità impedisce di dare una risposta univoca, ma questo vale per un qualsiasi progetto di riuso. I manufatti della guerra sono e devono continuare ad essere contenitori di storia, ma ciò non basta. È necessario che la storia si confronti con quelli che sono le esigenze e le problematiche del mondo attuale, altrimenti diventa solo un’operazione di fossilizzazione fine a sè stessa che di fatto porta alla morte di quel manufatto. A prescindere dalla tipologia di approccio e dall’obbiettivo prefissato, per riuscire a donare una nuova vita a queste strutture è necessario svincolarsi dalla loro natura, cercando di ragionare in termini di utilità sociale. Questo non significa cancellare la sua identità, bensì accettare ciò che quell’oggetto è stato e cosa rappresenta, facendolo convivere con quello che diventerà. La difficoltà maggiore di questa pratica credo sia proprio questa: riuscire a compiere un gesto forte, che dia un segnale captabile e deciso, che allo stesso tempo non distrugga l’importanza e il significato del manufatto. Credo inoltre che la “prematurità” di questa pratica necessiti della giusta sperimentazione. Così come tutte le grandi innovazioni artistiche sono nate e si sono sviluppate dalla forza provocatoria di alcuni ideali e di alcune opere a volte anche controverse, così il riuso dei bunker deve partire da una logica così potente da riuscire a innestare la consapevolezza del suo valore all’interno della nostra società, che ad oggi è quasi del tutto assente. Naturalmente questo modus operandi non è immune agli errori, che pure risultano utili in un campo sperimentale come questo, 110


dove in molti casi gli oggetti interessati sono, per certi versi, essi stessi delle “anomalie�, nonostante sia estremamente riduttivo giudicarli in questo modo. Il fatto di accettare ed accantonare questo aspetto rappresenta il primo vero passo verso un riuso efficace e propedeutico verso il futuro.

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“Il riuso non è una strategia marginale, ma una strada maestra dell’evoluzione.” - Stephen Jay Gould

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