Titolo Poem Shot - Traversate di testi esemplari da 15 autori italiani di Davide Castiglione www.castiglionedav.altervista.org Edizioni a cura di
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Poem Shot Traversate di testi esemplari da 15 autori italiani di
Davide Castiglione
Premessa
Sono qui raccolte in un unico file (e lievemente riviste, per adattarle al nuovo medium) le quindici analisi testuali fatte finora (da dicembre 2012 a giugno 2013) su poeti italiani sia contemporanei più o meno noti che classici moderni, come precisa scelta anti-storicistica - nella rubrica Poem Shot. Un secondo fascicolo, con le analisi di quindici stranieri, seguirà nei prossimi mesi, con mie nuove traduzioni in italiano, stavolta non più di servizio. Non c’è, in questo mio raccogliere queste prime quindici analisi, una volontà di “pre-canonizzazione”, sia essa rivolta ad alcuni degli autori o a me stesso in quanto critico militante. C’è invece una volontà di ordine e chiarezza, e di ridare ai Poem Shot il loro spazio naturale - la carta, dato che tutte sono nate in un file word e destinate solo in un secondo momento a diventare post in un sito, necessariamente più corrivi. Inoltre, mi è sembrato giusto e interessante inserire anche le considerazioni di Lorenzo Carlucci sulla mia analisi, ovviamente con il suo consenso. Questa modalità un po’ diversa consente di valutare la vicinanza o lo scarto tra chi è comunque “esterno” (il critico) e chi è “interno” (l’autore di una data poesia) e offrire spunti ulteriori.
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Se non sbaglio, fu Pound a sostenere che a studiare approfonditamente la scrittura di alcuni testi esemplari si impara assai di più che nel leggerne molti. Non sta a me valutare se Pound abbia avuto torto o ragione, perché non è questo il punto: dico soltanto che questa ricetta ha funzionato - sta funzionando - per me, sia perché si confanno a un mio modo naturale di fruire la poesia (analitico, diluito nel tempo, fatto di ritorni), sia perché i Poem Shot rappresentano, almeno in seconda battuta, un’occasione per confrontarmi (da autore anche di versi) con una piccola frazione di quanto di meglio, secondo il mio senso critico, si sta facendo o si è fatto in poesia in questi ultimi tempi. A latere, spero ovviamente che queste analisi siano d’incoraggiamento per altri critici, perché possano riscoprire il piacere di misurarsi sui testi anziché sulle questioni capitali senza prima passare per l’importanza della lettera; e ai lettori, perché da essi derivino alcuni spunti da integrare, preferibilmente a posteriori, dalla lettura il più possibile “vergine” del testo poetico. Infine, da questo fascicolo ho sviluppato una sorta di tavola, o mappatura, stilistica: questa non è inserita nel fascicolo per non appesantirlo, ma sarà disponibile a breve su Poesia 2.0 e sul mio blog personale. Buona lettura, o rilettura, insomma.
Davide Castiglione, 5 settembre 2013
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Poem Shot Traversate di testi esemplari da 15 autori italiani
Poem Shot 2: Carlo Bellinvia (1985 - ) Carlo Bellinvia lo lessi anni fa su un sito di poesia – uno di quelli non selettivi, dove puoi trovarci di tutto nel bene e nel male – e il suo modo di fare poesia mi colpì molto: nella sua capacità camaleontica di mutare agilmente stili e forme poetiche, dagli haiku a poemetti discorsivi, con un occhio attento a Montale ma almeno un altro verso un suo superamento. Corrispondemmo, scrissi dei commenti a una sua raccolta inedita, poi di lui non ho più saputo nulla, fino a pochi mesi fa (giugno 2013) quando si è rifatto vivo, con mia grande gioia. Di edito, che io sappia, c’è solo la raccolta di haiku Per i vicoli, macellai di piccioni e spettri di carta (Cicorivolta 2006). Le sue cose migliori però, secondo me, sono nei testi che articolano un discorso, una descrizione. È il caso de L’immobile, che pubblico e commento qui: questo poemetto è a mio parere uno dei suoi migliori testi scritti allora – a 22, 23 anni all’incirca.
L’immobile
I. Dell’aria che esce, dell’aria che entra, nel blu dipinto di blu, elettrificato ora dai lampi ora dai soli come siete deviate nel vostro avvivarvi, stagioni scadute, d’inserto in altre stagioni, e anzi nel vostro scombinarvi in un unico anno minore, il meno certo.
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II. E il colore e la lozione è nella foglia cinese, il must, il devi esserci d’autunno, ma qui in città ancora rappresentativa di molti alberi, agli incroci, e non si usa ormai più la resistenza che la tenga ancora lì affissa in croce; se cade non si sa in quale oblio: inesistenti funerali di incarnati gialli, solo morti promiscue di antichi bianchi. Fogli-nunzi, rivangati dal vento-becchino.
III. Sopra le ringhiere, ancora decidono le ere le podarcis appassite al loro milionario appuntamento, per remoto retaggio, col raggio garibaldino dell’immaturo sole di marzo. Tutta la tetralogia primaverile è posta quasi in dubbio dallo sfarzo dallo sfocio del ramarro dalla sterzata dal suo innescato contropiede. Per inferiorità realizza l’autogoal: s’allenta colla fitta rete della verdura sventolata, da ultrà difensivista. Sarebbe però irragionevole presagio invernale se i suoi passi indietro contassero come giorni. Dagli al ramarro letargista- repubblicano!
IV. Che, se torni, dal balcone si vede, la macroscopica calligrafia, a lettere chiare, del mare che a branco ora si smembra o continuo, bianco suo autografo oppone -la sua biografia discorre nella distesa, non solo nelle disperate profondità o nel cielo che vi si replica-
e gode nel poter accostare la culminata lingua all’inguine della spiaggia ultima: mi varrà come bramosia, d’estate, ma siamo in marzo, appunto.
V. Così, tutta sommata, mi piace questa nostra minima dimensione che volge al male, questa mezza glaciazione, totale desertificazione di simboli, di sentimenti. Dici che la Coca-Cola resterà: non menti. Pure Paperino, timbrato senza narici (per orrore pop), anche senza olfatto la scamperà lo stesso. Invece adesso scattista sulla già brevissima distanza è il tempo nei riguardi dell’abitante della mia stanza. Tutta la sequela si ricomincia da tutti o da nessuno, da me o da te o dal responso assoluto della pietra che suscita acqua.
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Le stagioni sono un topos letterario: difficile non trovare chi non ne abbia scritto. Precedenti novecenteschi illustri sono Eliot (il ciclo stagionale alla base dell’architettura de La Terra Desolata) e anche il tardo Montale, che intitola Le stagioni una delle più riuscite poesie di Satura. Se riduciamo una poesia al suo tema (nucleo semantico o matrice, secondo Riffaterre), la distruggiamo: è il limite di tanta critica contenutistica e solo tematica. Invece, la grandezza o almeno la bravura sta quasi tutta in superficie, nella struttura linguistica e discorsiva del testo. Vediamo. D’impatto, colpisce l’estensione dei versi liberi, la cui struttura ‘agglutinata’ è memore di grandi precedenti del secondo novecento (Sereni, Luzi, Bertolucci, Pagliarani…). In particolare, la punteggiatura scandisce il dettato in unità minori, alcune delle quali a loro volta scandibili – e scandite, alla lettura – come versi lunghi composti (vd. il primo verso della sezione II). Le rime interne – in sordina, come voleva Montale – sono funzionali a complicare e rilanciare il verso lungo, solitamente spia di un’attitudine affabulatoria e discorsiva. È infatti sul piano dell’inventio discorsiva che la poesia mostra una considerevole varietà nell’unità, un intarsio che la rende omogenea ma increspata e avvincente al tempo stesso. Alcuni esempi: in I, verso 1, il complemento d’argomento in stile trattatistico (Del…) contrasta ironicamente con l’ovvietà tematica (aria che esce, aria che entra), che a sua volta è complicata dai riferimenti alla cultura popolare (la celeberrima canzone di Modugno). Questo stile ‘distaccato’ cede poi il passo a un’inflessione elegiaco-nostalgica, con il vocativo (come siete deviate, I, v.3).
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Nella sezione II, il topos – pochi ve n’è di più triti – della foglia d’autunno e della morte è riciclato in un immaginario contemporaneo, coi riferimenti al consumismo, alla cultura dell’esserci (must). C’è una voce che parla e che descrive, un ‘io’ ragionante ma per nulla sovraesposto in termini emotivi: c’è un mescolio di disincanto eppure di continua attenzione. In III – notare intanto l’insistenza delle consonanti liquide ‘l’ e ‘r’, le rime interne e le fricative sorde ‘z’ e ‘s’ – un dettaglio (‘continua attenzione’, appunto), il ramarro di montaliana memoria, fa cadere, squarcia l’ordine degli eventi, come il singolo è talora irriducibile alla generalizzazione. In IV mare e scrittura si compenetrano – la mia memoria non può non andare al poemetto di Sereni “Un posto di vacanza” e anche a una poesia di Williams, tradotta da Sereni, in cui le onde sono descritte come parole: “frangersi d’onde come di parole”, e forse anche Shelley e la tradizione romantica in generale – salvo poi che un unità colloquiale come ‘appunto’ chiude il pur trattenuto slancio lirico dell’imagery appena tracciata. In VI, infine, infrange appena l’impersonalità modernista del poemetto presentando una figura umana – il poeta stesso – mediante perifrasi straniante (abitante della mia stanza: come se l’esserci fisicamente, l’occupare spazio sia una delle poche cose incontestabili). Nel – per me – bellissimo finale, che combina pietra e acqua (anche qui, torna in mente Eliot, certo Williams, ma anche, nel tropo, le poesie di Laura Biagini postate su “Le parole e le cose” il 9 dicembre 2009), nell’affermazione di una verità
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oracolare, in netto contrasto con i riferimenti bassi, ‘pop’ della Coca-Cola e di Paperino. Tutto questo a poco più di vent’anni: e scusate se è poco.
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Poem Shot (4): Paola Tomasiello (1981 -) Anonimia è una poesia di Paola Tomasiello, come Carlo Bellinvia altra poeta pressoché inedita e con cui ero in contatto, avendone, poi, perso le tracce. Ricordo che quando la lessi, mi colpì come poche poesie avevano saputo colpirmi prima. Gli anni, le nuove letture, un maggior disincanto, perfino un mio cambio di poetica, non sono bastati a non farmi credere ancora in un testo così.
Anonimia Mia frontiera di volti in comunione, che abbiano inizio gli scavi. Presto ritroverò aorta emaciata e occhi elisi. Forse qualche rosa. Sognando, a volte, la fossa che mi sorprende. Ché sui margini sociali ancora non mi volto. E annuso furia primordiale. Venerata sodomia di bestie inconsapevoli. Non una sola lettera, segno, simbolo a rivoltare questo bianco vuoto. Limite cellulosico muto. Dopo la sepoltura, luce e terra solenni abbastanza.
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Così me ne andrò con bava artificiosa su labbra di graniglia e il terrore di disturbare sudicio sotto le unghie, austera, elio inerte. Tra condotti di qualcuno io, in acque conseguenti, scoglio allusivo.
L’esperienza della propria morte (aporia linguistica, poiché non possiamo avere esperienza della nostra morte) è fissata lucidamente, come strumento conoscitivo e indagatore del Sé: una prefigurazione che ha precedenti illustri (penso alla bellissima Le sei del mattino di Vittorio Sereni, dove parla di una casa visitata dalla mia fresca morte; a Sereni rimanda anche la parola frontiera e il tono cupo ma stoico del dettato). La presenza di una voce poetica, di un io che articola il discorso e la rende presente, tangibile – a partire dal generico vocativo che apre il testo – ci accoglie, ma con responsabilità e senza morbosità, senza far leva su un’emotività spicciola ed esibita, limite maggiore di molte poesie cosiddette confessionali. Non mi sembra, questa poesia, una di quelle che ci spiano guardandoci e riguardandoci gli ormoni, come ha scritto con arguzia (e con ragione) il poeta Leopoldo Attolico (vd. Poem Shot 15).
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C’è un senso di calma ineluttabilità, una certezza che viene come liberazione (Presto ritroverò, a contraddire il concetto di perdita associato alla morte). Mi sembra indubbio che proprio l’articolazione della voce (più concretamente: la lettura a voce, suggerita dalla disposizione delle virgole, dei fine-verso, della struttura degli enunciati, spesso nominali ed ellittici) dia a questa poesia un’aria di incontestabile autenticità. Ma c’è molto altro. Il tessuto semantico del testo è infatti più complesso di quanto faccia apparire questa dizione composta. Cerco di rintracciarne alcuni fili, che spero vogliate seguire insieme a me. Anzitutto, vedo una sorta di sottilissima e appuntita ironia (eppure smorzata da un senso di pathos, di vera partecipazione) nell’uso dell’espressione in comunione: comunione nella morte, nella separazione. Da un lato un fattore antropologico, cioè la coesione sociale garantita dalle cerimonie funebri; dall’altro però, in filigrana, la constatazione che questa comunione è una frontiera, qualcosa da raggiungere – evento impossibile, data la morte immaginata ma accuratamente descritta – e al tempo stesso, qualcosa che frena. Il secondo verso può essere ferocemente letterale, ma scavi è parola associata alla ricerca, a un’attività (lo scavo del poeta nella sua lingua: questa metafora di “poesia = scavo” è abbastanza assestata). Ed ecco che la morte immaginata si fa occasione di azione, segnalata dai frequenti verbi in prima persona (ritroverò, annuso, me ne andrò), e l’anonimia dello scomparire (e del titolo) è contraddetta dalla drammatica messa al centro del
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soggetto, unico, vero – paradossale – superstite della scena. Si veda inoltre come le parole formino patterns semanticamente coerenti: da fossa (v. 7) si passa a margini (v. 8), con un transfert semantico (da senso letterale a senso metaforico corrente) garantito da una inclusione metonimica (la fossa è caratterizzata da margini). La terra (della sepoltura) è poi replicata, nella seconda strofa, in terrore, non solo per l’inclusione anagrammatica, ma soprattutto perché i predicati che lo descrivono (sudicio e sotto le unghie) derivano entrambi da terra. Un’altra potente risorsa di questo testo, infine, è nello scontro concreto-astratto, tipico di molta poesia espressionista e neo-ermetica (alla De Angelis, per intenderci) rilevabile in questa tensione tra terra e terrore, e più ancora in scoglio allusivo, sorta di sintagma ossimorico in posizione di rilievo (a chiusa del componimento); senza contare poi la ricerca fonosimbolica, che collega a distanza aorta emaciata e occhi elisi con austera, elio inerte, a creare un sottosistema in cui la morte (ora vista come metonimie del corpo, connotate da una attenta scelta aggettivale) viene risarcita con una bellezza estetica che però non tradisce e non traveste la verità della constatazione (cioè, lavora sempre entro i limiti di una certa verosimiglianza).
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Poem Shot (6): Lorenzo Carlucci (1976-) La comunità assoluta (Lampi di stampa 2008), di Lorenzo Carlucci, è un libro che sono tornato a rileggere quest’estate, trovandoci grande varietà di forme e un primitivismo quasi aggressivo, stralunato, l’uso del nonsequitur, la commistione di didattico e lirico. Forse, tra tutti, il testo che più mi si è impresso nel ricordo - già dalla prima lettura quasi quattro anni fa - è enespace10 qui sotto, che certo ripropone molti aspetti, anche formali, dell’intero libro.
enespace10 Tra una pattumiera e un distributore, su una panchina rossa. La mia vita è uno straccio. E’ evidente, il mio cuore ti accoglie come un cielo. La panchina è rossa come il distributore. E’ evidente che le buste della spesa mi segano le dita. Evidente. Io ti accolgo nella mia vita straccio perché sono vuoto. Sono per voi. Le mie mani sono vuote. Il mio petto respira il respiro del cielo. Le mie mani sono vuote, il sangue è rosso come questa panchina. Voi andate, avete sangue. Andate.
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Tra una pattumiera dalla quale mi aspetto che esca il viso di uno scoiattolo un topo un uccello e un distributore dal quale mi aspetto che esca una coca-cola mi fumo una sigaretta e la butto per terra a metà.
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Il mio respiro è uno straccio, voi mi attraversate. Il mio petto è attraversato dalla sigaretta fumata a metà che butto per terra. Questo silenzio è insopportabile. Andate. Lo stare seduto sotto lo straccio del cielo è insopportabile. Venitemi a prendere. Dalla pattumiera dalla quale mi aspetto che esca il viso di uno scoiattolo sporco non esce nessuno. Voi andate. Continuate a vendere piante lungo una porta a vetri. Le mie tasche sono vuote. Pago ogni piantina con una malattia. Venitemi a prendere. Dal distributore dal quale mi aspetto che esca una coca-cola esce una coca-cola. (Da La comunità assoluta, Lampi di stampa, 2008)
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Cominciamo dal titolo, che graficamente camuffa – tramite abolizione di spazio bianco – l’espressione francese mise en espace, derivata da mise en scène, e che rispetto a quest’ultima non ha le stesse pretese di verosimiglianza e sofisticazione: più un bozzetto semplificato ma tridimensionale, come da installazione. La descrittività preparata dal titolo viene messa in atto dal primo verso, formato da due indicazioni di circostanza spaziale tramite sostantivi indicanti cliché urbani: pattumiera, distributore, panchina. Come un dipinto di Hopper. Dopo questa inquadratura senza soggetto, ci aspetteremmo lo svolgersi di un’azione – e invece il secondo verso vira in un tono patetico-confessionale veicolato da una frase fatta (La mia vita è uno straccio); l’ironia risiede nella possibilità di leggere letteralmente questo verso, perché straccio è nello stesso paradigma situazionale di pattumiera. Ironia che diventa palese, quasi sfrontata, nel verso successivo: È evidente, il mio cuore ti accoglie come un cielo. Da una parte, l’insistenza sull’io confessionale – ma destrutturato perché sovraesposto, come in Frank O’ Hara – crea continuità; dall’altro, l’antipoetico È evidente, a metà tra didatticismo e rimprovero, cozza con l’esposto poetismo della vita che accoglie come un cielo. Con questa mossa, il poetese è invalidato ma così anche l’appoggio pseudo-scientifico all’empirismo dell’evidenza, ulteriormente svalutata (come molte altre cose) dalla sua ripetizione ossessiva nel corso del testo.
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Come nella Pop Art, l’appeal popolare (cuore, vita, cielo) è sorretto da una fine ironia e autoconsapevolezza avanguardistica. La svalutazione insita nella ripetizione, sul piano strutturale, può forse essere accostata – pur con qualche mio timore di sovra-interpretazione – alla riproducibilità dell’opera d’arte di cui ha scritto Benjamin. Il discorso corrosivo si impunta poi contro la mistica dell’accoglienza, contro – mi sembra – l’epigonismo esausto di una tradizione alta culminata in Heidegger e Celan (io ti accolgo… perché sono vuoto). Il bello, però, è che nemmeno a quest’ironia postmoderna possiamo dare intero credito, perché – in questa poesia, ma anche in molti punti del libro – c’è davvero un’inflessione umana, lacerti di testo che suonano autentici. Voi andate, avete sangue è uno di questi; e altri corrono comunque sul filo tra ironia e paradossale autenticità. Il primo movimento si conclude in un rimescolamento degli elementi (ritroviamo la pattumiera e il distributore) e in un finale in sordina, tipico di certa narrativa novecentesca: un finale che fa di tutto pur di non essere memorabile. Il secondo movimento riprende, per via di elementi di coesione testuale, il primo: segnatamente, la sigaretta fumata a metà. L’io che parla davvero sembra svuotato, contraddittorio (Andate, ma poi Venitemi a prendere). Il finale, nel suo understatement, è eloquente: il coincidere di desiderio e realtà (Dal distributore dal quale mi aspetto che esca / una cocacola / esce una coca-cola) può avvenire, e allora, per quanto amara, l’eliminazione della sorpresa si contrappone comunque al nulla dell’angoscia beckettiana di prima (non
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esce nessuno) e così la ripetizione dell’uguale (l’immobilità che struttura tutta la poesia mediante il riuscitissimo gioco di ripetizioni e variazioni che chiunque può verificare da sé) è salvezza e condanna al tempo stesso. Cosa ci salva da questo stallo, da questo eterno ritorno dell’uguale? forse la consapevolezza, amarissima, di pagare ogni piantina con una malattia, la consapevolezza che l’unico tratto quasi libero della poesia (non imprigionato dalle ripetizioni) è il verso – con funzione di discontinuità – continuate a vendere piante lungo una porta a vetri, che sembra uscire dall’asfissia desolata e un po’ caricaturale della scena: libero è il capitalismo, da intendersi non solo economicamente ma anche antropologicamente (vendete), prigioniero tutto il resto (le tasche vuote ben riflettono l’avvenuta foga dell’acquisto, il pagare, anzi: il pagarla). Questo mi sembra il sunto, il nocciolo del testo – se poi verrò ammonito e contraddetto dallo stesso Carlucci per questa mia appropriazione indebita, tanto meglio: se ci si accoglie, proprio vuoti non bisogna essere.
Appendice: due risposte di Lorenzo Carlucci Caro Davide Castiglione, ho trovato poco fa per caso la tua lettura del mio testo “enespace10”. Ti ringrazio per l’attenzione (spassionata, i.e., appassionata). Ho trovato molto piacevole la tua analisi, e in grandissima parte esatta e acuta. Mi ha illuminato su alcuni aspetti del mio testo e perciò te ne sono grato. Mi sono molto compiaciuto dei
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tuoi rilievi sulla funzione di certi espedienti lirici e, di contro, avanguardistici, come quando scrivi: “Con questa mossa, il poetese è invalidato ma così anche l’appoggio pseudo-scientifico all’empirismo dell’evidenza, ulteriormente svalutata (come molte altre cose) dalla sua ripetizione ossessiva nel corso del testo”, oppure: “Il bello, però, è che nemmeno a quest’ironia postmoderna […] possiamo dare intero credito”. Questo doppio movimento - di liberazione da un doppio vincolo - è quanto di più bello io possa immaginare. Per il resto, “un certo fauvismo aggressivo ed esibito” è forse il limite di quel libro, ma è (stato) un tratto inaggirabile del mio carattere in gioventù. Contiene però un elemento essenziale, quello pulsionale, che è meno transitorio e altrettanto centrale. L’aggressività che rilevi, insieme alla posizione dei problemi (esistenziali, etici, filosofici, etc.) in una dimensione pulsionale è probabilmente una caratteristica essenziale di quanto ho scritto e scrivo. (Proprio oggi ho passato la mattinata a leggere il capitolo “Pulsioni e difese” di “Il secolo inquieto. La formazione della cultura borghese (18151914)” di Peter Gay!) Questo aspetto viene molto bene in luce nella tua lettura della chiusa della poesia: “Il finale, nel suo understatement, è eloquente: il coincidere di desiderio e realtà […] può avvenire, e allora, per quanto amara, l’eliminazione della sorpresa si contrappone comunque al nulla dell’angoscia beckettiana di prima (“non esce nessuno”) e così la ripetizione dell’uguale (l’immobilità che struttura tutta la poesia mediante il riuscitissimo gioco di ripetizioni e variazioni che chiunque può verificare da sé)
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è salvezza e condanna”. Capisco leggendoti che questa coincidenza di desiderio e realtà è la mia versione di ciò che si può chiamare una “tautologia estetica” - o una “estetica della tautologia” se vuoi – una forma che è presente in diversi altri poeti della mia età. Per esempio prendi questa chiusa di Valentino Ronchi (da: “La Casa di Ostiglia”, Canzoni di Bella Vita): “[…] A un piccolo market ho preso pane / e affettato e una lattina colorata. In piazza all’ombra / ho mangiato e bevuto. Ecco, è tutto così, ecco è tutto qua”. Qui è in forma più ontologica o fenomenologica (e - almeno apparentemente - più pacificata) mentre nel mio testo è in forma più pulsionale e meno risolta (come tu scrivi: “è salvezza e condanna”). Ma probabilmente le due istanze sono commensurabili. La tua conclusione (“libero è il capitalismo (“vendete”), prigioniero tutto il resto (“le tasche vuote” ben riflettono l’avvenuta foga dell’acquisto, il pagare, anzi: il pagarla)”) mi ha stupito e a tutta prima non mi ha convinto, soprattutto per la sua dimensione esplicitamente politica, a me davvero estranea. Ma con un po’ di riflessione ho potuto riconoscerle una certa esattezza. Ricordo che la poesia è stata composta su una panchina (rossa) all’uscita di un K-Mart in un centro commerciale in un paesino di provincia degli Stati Uniti. Le tasche vuote erano per me un semplice correlativo oggettivo dell’io svuotato, ma effettivamente avevo appena fatto la spesa (e nella poesia si parla delle “buste della spesa”). Cosicché le tasche vuote sono anche l’indice di un’azione compiuta: comprare, pagare. Dunque hai di fatto ragione, e tanto più in quanto accenni a una dimensione morale del pagare, seppure di
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sfuggita: “il pagare, anzi: il pagarla”. Preferisco leggere il “pagare” in questa prospettiva etica. Analogamente, non intendevo indicare il “capitalismo” come unica forma possibile di libertà, quanto contrapporre il fluire di una comunità viva (che ha “sangue” e “piante” da vendere) ma indifferente (“continuate”) alla stasi di un individuo irretito in una meccanica di vacuità e vacua accoglienza perché non sa (ancora) bene cosa farsene della sua “consapevolezza”. Che questa comunità fosse una società capitalistica ha un che di accidentale, ma certo non trascurabile. ** Caro Davide aggiungo una glossa a quanto ti ho scritto ieri: "La tua conclusione (“libero è il capitalismo (“vendete”), prigioniero tutto il resto [...] mi ha stupito e a tutta prima non mi ha convinto, soprattutto per la sua dimensione esplicitamente politica, a me davvero estranea." Non posso certo sostenere che una dimensione politica in senso lato sia assente da un libro che ha per titolo La Comunità Assoluta: intendevo dire che mi è estranea (almeno in quel libro) ogni forma di esplicito schieramento politico o di predilezione per una forma economica rispetto a una qualunque altra. Che io fossi immerso in una società decisamente capitalistica durante la stesura del libro è un dato oggettivo e non il frutto di una scelta, decisione, o predilezione.
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Poem Shot (8): Alessandra Cava (1984 -) Avevo già letto in rete qualcosa di e su Alessandra Cava, giovane poetessa la cui ascendenza rosselliana è stata puntualizzata dalla postfatrice al volume, la critica Cecilia Bello Minciacchi, e condivisa da Stefano Gugliemin, tra gli altri. Ci sono tornato grazie a “I poeti sono vivi”, che l’ha ospitata pochi giorni fa, abbastanza in conflitto con il genere di poesia postata lì solitamente. Riporto la poesia in questione:
oggi è un sole lungo, uno sguardo di notte bianca – natura mi scosta, mi ignora: di sicuro la offende il mio amore d’interni, di tubi, di tetti, di vetri all’incastro; ma poco le basta, quel poco che afferra alle spalle con passi d’altalena, quando sbaglia e prende aloni d’inferno, quando pare artificio, un inganno, uno schermo e m’attendo si spenga – processo d’infrazione del mondo, nulla che raduna i suoi pezzi, così il mio seguire una parola con altra in spazi di vuoto – ecco me allora, a chiedere di quale tessuto è il ricordo, di quale s’intreccia, se è uguale, uguale il colore – ecco allora l’immagine fatta di niente, ecco che arriva, ecco, col suo bagaglio di niente – si sta a scrivere allora, si sta in angolo stretto, si sta – (Da rsvp, Polimata, 2011)
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La poesia è quasi un unico momento sintattico, se si escludono i vv. 1-3 (constatazione in forma affermativa + micronarrazione di un rapporto tra natura e io poetico), la sintassi è paratattica, procede per addizioni spesso appositive, la versificazione lunga e la grande quantità di inarcature sottolineano questa prosodia ansiosa, che sembra crescere per poi implodere in un finale tanto marcato stilisticamente (la ripetizione di sta con variazioni nell’uso da un’occorrenza all’altra) quanto in sordina nel suo contenuto letterale, che si limita a ripetere un dato banale in forma impersonale e perciò collettiva (si sta a scrivere). È la banalità del dato enunciato che però racchiude un’intera poetica, quella del limite riconosciuto dolorosamente ma non accettato, che qui mi pare di intravedere: un carico di angoscia esistenziale anche sottolineato dal procedimento stilistico a cui ho prima accennato. Perché inizio questa mia lettura dalle strutture (sintassi e verso, ritmo)? Perché ancora più dei motivi (lessico, temi) esse indicano un modo di porsi, perciò vi si rinuncia meno volentieri che a un certo lessico (e da qui la compattezza stilistica della maggior parte delle raccolte oggi in circolazione). È alla forma di questa poesia per come l’ho sommariamente descritta che si lega infatti spesso l’interrogazione ansiosa e insoddisfatta; la quale, a livello enunciativo, è accentuata dalle innumerevoli ripetizioni, tendenzialmente di parole singole e che qui mi sembrano più vicine all’uso che ne fa Sereni piuttosto che Rosselli:
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sono marcatori psicologici più che intere serie svuotate dalla loro ripresa ossessiva, da ventriloquo. Sul piano del contenuto, si profila una duplice opposizione: Io poetico vs. Natura, e Natura vs. Artificio. Del resto, come ha notato il critico strutturalista Riffaterre, la poesia è sempre attratta dalle opposizioni polari, e le declina come variazioni degli stessi ossessivi elementi-base. Vediamo il primo contrasto: anzitutto, l’Io poetico è quasi sempre paziente, non agente semantico. Vale a dire che subisce l’azione anziché compierla (mi scosta, mi ignora). Quando diventa agente, rimane passivo (m’attendo, mio seguire, ecco me allora), come una contingenza. All’opposto, la natura compie pressoché tutte le azioni elencate nella poesia, veicolate spesso da verbi ‘forti’ (scosta, offende, sbaglia, prende). Quanto al secondo contrasto, la elencatio del verso 3 offre un piccolo campionario dell’artificiale inizialmente opposto alla natura (che infatti si offende). Eppure la natura, quando sbaglia (viene in mente lo sbaglio di natura montaliano) può farsi o sembrare artificio, schermo e inganno (v. 6). In questo modo è come se il conflitto si risolvesse in una identità tra natura e soggetto, poco importa se amorfa e disorganica (nulla / che raduna i suoi pezzi [...] così il mio seguire). Notare, nel passaggio appena riportato, anche la sua ambiguità sintattica e semantica, a racchiudere una contraddizione nello stesso enunciato: 1. Niente raduna i suoi pezzi o 2. Il nulla che raduna i suoi pezzi; la stessa catena sintagmatica nulla che è in De Angelis, nella poesia Nei
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polmoni: nulla che / fu soltanto materia. Così il nulla, tematizzato e replicato in immagine fatta di niente [...] col suo bagaglio di niente (perifrasi per la poesia stessa?) porta alla scrittura, interpretata e vissuta come atto passivo (come dettatura: posizione orfica per eccellenza). Elementi che concorrono a fare di Cava – in questa poesia, ma probabilmente anche nelle altre – una voce lirica e tragica, e dove però la posizione del soggetto è meno centrale che in Rosselli (dove l’io grammaticale è invece spesso nel focus dell’informazione) e, se posso osare, quanto detto sembra arrivare con molta meno sfida, come umile ricognizione su di sé. Chissà in che modo si evolverà questa poetessa a me coetanea: chissà se all’intensità ritmica e figurativa, a questa raffinata ma selvaggia autenticità si aggiungerà anche un allargamento prospettico dei temi, un maggiore e polifonico intrecciarsi di verticalità-orizzontalità.
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Poem Shot (10): Gregorio Scalise (1939 - ) Per esperienza personale, arrivo a leggere alcuni poeti in quanto citati da altri poeti o critici che ammiro, come in una costellazione regolata da una legge interna. Così Sereni (vd. poem shot 11) mi ha portato a Fortini, uno dei suoi critici più acuti; e Fortini mi ha portato a leggere Gregorio Scalise, per cui Fortini ha parole d’apprezzamento – fatto di per sé significativo – in un libretto avvincente e caustico chiamato, se non ricordo male, 36 moderni. Mi affretto allora ad acquistare Opera-opera, significativa auto-antologia del poeta edita per Sossella, una delle case editrici a cui mi sento più affine nelle scelte di poetica. Le mie aspettative non sono state tradite (benché l’ultima parte degli inediti mi sia parsa più prescindibile, più adagiata su meccanismi già esautorati rispetto alla prima parte di versi editi). In particolare, mi hanno molto colpito alcune poesie all’inizio del libro: La casa dei poveri è una di queste, e allora cerco di capirla meglio analizzandola qui sotto.
La casa dei poveri Nelle case dei poveri c'è sempre una tavola e sopra una lampada che illustra un autografo, vivono vespe tra le assi dicono di contribuire alla leggibilità del padre,
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ma non c'è né luce, né telefono, il frigorifero vuoto arde sopra un'aiuola, impressiona per la sua mancanza di formule la vita che si complica di fanatici, sotto la sua gaia demenza si ascolta la critica delle sue premesse e gira come una macina trascinata da rozzi cavalli sempre quella lampada segue la filigrana della neve, fra sassi e pubblico potere (Da Opera-opera, Sossella, 2008)
Di questa poesia mi colpisce un contrasto tanto immanente al testo quanto proprio per questo impossibile da individuare in un luogo testuale piuttosto che in un altro: il contrasto tra una dizione neoclassica, nitida, e un concatenarsi analogico, surrealista di immagini (referenti). Forse per questo, stilisticamente, questa e altre poesie mi riportano al De Angelis di Somiglianze (per es. la chiusa di Ogni metafora: “dove un millennio ha esitato / tra cedere e non cedere / perdendosi sempre tardi, e con intelligenza”). Non so se ci sia una contaminazione reciproca, una convergenza indipendente oppure se l’influenza abbia una direzione (Scalise De Angelis o De Angelis Scalise): bisognerebbe appurarsi delle date di composizione di entrambi i componimenti, cosa che qui non posso fare.
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La dizione neoclassica è evidente nella metrica, spesso affidata a settenari (anche doppi, come nel verso d’incipit) e spesso sdruccioli (vv. 1, 2, 3, 6, 9, 10, più alcuni sdruccioli interni), con una presenza sempre più rada man mano che ci si avvicina alla fine del componimento. Dove la semantica surrealista del testo increspa la dizione neoclassica è probabilmente nel respiro sintattico, che accompagna quest’esuberanza delle immagini (su cui tornerò dopo) senza mai apporre un punto fermo, rimandando al punto finale lo sciogliersi della tensione, non diversamente, da questo punto di vista, da quanto visto in Alessandra Cava, (poem shot 8), e Louis García Montero (poem shot 9, non in questo fascicolo). Dicevo del surrealismo. E in effetti, se la vulgata del surrealismo vuole un accostamento imprevedibile e arbitrario d’immagini (ma non è così: Riffaterre, ad esempio, ha mostrato come il testo surrealista risponda a delle logiche ferree, mentre speculare sulla consapevolezza autoriale è un esercizio irrilevante), qui troviamo un’intera catena di accostamenti a-logici, cioè non appartenenti allo stesso campo semantico né allo stesso dominio esperienziale (quale si avrebbe se tutti i referenti appartenessero a un paradigma situazionale, del tipo: bar, caffè, zucchero, giornale). Cosa c’entrano, per esempio, il frigorifero, l’aiuola, la mancanza di formule e la macina, tra loro? Troppo facile, e troppo praticato dai critici, liquidare il testo come volutamente nonsense: è quanto, ad esempio, è accaduto a “RicercaBo”, dove il critico Renato Barilli contestava a Manuel Micaletto che Hobbes e i cefalopodi
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nella sua poesia non avessero nulla a che fare, e quindi che ci fosse arbitrio (o una generica “intuizione”) e non logica in quel passaggio, come invece sosteneva, a difesa dell’autore, Simona Menicocci. O come – ne ho avuto conferma l’altro ieri durante una conferenza – un critico, Eagleton, abbia contestato a Dylan Thomas che non esiste un round pain, un dolore rotondo. Tutti questi fallimenti della critica (non c’è dubbio che siano, oggettivamente parlando, fallimenti, perché anziché essere esplicativi diventano prescrittivi) derivano dal voler forzare il testo a una conformazione referenziale, come giustamente Riffaterre, nell’arco della sua carriera, ha denunciato. Ma torniamo, dopo questa piccola benché giusta digressione polemica, alla poesia di Scalise. L’irrelatezza delle immagini chiede di essere ricostruita dalla sintassi e dal tono discorsivo (non lirico-evocativo, dunque) che suggerisce di prendere sul serio questa apparente mancanza di senso. E allora, se capire significa “fare senso” (to make sense), fare senso significa legare insieme: vediamo allora cosa si può legare insieme senza troppo arbitrio, e quali zone rimangono in ombra, come un residuo di arbitrio potenzialmente significante (finché qualcuno più acuto di me vedrà una concatenazione che a me è sfuggita, anche per mancanza di adeguati supporti extratestuali). I primi 4 versi sono, tutto sommato, coesivi: ci immettono in un’ambientazione familiare e vagamente archetipica (attenzione a quel sempre): le case dei poveri come categoria omogenea, la tavola e la lampada come arredo minimo che
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nemmeno lì può mancare, e le assi (che possono essere della tavola ma anche del soffitto: perché un soffitto c’è sempre, anche nelle case dei poveri). Ecco però alcuni elementi disturbanti: l’autografo e le vespe. Le vespe, sul piano referenziale, sono giustificate dalla presenza delle assi, che entrano nello stesso ambiente (casa dei poveri) e che con tavola condividono lo stesso materiale (il legno). Si potrebbero interpretare come dettaglio realistico aggiunto, o come indice di abbandono dell’uomo. Ma a livello simbolico, sembrano introdurre una minaccia: le vespe pungono, e a differenza delle api non producono nemmeno il miele, quindi non sono asservibili all’uomo. E veniamo all’autografo. Che non è fuoriluogo a livello di referente (l’autografo è il manoscritto originale di un’opera, come sanno bene i filologi: è quindi un pezzo di carta scritta), ma di registro: nel lessico di base dell’incipit (poveri, case, sempre, tavola… quasi “l’arte povera” con cui Montale tracciava un parallelo tra un certo tipo di pittura e la sua poesia da Satura in poi) introduce un elemento di specializzazione. L’autografo implica un autore (non possiamo certo dire che la lista della spesa sia un autografo!), e quindi introduce la figura del poeta per via metonimica. Altre spie coesive testuali rendono il testo più compatto di quanto appaia a una prima lettura: il frigorifero che arde non è altro che l’esplicitazione di un ossimoro (cfr. Petrarca: “et ardo e sono un ghiaccio”), impressiona è un calembour che sta sia per “stupisce” sia per “lascia traccia” (cfr. la pellicola impressionata, e qui la filigrana). O si veda, negli stessi versi, la costruzione sintattica ambigua (“garden path”, la
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chiamano gli psicolinguisti) per cui a impressionare è sia il frigorifero che la vita. Critica richiama sia la critica testuale e filologica (cfr. l’autografo) che quella contro la gaia demenza del caos moderno (vedi sotto). Il fatto che giri come una macina, oltre a richiamare un elemento di tortura, risponde a un suono sgradevole (e che però si ascolta). È difficile che anche solo una parola sfugga dalla rete delle relazioni: tutto torna, anche se sembra non tornare a una prima lettura. E a proposito di versi che (non) tornano: il verso 5 è tra i più oscuri della poesia: in che senso le vespe dicono di contribuire alla leggibilità del padre? Perché il padre, e perché leggibilità? L’unica lettura che mi sembra tenere è questa, ottenuta per inferenze sullo sfondo della lingua abituale: vespe implica “nido” (cfr. il sintagma “nido di vespe”), e “nido” è parzialmente giustificato anche dal verbo “vivere” (“vivono vespe tra le assi”). Letteralmente, dunque, le vespe implicano un nido (un’origine, una madre) e rendono intelligibile la controparte del padre (l’autografo, riferito com’è all’auctor-auctoritas, è anticipazione del padre). Leggibilità è poi efficace perché richiama strettamente sia la lampada (di per sé, simbolo archetipico di coscienza, da Diogene in poi), sia il non c’è luce (che sul piano referenziale entra nell’ambientazione delle case dei poveri) e poi filigrana verso la fine della poesia. Insomma, proprio mentre noi cerchiamo di decifrare la poesia, dentro la poesia stessa anche la persona del poeta (ridotta a puro strumento di registrazione, dato che il testo è tutto in terza persona, descrittivo-argomentativo)
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compie uno sforzo di decifrazione, che la poesia stessa sembra mimare. E del resto, che cosa è la poesia se non uno strumento per capire ciò che le sta intorno? Non si tratta di una decifrazione del tutto astratta però, perché un oggetto c’è: ed è, mi sembra, il rapporto tra tradizione (“il padre”, presentato archetipicamente, senza antecedente nel testo; l’autografo; la lampada) e il caos, la mancanza di ragione, una declinazione del dionisiaco verso una violenza e stoltezza abiurati (“la vita che si complica di fanatici”, mancanza di formule, gaia demenza, rozzi cavalli, sassi: si veda il linguaggio pesantemente valutativo). Mi sembra quindi che – dato anche il contesto storico, gli anni ’70, tra ri-emergere dei miti dello spontaneismo e gli anni di piombo – questa poesia invochi una postura illuministica (non a caso lampada è ripetuto verso la fine della poesia) senza negare l’irrazionalità immanente a lei e alla società tutta (donde le immagini surrealistiche). Per questo, probabilmente, Fortini ne sarà rimasto colpito: perché il classicismo della forma (che anche lui perseguiva) non implica rimozione dell’inconscio collettivo, dell’irrazionale (Fortini scrisse una monografia sul surrealismo), e la soggettività del discorso richiama una responsabilità collettiva, come indica il chiarissimo sintagma finale pubblico potere. La postura illuministica, o umanistica in senso più generale, è poi anche garantita dalla presenza di un probabile intertesto dall’umanista Montale, il secondo movimento di Notizie dall’Amiata, da Le occasioni: anche lì c’è un tavolo, un riferimento alla trasparenza (diafana lì,
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filigrana in Scalise), qualcuno che scrive e perfino una cellula di miele che implica le api, in Scalise però “tramutate” in vespe. Una poesia che è quindi una piccola lezione per molti: fa vedere come sia possibile superare la dicotomia tra chiarezza cartesiana e spudorata irrazionalità, inglobandole entrambe nel suo tessuto testuale, in una dialettica tanto più efficace quanto più nascosta.
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Poem Shot (11): Vittorio Sereni (1913-1983) Oggi, domenica 10 febbraio 2013, ricorre il trentennale della morte di Vittorio Sereni. Il 2013 è anche l’anno del centenario della sua nascita, e iniziative – letture, mostre, conferenze – si stanno diffondendo, anche se forse meno numerose di quanto sarebbe opportuno. Una conoscenza approfondita di Sereni permetterebbe, ad esempio, di capire in che misura e fino a che punto le nuove generazioni che dicono di ispirarsi a lui, davvero abbiano fatto entrare nei propri versi quegli inimitabili tremiti interni dove c’è tutto Sereni e anche una scommessa persa o ignorata da molti contemporanei. Il fatto è che Sereni spesso, e frettolosamente, viene ancora ricollegato “alle cose”, alla Linea Lombarda di Anceschi; un incasellamento a cui egli stesso si ribellò e che però è ancora oggi investito di un contenuto di verità quasi assiomatica, con la sfortunata conseguenza di vedere in Sereni un precursore del minimalismo, quando non c’è minimalismo, mai, in Sereni: se per minimalismo intendiamo una rinuncia del soggetto – esaltata, elegiaca o ironica non conta – a un qualche oltre, mai negato ma anzi reso necessario da un’ininterrotta ricognizione dei limiti dello scrivente (“scrivente”, non “poeta” né “autore”, si definisce Sereni con spietato e lucido auto-revisionismo nel poemetto Un posto di vacanza). Questo discorso ci porterebbe però lontano, e lo terrò per un’altra volta. Così come il fatto che la formula della Linea Lombarda, ancora forte e influente, andrebbe necessariamente vagliata, nella sua ricezione attuale, sui
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testi, con uno studio orientato, comparato e sistematico che a tuttora – per quanto ne sappia io – manca. Ma non è giorno di polemiche, né di inopportune “commemorazioni”, poco in linea con l’umiltà di Sereni. E nemmeno troverei utile, per chi mi sta leggendo adesso, indugiare sull’importanza per me affettiva ed effettiva della sua figura, che non saprei rendere in poche righe senza sembrare fuoriluogo. L’unico modo di rendere giustizia a ogni poeta, e tanto più a un poeta come Sereni, è ascoltarlo – con empatia ma anche rigore; i suoi testi, più che lui stesso o quello che altri ne hanno scritto. Del resto, “E ascoltami, come sai”, è un verso di Sereni, posto a sigillo di una delle più struggenti elegie del secolo scorso, scritte in morte dell’amico Niccolò Gallo. Allora, siccome oggi è anche l’undicesima puntata di Poem Shot, mi appresto a una delle poesie più belle e forse meno conosciute di Sereni – anche se molte altre avrei voluto/dovuto analizzarne. Questa poesia è L’alibi e il beneficio, uscita ne Gli strumenti umani (1965). Mi scuso fin d’ora se non posso appoggiarmi, nei commenti, al Meridiano con apparato critico di Dante Isella: non ce l’ho qui con me in Inghilterra. Farò allora come se rileggessi Sereni (che non studio più da tre anni) per la prima volta, senza troppo sovraccarico critico precedente.
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L’alibi e il beneficio Le portiere spalancate a vuoto sulla sera di nebbia nessuno che salga o scenda se non una folata di smog la voce dello strillone - paradossale - il Tempo di Milano l'alibi e il beneficio della nebbia cose occulte camminano al coperto muovono verso di me divergono da me passato come storia passato come memoria: il venti il tredici il trentatre anni come cifre tramviarie o solo indizio ammiccante della radice perduta una sera di nebbia agli incroci di ogni possibile sera infatti è sera qualunque traversata da tram semivuoti mi vedi avanzare come sai nei quartieri senza ricordo mai visto un quartiere così ricco in ricordi come questi sedicenti «senza» nei versi del giovane Erba tra due fonde barriere dentro un grigio acre tunnel con che pena il trasporto buca la nebbia stasera alibi ma beneficio della nebbia globalità del possibile che si nasconde ma per fiorire in alberi e fontane questa polvere d'anni di Milano. (Da Gli strumenti umani, Einaudi, 1965)
Il ritmo e il livello fonosimbolico di questa poesia ne fanno, a mio parere, uno degli esiti più alti della poesia di Sereni, e non solo. Si veda quante consonanti vicine per l’articolazione (le labiali /b/, /p/, le nasali /m/ e /n/ le liquide /l/ e /r/), le velari (/k/ e /g/) e le vocali posteriori (/o/, /u/) percorrano tutto il testo,
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addensandosi in alcuni punti come il v. 3 (vocali posteriori), i vv. 4-5 e 18 (bilabiali e liquide), eccetera. Perfino i due nomi del titolo, alibi e beneficio, replicano questo pattern e anagrammano nebbia, che è il fulcro tematico e compositivo dell’opera, dettando forse perfino la punteggiatura: che è rada, perché il monologo interiore e interrogante sfuma i contorni del detto come fa la nebbia, affermata sul piano della mimesi solo per acquisire una portata simbolica alla quale ci avvicineremo più avanti. Il titolo è sovradeterminato (ovvero, ricco di significanza) sia per questo impianto fonosimbolico, sia per il suo essere quasi ossimorico (alibi e beneficio hanno connotazioni spesso antitetiche). Perché questa coppia è associata a nebbia esplicitamente due volte (“l’alibi / e il beneficio della nebbia”, vv. 4-5 e poi, con avversativa, “alibi ma beneficio della nebbia” al v. 18)? Probabilmente perché la nebbia è immagine/metonimia dell’ambiguità: essa copre (“cose occulte / camminano al coperto muovono verso di me”) ma promette qualcosa che non possiamo ancora vedere (“globalità del possibile / che si nasconde ma per rifiorire”). La poesia sviluppa questa contraddittorietà lungo tutto il suo percorso. Qualche esempio: l’assenza di vita del centro abitato (“nessuno che salga o che scenda”) è contraddetta da segnali che presuppongono attività umane (“una folata di smog la voce dello strillone”), ma anche l’essere il quartiere “ricco in ricordi”. Allora, paradossale può essere inteso letteralmente in questo contesto. Oppure, a muoversi sono le cose, che conquistano la scena e fanno dell’io poetico (qui ridotto ai minimi termini) un puro
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recipiente passivo (“muovono verso di me/ divergono da me”: si noti quest’altra contraddizione). Perfino la collocazione corrente spalancate a vuoto viene risignificata dal testo, in quanto è apertura (spalancate) e assenza (a vuoto). Insomma, una catena di controsensi sviluppatasi come per gemmazione, e a cui non è forse estranea l’opposizione-somiglianza tra ogni possibile sera e sera qualunque: come a dire che l’ordinario, proprio per il suo essere spoglio e comune, ha potenzialità per diventare altro. Questo forse non si capirebbe con chiarezza se non si richiamasse alla mente la tensione utopica in Sereni in un testo come Appuntamento a ora insolita (“Caro – mi dileggia apertamente – caro, / con quella faccia di vacanza. E pensi / alla città socialista?”, vv. 12-14 e “Potrei / con questa uccidere, con la sola gioia”, vv. 33-34). Almeno altri due o tre aspetti meritano d’essere menzionati e approfonditi: il blending concettuale tra tempo e spazio, l’intrecciarsi di privato e collettivo, e il dialogo metapoetico. Il primo è un principio strutturale del testo quanto lo è anche l’ambiguità connotativa di nebbia discussa sopra. La dimensione temporale è in sera (dove obbedisce sia a mimesi sia a significanza, come simbolo convenzionale del declino), in Tempo (nome del giornale, ma appunto caricato di significanza), in passato, anni e polvere d’anni. La dimensione spaziale è in Milano (punto forte perché in chiusa) e in una serie di termini che richiamano il movimento: già in incipit, portiere segnala metonimicamente la presenza di un mezzo di locomozione (ribadito
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direttamente in tram e trasporto più avanti), incroci la presenza di strade, verbi di moto sono nei vv. 6, 12 e 13 (“camminano al coperto muovono verso di me”; traversata; avanzare). La compresenza di questi due assi si fonde in alcuni luoghi, con una similitudine fulminante (“anni come cifre tramviarie”, snodo strutturale e ritmico del testo) e un luogo comune risignificato (“sera traversata da tram”, dove sera passa da una connotazione temporale a una spaziale). Quanto all’intrecciarsi di privato e collettivo, bastino i riferimenti alla stampa come organo collettivo e (mal)comunicante (“lo strillone / – paradossale – Il Tempo di Milano”) il riferimento a storia (passato collettivo) contro memoria (passato individuale), nonché i riferimenti esterni alla città di Milano, in posizione forte perché in chiusa della poesia. Il privato è certamente in memoria, in me ripetuto due volte e nella scelta dei numeri (per es. il tredici è l’anno di nascita di Sereni: motivo in più per ricordarlo qui con questa poesia), e nel dialogo metapoetico con Luciano Erba, amico ed esponente anche lui della Linea Lombarda cui accennavo sopra. I versi di Erba, posti in corsivo, hanno anche loro una duplice ambiguità come la nebbia: da un lato servono ad argomentare quanto detto prima (come spiegare, altrimenti, il didascalico e argomentativo infatti?), dall’altro vengono ribaltati e irrisi (senza ricordo…. “mai visto un quartiere così ricco in ricordi / come questi sedicenti “senza” nei versi del giovane Erba”). Come dire, forse, che la poesia, anche la propria, come la nebbia “si nasconde” (in quella degli altri) per “rifiorire”, cioè per apportarvi un qualcosa in più, anche contraddicendo le parole di un amico e compagno di percorso, se necessario.
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Poem Shot (13): Alessandra Palmigiano (1973 - ) l'amore che alberga negli adolescenti non li conosce, ed essi non lo conoscono. così li infesta senza esserne cambiato, e per questo varia così poco da un adolescente all'altro. l'amore degli adulti, volente o nolente, ormai li conosce, ed assomiglia a ciascuno di loro e a nessun altro. ma anche nell'amore, così come nell'arte, il non conoscere può essere un vantaggio, e far produrre per caso pezzi unici, al di sopra del talento dell'autore.
Questa poesia di Alessandra Palmigiano è stata pubblicata sul numero 1 della rivista indipendente “dopotutto”. Ho scelto di scriverne perché – come le altre che ho letto dell’autrice su “Blanc de ta nuque” – mi sembra innestarsi su coordinate poetiche poco frequentate, ugualmente lontane da sperimentalismo e lirismo, e (forse per questo) relegate ai margini della scena poetica attuale (uso “scena” come teatro, esibizione: e non a caso). La coordinata estetica è quella di una discorsività pensante, limpida, epigrammatica ma con un sottile equilibrio tra saggezza e trattenuto (e perciò più efficace) sarcasmo, che evidenzierò linguisticamente più avanti. Questa modalità mostra come è possibile, una volta tanto, guardare l’amore (il tema dichiarato della poesia) da un po’ lontano, senza i risaputi contorcimenti viscerali o abbandoni elegiaci, ma anche senza che l’amore come tema diventi un tabù, un cliché del poetese da evitare assolutamente.
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Il testo ha un impianto esplicitamente discorsivo e quasi – ma ironicamente – didascalico: prova ne sia il ricorso a connettivi causali (per questo), l’uso analitico della punteggiatura a soppesare le affermazioni e specificazioni (volente o nolente, con l’uso inatteso di una locuzione colloquiale), comparazioni (ma anche) e il ripetersi delle parole-tema (amore e le varie forme del verbo conoscere) che hanno semplice funzione coesiva come in testi apertamente argomentativi (per es. saggi) se non didascalici (per es. manuali). Questa salutare attitudine distanziante si segnala già a partire dal primo verso, una constatazione impersonale espressa nella forma di una saggezza proverbiale. L’immediatezza comunicativa non ha nulla di ruffiano, e non rinuncia – nella semplicità del lessico – a una ricerca direi neoclassica di bilanciamento: ne è spia l’implicazione speculare della frase (l’amore non conosce gli adolescenti – gli adolescenti non conoscono l’amore) nonché la tripla allitterazione in a- (amore, alberga, adolescenti), marcatore non soltanto ritmico ma anche semantico, dato che pone in relazione tre concetti salienti all’intero testo da un punto di vista tematico. Forse per una volta non è fuorviante appoggiarsi a dati biografici nel rilevare una correlazione tra questa cristallina chiarezza e il dottorato in logica conseguito da Palmigiano. Tale bilanciamento – visibile nel microsistema del verso – si estende all’intero componimento, che consta di tre momenti: 1) reciproco non conoscersi (l’amore degli adolescenti: tesi); 2) reciproco conoscersi (antitesi); 3)
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valore del reciproco non conoscersi, traslato dall’amore all’arte (sintesi). La sintesi di 3) è però solo apparentemente una sintesi, in quanto ripropone e rafforza la tesi scartando come sbagliata l’antitesi. Può dunque giungere, quasi popperianamente, a un contenuto di verità per approssimazione (può essere, con la modalità che esprime appunto la possibilità) enunciato negli ultimi tre versi e però non esente da una svolta sarcastica. Ho detto “sarcastica” perché l’aggettivo “ironico” implica un nascondimento, una doppia lettura che qui invece manca di proposito. Tutto va preso alla lettera, l’autrice ci parla da una postura assertiva e che però (pace a certe semplificazioni della teoresi delle neo-avanguardie) non intende illudere il lettore obbligandolo al gioco dell’autore. Al contrario, la chiarezza argomentativa chiede di essere presa sul serio e più ancora chiede al lettore di intraprendere un simile percorso critico e razionale. Il sarcasmo che aleggia, elegantissimo, è implicito nel contrasto tra produrre (implicante progettualità industriale, mercificazione) e a caso (mancanza di progettualità!), nel relegare la riuscita (pezzi unici: anche qui un allusione alla mercificazione di arte e amore) al di fuori della consapevolezza. Il testo ha altre attrattive. Anzitutto, esibisce un contrasto fondativo tra tema e forma, in quanto esaltazione del caso nella più stringente logica, e dell’ignoranza nell’espressione di contenuti di verità. È quindi un testo ottimista, malgrado tutto, un testo che ha fiducia nella funzione razionale dell’uomo e proprio per
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questo rispetta l’imprevedibilità (il caso), teorizzato come necessario perfino in alcune teorie fisiche, contro gli eccessi del determinismo (vd. Popper 1979, Of Clocks and Clouds). Bisogna infine notare che l’approccio scientifico entrato nelle pieghe della poesia, non la s-poeticizza affatto: tutto il significato di questa preservata ma utile freddezza sta nella reazione alle esperienze amorose, anche private, da cui presumibilmente prende avvio (ma di cui, pudicamente, non parla), esperienze che per una volta non si rispecchiano nelle vicissitudini di un io privato ma che assumono un semplice valore antropologico, di dato o problema a partire dal quale cercare, possibilmente insieme, le nostre soluzioni.
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Poem Shot (15): Leopoldo Attolico (1946 - ) Vandalismi ed elegia Di questo itinerario son rimaste le randellate di Pulcinella a Pantalone le panchine basse del Pincio le gambe delle mamme le sagrestie scombussolate del pudore e, a sera, lo zero lattescente della luna per sigillo. E' rimasta una cifra sospesa a metà strada tra la piccola preistoria personale e un tamburo di latta a ribadire sprazzi di grazia antica dipinta dal suono. Più in là soltanto la Prima Comunione ha salvato la faccia ha un colore intatto dalla sua e resiste ad oltranza; come quei mezzi busti un po' fantasmi tra siepi di mortella spelacchiata che per aver troppo annusato la gioia l'hanno pagata cara e son rimasti senza naso stupiti anzichenò nel verde di una favola. (da La realtà sofferta del comico, Aìsara, 2009)
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Conosco da anni questa poesia e il suo autore, Leopoldo Attolico (www.attolico.it), e posso dire – per fortuna – che il suo mistero ancora “resiste ad oltranza”. Provo a darne qui una lettura che non faccia torto a questo strano residuo elusivo; “strano” perché a fatica verrebbe di associarlo con il suo tono narrativo e piano – talvolta perfino gergale (per es. “l’hanno pagata cara”). Qui il titolo ha importanza massima, proprio nel binomio che associa vandalismi ed elegia: cos’hanno in comune le due cose? meglio rovesciare la domanda: cos’hanno di opposto? tutto, forse. Cominciamo da elegia. Essa è anzitutto un genere poetico, ed è ovvio che questa connotazione entri nel testo, anche considerando i numerosi riferimenti scherzosamente meta-poetici che costellano l’intero libro da cui la poesia è tratta. In quanto genere poetico, essa si oppone a vandalismi: all’immaterialità intellettuale della poesia fa da contraltare l’estrema fisicità dell’atto distruttivo, non diversamente da un’altra poesia di Attolico in cui le poesie uscivano sconfitte, agli occhi del figlio, rispetto ai formidabili cazzotti di Bud Spencer. C’è però anche un’opposizione più stringente fra i due termini: la “elegia” infatti, nell’antica Grecia e a Roma, aveva una forte componente etica e civile, proponeva un modello eroico collettivo e perciò complementare a quello dell’epica. Si capisce allora che, in questa accezione, elegia è metonimica rispetto a civiltà come vandalismi lo è rispetto a barbarie. Un dualismo, nuovamente, si annuncia all’orizzonte.
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Come è risolto o trasposto nel testo tale dualismo? Anzitutto, bisogna dire che tutte le accezioni e le relazioni sopra abbozzate non sono digressioni, ma presupposti necessari per capire la poesia: che fa entrare e integra con maestria scrupolosa, anche a livello linguistico, tali variabili nel tessuto del testo. Anzitutto, la parola più carica in incipit è son rimaste: posizionata a fine verso (posizione forte anche a livello visivo e d’intonazione), non può non rimandare, ritmicamente, al celebre incipit ungarettiano di San Martino del Carso: “Di queste case / non è rimasto / che qualche / brandello di muro”. Là era la guerra; qui una distruzione in minore, ma che non nasconde di meno la sua violenza, con le randellate di Pulcinella a Pantalone. È necessario tornare sul valore di quel rimaste: il verbo “rimanere” infatti segnala tanto incompletezza quanto resistenza: la prima riassume e fonde i motivi elegiaci e quelli vandalici. Da un lato infatti, il testo elenca mancanze fisiche: “mezzi busti un po’ fantasmi”, “rimasti senza naso”; dall’altro lascia intendere che queste mancanze possono essere materia di elegia, di rimpianto. L’elegia – nel senso moderno del termine, stavolta – sublima ciò che rimane nel ricordo, lo trasforma in bellezza. C’è una fiducia nella bellezza, che appare a intermittenza ma in maniera luminosa: dalle gambe delle mamme allo zero lattescente della luna (immagine compressa, sinestetica, che può far pensare a Zanzotto), per non dire della sinestesia dipinti dal suono, la fisicità dell’annusare la gioia, e il verde di una favola.
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È un modo estremamente onesto di “travestire” la realtà: il dolore non è gridato (vedi anche la prima poesia del libro, dove il poeta redarguisce ironicamente le epigoni di Sylvia Plath) ma è più reale proprio perché più pietoso il tentativo di coprirlo. Il che spiega, d’altronde, l’intero titolo del libro: la realtà sofferta del comico. Ma di quale realtà si parla qui? Beh, è difficile negare la convergenza di motivi schiettamente italiani: le maschere della Commedia dell’Arte, la città di Roma evocata dal toponimo Pincio, i riferimenti cattolici della sagrestia e della Prima Comunione. L’elegia, intesa come nostalgia e retorica del “prima si stava meglio”, o adorazione delle rovine, potrebbe allora essere la rappresentazione di un malcostume italiano. Ma questa interpretazione svilupperebbe “elegia” nel senso moderno, mentre quella precedente prenderebbe in considerazione il senso antico. La poesia ingenera allora un campo di forze: come una partita di scacchi, ci spinge a pensare a varie possibilità. Una di queste è che vandalismi ed elegia potrebbe anche suggerire uno scenario o evento possibile: una rivincita degli istinti naturali (pagani?, dionisiaci?) contro le costrizioni religiose imposte (le “sagrestie scombussolate del pudore”). Una distruzione positiva, che cerca di fare tabula rasa del passato. Ma il passato è ingombrante, e a Roma più che mai: così la Prima Comunione – personificata secondo un cliché della poesia classica – sfugge al saccheggio, “resiste ad oltranza”, immutabile al passare del tempo e all’avanzare della civiltà. E poi, chi sono quei “mezzi busti un po’ fantasmi” che
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“l’hanno pagata cara”? malgrado la similitudine esplicita (“come… quei mezzi busti”), essi sembrano i veri sconfitti: l’impersonalità della Prima Comunione riesce a salvare la faccia, mentre chi, fidandosi delle spinte istintive “annusa la gioia”, rimane “senza naso”. La poesia si chiude col ritorno di qualcosa che rimane, stavolta però nel segno del negativo, della mancanza appena, pietosamente mascherata, dal “verde della favola”. Inoltre, alcune notazioni linguistico-stilistiche per mostrare, ancora di più, come il testo si tiene intelligentemente insieme: il riferimento a mamme può dettare l’uso, pochi versi dopo, di lattescente (arcaismo, come altri nella poesia, per es. anzichenò, e legato alla dimensione archeologica del testo, che parla di rovine e mezzi busti); l’espressione a sigillo è seguita, iconicamente, da un punto fermo, a presentare un riquadro scomposto, che ha qualcosa di fiabesco e qualcosa di sinistramente concreto; lo zero della luna (riferimento tanto alla sua forma quanto al suo valore nullo: ancora un tema leopardiano e poi zanzottiano?) è ripreso dalla “cifra sospesa a metà strada”, mentre la strada richiama l’itinerario dell’inizio (“itinerario” è un termine turistico: quindi supporta l’interpretazione per cui le rovine sono adorate, per cui l’Italia dorme sui suoi allori). Qual è la conclusione? che Leopoldo Attolico ci mette in una posizione problematica, alludendo al dualismo barbarie-civiltà e mostrando come la barbarie può essere civile se rovescia un ordine esistente, mentre la civiltà può essere barbara, se “resiste a oltranza” tappandosi le orecchie agli umori che montano dal basso.
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Tuttavia, come abbiamo visto,anche il ruolo dell’arte è chiamato in causa, nel suo potere liberatorio e istintuale (“tamburi di latta”, “piccola preistoria personale”) ma anche consolatorio e impotente contro l’ignoranza della violenza, dell’arroganza.
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Poem Shot (17): Paul Sinelli (1972 - ) Come altri ottimi e sconosciuti autori presentati qui su Poem Shot (Carlo Bellinvia e Paola Tomasiello) anche Paul Sinelli lo lessi sul Club dei Poeti, perdendone poi le tracce. La sua poesia talvolta sarcastica e cinica, difficile e grottesca, mi aveva colpito per l’integrità e la distanza siderale da molte cose proposte dal mainstream (ma anche dalle poche opere di ricerca che ho letto finora). Qui presento una poesia che certo non rende giustizia alla varietà di toni e temi delle altre sue (che spero di presentare più in là nel tempo) e che però mi ha colpito ed è rimasta, nella sua fulminea concettualità.
Come una presunzione Da un chiodo s'estende il desiderio di essere più in là puntato al buio di un appena dentro senza che si possa vedere l’intonaco cadere e deridere il centro.
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Un unico momento sintattico formulato come una verità sentenziosa, con versi brevi ma ben attestati dalla tradizione: trisillabi e settenari nervosamente alternati, con rime e assonanze a pioggia (desiderio-dentro-centro, vederecadere) che ritmicamente mi riportano al Montale di A Liuba che parte nelle Occasioni (“Non il grillo, ma il gatto / del focolare / or ti consiglia, splendido /lare della dispersa tua famiglia”). Ma la sentenziosità distaccata, più filosofica, fa forse pensare di più a Magrelli (“il desiderio è questo / fruttificare della commozione / al limitare delle membra”, da Ora serrata retinae). In Sinelli però il dettato non è neoclassico, ma s’increspa nervosamente, diventa aguzzo come la presunzione del “chiodo”. Forse più calzante è il parallelo con una breve poesia di Cattafi (“la mosca ignora / che quell’altra mosca / bisillabo inchiostro sulla carta / non è più sua compagna ma nostra”) e che però è più solare, esplicita e “danzante” rispetto a questa. O anche la breve I razionalisti di Wallace Stevens (“Se provassero romboidi, / coni, linee onlulate, ellissi, / – come per esempio l’ellisse della mezzaluna – / i razionalisti porterebbero il sombrero”). A proposito, sembra esserci un’intera categoria di queste poesie concettuali e sentenziose che andrebbe un giorno indagata coi moderni strumenti della linguistica testuale. Gli elementi indicati dal breve testo (chiodo, buio, dentro, intonaco) ci immettono in un interno concettualizzato, dove non è possibile nessuna fermata intermedia nella mimesi: la minutezza del chiodo è assunta a tema portante, a origine (anche del testo). L’estendersi del desiderio, la tentazione dell’oltre, fa pensare a una versione platonica dell’amore che ha bisogno di andare
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oltre sé stesso; la presunzione è che si vorrebbe rispondere a questo impulso salvaguardando, al tempo stesso, l’illusione della propria integrità (“senza che si possa vedere / l’intonaco cadere / e deridere / il centro”: ovvero senza che crolli la nostra facciata, l’identità socialmente costruita, e senza che questo fragile “centro” venga deriso da questa apocalisse in minore, tutta interna). Perché il chiodo? ritengo che quest’immagine sia adatta sotto tutti i punti di vista. Anzitutto perché, sul piano della mimesi, tutti abbiamo presente l’ombra proiettata sul muro dal chiodo illuminato: ombra come estensione e come correlativo dunque dello stesso desiderio del chiodo. In secondo luogo, il chiodo è qualcosa che permette di reggere, che aiuta a costruire; ma anche qualcosa che, scavando, ferisce, rischia di raschiare via l’intonaco. Infine – ma non meno importante – il chiodo è leggibile come simbolo fallico, contestualmente giustificato dal fatto che il “buio / di un appena dentro” può far pensare a un indistinto femminino. Così, secondo questa interpretazione, l’estendersi all’altro brilla come genuino desiderio e come meccanica di conquista: è un desiderio bifronte, ambiguo. Potrei aver compiuto un peccato di sovra-interpretazione; eppure, se quanto detto finora tiene, se l’intonaco di questa interpretazione non crolla, questa breve Come una presunzione dimostra come sia possibile alludere con forza icastica a questioni di relazione, perfino intimi, mantenendo una oggettività che permette di guardarci da un po’ più lontano – e vedere dunque noi stessi meglio – lavorando con la mente, riportando in poesia l’ormai
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tramontato valore del wit, dell’ingegno non fine a se stesso.
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Poem Shot (19): Bartolo Cattafi (1922-1979) Cattafi, ricordo, fu il primo poeta – dopo Montale – di cui desiderai comprare un libro, già quasi una decina d’anni fa, dopo aver letto un paio di sue poesie in una (illuminata) antologia scolastica di cui non ricordo il nome. Dovetti invece aspettare la ristampa dell’Oscar Mondadori (prefazione di Giovanni Raboni), perché le raccolte di Cattafi mi sembravano (o forse davvero erano) introvabili. Lode dunque a Elisabetta cattafi (figlia del poeta) e allo studioso Diego Bertelli per aver messo tantissimi materiali cattafiani in rete grazie al sito ufficiale che vi invito a visitare. Alcune delle poesie di Cattafi sono rimaste fortissime in me: come, ad esempio (ma che ardua la scelta!) Il resto manca.
Il resto manca Mancavano pagine il marmo dell’epigrafe era scheggiato due sole parole cetera desunt il resto mancante mancanti la testa e i piedi e tutto il resto mancante che testa e piedi divide cetera desunt…. cetera desunt…
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parole sul frontone d’un tempio vuoto vorticanti col vento come per dirci solo noi ci siamo tutto il resto manca era questo che non sapevate. (Da Chiromanzia d’inverno, Mondadori, 1983, pubblicazione postuma)
Questa poesia ha tutta l’aria di essere scolpita come il marmo: come spesso mi succede, è il tono prima ancora del contenuto a farmi amare una poesia (e disprezzare le volute dolci, monotone, tra il timoroso e l’indulgente di molte poesie contemporanee, ma lasciamo stare…). L’inizio è in medias res, drammatico: mancavano pagine è una constatazione assoluta, perché pagine resta indeterminato (mancanza d’articolo), senza contare la forza di un verso a terminazione sdrucciola. Non credo d’aver mai letto un imperfetto usato con questo senso del tragico: la funzione stessa dell’imperfetto (elegiaca, di ricordo, nostalgica) ne esce stravolta. L’arte, o più umilmente l’artigianato (un concetto in realtà molto alto, per me, legato com’è al concetto di “mestiere”), è evidente anche nel secondo verso, dove il marmo dell’epigrafe forma una costruzione sintattica ambigua cui questo sintagma sembra dapprima oggetto del mancare, ma poi diventa soggetto dell’essere scheggiato. Ogni referente conquista la scena del rispettivo verso, gli
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enjambements nel senso di continuità di fraseggio sono aboliti, ed è questo a dare alla poesia un effetto “scolpito”. Le ripetizioni hanno funzione intensiva, come di un’eco ossessiva. Non a caso le parti di testo ripetute sono quelle costitutive del centro tematico del testo: cetera desunt, che passa da una menzione al v. 5 a una doppia al v. 10, scandendo i due momenti medi nei 15 versi complessivi; e il resto manca, con le sue variazioni (il resto mancante, tutto il resto mancante, tutto il resto manca, mancavano). Una poesia sull’assenza, in apparenza: un’assenza che ritorna tante volte fino a diventare la raggelante accusa – e rovesciamento di prospettiva – degli ultimi due versi. Una climax visionaria pervade il testo, dove l’immobilità dell’epigrafe si trasforma in parole vorticanti nel vento. Come interpretarla? Io credo che la poesia sia originata da un equivoco linguistico atroce (un po’ come Sachsenhausen nel Sereni di Nel vero anno zero, che si riferisce sia al nome di un quartiere sia quello di un campo di sterminio): cetera desunt (= gli altri mancano: gli altri, non un generico resto) riporta a una iscrizione funebre (come i monumenti in memoria dei caduti) dove lo spazio è troppo poco per rammemorare coi nomi. L’accostamento alla guerra è plausibile, perché mancanti la testa e i piedi e “tutto il resto mancante / che testa e piedi divide” (notare, tra l’altro, il parallelismo con variatio) riporta ai mutilati di guerra, ma un po’ anche alle statue mozzate presenti anche in Vandalismi ed Elegia di Attolico già analizzata prima. L’assenza dei morti richiama alla responsabilità dei vivi, ricorda loro la loro presenza certa e ingombrante (solo noi ci
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siamo), macchiata dalla falsa coscienza filosofeggiante che mette in dubbio il nostro esserci, la nostra concretezza (un attacco, dunque, alla fluidità postmoderna? Plausibile, dato che la poesia può essere stata scritta alla fine degli anni ’70, quando la svolta post-moderna e decostruzionista cominciava ad aleggiare per poi dominare). Cattafi sembra proporci un modello di poesia fondato sulla tradizione, sulla continuità: non è un caso che i marmi, il tempio vuoto (che non possono non richiamare i templi siciliani, giusta anche la provenienza dell’autore) e le parti mancanti – come delle statue oltre che dei militi – siano “rovine”, ma rovine che parlano. Le stesse rovine inquietanti che troviamo nei quadri di De Chirico, anche lui con forte retroterra mediterraneo. Viene in mente il titolo di un saggio di Fortini (Extrema Ratio: note per il buon uso delle rovine) e anche – a livello di situazione – il “sorriso balordo / che mi fermò tra le lapidi” di Sopra un’immagine sepolcrale, di Sereni. Questa è una poesia profondamente etica, che interroga e accusa, che non usa parole superflue (Cattafi è rimasto fedele ai principi, forse di derivazione imagistica, de L’osso, l’anima). Una poesia di tale forza e freschezza che potrebbe essere stata scritta oggi, o più verosimilmente, domani.
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Poem Shot (21): Cristina Annino (1941 - ) Quella di Cristina Annino (www.anninocristina.it) è poesia che resterà. Vuoi vedere che la volontà dell’autrice di svincolarsi da quella che lei definisce l’idea-tempo non solo è segno di qualità poetica, ma anche, appunto, il segreto del suo restare? Stimata da grandi nomi del novecento (Fortini, Giudici, Pagliarani, Raboni…), la poesia di Annino è oggetto di un virtuoso passaparola su internet, possibile soprattutto grazie agli sforzi di Stefano Guglielmin e Francesco Marotta. Estranea da sempre alle correnti dominanti come alle mode più effimere del contro-corrente, obbedisce fino allo stremo a logiche sue, con quella libertà spregiudicata che può dettare il confine tra buona poesia e grande poesia. Se della buona poesia ci si compiace perché funziona o tiene, la grande poesia marchia, spezza il fiato, può creare un terremoto percettivo. Quando a questo si aggiunge una significanza collettiva benché sfuggente, allora è il capolavoro. Userei questa parola per Andante pesante con abbandono, tratta da Gemello Carnivoro (2002).
Andante pesante con abbandono (Per Daniela Marcheschi) Il piatto filippino preferito è la scimmia. La portano in ginocchio, il viso sulla tovaglia poi
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il cervello lo segano vivo. Ci facciamo un’idea del mondo mangiando, del modo di fare ordine della vita, radio, giornale, d’un patito giallista. Io mai m’abituo; ma l’auto sul viadotto s’allontana simile al viso ben diviso della barista, nel mattino: triste, ben triste, in due. Come si va semisoli insieme giù per la strada. Danì capisce il chiodo nel cervello; lo batte un solo uomo, certo, e l’inferno detto la via. Lei ha un diverso rapporto con la carne; ma stan piegando la sua natura, così dentro il letto. La stan mettendo sotto spirito: i piedi sul lato del vetro e testa al contrario. Una foce. Leggi fato. Anche il Nilo si guarda da ragazzi e per primo ci prende in giro. O quando uno di noi s’alzò nel sonno dicendo “lo zio ama i negri!”. Per legge di gravità il tempo è passato. Siamo ormai diventati, con moto che allontana dal posto, e dei negri ci importa poco. Ora c’è un comportarsi da zie e tutto il resto. C’è non essere più capaci del colmo. NOI digeriamo QUEL piatto. Insomma ormai del sonno ci appartiene l’insonnia. Di lei. Che si strappa di dosso l’io semifuso dal corto circuito d’uno sbalzo di pressione nel sangue.
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Sviene indietro come l’acqua del Nilo va su. Colpito in un lampo in viso il centro della memoria. Dati. Mentre dal toporagno arboricolo a noi, il tempo evolutivo è settantacinque milioni d’anni. Dice la radio. (Da Gemello Carnivoro, I quaderni del circolo degli artisti, 2002)
Le quattro strofe libere, marcatamente polimetriche ma di simile lunghezza complessiva, dànno una traccia di ordine – meglio: di principio regolativo – a un dettato dalle fortissime spinte centrifughe. L’ordine (il filo argomentativo che percorre la poesia e che mostrerò) si mescola al disordine (il surrealismo delle immagini, l’idiosincrasia ritmica) come suo completamento necessario, in una dialettica che Fortini avrebbe approvato (si ricordi la prosa L’ordine e il disordine in Questo muro). C’è una grande tradizione dietro, l’impressione di essere di fronte a una poesia importante: una poesia in cui all’assertività proposizionale (= memorabilità) dei versi si aggiunge una lacerazione emotiva marcata dalle frequenti spezzature estreme, aguzze, a fine verso. Lo sperimentale e il lirico collidono, addirittura collimano. In quanto segue proverò a dare una mia lettura: più che un’interpretazione (atto che sembra mirare alla impossibile e sbagliata riduzione del campo di forze di questa poesia a
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un enunciato unico), un percorso appassionatamente soggiogato al testo. A chiederlo è la stessa necessaria materialità, eccentricità della lingua poetica anniniana. Il titolo è uno scrambling (manipolazione) di un tempo musicale, dove anziché da “vivace” o “allegro”, andante è seguito da pesante. La pesantezza si fa più acuta in abbandono, parola pesante sia ritmicamente (le sue quattro sillabe) sia semanticamente (la doppia accezione di “abbandono”: lasciarsi andare, o essere lasciati). Questa manipolazione segnala un gioco di parole umoristico e però serio, tanto più alla luce della drammaticità delle immagini presenti nella poesia. Un indizio successivo è la dedica alla nota studiosa Daniela Marcheschi, amica dell’autrice come segnalato dal diminutivo d’affetto nel primo verso della seconda strofa (Danì). La poesia sembra quindi configurarsi come una lunga allocuzione dell’io poetico a un destinatario unico e specifico; questo permette una presenza più verosimile dei numerosi riferimenti privati, apparentemente chiusi all’esterno. Perché il piatto filippino? perché la scimmia? È però chiaro che lo spunto apparentemente privato diventa occasione di discorso pubblico: da qui il riferimento a una terza plurale inquietante perché non specificata (“La portano in / ginocchio”). Da qui, anche, l’ambiguità del noi che può essere duale (l’io poetico e l’interlocutrice) o collettivo (“noi” come “tutti noi”) e la cui importanza è segnalata graficamente dallo stampatello in seguito, e forse per inclusione anagrammatica in Nilo.
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Anche il tema non dichiarato è pubblico: una sorta di matrice che condensa i temi della carne, della natura, del cibo e dell’evoluzione. È possibile che il famoso detto di Feuerbach, “l’uomo è ciò che mangia” (cfr. “ci facciamo / un’idea del mondo mangiando”), abbia avuto un suo ruolo generativo nella costituzione della poesia. Una matrice filo-marxista sembra sussistere in questi temi e legarli: il materialismo crudo delle immagini (“il cervello lo segano vivo”), un riferimento a chi è subordinato (filippino, negri), quello ripetuto agli organi di comunicazione (radio, giornale) e l’enfasi, già notata, sul noi e quella sul cambiamento, o piuttosto la sua negazione (il tempo evolutivo, “il tempo è passato”). Qualcosa rimane, dunque, del clima sessantottino così esplicito nella raccolta Non me lo dire, non posso crederci (1969). Ma è poco, è quasi irriconoscibile: tutta la poesia si dedica a decostruire questa fiducia nelle grandi narrazioni, con precisa spietatezza, ma senza esaltazione, senza la fiducia nel pensiero debole del postmoderno. Questo Andante pesante con abbandono sembrerebbe il canovaccio di un grande affresco antropologico, dove l’orrore è tanto da rifiutare il realismo della rappresentazione diretta. È la posizione tardo-modernista, dove la crudeltà disadorna del dato di fatto (Dati, “dal toporagno arboricolo a noi / il tempo evolutivo / è settantacinque milioni d’anni”) tradisce un’amarezza in filigrana (“Ora c’è / un comportarsi da zie e tutto il resto”), conserva una fortissima traccia etica. Quello che denuncia la poesia è il “non essere / più capaci del colmo”, il digerire QUEL piatto: il piatto dell’orrore servito
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quotidianamente, ma anche – forse – la piattezza di prospettive, il nonsenso di quello che accade. Il cervello della scimmia (dunque esteriorizzato nella prima strofa) sembra diventare il proprio (“Danì / capisce il chiodo nel cervello”: dove chiodo sta sia per “chiodo fisso”, cioè “fissazione”, sia per declinazione della violenza del coltello alluso per via metonimica – segano nella prima strofa). Poco importa, a questo punto, che nel gioco autogenerativo delle immagini, il Nilo sia originato dalla parola letto (= letto del fiume) e da foce, la quale a sua volta è suggerita dalla somiglianza tra la forma dell’estuario e quella del collo umano che si allarga in corrispondenza delle spalle. Più conta forse che l’essere messi “sotto spirito” (nella metà della seconda strofa) è un calembour atroce, e riassuntivo forse dell’intera poesia: significa che siamo stati congelati in provetta, non ci siamo evoluti (c’è un che di sarcastico nella sproporzione tra toporagno arboricolo e un lasso di tempo di settantacinque milioni di anni); e anche significa che siamo stati soggiogati dallo spirito (“sottospirito”), ovvero dalle sovrastrutture – non solo cattoliche e cristiane: il comunismo stesso pare essere messo sotto accusa, o forse il suo legame con la dialettica hegeliana – che sembrano averci illuso, frustrando la carne, la necessità biologica. Con diverso esito, un nucleo di contenuto che abbiamo identificato simile in Vandalismi ed elegia di Attolico. Così, amaramente (non) si conclude lo “spirito dei tempi” (è il caso di dirlo), che sembra tenere più che mai per la
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situazione attuale e che è meglio reso (rispettato) da un surrealismo lucido (!), impastato di ferocia e libertà , come quello di Annino, che da troppo espliciti richiami narrativi, da appiattimenti sulla mimesi e sul realismo, o da formulazioni inutilmente programmatiche.
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Poem Shot (23): Roberto R. Corsi (1970 - ) Quando leggo in rete dei soliti (pur bravi, ma difficilmente più che bravi) nomi che circolano e rimbalzano di sito in sito, mi rendo conto di quanto lavoro c’è da fare per erodere dall’interno questo meccanismo pseudo-critico che oscura – per pigrizia o cattiva fede – voci come, per esempio, quella di Roberto R. Corsi. Se Roberto non si fosse posto in dialogo con me, probabilmente a tutt’oggi non saprei dell’esistenza della sua scrittura poetica. Ne ho avuto una prima portata importante con la sua raccolta in progress Cinquantaseicozze, leggibile a puntate sul suo sito. Per Poem Shot ho scelto – dopo averle rilette tutte, fino alla ventunesima – la terza, che mi sembra (insieme alla seconda) una delle più riuscite. Esorto comunque a leggerle tutte, per scoprire una voce indipendente, diretta e ricercata, auto-ironica e aspra.
III. La radio semina ricorrenze civiche nel deserto; io rivedo i tuoi sguardi clorofilla che a sprazzi hanno irrorato giorni spessi. Umidi dei vent’anni mi annunciarono di via D’Amelio, ed eravamo casti e sapevi del fieno attorno casa; poi burrascosi in venuzze, specchi ustori di Alice nel meraviglioso mondo bancario all’alba del nuovo millennio, sprezzavano a Genova quei miei comunisti di merda e se Giuliani è morto, dicevi, qualcosa avrà pur combinato, male non fare paura non avere (refugium peccatorum).
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Poi facevamo una pace generosa e m’affilavo nella tua carne come l’illusione ultraterrena sa innestarsi nell’occaso, gentilmente deflorando la foschia. Di noi per fortuna non resterà nulla, i quarant’anni son tazze riposte all’acqua fredda del calcolo, galassie in moti diametrali, sgranate da qualunque storia risoluta nello schivarci, orrore grosso di stragi mangia orrore piccolo del tuo delirio borghese rampicante, della mia vulvocentrica viltà. (Dalla raccolta inedita Cinquantasei cozze)
Questa cozza è una delle più perfette e naturali compenetrazioni tra confessione privata e contesto storico che ho letto da un bel po’ di tempo a questa parte. Questa tensione, questa dialettica s’innerva già nel primo verso: da un lato una constatazione asciutta, dove la formalità di una parola come ricorrenze sembra anticipare il vuoto implicito in (o semioticamente suggerito da) deserto. Dall’altro quell’ io in bilico a fine verso, quasi un’appendice suo malgrado espulsa da una partecipazione più implicata (onde il punto e virgola), dall’altro tenacemente vicina al dato collettivo: sullo stesso piano, o verso. Ma rileggiamo il primo verso, apparentemente amaro: escludendo come poco plausibile o giustificata una lettura di semina nel senso di “far disperdere” (che lo renderebbe, se possibile, ancora più amaro) può balenare il portato di speranza del verbo “seminare”, cui non è estranea un’eco biblica. Intanto, però, qualcosa davvero fiorisce: è la memoria del soggetto poetante, o io empirico, che si rivolge a “tu” intimo, femminile, il quale si fa carico dei connotati di rinnovamento (espressi tramite un lessico
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botanico: clorofilla, irrora) presagiti e negati al tempo stesso nella diffusione radiofonica delle notizie. Questo è significativo: nell’impotenza di agire in un contesto collettivo e modificarlo (in quest’ottica, non è casuale il riferimento ai drammatici giorni del G8 e alle parole, solo apparentemente desuete, comunisti e borghese), al soggetto non rimane che il privato, la compensazione del ricordo, l’intimismo. È quanto succede in molta poesia contemporanea: che però, a differenza di quella di Corsi, sembra rimuovere o dare per scontato il contesto in cui le nostre poesie vengono scritte. È una differenza cruciale: la differenza che passa tra il mettersi all’angolo guardando rabbiosamente il resto della stanza, e quella di pensare che il proprio angolo sia tutto o che nulla debba mutare. Corsi sa però bene che questa fuga nel privato – che per alcuni dura un libro o un’intera carriera – non può durare, se davvero si vive nel mondo: e quindi, appena un verso dopo, l’irruzione nel ricordo della strage mafiosa di via D’Amelio, che richiede alla poesia un innalzamento retorico (mi annunciarono) richiesto dal tragico e opportunamente negato al primo verso, dove si enunciava seccamente la trivialità (comunque grave) di un non-fatto, di un non-accadere che è forse lo specchio più fedele di questi ultimi vent’anni italiani. Accenni regressivi, bucolici (“eravamo / casti e sapevi del fieno attorno casa”) cozzano, è il caso di dirlo, con la satira che fa diventare ustorio lo specchio di Alice nel paese delle meraviglie e combina meraviglioso con bancario. L’asprezza del sintagma nominale meraviglioso mondo bancario è, ironicamente, quasi meno destabilizzante delle pubblicità
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che ingegnosamente ancora continuano a venderci la banca come un campione di valori umani, nonostante o proprio per il crac finanziario mondiale. Anche nel suo poemetto Litalìa De Alberti ironizza amaramente sulla bontà delle banche. Il turbine di giustificato pessimismo si intensifica nelle espressioni in corsivo, stralci di dialogo o monologo interiore il cui contenuto, intollerabile, è però divenuto parte di noi, del “vivi e lascia vivere” all’italiana: nella poesia è difficile, significativamente, attribuire questi stralci a un soggetto piuttosto che a un altro. Il senso di impotenza, l’addossamento di colpe non direttamente proprie, fa iscrivere questa poesia – e in generale, la scrittura di Corsi – in un paradigma fortemente etico che va dalla Primavera Hitleriana di Montale a Nel vero anno zero di Sereni al Pusterla di Le prime fragole (vd. poem shot 27). Non è allora un caso se il flusso sintattico si interrompe qui, dopo un accumulo non più sopportabile; come non è un caso che il verso successivo (il v. 9) si apre con la parola pace, che nel contesto semantico della frase rimane un dato privato (il “fare la pace”), mentre nel contesto semiotico della poesia risuona delle tensioni esplose nei versi precedenti. Quando arriviamo a pace generosa ci è difficile prendere sul serio l’espressione, ci è difficile darle più peso di quello che ha nel linguaggio corrente l’espressione “far pace”. Un esempio di come la poesia, funzionalmente, può rinunciare a caricare il discorso corrente di significanza, proprio per esporlo nella sua nudità.
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Ritorna, più spaesato e alieno che mai, il lessico botanico, ora più connotato sessualmente (innestando, deflorando, vulvocentrica). Grande è la sconfitta personale e storica, il senso di auto-distruzione enunciato quasi con cinismo (“Di noi per fortuna non resterà nulla”), che ancora una volta mi rimanda al Sereni più cupo (“Non ti vuole ti espatria / si libera di te / rifiuto nei rifiuti / la maestà della notte”, da Notturno, in Stella variabile). Il salto dall’intimismo (tazze) al cosmico (galassie in moti diametrali) è immediato e si appoggia al linguaggio sempre più verticale (valga per tutte la metafora ardua “tazze fredde / del calcolo”) di una poesia che più sa la sua (nostra) sconfitta, più non teme di incarnare – nella forma – un assoluto risarcimento all’offesa, in una scansione chirurgica dei versi lunghi eppure mai rappacificati.
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Poem Shot (25): Erika Crosara (1977 - ) Erika Crosara è stata, per me, forse la più bella rivelazione del censimento poeti di Pordenonelegge. È lei che ho votato (insieme a Giulio Marzaioli e a Gilda Policastro) e il suo modo di fare poesia mi sembra indicare una via proficua tra resoconto trattenuto e percezione di voci incarnate, tra lirica e costruzione del discorso. Un modo che mi ha ricordato il Guglielmin di C’è bufera dentro la madre, uno dei poemetti più belli e intensi letti di recente (non è un caso se Guglielmin è il prefatore del primo libro di Crosara). Il fatto che la raccolta di Crosara sia risultata vincitrice al premio Lorenzo Montano di Anterem (nel 2010) è motivo che accresce la mia fiducia in quel premio, cosa non facile quando attorno vedi spuntare aggregati poetici ben fatti ma mancanti di un quid, anonimi o tardo epigonici, insomma. Ma perché Crosara non viene mai riproposta dai blog poetici? Forse perché molti di questi accettano le (auto)proposte di autori ansiosi e a volte mediocri, anziché cercare attivamente i validi e spesso appartati?
(l’inverno è rotto) 1. «sono tutti bravi quando aspettano nenie, mirini, dolci forni delle feste. accorrono col fiore infilzato,
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con occhi grandi come pavoni».
2. «ah dice se il melo almeno cantasse invece di questa soldataglia glabra che vedo passata sopra e acuta sui ponti, e che viene nel mondo, nel porco, nel bisogno del giorno. una mano energumena entra nel piatto, la malaparata avanza e taglia dopo la corda persino i confini, coi petali intorno».
3. «le lodi rimbalzano fra cannule e strisce ventose, netto e mondato cammina. c’è fresco sotto le instabili mura, muore ogni discorso davanti al serraglio. oggi che il campo è nudo e un falco si annuncia nelle cose minori, nei laghetti, per strada». cauda. «perché la polvere arretra, a stento ti dice: non importa l’inverno è rotto e tu stipi e ti rimetti».
È la prima volta che su Poem Shot analizzo una poesia (quasi) interamente presentata come discorso diretto di cui non è svelata la fonte dell’enunciazione. Di per sé questa procedura non è una novità (ma quale la è?), perché
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esempi analoghi figurano in alcune poesie di Milo de Angelis e perfino in alcuni passaggi dei Cantos poundiani, dove le voci si affollano senza che ci sia sempre dato di ricondurle a qualcuno. Questa poesia di Crosara si presenta dunque come un reportage – una trascrizione di voci e testimonianze da un luogo – a frammenti. Un frammentismo che iconicamente risponde al titolo (l’inverno è rotto) ma che anela all’unità, come composto e perfino classico (ma di un classicismo da metrica barbara, vicina agli esametri latini o ai versi lunghi pavesiani) è l’incedere dei versi. La prima trascrizione (1) inizia con l’espressione “sono tutti bravi quando…” con un tono di rassegnazione e ironia naturalmente veicolato da simili occorrenze nella lingua corrente e dovuto, nella semantica frasale, al qualunquismo esposto di tutti e al complemento di limitazione applicato al non agire, all’aspettare. Aspettare cosa? Il complemento diretto consiste in una accumulazione di elementi contrapposti, legati al riparo della ripetizione (nenie) alla violenza (mirini) e agli affetti comunitari ma con un’eco per me mostruosa (dolci forni delle feste: dove forni e feste assumono una connotazione sinistra per la presenza di mirini appena prima, facendomi legare forni all’olocausto e feste al festino della Primavera Hitleriana di Montale). Lo stridore del fiore infilzato conferma questi brutti presagi, aumentati – in tutto il passaggio – dall’impossibilità di sapere l’identità della terza persona plurale, argomento del discorso (qualcosa di simile, e similmente sinistro, è in
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Sereni, quando comincia con “Mi prendono da parte, mi catechizzano” in La pietà ingiusta). In (2) – data per scontata l’impossibilità di decidere se il locutore è lo stesso che in (1) – sembra però di poter percepire una modulazione interna, più intima. Fatto sicuramente dovuto al passaggio dalla narrazione esterna di (1) all’ipotetica rafforzata da interiezione di (2) (“ah dice se il melo almeno cantasse”). Ma come mai non c’è nessuna impressione di patetismo, qui? Ipotetica e interiezione dovrebbero portare al patetismo come un’equazione tra linguistica ed effetti. Invece da un lato c’è il distanziante dice che rende il discorso diretto un discorso riportato da altra fonte, come una mise en abîme per cui chi è interrogato riporta le parole di un altro, con doppio distanziamento dall’io lirico: non è la poetessa a parlare, e neanche un suo personaggio: è un personaggio immaginato a riportare le parole di un enunciatore che rimane indeterminato. E poi – pragmaticamente, ovvero a livello di contesto – c’è il contrasto tra il cantare del melo (impossibile a livello referenziale, e metaforicamente interpretabile come il suono del vento nella fronda) e la soldataglia glabra, che riduce il desiderio espresso nell’ipotetica da alternativa allo stato di cose presente a semplice accessorio che può, simbolicamente (ma solo simbolicamente) opporsi al male. Il mancato canto del melo contro la marcia dei soldati. Con l’inquietante mano energumena si passa da una presa esterna (i soldati che passano sul ponte) a una interna, una scena di focolare (piatto può essere letto come una sineddoche di casa, di frugalità). Notare poi come l’espressione “persino / i confini, coi petali intorno” fonda
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l’immagine del fiore (riprendendo e replicando, con variatio, i fiori infilzati di 1) con quella della terra intesa come confine geografico e punto strategico. Un montaggio metonimico di elementi che sembra adatto per un tipo di poesia autenticamente civile. La metonimia e la fusione concettuale-immaginativa degli elementi si sostituisce, per fortuna, alla pratica diretta della metafora, del metamorfismo estetico e tutto sommato esteriore a cui cedono molti poeti contemporanei. In (3) elementi o segni del discorso (lodi, discorso, si annuncia) sono compenetrati in uno scenario di immota e sterile rusticità (appena suggerito da “il campo è nudo”, dalle “cose / minori, nei laghetti, per strada”, le cannule). Il cambio dei soggetti, più repentino che in (1) e (2), suggerisce che dalla narrazione-descrizione dei due primi momenti si passa a uno più sintetico, con inflessioni più filosofiche, eppure senza cambiamenti di ritmo o registro: un senso di uniformità e monotonia è necessario per il funzionamento della poesia in questione. Misteriosa, e carica di significanza, è la svolta degli ultimi tre versi: anzitutto questi introducono, in posizione assai forte, la parola cauda, l’unica a cadere fuori dal discorso diretto. “Cauda” è termine zoologico per “coda equina”: eppure questo non ci porta da nessuna parte. È più plausibile (tralasciando un probabile uso regionale del termine, a me ignoto) leggerla come “coda” nel senso di chiusa del componimento o postilla (per associazione linguistica penso al sonetto caudato), e come tale sembra l’unica diretta intrusione autoriale nel componimento. È però cruciale: perché instilla anche il dubbio
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dell’arbitrarietà della scelta di quando interrompere o meno le trascrizioni, esponendo il ruolo di selezionatore che sempre deve svolgere chi scrive. L’aggiunta di cauda sembra perciò un taglio inferto al discorso (e come non collegarlo alle immagini di recisione dei fiore infilzato, e di “taglia dopo la corda persino / i confini”?) e al tempo stesso una promessa di continuità. È solo a questo punto, infatti, che il lirismo del tu autoriferito, dei verbi usati intransitivamente (“ti stipi e ti rimetti”) e della predicazione “l’inverno è rotto” ripreso dal titolo, possono avere luogo con naturalezza, come una possibilità più che legittima del discorso poetico.
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Poem Shot (27): Fabio Pusterla (1957 - ) Fabio Pusterla è (e meritatamente) uno dei più noti poeti italiani contemporanei, uno di quei pochissimi che, pur restando lontano dai grandi centri letterari di Roma e Milano, ha avuto un riconoscimento di critica e pubblico pressoché unanime, anche con l’uscita, nel 2009, dell’antologia Le terre emerse, per Einaudi. Questa alterità o indifferenza alle mode, alle piccole diatribe dei salotti letterari, ha agevolato a mio modesto parere il formarsi, nei decenni, di una poesia radicata nell’ascolto di sé, degli altri e del proprio ambiente: una poesia dalla forte connotazione etica e civile, attività ed esercizio umano prima che autoreferenzialmente letterario, sulla scorta di un maestro riconosciuto (e che è anche il mio), Vittorio Sereni. Dal vivo, non sembrano esserci scollature tra l’uomo e il poeta: Pusterla è davvero una persona gentile e disponibile, umile, lontana da quel distacco o quell’agonismo che invece mi è sembrato di ravvisare in altri altrettanto noti poeti passati per l’ateneo pavese alcuni anni fa. Per i miei versi ha avuto parole precise e d’incoraggiamento, e senza nessuna sollecitazione da parte mia. Per Poem Shot ho scelto Le prime fragole, una di quelle poesie davvero rimaste con me negli anni, e una delle più belle e intense tra quelle in Folla sommersa (2004).
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Le prime fragole Strisci nell'erba bianca di margherite. Sei vestito di rosso, hai una cuffia rossa in testa, e nella mano destra un pelacarote che infilzi nel terreno ancora molle di marzo, sempre avanzando lentamente nel folto del prato. Sdraiato sull'erba, con le margherite negli occhi. Sto scalando l'Everest, mi dici. E anche le guance sono rosse di gioia. Strisciavi ieri nel tuo Everest di margherite e io ti guardo oggi nel ricordo e intanto ascolto la radio in attesa di notizie terribili, e tu continui a strisciare felice e la radio dice della bambina schiacciata da un panzer a Gaza tu prepari una pozione con piume d'uccello per imparare a volare io ti preparo le prime fragole rosse dell'anno e mi chiedo se gli occhi dell'uomo che guidava il panzer avranno capito. (Da Folla sommersa, Marcos y Marcos, 2004)
Gianluca D’Andrea nota, a proposito di questa poesia, che “in questi gesti è presente la storia umana, ma questa storia, la testimonianza che ogni bambino è, può essere distrutta”. L’attenzione dello sguardo, di cui Pusterla parlò anni fa in un incontro al collegio S. Caterina di Pavia, c’è tutta in questi versi: la vicinanza del soggetto poetico al suo “oggetto” – segno di testimonianza e pietà, due dei nodi su cui giustamente D’Andrea insiste nella sua disanima – è palpabile. Questa vicinanza si realizza, a livello linguistico, con l’uso del tu, che quasi per statuto è
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difficile rendere antiretorico: eppure se c’è una resa che fonde vicinanza evitando ogni sovrattono di affettazione, è proprio quella a cui è giunto Pusterla. La vicinanza è fatta di dettagli: testualmente, è il focus sempre più vicino del soggetto ripreso. Prima il generico moto dello strisciare, poi l’abbigliamento, poi ancora un dettaglio meno usuale – dunque maggiormente prestato a risaltare – come il pelacarote. Anche l’uso del verbo presente e il discorso diretto segnalato dal passaggio alla prima persona e a un verbo di resoconto (“sto scalando / l’Everest, mi dici”) contribuiscono a questo effetto. En passant, è notevole l’enjambement iconico che separa scalando e l’Everest, a mimare la fatica del salire (del crescere, del formarsi, per estensione simbolica). Quando si è piccoli il poco di un prato è grande quanto il tetto del mondo, e la prospettiva che lo sguardo del poeta accoglie è proprio quella del bambino (spie linguistiche come cuffia e pelacarote non potrebbero essere attribuite ad adulti né ad altri esseri viventi). L’incipit è in apparenza meramente denotativo-constatativo: uno scenario naturale – così ricorrente in Pusterla, e non a caso, data la collocazione geografica frontaliera – e quel verbo, strisci, del tutto plausibile se riferito a un bambino. In realtà la posizione di rilievo della constatazione (a inizio testo) è già un primo segnale dell’investimento emotivo, benché pudicamente trattenuto, che investe il dettato. Eppure, qualcosa increspa questa superficie fatata, come una tensione irrisolta sul pelo dell’acqua di un lago svizzero. Chi ha qualche conoscenza dell’opera di Pusterla sa quanto essa sia testimonianza anche, e spesso, di
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tragedia, di sconfitta; e questa poesia non fa eccezione. A un lettore avvertito non sarà sfuggita l’ambiguità del verbo “strisciare”, che richiama i soldati nelle trincee o le umiliazioni dei mutilati, né il forte contrasto simbolico tra il rosso delle fragole e il bianco del prato; né la violenza in nuce del pelacarote infilzato nel terreno di marzo (violenza e sessualità possono essere lette in questo dettaglio, senza essere tacciati di essere freudiani impenitenti). Nella seconda strofa, il brusco passaggio all’imperfetto e al passato, nella ripresa quasi letterale del primo verso, conferma i presagi sinistri che fino alla prima strofa potevano sembrare vizio di sovra-interpretazione e paranoia del critico. C’è una cesura netta, non solo nel passaggio temporale, ma anche in quel nel ricordo che ha forti implicazioni di cancellazione e morte. Continua, anche fuoricampo (fuorivita?) lo sguardo del poeta, ma anche l’interferenza del mondo di fuori, delle notizie terribili ascoltate alla radio. Queste due correnti – pietas per l’organismo singolo e consapevolezza della cornice storica – coesistono in Pusterla e arrivano qui a competere per occupare tutto lo spazio rimasto alla poesia. Il risultato è un’efficassima contrapposizione di elementi, un montaggio alternato (simile nella forma, nel principio di funzionamento, a quello messo in atto dal poeta spagnolo Luis Garcia Montero in una pur diversissima poesia che analizzai su Poem Shot 9, non in questo fascicolo) per cui il presente del ricordo resiste e si ostina (“e tu continui a strisciare felice”) mentre l’opposto avviene altrove, il crudo fatto di cronaca della bambina schiacciata
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a Gaza non è più rimandabile nella coscienza di chi scrive. Ora i due fatti non sono più scissi, il bene in un luogo coesiste col male in un altro (“parte del male tu stesso tornino o no sole e prato coperti”, scriveva Sereni in In una casa vuota). Cosa può la poesia contro la violenza, contro il male? “For poetry makes nothing happen: it survives” scriveva Auden commemorando Yeats. Pusterla sa troppo bene che questo assioma è atrocemente vero, eppure la poesia indica simbolicamente un rovesciamento, una rivincita sul male piuttosto che una sua consolatoria sublimazione: qui, adottando la prospettiva rovesciata del bambino che striscia tra le margherite, Pusterla oppone simbolicamente ma con forza, con estrema forza, il bene del sogno e della magia (“una pozione con piume d’uccello per imparare a volare”) alla colpa umana e individuabile dell’uomo. Tanta forza, tanta verità, con un dispendio assolutamente minimo di mezzi retorici e un dettato piano ma necessario, tangibile, in ogni sua singola parola.
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Poem Shot (29): Roberto Minardi (1977 - ) Mi interesso alla poesia schiva e intrinsecamente libera di Roberto Minardi dal 2007 (altri due interventi sono su www.castiglionedav.altervista.org). Se si esclude Note dallo sterno, un volumetto pubblicato da ArchiLibri nel 2007, e alcune uscite su riviste quali - se ricordo bene - “Il foglio clandestino”, “Il foglio letterario”, “Tratti” e “Atti impuri”, la sua abbondante ma necessaria produzione è interamente inedita. Roberto sa aspettare, vive da oltre un decennio a Londra ed è estraneo alle pressioni e alle ansie dei circoli poetici nostrani, delle quali - quando ne ha scoperto l’esistenza, informato da me - si è mostrato sorpreso e di una diffidenza quasi divertita, ma mai snob. Non esagero se dico di considerarlo un poeta autentico e un maestro di attitudine prima ancora che di poesia (ai suoi padri poetici, tra cui Pavese, Larkin, Di Ruscio, Frost, mi sono accostato troppo tardi, quando mi sentivo già in parte formato), convinzione che in me è maturata dopo la lettura, negli anni, di svariate decine di sue sorprendenti poesie, e lo svilupparsi di una corrispondenza costante e preziosa. Per Poem Shot ho scelto La sua statura bassa, da una raccolta inedita ma si spera quasi definitiva, e che dà un limitato ma significativo assaggio della sua scrittura.
la sua statura bassa stringe le labbra e non mi guarda, cerca un posto a sedere,
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barcolla leggermente e tiene salda in mano la cassetta degli attrezzi. saranno le basette bianche e incolte, il viso esposto a ciò che c'è fuori, palesemente, a fare di quest'uomo una figura da me non lontana che con le dita preme tira e lascia andare un filo teso nella cassa che sta all'altezza dello sterno (immagino)... dov'è che spargerà, senza pensarci, in quale casa, l'odore di ferro che fanno certamente i suoi capelli? il cane assisterà - se un cane c'è al suo pasto serale, al suo bicchiere, mentre lui mastica e non si concentra davanti ad un televisore acceso? che lato che finestra si godrà le scarse gocce di pioggia che formano fiumi magrissimi sui doppi infissi? chissà se c’è anche lì - come c'è qui la litania del compressore, lieve, del frigorifero, nel sottofondo... avrà il coraggio, infine, che non ho, di ricoprire la giusta distanza e non restare confinato in sala, con l'unica ambizione di cercare un rapporto alla pari con le fughe del pavimento?
Il voyeurismo del poeta - aspetto su cui si sofferma Sereni ne Gli immediati dintorni - è parte integrante della poetica di
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Minardi, in cui l’esercizio dell’osservazione minuta e della descrizione raggiunge spesso esiti di grazia pensosa, coraggiosamente sentimentale, o si fa pretesto per constatazioni velatamente amare, ma aiutate da una saggezza quasi umoristica, un senso del limite che si ferma al di qua del tragico e riscatta una forma “forte” d’intimismo e minimalismo in cui la lezione di Larkin sembra attiva. La sua statura bassa illustra bene queste componenti, anche se ha un tono più malinconico rispetto a molte altre poesie in cui l’iperbole scherzosa, il gusto per i repentini cambi di marcia del pensiero, l’autoironia esibita, sono una costante che non ho trovato - almeno, in questa forma - in nessun altro poeta letto sinora. La poesia si sviluppa in un unico blocco tipografico, quasi a marcare l’unitarietà del momento e la fluidità - sempre discorsiva piuttosto che metaforica - del comporre, a togliere enfasi sulla forma imposta da fuori che infatti è messa in sordina: versi tradizionali (endecasillabi, un novenario, un settenario e un quinario) che accompagnano come un basso continuo e sembrano sottolineare il carattere apparentemente immediato dello scrivere, in realtà frutto di attente limature che tuttavia intervengono dopo e non durante il processo compositivo. Già nei primi quattro versi il focus è su una terza persona - evocata per attribuzione di qualità fisiche già nel titolo che entra nella visuale (e verosimilmente nel vagone di una metro) del poeta, e di cui le azioni contrastanti (barcollare vs. tenere salda), e quindi una tensione irrisolta, vengono selezionati. Per il resto, l’artificio retorico è ridotto quasi a zero, se si esclude l’insistenza trocaica dei primi tre versi
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che mima la pesantezza dei gesti. Nei versi seguenti la descrizione (il ritratto) continua, ma già s’incresca all’insegna del possibile, dell’immaginazione che continua la sequenza: ciò si deve al futuro con valore ipotetico (saranno le basette…), all’entrare in scena dell’io poetico come ricevente, oggetto senza agenza (a me non lontana, non mi guarda), e l’interrogativa introdotta da dove, che restando entro i confini del monologo è indice di soggettività, così come la discreta introduzione di una spia attenuativa tra parentesi, (immagino…). Tra tutte le figure presenti in metropolitana, quella che qui finisce nei versi lo fa per virtù di un’ipotetica fratellanza o vicinanza con la persona del poeta (una figura a me non lontana), in un equilibrio che permette di parlare di altri mediante se stessi, e di se stessi mediante altre: con una mossa che invalida tanto il lirismo espressivo quanto il montaggio impersonale. Si noti, per esempio, come l’avverbio certamente sia anch’esso indice non di certezza ma di probabilità, frutto di ipotesi ma non esito di esperienza diretta (a ricordarci che, dove arriva la vista, l’olfatto può fallire: in Minardi il corpo, spesso frammentato nelle sue metonimie, è attore e protagonista, ma non è quasi mai astrattamente tematizzato come in molti altri poeti contemporanei). L’ipoteticità della costruzione continua (“il cane assisterà - se un cane c’è”), e il delizioso pleonasmo, il ricordarci dell’ovvietà (chiaramente il cane, se non c’è, non può assistere, come in un’altra poesia si specifica che il sole è “sotto forma di raggi”) è una delle cifre più distinte e singolari di questa poesia. Ne segue che l’incertezza è solo spia di una fedeltà che
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impedisce all’osservatore, sia pure in medias res, di farsi narratore onnisciente, ma che non gli impedisce di tentare un “andare sopra le righe”, com’è scritto in un altro testo. All’accettazione di Minardi - non allarmata ma anzi riconosciuta come dato di partenza, quasi con affetto delle limitazioni del reale, si intreccia una forte libertà che alle posture teoriche sul come scrivere antepone allegramente l’ascolto di sé in solitudine e del sé in situazione. Si crea perciò una sfasatura tra il primo scenario - io poetico + figura ritratta in situazione - e il secondo, che non è da meno in termini di ricchezza mimetica (gli infissi, il compressore, il frigorifero); sfasatura che viene messa in evidenza, svelata, quando si passa dal secondo al primo scenario (“chissà se c’è anche lì - come c’è qui”). Quello che fa il poeta, in altri termini, è misurare una distanza - tra il reale mimetico e il reale immaginato, tra la propria e l’altrui condizione - distanza che si tematizza nell’idea di scacco e di fuga, con una forte risemantizzazione della parola fughe usata in senso sia prospettico che esistenziale.
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NOTE BIBLIOGRAFICHE SUGLI AUTORI
Annino, Cristina (1941 - ) Non me lo dire, non posso crederci (Techné, Firenze, 1968) Ritratto di un amico paziente (Gabrieli, Roma, 1977) Il cane dei miracoli (Bastogi, Foggia, 1980) L’udito cronico (in Nuovi Poeti Italiani, Einaudi, Torino, 1984, a cura di Walter Siti) - Madrid (Corpo 10, Milano, 1987) - Gemello Carnivoro (I quaderni degli artisti, Faenza, 2002) - Casa d’Acquila (Levante Editore, Bari, 2008) - Magnificat (Puntoacapo Editore, Novi, 2009, autoantologia, a cura di Luca Benassi) - Chanson Turca (Lietocolle, Falloppio, 2012) Per maggiori info: http://www.anninocristina.it/ -
Attolico, Leopoldo (1946 - ) Piccolo spacciatore (Il ventaglio, Roma, 1987) Il parolaio (Campanotto, Udine, 1994) Scapricciatielle (El Bagatt , Bergamo,1995) Calli amari (Edizioni di Negativo, Bologna/Roma, 2000) - Mix (Signum Edizioni d’Arte, Padova, 2001) - Siamo alle solite (Fermenti, Roma, 2001) - I colori dell’oro (Caramanica, Latina, 2004) - La cicoria (Ogopogo Edizioni d’Arte, 2004) - Mi s(consenta) (Signum Edizioni d’Arte, Padova, 2009) - La realtà sofferta del comico (Aìsara, Cagliari, 2009) Per maggiori info: http://www.attolico.it/ -
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Bellinvia, Carlo (1985 - ) -
Per i vicoli macellai di piccioni e spettri di carta (Cicorivolta Edizioni, 2006)
Carlucci, Lorenzo (1976 - ) -
If music be the food of love, play on (Scheiwiller, Milano, 2007, con Oliver Scharpf e Jacopo Ricciardi) La comunità assoluta (Lampi di stampa, Milano, 2008) Ciclo di Giuda e altre poesie (L’arcolaio, Forlì, 2008)
Cattafi, Bartolo (1922-1979) -
Nel centro della mano (Edizioni della Meridiana, Milano, 1951) Partenza da Greenwich (Quaderni della Meridiana, Milano, 1955) Le mosche del meriggio (Mondadori, Milano, 1958) Qualcosa di preciso (Scheiwiller, Milano, 1961) L’osso, l’anima (Mondadori, Milano, 1964) L’aria secca del fuoco (Mondadori, Milano, 1972) La discesa al trono (Mondadori, Milano, 1975 Marzo e le sue idi, (Mondadori, Milano, 1977) 18 dediche (Scheiwiller, Milano, 1978) Poesie scelte 1946-1973, a cura di Giovanni Raboni (Mondadori, Milano, 1978) L’allodola ottobrina (Mondadori, Milano, 1979) Chiromanzia d’inverno (Mondadori, Milano, 1983) Segni (Milano, Scheiwiller, 1986) Poesie 1943-1979 (a cura di Vincenzo Leotta e Giovanni Raboni, Milano, Mondadori, Milano, 1990,
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ripubblicato con una nota biografica a cura di Vincenzo Leotta, Milano, Mondadori, 2001) Per maggiori info: http://www.bartolocattafi.it/
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Corsi, Roberto R. (1970 - ) L’indegnità a succedere (Esuvia Edizioni, Firenze, 2007 [cartaceo]) - Divagazione, polemica e congedo (2009 [pdf]) - Sinfonia n. 42 (2011[pdf]) - Gli occhi di Prometeo (con L. Ugolini, 2011, [pdf]) - All’orza. Poesie 2005-2007 (2010 [ebook]) - Il ridursi del tutto a vuoto d’avvenenza (2011 [ebook]) Per maggiori info: http://www.robertocorsi.wordpress.com/ -
Crosara, Erika (1977 - ) -
Ius (Anterem Edizioni, 2010)
Minardi, Roberto (1977 - ) -
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L’appropriato governo del fuoco (La Vita Felice, Milano, 2012)
Pusterla, Fabio (1957 - ) -
Concessione all’inverno (Casagrande, Bellinzona, 1985) Bocksten (Marcos y Marcos, Milano, 1989) Le cose senza storia (Marcos y Marcos, Milano, 1994) Pietra sangue (Marcos y Marcos, Milano, 1999) Folla sommersa (Marcos y Marcos, Milano, 2004) Le terre emerse. Poesie scelte 1985-2008 (Einaudi, Torino, 2009) Corpo stellare (Marcos y Marcos, 2011)
Scalise, Gregorio (1939 - ) -
A capo (Geiger, Torino 1968) L’erba al suo erbario (Geiger, Torino 1969) Gli artisti (Lunario nuovo, Catania, 1986) Danny Rose (Amadeus, Montebelluna, 1989) Poesie dagli anni ’90 (Orizzonti Meridionali, Catania, 1997) La perfezione delle formule (Stampa, Varese, 1999) Controcanti (Quaderni del circolo degli artisti, Faenza, 2001) Nell’ombra nel vento (Art, Bologna, 2005) Opera-opera poesie scelte 1968-2007 (Luca Sossella editore, Roma, 2007)
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Sereni, Vittorio (1913-1983) -
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Sinelli, Paul (1972 - ) (nessuna pubblicazione)
Tomasiello, Paola (1981 - ) (nessuna pubblicazione)
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Davide Castiglione è nato ad Alessandria nel 1985. Nel 2010 si è laureato in lingue e letterature straniere all’Università di Pavia, con una tesi dal titolo Sereni traduttore di Williams. Da settembre 2011 vive a Nottingham (UK), dove conduce un dottorato di ricerca in poesia contemporanea e stilistica. Ha vinto, nel 2008, ai concorsi «I poeti laureandi» e «Subway». Suoi testi sono apparsi su antologie (I poeti laureandi, Momboso, Pavia 2006 ed Edizioni Santa Caterina, Pavia 2009; Tredici cadenze, Puntoacapo, 2011; Antologia della poesia piemontese, Puntoacapo 2012), riviste («L’osservatorio letterario», «Capoverso») e su «Lo Specchio», supplemento della «Stampa». Ha pubblicato la raccolta Per ogni frazione (Campanotto, Udine 2010), segnalata al premio Lorenzo Montano 2011 e recensita su diverse riviste e blog letterari. Cura il sito personale www.castiglionedav.altervista.org, è nella redazione della rivista dopotutto e recensisce per i siti www.criticaletteraria.org e www.giardinodeipoeti.wordpress.com
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