Disegno DiVino

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DISEGNO DIVINO

PROGETTO e COMUNICAZIONE

a cura di Paolo Di Nardo

ISBN 978-88-903947-2-0 © 2011 DNA Editrice via XX Settembre, 100 Firenze info@dnaeditrice.it

Promotore: Comitato Wine Town Curatore: Paolo Di Nardo Redazione: Fabio Rosseti Progetto grafico e impaginazione elettronica: Davide Ciaroni Ufficio Stampa: Complemento Oggetto – Ilaria Pontello Stampa: C.G.E. – Centro Grafico Editoriale, FIRENZE Finito di stampare nel mese di settembre 2011


Indice

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WINE TOWN 2011 Francesco Spanò

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VINO DISEGNATO Simonetta Doni

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TERRITORIO/DIVINO Paolo Di Nardo TERRITORIO Il vino del Paesaggio

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CANTINE Cantine Aperte

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DISEGNO/DIVINO Paolo Di Nardo

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CASSE e cartoni Vino in scatola

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bottiglia Bottiglie parlanti

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etichetta Il vino, l'immagine e il mercato globale

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etichetta In vino Veritas?

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capsula e tappo Chiusure comunicanti

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bicchiere La mia "Strada del Vino"

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accessori Design e ricerca creativa

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I


WineTown>2011 FRANCESCO SPANò Presidente WineTown >2011

W

WineTown>2011 WineTown>


>2011 WineTown>2011 WineTown>2011 WineTown>2011 WineTown>2011 così la nostra essenza. Perché la credibilità e la perseveranza rimangono la base di un successo, anche di comunicazione. Il pubblico è fatto di milioni e milioni di utenti Facebook, di persone che usano la rete, meglio non avere neanche un sito se non crediamo in loro. Guardiamo con fiducia, noi di Winetown, a questo nuovo modo di comunicare, di trasmettere, ciò che c’è di più antico, cioè chi siamo e cosa facciamo. Solo allora nessuno potrà eguagliarci. Visti i tempi, dobbiamo sbrigarci.

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Comunicazione. Oramai questa parola può dare perfino sgomento a chi ha necessità di comunicare il risultato dei propri sforzi. E quante parole, e quanti falsi profeti, portatori sempre del “verbo” e della soluzione di tutti i problemi di un’azienda. Quest’anno, di nuovo con l’aiuto di DNA editrice, veicoliamo questa pubblicazione che raccoglie il prodotto di tante menti creative. Anche Winetown vuole, per esempio, comunicare qualcosa. Che le “fiere” difficilmente potranno dare alle aziende i risultati che davano tanti anni fa, che ragionare ancora in termini di eventi per target può essere superato, che dovremmo cercare un valore universale, abbracciando il mondo che ci viene a visitare dando loro un “nuovo modo di guardarci”. Una nuova “fotografia”. Vogliamo trasmettere il nostro vino con la nostra cultura, la nostra arte (evitiamo per una volta la parola territorio!). Non dobbiamo più essere autoreferenziali, dobbiamo togliere la polvere e far vedere


Vino Disegnato SIMONETTA DONI Designer

V

Vino Disegnato Vino Disegnato


o Vino Disegnato Vino Disegnato Vino Disegnato Vino Disegnato far dimenticare il miracolo di design che sono state le antiche cantine dei grandi e piccoli produttori. Lì il progetto delle cose capace di combinare estetica e funzionalità si è stratificato storicamente: un design senza designer, una fruizione che cambia progressivamente le condizioni d’uso, qualcosa da cui imparare ancora. Lo stesso per bottiglie e bicchieri: anfore e fiaschi impagliati erano capolavori di ergonomia per la tecnologia dei trasporti a cui rispondevano. Oggi una bordolese o una borgognotta dalle linee più o meno snelle, così piacevoli alla vista e al tatto, dicono da sole del liquido che contengono. La ricerca comunque va avanti: le bag-in-box che riducono l’ossidazione del vino una volta aperte, conquistano adesso anche case vinicole blasonate. Le belle forme diverse dei bicchieri da degustazione invece, portano iscritte in sé le istruzioni per il loro specifico uso: lezione numero uno di design. Nell’etichetta poi – il cui progetto comprende spesso quello della capsula e del tappo oltre che del packaging – si concentrano

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Wine Spectator, rivista di culto dei conoscitori internazionali di vino, dà molta enfasi al blind tasting, l’assaggio al buio, per le sue wine reviews. Una valutazione puramente tecnica sacrifica però la grande varietà di sensazioni che il vino trasmette. Quelle da cui dipende il successo planetario del vino oggi. Parliamo di design del vino. Del progetto di paesaggio che istituisce, di architetture in cui produrlo, di recipienti per berlo, di etichette che lo fanno parlare di sé, di strumenti per sigillarlo, di contenitori che gli permettono di viaggiare nel mondo, di accessori per la liturgia della sua degustazione. In Italia e in Francia, il paesaggio ha la sua forza nel disegno che la cultura del vino è riuscita a imporre alle campagne. Anche in regioni del mondo affacciate da meno tempo all’enocultura, regolarità e variazioni cromatiche stagionali dei vigneti aggiungono bellezza al territorio. E nel disegno del territorio rientrano le costruzioni in cui far vivere il vino. Le cantine firmate dalle più note archistar internazionali non devono

il messaggio più esplicito di un vino e la strategia di un’azienda. Graphic design e marketing&comunicazione alleati per esprimere identità di prodotto e marchio da un lato e combattere dall’altro la battaglia dello scaffale. Nelle enoteche ma anche nei grandi supermercati, dove l’offerta si è molto arricchita e diversificata. Qui informazione e seduzione di un consumatore non esperto si gioca a colpi d’occhio di frazioni di secondo. Qui non fanno premio grandi tradizioni, provenienza e bontà – questa sì, ma solo ex-post. Qui conta la capacità di ispirare attraverso uno sguardo le qualità del vino che si assaggerà a casa. Per il vino il design si conferma insomma quello che è sempre stato: un progetto multisensoriale di esperienza nell’epoca in cui l’esperienza scambia stimoli sempre nuovi con la dispiegata società di mercato.


Territorio/Divino PAOLO DI NARDO Architetto

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Dalla Terra al Territorio Dalla


Terra al Territorio Dalla Terra al Territorio Dalla Terra al Territorio la felicità di un uomo : «... et però credo che molta felicità sia agli homini che nascono dove si trovano i vini buoni». Il territorio quindi assume un valore non solo geografico, ma simbolico, in cui identità, appartenenza, condivisione disegnano i tratti di un paesaggio più di ogni altro segno geometrico. Forse, in questo senso, il concetto di “contesto” è più capace di astrarsi da una visione geografica generalista per collocarsi in una dimensione spaziale e culturale più definita e riconoscibile. La parola contesto contiene infatti al suo interno la parola latina texere, cioè tessere, fare un tessuto, legare trame e fili per disegnare e produrre un tessuto, un tappeto. Questo legare fili, significati, storie, ideali, lavoro, etc è la chiave di lettura dei territori che a differenza di altri sono disegnati dal vino, anzi dal divino vino proprio perché come dice Rabelais «il vino ha il potere di riempire l’anima di ogni verità, di ogni sapere, di tutta la filosofia». L’azione dell’uomo deve quindi tener conto di questi tracciati, di questi fili

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Come per un “disegno divino” la terra custodisce, dentro le proprie viscere, un liquido che sintetizza in sé il dualismo sacro/ profano portatore di sacralità cristiana e di fatica umana. La terra è l’inizio di un racconto che porta in grembo la sacralità di un idea, di un atto creativo capace di germogliare, fiorire, produrre e che attraverso la passione dell’uomo si trasforma nel passaggio finale, nell’ultimo capitolo narrativo: il vino. La capacità e l’ingegno dell’uomo sta proprio nel percepire questa forza contenuta nel grembo della terra e attraverso la propria creatività trasformarla nel nettare sacro. Luce e terra uniti dall’uomo, sempre in questo binomio fantastico di sacro e profano, sono capaci di esprimere la loro ricchezza attraverso un liquido che contiene in sé il racconto dell’umanità perché come dice Galileo Galilei «... altro il vino non è se non la luce mescolata con l’umido della vite». Ma è Leonardo da Vinci che con poesia e lucidità ci chiarisce la ricchezza di un territorio che attraverso la sua terra può condizionare

di un racconto e preservarne ma soprattutto valorizzarne i tratti. A volte anche soltanto il cambiamento di orditura dei filari può nuocere in un territorio quanto un abuso edilizio in uno spazio urbano proprio perché nei due atteggiamenti c’è una superficialità e a volte una voluta negazione dei caratteri del luogo. Il “territorio” quindi non può essere usato come parola-slogan intrisa di demagogia, bensì deve poter rappresentare, o meglio, disegnare il di-vino.


TERRITORIO Il vino del Paesaggio Paolo Baldeschi docente Facoltà di Architettura di Firenze

Uno scenario prevedibile. In Toscana, al 2002 la superficie complessiva coltivata a vigneto misurava 64.400 ha, di cui il 57% inclusi in zone DOCG e DOC. Il 37% dei vigneti aveva un’età compresa fra i 20 e i 30 anni e il 30% un’età superiore ai 30 anni. Nel periodo 1997-2002 sono stati autorizzati reimpianti per 11.375 ha1. Questi dati fanno presumere che nel prossimo decennio gran parte dei vigneti esistenti nella regione saranno oggetto di operazioni di rinnovo. Se a ciò si aggiunge l’espansione in atto delle zone DOC di più recente costituzione e in aree, come nel grossetano, dove la viticoltura storicamente aveva un’importanza marginale (salvo alcune zone di eccellenza), si delinea un’occasione da non perdere. L’occasione, o meglio, la sfida è di costruire un nuovo passaggio viticolo toscano, dotato di una maggiore sostenibilità rispetto a quello che ha visto la luce negli anni ’60 e ’70, meno soggetto, cioè, a processi di erosione e a fenomeni di instabilità dei versanti. Allo stesso tempo, il nuovo paesaggio viticolo può dare un importante contributo alla riduzione del rischio idraulico a valle, ricostituendo, almeno in parte, un reticolo idraulico negli ultimi decenni fortemente ridotto o deteriorato e riducendo i tempi di corrivazione delle acque superficiali insieme ai tempi di ritorno nei corsi d’acqua interessati. L’identità e la qualità estetica del paesaggio come risorsa. Vi è, tuttavia, un’ulteriore sfida che si presenta alla comunità toscana e agli agricoltori, una sfida che assume un’importanza crescente in una società che chiede non solo un buon funzionamento degli ecosistemi – ciò che sta alla base della sostenibilità ambientale - ma anche una maggiore qualità paesaggistica, intesa sia come rispetto e valorizzazione dell’identità storico-culturale del territorio, sia come valori estetici e di leggibilità del paesaggio. La bellezza del paesaggio non solo è un valore economico misurabile, ma sta alla base di un senso comune sempre più diffuso che unisce in prospettiva le comunità locali con la più vasta società dei potenziali fruitori. Inutile dilungarsi - questo tema è stato ampiamente trattato e riconosciuto in articoli, convegni, tavole rotonde, dichiarazioni, ecc. - sul fatto che l’Italia e, in particolare, le zone di antica tradizione vitivinicola si trovano a sostenere una sfida nel mercato globale da parte di paesi che sono diventati recentemente produttori di vino di qualità o lo stanno diventando, a costi e con vincoli di gran lunga inferiori a quelli che gravano sui nostri produttori. La strada da percorrere, sia pure articolata in diversi percorsi, è quella di offrire allo stesso tempo vino e paesaggio, prodotti tipici ed eventi, ospitalità e bellezza: in una parola non solo “fare sistema”, ma offrire qualcosa che non può essere creato con politiche di produzione e di marketing, come l’unicità e la qualità culturale di territori, che nel caso della viticoltura diventano anche terroirs.


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Š Ph. John Menard


Š Ph. Podere Casanova sopra: paesaggio del Chianti Fiorentino pagina seguente: vigneto a ritocchino


La settorialità delle politiche É ovvio che una strategia come quella cui abbiamo fatto cenno vada ben oltre alle politiche urbanistiche che, quando si tratta di paesaggio, per forza di cose finiscono per tradursi in vincolismo, e anche oltre il “governo del territorio” nel senso assai più complesso delineato dalla recentissima legge della Regione Toscana. Questa strategia deve avere due fondamentali capisaldi. In primo luogo una partecipazione attiva, convinta e responsabile da parte di produttori e conduttori agricoli, ciò che sembrerebbe quasi ovvio, date le premesse, ma che ancora trova resistenze e diffidenze, soprattutto dove orizzonti mercantili di breve periodo prevalgono su una visione legata alla durabilità e sostenibilità degli investimenti nel tempo. In secondo luogo, e anche questo può sembrare scontato ma non lo è nei fatti, l’integrazione fra molte politiche ed azioni che ancora si svolgono in modo separato, collegandosi a settori e competenze diverse. A questo proposito, basta accennare alla relativa incomunicabilità fra politiche urbanistiche e politiche di sostegno all’agricoltura che si esplicano attraverso i Piani di Sviluppo Rurale, finanziati con i fondi strutturali dell’Unione Europea.

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Un accordo fra produttori e società locale La strada che occorre percorrere si basa perciò su un patto, si potrebbe dire “costituzionale”, fra società locale e produttori; un patto basato su un comune interesse e sulla constatazione che senza agricoltura non si può tutelare il paesaggio, se intendiamo la tutela come un progetto che guidi il cambiamento, dove si vuole mantenere viva un’identità profonda, la cui misura non è solo fisica, ma riguarda anche come questa sia percepita e vissuta in comportamenti, azioni, scelte, politiche; un’identità materiale e culturale allo stesso tempo. Questo accordo è tanto


© Ph. Hendrik Callens

DISEGNO DEL TERRITORIO


più necessario se si prende atto che costi e benefici delle politiche di tutela non sono distribuiti in modo simmetrico: sono infatti i conduttori agricoli che ne sopportano gli oneri, mentre i vantaggi immediati vanno ad altri soggetti, a chi lavora nelle attività turistiche ad esempio, o alle popolazioni delle aree circostanti che vedono diminuire il rischio di rovinose alluvioni. Il patto significa perciò che ognuno fa la propria parte in un quadro di interessi condivisi e non necessariamente distinti, come avviene nei numerosi casi in cui il produttore è anche proprietario e conduttore di un’azienda agrituristica. La sostenibilità ambientale deve essere a carico fondamentalmente degli agricoltori perché va innanzitutto a loro vantaggio. Ma la tutela degli aspetti culturali ed estetici del paesaggio deve essere un compito dell’intera collettività, perché è a questa scala che si colloca la maggior parte dei benefici. Un esempio di tutto ciò. La fondamentale regola ambientale che i produttori devono osservare, in primo luogo nel loro interesse, è che la quantità di suolo agrario che annualmente viene persa per fenomeni erosivi non superi quella che nello stesso periodo si riforma per processi di pedogenesi. E’ una regola fondamentale di sostenibilità osservata nel corso dei secoli, che si è materializzata, a seconda della tecnologia, della cultura, della pressione antropica, in forme storiche, come quella delle sistemazioni a traverso e dei terrazzamenti, il cui mantenimento è oggigiorno particolarmente oneroso. Forme storiche che possono essere mantenute con profitto, laddove la società locale (nelle sue istituzioni rappresentative e nelle sue espressioni informali) sappia promuovere e instaurare quel sistema virtuoso cui si fatto cenno in precedenza. Ovviamente, questo patto unitario darà luogo a politiche e strategie assai articolate. In certi casi sarà possibile mantenere le sistemazioni tradizionali del paesaggio, in altri queste dovranno essere sostituite con tecniche agronomiche e sistematorie a basso impatto erosivo e compatibili con il paesaggio esistente, in altri ancora, dove non è possibile fare un’agricoltura competitiva sul piano economico, si dovranno guidare processi di rinaturazione che in Toscana prendono già forma, come il ritorno del bosco nelle pendici più acclivi e di peggiore esposizione, le ultime ad essere smacchiate ed appoderate nel secolo scorso. La situazione attuale è dunque piena di sfide, ma non priva di speranze. Alcuni imprenditori, come è illustrato nelle immagini, hanno già raccolto la sfida e necessitano di un supporto convinto da parte delle amministrazioni pubbliche. Sul piano della ricerca scientifica sono stati messi a punto e sperimentati i protocolli metodologici del progetto e ne è stata verificata l’operatività. I Comuni 14 / 15

sotto: Lamole - canaletta al piede del muro a secco

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Š Ph. Ergates


© Podere Casanova

del Chianti hanno manifestato l’intenzione di sostenere le ricerche sul campo necessarie e di promuovere una Carta per l’uso sostenibile del suolo in agricoltura. La società locale, in molte espressioni ed articolazioni spontanee sembra ben disposta e, come si è accennato, in qualche caso ha già accettato questa sfida rischiosa. Il Consorzio del Chianti Classico, che alcuni anni or sono è stato il promotore di questo patto, è intenzionato ad esserne uno dei capisaldi. Quella Carta del Chianti, i cui principi generali erano stati già sottoscritti da Comuni e Consorzio, la cui formulazione si era arenata per una serie di circostanze, sembra in questo momento un traguardo non solo necessario, ma anche condiviso e raggiungibile.

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a destra: terrazzamenti a Lamole


CANTINA Cantine Aperte Fiorenzo Valbonesi Architetto

Cosa significa progettare una cantina? Quali sono i principi che stanno alla base di una corretta progettazione di un'architettura che ha un così stretto rapporto con l'ambiente naturale? Metodo e principi sono comuni a qualunque tema progettuale. Il confronto che comunemente per un progettista avviene con l'ambiente urbano, in questo caso è con l'ambiente naturale. Le figure che entrano in gioco nel progetto di una cantina sono numerose ed eterogenee ma è fondamentale che fra loro vi sia un coordinamento ed una interazione molto stretta. Le fasi attraverso le quali si giunge al progetto finale ed alla sua realizzazione hanno una temporalità ed una successione molto precisa. Il vino ha un proprio ciclo produttivo e nasce per volontà della committenza. Sia che i vigneti siano esistenti, sia che debbano essere messi a dimora, per la trasformazione dell’uva il proprietario necessiterà di un enologo. Saranno queste due persone a prendere una serie di decisioni dalle quali dipenderà il vino che si vuole ottenere: quale produttività per ettaro, quali modalità di raccolta dell’uva, quale metodo di vinificazione. Qui si inserirà anche un'altra figura molto importante, quella dell'enologo di processo che rappresenta il tramite fra l'architetto e le altre figure, proprietà ed enologo, per quelle che sono le specifiche progettuali legate al ciclo produttivo con relative dimensioni. Il progetto dell'edificio inizia con il suo dimensionamento di massima, che avviene sempre in funzione degli impianti vitati: per esempio in Toscana la disponibilità di superficie in una cantina varia fra 50 e 100 mq per ettaro vitato in rapporto al ciclo produttivo. I primi spunti a cui l'architetto attinge provengono dalla committenza e dal genius loci intendendo con esso l'insieme delle caratteristiche socio-culturali, architettoniche, di linguaggio, di abitudini che caratterizzano un luogo, un ambiente. Un


sopra: schizzo per una cantina a Castellina in Chianti, Siena

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pagine seguenti: Cantina Castello della Sala, Antinori Ficulle (TR) vista aerea



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sopra: Cantina Campo del Sole, Campodelsole Bertinoro, (FC) la sala di vinificazione e, sotto, la barriccaia

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pagina precedente: Cantina Campo del Sole, Campodelsole Bertinoro, (FC) viste aeree

termine quindi trasversale, che riguarda le caratteristiche proprie di un ambiente interlacciate con l'uomo e le abitudini con cui vive questo ambiente: il "carattere" di un luogo. Il proprietario racconta all’architetto i propri desideri, le esigenze e, non ultimo, il budget di spesa. Da tutto ciò l'architetto dovrebbe cercare le basi stilistiche ed estetiche della sua progettazione. Dal confronto con l’enologo di processo, un progettista di impianti enologici, nasce invece il layout funzionale e produttivo della cantina, che potrà avere anche un impatto considerevole sulle scelte precedenti. Il layout, insieme alle caratteristiche del sito e ai desiderata della committenza, danno l’inizio al progetto. È un processo molto difficile, che può nascere in un attimo o in tempi lunghi. In seguito arrivano le altre figure professionali, non meno importanti, quali gli strutturisti e gli impiantisti. Il gruppo così costituito deve essere affiatato e coeso per poter apportare il proprio singolo contributo. L’architetto assume così anche la funzione fondamentale di coordinamento tra le varie figure professionali, compiendo la sintesi di tutto il percorso progettuale. Quello che sembra uno sviluppo meccanico (il progetto e la realizzazione di una cantina in funzione di un ciclo produttivo specifico) è in realtà solo una parte del processo più globale che è quello di realizzare un'architettura, o meglio un organismo che riesca non solo a “funzionare” bene ma anche a comunicare il suo legame con quel territorio e con quel vino. Un edificio osservato all'interno di un paesaggio dovrebbe apparire non costruito ma "nato" in quel paesaggio. Senza negare il territorio stesso come un manifesto di un'architettura che potrebbe essere ubicata lì o in qualsiasi altro luogo. Il ripetere e il citare una propria architettura è un privilegio concesso unicamente ai grandi architetti, capaci di creare opere in grado di dialogare con qualsiasi territorio esaltando l'opera stessa, come quando, citando Victor Hugo, il pensiero al tempo dell'architettura, diventava montagna e si impadroniva possentemente di un secolo e di un luogo. Quello che per il vino è il terroir, per l’architettura è il genius loci, la relazione è equivalente. Le cantine si dividono sostanzialmente in due categorie: quelle che funzionano e quelle che non funzionano. Da un lato quelle con un ciclo produttivo “pulito”, chiaro, trasparente, dall’altro un ciclo produttivo ‘sporco’, con i percorsi che si incrociano e che consumano risorse inutilmente. All’interno di quelle che funzionano, dalla filiera produttiva efficiente, esistono quelle che comunicano un messaggio estetico e quelle che purtroppo non sono in grado di farlo (o non vogliono...). Non esistono “tipologie” di cantine, se non per la definizione del ciclo produttivo.


sopra: Prospettiva per una cantina a Montalcino, Siena pagina seguente: Cantina Tormaresca, Tormaresca Masseria MaĂŹme, S. Pietro a Vernotico (BR) viste notturne


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Considerando che oggi la comunicazione è divenuta determinante per l’affermazione sul mercato globale, la cantina diventa elemento di racconto della qualità del prodotto vino. Racconta l’impegno e la cura del dettaglio durante tutto il ciclo produttivo. Oggi il vino di qualità lo fanno in molti. La capacità di comunicare correttamente ed in maniera efficace, anche per i marchi storici, diviene determinante. Per questo, sempre più, il progetto di una cantina non termina con la realizzazione delle opere edili o naturalistiche ma sempre più si integra con gli strumenti attraverso i quali sviluppa l'interazione con il pubblico. Ecco allora che la cura degli spazi “pubblici” della cantina, degli arredi, delle sale degustazione, diviene oggetto di una attenzione particolare che mira a creare un'immagine coordinata molto forte e caratterizzante. La stessa forza che deve risaltare dalla grafica delle etichette e del packaging, o dal design di un decanter o di una bottiglia per un determinato vino, tutti elementi importantissimi per la comunicazione. L’architetto (e l'architettura) permette alla proprietà, come nel Rinascimento, di rappresentarla e dimostrarne l’impegno culturale e ambientale.

Le immagini illustrano, salvo dove diversamente indicato, progetti di cantine realizzati da Fiorenzo Valbonesi. Le foto sono © Fiorenzo Valbonesi

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pagina precedente: Cantina Tenuta Le Mortelle, Antinori Massa Marittima, (GR) la sala di vinificazione e la vista esterna della cantina Progetto architettonico: Hydea s.r.l., Firenze


Disegno/Divino

D PAOLO DI NARDO Architetto

Disegnare il vino Disegnare il v


vino Disegnare il vino Disegnare il vino Disegnare il vino Disegnare il vino una “Strong Idea” capace di diventare un racconto architettonico attraverso le infinite “deformazioni” presenti nel processo ideativo dettate dalla tecnologia scelta, dalle istanze comunicative del cliente, dalla strategia economica, dalla comunicazione necessaria a valorizzare il risultato finale, etc. Bruno Munari in “Da cosa nasce cosa” definisce il “metodo progettuale” in maniera forte e decisa : «il metodo progettuale non è altro che una serie di operazioni necessarie, disposte in un ordine logico dettato dall’esperienza. Il suo scopo è quello di giungere al massimo risultato con il minimo sforzo». In entrambi c’è comunque la ricerca di un nuovo “racconto” capace di aggiungersi agli altri appartenenti ormai alla tradizione di un mondo consolidato. Il mondo del vino non si distingue dagli altri campi disciplinari, anzi ne fa parte e ne arricchisce la complessità creativa proprio perché ne condivide la ricerca di una identità comune attraverso la valorizzazione della tradizione tramite la modernità successiva che si riesce a creare.

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Pensare al design del vino considerandolo un campo disciplinare definito e circoscrivibile può ingenerare un forte equivoco culturale, forse dato dall’estrema attenzione contemporanea verso questo complesso mondo creativo. Il tavolo dell’ideazione su cui nasce il primo schizzo di un elemento compositivo legato al mondo del vino, dalla scala architettonica e quindi territoriale al componente in ordine di scala dimensionale più piccolo, è sempre lo stesso quando lo scopo finale è la comunicazione narrativa di un mondo semplice e complesso come quello del Vino. In fondo in architettura il valore narrativo di un edificio definisce lo spartiacque fra architettura ed edilizia proprio come fra il Vino e la bibita da tavola, etc. Il progetto, anzi la cultura del progetto, diventa il fulcro di questo tavolo narrativo ideale le cui regole e i cui passaggi sono sempre gli stessi pur nella variabilità delle epoche, delle necessità, delle istanze sociali. Louis Kahn a proposito del suo metodo progettuale dichiarava che tutto parte da

E’ uno spazio mentale comune e quindi un processo creativo che manipola attraverso l’ideazione o la “strong idea” gli ingredienti già presenti nel campo disciplinare di definizione. O.F. Bollnow nel momento in cui afferma che «non esiste uno spazio vuoto (...) ogni cosa ha il suo posto, il suo luogo e il suo sito» dà uniformità a tutti quei campi disciplinari che cercano la narrazione come fine ultimo del prodotto finale. Gianni Rodari in “Grammatica della Fantasia” individua delle costanti e principi che regolano i meccanismi fantastici con il fine di comunicare quelle leggi dell’invenzione, dell’atto creativo, fondamentali per poter “inventar Storie”. Ma la parte affascinate di questo tentativo sta nell’individuare un percorso, o meglio infiniti percorsi ideativi, esprimibili in qualsiasi campo disciplinare. Disegnare il Vino quindi deve voler dire prendere coscienza di lavorare su quel tavolo dell’ideazione in cui la massa o la liquidità sono ininfluenti, se il fine ultimo è il valore del racconto finale.


CASSE e CARTONI

Vino in scatola In origine erano le casse e le scatole, in legno naturale non verniciato, con al massimo il nome o lo stemma della cantina pirografato sul coperchio e sulle fiancate, o in cartone ondulato, marrone, sempre con il nome e lo stemma impressi sopra. La loro funzione era ‘semplicemente’ quella più ovvia del trasporto o del confezionamento occasionale per la vendita, e quindi era sufficiente che se ne riconoscesse la provenienza, l’origine, dal nome o dallo stemma stampati sopra. Oggi le casse ed i cartoni per il trasporto ed il confezionamento delle bottiglie di vino, non necessariamente ‘grande’ vino, sono spesso opere di design, grafica e comunicazione, in grado di caratterizzare il contenuto attraverso una immagine, una iconografia ben precisa, prima ancora che con il nome proprio del vino o dell’azienda. La crescita del mercato in questo settore ha visto sempre più aziende, più o meno storiche e più o meno di qualità, contendersi quantità numericamente discrete di bottiglie vendute ad un pubblico sicuramente più informato (ma non necessariamente più esperto) e interessato al vino di anche solo un decennio fa. Questo ha di fatto spinto le aziende e conseguentemente gli esperti di comunicazione, design e grafica a trovare nuove soluzioni comunicative in grado di distinguersi nella massa e di attrarre l’occhio e l’interesse dell’acquirente. La ricerca verso una sempre maggiore qualità o caratterizzazione del vino è così affiancata da una ricerca comunicativa e di marketing che fino a diversi anni fa era appannaggio di ben altre categorie merceologiche. Naturalmente l’etichetta e la bottiglia (l’abito del vino) sono il fuoco principale su cui si concentra l’attenzione del designer e dell’azienda ma anche i contenitori, queste casse e scatole una volta ‘anonime’, hanno preso vita, forma e colore.


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Mentre la parte grafica ricalca ovviamente quasi sempre quella elaborata globalmente per quel brand ed espressa principalmente attraverso l’etichetta e la bottiglia, sui materiali e sulle forme che si usano e che assumono questi ‘contenitori’ del vino si apre una ricerca altrettanto interessante. Il legno ad esempio si continua ad usare ma le essenze e le tipologie utilizzate, oltre ai tradizionali abete o multistrati, sono molteplici. Essenze più pregiate che sottolineano a loro volta il pregio delle bottiglie contenute; verniciature e laccature, assolutamente atossiche e inodori, con colori forti; applicazioni con materiali diversi; legni tranciati in fogli sottili che avvolgono, quasi come carta, le bottiglie. Materiali sintetici, plastiche e resine, magari con inserti in vetro che lasciano intravedere il contenuto o con incisioni laser; scatole tempestate di swarovski. Scatole di carta e cartone, coloratissime o stampate con gli stessi motivi grafici dell’etichetta, magari secondo un progetto che nell’accostamento delle scatole ricrea motivi diversi o a scala maggiore; confezioni che divengono degli origami o comunque quasi delle esperienze ludiche. E poi pelle, cuoio, metalli. Ultimamente, grazie anche alla sempre maggiore diffusione dei vini biologici o biodinamici, si assiste anche ad una maggiore attenzione alla sostenibilità anche dei contenitori, realizzati con materiali riciclabili o con basso impatto in termini di produzione di CO2 o provenienti da fonti rinnovabili e certificate.

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Le immagini, gentilmente concesse dallo Studio Doni & Associati, illustrano alcune tipologie di casse e cartoni disegnati da Simonetta Doni.



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BOTTIGLIA Bottiglie parlanti

Il testo che segue nasce da una intervista realizzata con Roberto Bartolozzi, amministratore delegato della Vetreria Etrusca s.r.l., storica azienda di Montelupo Fiorentino che produce contenitori in vetro, con una particolare attenzione alle bottiglie per il vino. Si ringrazia la Vetreria Etrusca s.r.l. e Luca Ottanelli di Studiotto s.r.l., di Firenze, per le immagini forniteci

La comunicazione nel mondo del vino si può basare sulla forza del marchio, storica e qualitativa, o su campagne più tipicamente pubblicitarie. Una terza modalità, che si integra pienamente con le altre, è rappresentata dal packaging, che è un connubio fra elementi diversi che comunicano il tipo di prodotto contenuto: il design e la forma della bottiglia sono, oltre l’etichetta, il tappo e la capsula, parte di questi ‘elementi’. In questo senso la storia del fiasco è paradigmatica. Questo era simbolo di un ‘sistema’ locale dove, dalla produzione dei vetri, alla coltivazione delle erbe per il rivestimento, fino al vino che lo riempiva, tutto era espressione di un territorio preciso, della Toscana. Il fiasco era il ‘classico’ contenitore del vino toscano a tal punto che ogni altro contenitore non poteva avere quella forma o quella denominazione perché l’immagine del fiasco, sinonimo di vino Chianti, era molto forte. Il fiasco è stato il mezzo attraverso il quale il Chianti è stato conosciuto nel mercato estero ed in particolare in quello nord americano. Purtroppo questa forte caratterizzazione legata solo ad un tipo di vino e di territorio, oltre ai costi di produzione, ai processi di automazione dell’imbottigliamento, ai costi di trasporto, ha fatto sì che questo contenitore sia stato, nel tempo, sempre più abbandonato a favore della bottiglia. Alcune di queste si identificano con i vini francesi e i nomi stessi lo indicano: bordolese, borgognotta,


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a sinistra: esempio di personalizzazione

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sopra: champagnotte in vetro extra bianco


a sinistra: alcune fasi della lavorazione delle bottiglie stabilimento Vetreria Etrusca sotto: i tre colori principali del vetro prodotto da Vetreria Etrusca, da sinistra extra bianco, mezzo bianco, verdetrusco pagina a fronte: stampo in ghisa personalizzato


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champagnotta, sono denominazioni che derivano da specifiche aree di produzione. Il vino francese è diventato un vino di qualità prima del vino italiano e usando quei contenitori specifici si è creata una caratterizzazione, come era avvenuto per il fiasco ed il Chianti. Gli altri vini hanno così imitato quel tipo di contenitore ma quello che noi produttori italiani di bottiglie abbiamo fatto è stato quello di far sì che questi nuovi contenitori divenissero anche strumenti di comunicazione caratterizzandosi come bottiglie italiane per vini italiani. Per questo abbiamo lavorato sul design della bottiglia, agendo sugli elementi geometrici e fisici, quali le proporzioni, l’altezza, il diametro, il peso od il colore del vetro stesso. Questi prodotti devono garantire determinate performance nel momento in cui vengono utilizzati dai produttori di vino, e riuscire a trovare un connubio fra il design, la creatività e la funzionalità tecnica, impiantistica e produttiva è il grande obiettivo con cui ci si deve confrontare. La bottiglia ha tre funzioni principali: quella di trasportare il suo contenuto, quella di conservarlo senza influenzarne le caratteristiche organolettiche ed infine quella di comunicare. La funzione comunicativa è molto più importante di quello che molti produttori di vino credono o vogliono far credere. La globalizzazione del mercato dove esiste, anche nel settore del vino, una grande spinta da parte di paesi emergenti che offrono prodotti competitivi, non solo economicamente ma anche qualitativamente, deve indurre a creare un valore aggiunto per il prodotto ‘vino’. Il consumatore moderno è attratto anche dal valore estetico del prodotto offerto e lo vediamo in tutti i beni. Un prodotto curato anche dal punto di vista comunicativo ha senza dubbio un valore aggiunto. Tutto deve essere immediato poiché le persone hanno sempre meno tempo per prendere una decisione di fronte ad una offerta che invece è sempre maggiore. Per questo, oggi, il packaging ha un ruolo importante, sia per un prodotto emergente, che non può contare sulla forza di un marchio conosciuto e deve quindi avere un grande impatto comunicativo e non solo qualitativo, sia per un prodotto conosciuto che deve rafforzare e consolidare il proprio marchio.


sopra: bottiglia champagnotta prod. Vetreria Etrusca


oggi

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Il fiasco è forse l’unica icona toscana che non sia identificabile con un monumento od una città ma con un oggetto. Il fiasco impagliato rappresenta per chiunque il Chianti e quindi la Toscana. Già nei primi anni del ‘300 erano attivi l’impagliatori che utilizzavano una canna palustre diffusa lungo l’Arno e nella Val D’Elsa; il fiasco viene menzionato da Boccaccio e lo ritroviamo nominato in liste e corrispondenze illustri lungo tutto il Rinascimento. Diviene oggetto di varie disposizioni legislative che ne definiscono forma, dimensioni e usi tanto che negli anni ‘30 ne fu proibita l’esportazione, vuoto, per tutelare il vino italiano ed in particolare il Chianti con cui si identificava. Nel 1965 una legge stabilì che il fiasco toscano fosse riservato ai vini a denominazione d’origine. Oggi il Consorzio del Fiasco Toscano, con sede a Montelupo Fiorentino, si pone a tutela e difesa di questo contenitore attraverso anche la definizione di un rigoroso ‘disciplinare’ di realizzazione del vero fiasco toscano, arrivando a prevedere un sigillo di garanzia e che il fiasco possa contenere solo vini a denominazione di origine controllata e garantita.

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Abbiamo fatto fiasco!



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ETICHETTA

Il vino, l’immagine e il mercato globale Il valore della bellezza e la ricerca dei segni attraenti Massimo T. Mazza Lo studio Doni&Associati, per il quale seguo lo sviluppo dei progetti speciali e di ricerca, è specializzato nell’immagine e nella comunicazione del vino, la sua filosofia è avere costantemente una visione aperta, multidisciplinare e prospettica che consenta lo sviluppo permanente di nuovi elementi di comunicazione, con l’obiettivo di rendere sempre più efficiente il rapporto visuale ed emotivo del vino con il cliente finale. Sappiamo che l’aspetto esteriore di un vino, evoluto da semplice prodotto agroalimentare a simbolo di style life, può avere un effetto determinante nella comunicazione e sulla scelta finale del consumatore. La bellezza e l’impatto della bottiglia sono fondamentali per rendere evidenti e immediate le caratteristiche sia di ogni specifico prodotto sia delle aziende, in un mercato (quello del vino) sempre più affollato, competitivo e globale. Le etichette sono quindi un patrimonio da creare con la stessa cura dei vini, entrambi sono un’arte che richiede una combinazione esperta di conoscenza e passione; il potere dell’immagine è oggi un importante valore aggiunto che costituisce parte del capitale aziendale. Ma realmente sappiamo in un’etichetta cosa cattura la nostra attenzione? Il progetto inizia nel 2010, Doni&Associati collabora ad una interessante tesi di marketing della Facoltà di Economia dell’Università di Firenze sulla comunicazione del vino, sul design delle etichette e sul packaging, individuati come elementi decisivi dello sviluppo e dell’affermazione del prodotto. Da qui l’interesse a verificare ed approfondire scientificamente un tema chiave: cosa ci attrae di un’etichetta? Quali sono i segni distintivi che ci colpiscono e che ci portano a scegliere su uno scaffale un vino piuttosto che un altro? Ho pensato di girare la domanda al Prof. Bruno Laeng, titolare della Cattedra di Neuropsicologia Percettiva all’Università di Oslo, uno dei massimi esperti internazionali in questo campo che ha sviluppato, anche attraverso l’eye tracking, metodi di ricerca che consentono di determinare e capire le nostre reazioni di attenzione psico-emotiva mettendole in relazione al percorso che l’occhio segue su un’immagine e sugli elementi caratterizzanti sui quali si sofferma.


I primi obiettivi sui quali Prof. Laeng e Doni&Associati hanno iniziato il lavoro, sono stati definire il campo di azione, individuare un “alfabeto” di segni chiave nel mondo delle etichette e le modalità della ricerca. Un qualificato Focus Group, composto dal Prof. Simone Guercini, dal Dott. Daniele Gozzi, da un importante enologo, dai responsabili del marketing del maggiore gruppo nazionale di grande distribuzione, da un giornalista specializzato in enogastronomia e da un grande chef, ci ha permesso di confrontare le prime ipotesi in quella fase. Winetown è l’occasione per presentare il progetto ad un pubblico più ampio ed offrire ai professionisti e al pubblico del mondo del vino, in anteprima, alcuni esempi (anche sorprendenti) di analisi e visione scientifica delle etichette. Il progetto del Prof. Laeng, dell’Università di Oslo e di Doni&Asssociati è destinato a proseguire nel tempo e via via che andrà avanti a fornirci elementi di riflessione e spunti di lavoro sempre più interessanti, precisi, qualificati ed utili ad una comunicazione del vino sempre più incisiva. Ringrazio il Prof. Bruno Laeng non solo per il contributo scientifico che apporta a tutto il sistema del vino, ma anche per la passione con cui si rivolge al mondo nel quale lavoriamo.

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Doni & Associati è fondato da Simonetta Doni nel 1977 . Dalla fine degli anni 80 si specializza nella comunicazione e immagine del vino. Ha “vestito” innumerevoli vini ed ha contribuito in modi significativo alla valorizzazione, attraverso la comunicazione e l’immagine, di molte Cantine e dei loro prodotti. Per il suo lavoro ha ricevuto premi e riconoscimenti. Le etichette riprodotte in queste pagine sono state realizzate, salvo dove diversamente indicato, dallo Studio Doni & Associati, che ringraziamo per il prezioso e interessante materiale iconografico fornitoci.



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In vino veritas? Prof. Bruno Laeng Psicologo Università di Oslo

Se gli attributi del “divino”, secondo la filosofia platonica, sono il bello, il buono ed il vero, gli attributi dell’etichetta di vino sono i medesimi; l’etichetta deve essere bella, suggerire la bontà del prodotto, e dimostrare di quest’ultimo la sua autenticità. I contenitori sigillati (che siano l’antica giara, la bottiglia in vetro o le contemporanee ‘wine bag boxes’) per loro natura nascondono ciò che contengono. Non possiamo odorare o gustare e, nella maggior parte dei casi, persino intravvedere il colore di ciò che è contenuto, se non quando la bottiglia è già acquistata ed aperta. Ci dobbiamo necessariamente basare sugli attributi visivi esteriori dello stesso contenitore per farci sedurre nelle nostre scelte. Da qui la ragione per una iconografia, un’arte simbolica, che non solamente identifica il vino, ma che ci deve attrarre e promettere un incontro sensuale dove si suscitano bellezza, bontà, ed una forma conviviale di verità. Studiosi e praticanti del design hanno identificato una ampia serie di principi cosiddetti “universali” su cui l’arte del design e della comunicazione di mercato si basa (ad esempio, Lidwell, Holder & Butler, 2010). Diversi di questi principi sono assimilabili a principi (a volte chiamate “leggi”) della percezione visiva che la psicologia come scienza ha identificato nell’arco degli ultimi 100 anni. Secondo questa prospettiva, l’oggetto design è composto seguendo principi multipli (non sempre tutti compresenti) a cui la mente umana “risuona” in maniera spontanea e che si possono riassumere in 5 assiomi fondamentali (McClurg-Genevese, 2005): equilibrio (basato sulla nostra percezione di massa e gravità che apparentemente la nostra mente applica a tutti gli oggetti visivi, anche quelli virtuali di un disegno o immagine bidimensionale), ritmo (la ripetizione ed alternanza di elementi simili, tipica dell’ornamento), proporzione (basata sulla percezione di grandezze, dimensioni e distribuzione di forme, dove alcune grandezze appiano avere una innata priorità, cioè la “sezione aurea”), unità (la “gestalt” o relazione del tutto tra gli elementi che compongono gli oggetti), e la cosiddetta dominanza (l’enfasi di alcuni elementi capaci di attrarre l’attenzione o letteralmente l’occhio). Da un punto di vista psicologico, appare fondamentale che l’etichetta di vino abbia sufficiente “peso” visivo da attrarre l’attenzione, dato che la maggior parte degli elementi visivi che i nostri occhi registrano sono poi esclusi o soppressi da quella elaborazione attentiva e percettiva (Mack & Rock, 1998) che gli assegna significati, li memorizza


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in questa pagina: Etichette, design Studio Fanakalo, Sud Africa per Helderberg Wijnmakerij, Stellenbosch, Sud Africa pagina seguente: Gut Oggau, design Jung von Matt, Vienna per Oggau Estate, Austria


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White

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Glaholt, M. G., Wu, M.-C., & Reingold, E. M. (2010). Evidence for top-down control of eye movements during visual decision making. Journal of Vision, 10(5), 1–10. Lidwell, W., Holden, K., & Butler, J. (2010). Universal principles of design: 125 ways to enhance usability, influence perception, increase appeal, make better design decisions, and teach through design. Beverly, MA: Rockport Publishers. Mack, A., & Rock, I. (1998). Inattentional blindness. Boston, MA: The MIT Press McClurg-Genevese, J.D. (2005). The Principles of Design. Digital Web Magazine. June 3-7. Ruso, J.E., & Leclerc, F. (1994). An eye-fixation analysis of choice processes for consumer nondurables. Journal of Consumer Research, 21, 274-290. Wilson, T.D., & Nisbett, R.E. (1978). The accuracy of verbal reports about the effects of stimuli on evaluations and behavior. Social Psychology, 41, 118-131.

e governa le nostre decisioni coscienti. La metodologia scientifica della psicologia sperimentale, unita alla tecnologia moderna, ci permette oggi di scrutinare in maniera dettagliata quali elementi attraggono l’occhio in una immagine e perciò “dominano” la nostra percezione. Il metodo si chiama “eye-tracking”, cioè registrazione di tracciati oculari. La Figura nella pagina a sinistra mostra 2 bottiglie di vino, a fianco una dell’altra come se fossero su di uno scaffale dell’enoteca. Le bottiglie hanno due etichette (Castello di Brolio ed Urlo) di carattere compositivo piuttosto diverse (sebbene entrambe provengano dallo stesso studio di design, Doni & Associati) e la domanda che ci si può porre e a cui il metodo eye-tracking può dare risposta è quale etichetta e quali elementi al suo interno attrarranno di più l’attenzione. Naturalmente tale attenzione è al servizio della mente della persona che osserva (interessi, bisogni, personalità e cultura) ed è importante, per questo tipo di ricerca, prendere in considerazione una varietà di variabili sociali e psicologiche. In una investigazione preliminare, le 2 etichette di vini italiani sono state mostrate sullo schermo di un computer per soli 10 secondi (la ricerca di mercato mostra che le decisioni d’acquisto si completano tipicamente nell’arco di pochi secondi; Ruso & Leclerc, 1994) ad una persona naive ai 2 vini italiani in questione. Come si può vedere in alto nella Figura, le bottiglie sono state presentate due volte in momenti separati, in una versione con Urlo a destra o a sinistra, in modo da controllare la tendenza, osservata in diversi studi di psicologia (Wilson & Nisbett, 1978; Glaholt, Wu, & Reingold, 2010), a focalizzarsi su una posizione particolare di una serie di oggetti qualsiasi. Sempre nella Figura (seconda riga) si vedono le stesse immagini con sovraimposti i tracciati oculari (di una studentessa 24enne, naive ai vini italiani). Il rigo ancor più sotto mostra delle cosiddette “focus maps”; cioè immagini dove l’intensità delle zone illuminate è proporzionale al tempo in cui l’occhio si è fermato ad esaminare una specifica regione della immagine, mentre ciò che è in ombra indica parti dell’immagine che non son state guardate affatto. L’immagine in alto, in questa pagina, mostra un’analisi quantitativa delle fissazioni oculari su aree (predefinite ) di interesse, in questo caso il nome del vino (“brand”) e la grafica pittoriale (“image”). I valori esprimono in percentuale il tempo di fissazione oculare all’interno delle aree definite. Naturalmente è preferibile raccogliere questo tipo di risultati con grandi numeri di immagini e partecipanti; in tale maniera si potrà comprendere meglio quali tra gli elementi che compongono l’etichetta vengono comunicati efficacemente e, con una scelta attenta dei partecipanti alla ricerca, per quale tipo di osservatore (ad esempio, l’esperto paragonato a chi comincia ad “esplorare” l’universo dei vini) una particolare etichetta esprime meglio il suo contenuto. 56 / 57

Bibliografia



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CAPSULA e TAPPO

Chiusure comunicanti Sughero, sintetico, vite. Tre tipologie attorno alle quali si formano scuole di pensiero, si creano schiere di sostenitori e di denigratori. Stiamo parlando di tappi per il vino. Forse nel mondo dell’enologia niente altro, in questi ultimi anni, ha mai generato accesi dibattiti come la scelta di un sistema di chiusura. Inizialmente era solo sughero, il materiale che molti ancora considerano insostituibile, in particolare per quelli che vengono definiti ‘grandi vini’. Un materiale assolutamente naturale che ha portato sempre con sé i pregi ed i difetti di questo suo essere. Il pregio maggiore del sughero, forse ancora ineguagliato, è la caratteristica di avere una struttura cellulare tale che risulta pressoché impermeabile all’aria ma permette comunque quello scambio infinitesimale di ossigeno fra il vino e l’esterno che contribuisce, soprattutto nei vini più importanti, all’affinamento. Il difetto maggiore, nel quale tutti, prima o poi, si sono imbattuti è la possibilità, non proprio remota, che il sughero trasmetta sapori ed odori sgradevoli al vino o che, in mancanza di una conservazione adeguata della bottiglia che mantenga il tappo in efficienza (bagnato dal vino stesso) questo si asciughi e si ritragga facendo ossidare il vino. Da questi difetti, oltre che da fattori economici, è nata la spinta verso l’utilizzo di tappi in materiali diversi. Materiali e sistemi di produzione con i quali realizzare prodotti sintetici con caratteristiche morfologiche simili al sughero in grado di garantire la stessa micropermeabilità che in alcuni casi viene assicurata da un canale ricavato nel corpo del tappo che, attraverso l’interposizione di una membrana permeabile idrofobica, permette la micro ossigenazione controllata. Un meccanismo simile viene adottato anche sulle chiusure a vite, fino ad oggi considerate adatte a vini di bassa qualità e immediata beva. Oggi sono state realizzate chiusure a vite in alluminio dove una


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a sinistra: alcune fasi della produzione di capsule Enoplastic

sopra e a sinistra: ™ tappo sintetico KORKED PRO per micro ossigenazione controllata


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pagine seguenti: capsule disegnate da Doni & Associati

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in alto e sotto: sistema di chiusura a vite ™ KORKED SPIN, in alluminio a permeabilità controllata

membrana a permeabilità controllata è interposta tra la capsula metallica, opportunamente forata, e l’interno della bottiglia permettendo così quella micro ossigenazione tipica del sughero in grado di permettere un affinamento in bottiglia anche per i grandi vini. Questa ‘battaglia’ si gioca tuttavia, non solo sul campo della tecnologia e delle performance, ma anche su quello più virtuale della comunicazione. Scegliere un tipo di tappo piuttosto che un altro è qualcosa che può, nel mercato attuale, determinare il gradimento o meno di un vino indipendentemente dal vino stesso. Mentre un tappo di sughero, da questo punto di vista, può contare sulla tradizione di un rituale ormai consolidato che già in sé porta un significato qualitativo (la rimozione della capsula, l’uso del cavatappi, l’esame olfattivo del tappo) e sulla possibilità di realizzare dei grafismi sul corpo esterno del tappo stesso, un tappo sintetico o a vite apre un panorama comunicativo ben diverso. Dalla possibilità di realizzare tappi colorati nella massa, con disegni anche complessi fino a sistemi di chiusura a vite in alluminio, che integrano la capsula, con la riproduzione di immagini anche fotografiche, le opportunità si ampliano permettendo di accedere a livelli comunicativi fino adesso abbastanza inesplorati per il mondo del vino. La stessa importanza, nella comunicazione e nel ‘design’ globale della bottiglia di vino, risiede anche nella capsula, strumento prima di tutto funzionale e tecnologico ma ormai sempre più ulteriore strumento di comunicazione e oggetto di attento design. Realizzata in vari materiali, la capsula riduce ulteriormente la permeabilità del tappo e ne protegge la sommità dall’ambiente esterno (polvere, umidità, muffe). Il progetto grafico della capsula diviene elemento fondamentale nel vestito della bottiglia e per il prodotto stesso, basti pensare, ad esempio ad un vino di largo successo e consumo, fin dagli anni ‘80, come il Galestro “Capsula Viola” di Antinori, dove la capsula, con il suo colore caratteristico e la sua lucentezza è rapidamente diventata sinonimo del vino e nome del vino tout court.



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BICCHIERE

Il bicchiere è lo strumento attraverso il quale l'individuo interagisce nel pieno dei suoi sensi con il vino: può guardarne il colore, inebriarsi dei suoi profumi, portarlo alla bocca e gustarne i suoi aromi. Per questo il progetto del calice da vino si pone in realtà a cavallo fra l'opera di design ed ingegnerizzazione e l'opera artistica. La 'semplice' distinzione fra bicchieri secondo il colore del vino pone già problemi di forma e di dimensione della pancia, ad esempio, o della bocca, elementi fondamentali dai quali dipende la quasi totalità dell'esperienza “vino”. Oggi addirittura si sta arrivando al progetto ed alla realizzazione dello specifico bicchiere per lo specifico vitigno o blend, cosicché vengano esaltati quei precisi profumi e sapori o venga ossigenato al punto giusto il prezioso liquido. Le maggiori aziende produttrici hanno ormai in catalogo una offerta di calici, spesso abbinata anche al relativo decanter, in grado di rendere l'esperienza di degustazione di un vino un'azione molto precisa e specifica, in cui non è più solo l'esperienza del degustatore a determinarne le modalità ma anche lo “strumento” bicchiere che viene utilizzato nell'occasione. Poi, come dicevamo, il bicchiere da vino è anche un'opera artistica e di design. Quasi tutti i maggiori designer internazionali, e non solo, si sono cimentati almeno una volta nel progetto del calice da vino. Come per qualsiasi altro oggetto quello che entra in gioco nella progettazione sono precisi elementi dimensionali, funzionali ed ergonomici che si devono armonizzare con principi ed elementi estetici.In questa sezione, dopo alcuni esempi per immagini di questo stretto rapporto fra design e funzionalità, il testo e le immagini dei calici di David Palterer, architetto e designer di fama internazionale, ci conducono in una dimensione quasi onirica dove il rapporto non formale fra l'individuo ed il vino si esprime nelle sue opere.


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pagina precedente: collezione Swirl, bicchiere per vino rosso, Riedel Glas Austria

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sopra: collezione Swirl bicchiere vino bianco, bicchiere vino rosso e decanter, Riedel Glas Austria



Architetto

in alto da sinistra: Doppio calice in cristallo trasparente e blu cobalto con impugnatura in bronzo. Design David Palterer e Borek Šípek, 1986 prod. ALTEREGO, Amsterdam Bicchiere per vino in cristallo. Design David Palterer prod. ALTEREGO, Amsterdam pagina precedente: collezioni di calici in cristallo disegnati Norberto V. Medardi per Cleto Munari, Vicenza

© Ph. Carlo Cantini

© Ph. Carlo Cantini

David Palterer

Ho realizzato a ‘quattro mani’ con l’amico Borek Šípek, il mio primo progetto di un calice. In quel periodo, gli anni ottanta, eravamo poco coscienti della ‘complicità’ dell’oggetto col vino, ma affascinati dalla ritualità intrinseca a molti atti della vita, come quelli del passato e la loro reminescenza nei nostri comportamenti odierni, così la nostra ricerca ci portò prevalentemente a indagare sulla sensorialità come linguaggio. L’“oggetto calice” nacque tra Firenze, Amsterdam, Novy Bor e Francoforte, città nelle quali abitavamo o che entrambi frequentavamo e che furono scenario ideale per le nostre azioni progettuali, di cui, a posteriori, ritengo che il “doppio calice” possa essere considerato il manifesto. Non si trattava, dunque, di esaltare le qualità del vino piuttosto come la cultura del bere si fosse evoluta seguendo la fisicità, i movimenti del corpo, i meccanismi comportamentali, le dinamiche del gruppo e l’attivazione, in parallelo, dei nostri sensi. Mi resi conto della ‘capacità retorica’ dei valori che con Borek avevamo affidato a quel calice e a quel punto confermati come universali - quando scoprii che il serial televisivo Star Trek aveva scelto proprio quell’oggetto per un regalo di “nozze spaziali”, portato dagli abitanti della terra a quelli degli asettici luoghi della ‘navicella/dimora spaziale’. Un oggetto piuttosto sconosciuto e presente solo in qualche museo o collezione privata fu quindi capace, per il suo aspetto senza intermediazioni, di rappresentare, anche senza essere ‘funzionale’ nel senso utilitaristico del termine, un emblema della funzione, la ritualità del bere. I progetti di altri calici che seguirono con crescente frequenza non poterono ignorare l’esperienza iniziale, anzi, continuarono ad affinarla con la consapevolezza che per le qualità del vino andava assegnata una parte importante alla ‘forma’, così da renderne visibile il carattere cromatico, la viscosità e consentirne l’ossigenazione e la percezione olfattiva del liquido fatto ‘sprigionare dalla bottiglia’. A breve distanza fu realizzata una coppia di calici, sempre in cristallo di Boemia, dall’eccezionalità delle proporzioni: un’altezza di 40 cm contrapposta a un ‘piede’ del diametro di circa 10 cm, un equilibrio formale che convogliava a uno gestuale, con le misure estreme che trascinavano a un’attenta gestualità comportamentale dei commensali. I calici allestivano il tavolo con la loro presenza, e la ‘magica sfera’ in cristallo massiccio, che attraeva la luce brillando, funzionava da lente dove l’intorno si rispecchiava in un mondo rovesciato.

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La mia “Strada del Vino”


da sinistra: Arpia (ex calice Swid Powell) Servito di calici in cristallo Design David Palterer Prod. VILCA, Colle Val d'Elsa (SI)

© Ph. Santi Caleca

© Ph. Carlo Cantini

Dimaà Coppa in cristallo al piombo (24%) con lavorazione a lume. Versione con gocce blu. Design David Palterer prod. VILCA per EDIZIONI GALLERIA COLOMBARI


© Ph. Carlo Cantini © Ph. Carlo Cantini

La prima serie di calici in Toscana fu progettata per l’azienda americana Swid Powell, e realizzata dall’allora Nuova Vilca che li inserì poi, con successo, nel proprio catalogo con il nome di Arpia. Il prodotto, proposto in una “scalatura” dimensionale piuttosto importante, aveva la tipologia del tulip, con il lato superiore che andava a combaciare con le labbra, una forma volutamente pensata per ‘escludere’ la prima percezione sensoriale delle labbra stesse e accrescere l’impressione del liquido direttamente sulla lingua. In parallelo allo sviluppo di prodotti ‘commerciali’, continuò la ricerca sull’espressività della forma e della ritualità del bere. In occasione di una delle prime edizioni di Abitare il Tempo fu realizzato con la Galleria Colombari di Milano il Dimàa (in ebraico: lacrima), un ‘calice impossibile’ per la sua eccessiva fragilità, ma che trascinava la sperimentazione alle massime conseguenze proprio per capirne l’influsso psicologico e sensoriale. Elio fu invece la ripresa di una tipologia di calici privi di gambo, con una base in cristallo massiccio lasciata prestampata in basso al calice soffiato in un ‘bicchiere stellato’ e poi ripresa a freddo in moleria per farle acquisire gli spigoli vivi e ottenere l’effetto ottico di prismi; una rigidità geometrica che ben si addiceva al cristallo al piombo (24%Pbo) come quello di Colle Val d’Elsa. La percezione della penetrazione della coppa nella base risultò intrigante, specialmente una volta riempita col vino, il cui colore si rispecchiava nelle sfaccettature.

sopra: Bicchieri in cristallo soffiato a mano in Giappone per il ristorante "Chichibio" a Mito. Design David Palterer 1990

Progettando poi, in tutti i suoi dettagli, un ristorante a Mito, in Giappone, fu naturale dotare quel luogo con calici originali, che risentissero di una fusione tra due culture - italiana e giapponese - così lontane, ideando una serie di calici soffiati sul posto a mano volante. L’invenzione di questo progetto consisteva nel lasciar deformare la bocca superiore del calice, mediante un sovra riscaldamento nella fase finale della produzione, una deformazione minima ma percepibile in quanto ogni calice risultava diverso dall’altro. Questa “lieve imperfezione”, modellata, di fatto, dalla forza di gravità, donava al calice una ‘morbidezza’ nel contatto con le labbra oltre quella puramente visiva. A Daum, nota industria francese di cristallo, il progetto piacque molto e programmò di metterlo in produzione, ma dal feedback dei rivenditori capimmo subito che proprio questa imperfezione voluta e studiata come vanto del calice era invece percepita dai potenziali acquirenti più come prodotto difettoso e di scarto, e dovemmo quindi cedere, pur con amarezza, a una versione ‘banalizzata’ che però entrò in produzione.

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in alto a destra: Elio Bicchieri in cristallo. Design David Palterer 1990 Prod. VILCA, Colle Val d'Elsa (SI)


Š Ph. Carlo Cantini


Bicchieri da vino in cristallo con base in bronzo, o bronzo argentato, o bronzo dorato. Design David Palterer e Borek Šípek 1986 prod. ALTEREGO, Amsterdam

In quel periodo Cleto Munari, un raffinato editore vicentino del design, mi chiese di ideare una serie di calici interpretando, nel ‘nuovo’, lo ‘stile veneziano’. Tutti conosciamo la straordinarietà del vetro di Murano, soprattutto per i suoi colori accesi ma la sua notorietà è dovuta soprattutto alla leggerezza materica e formale. Per ovvi motivi dovemmo fare a meno del colore ma delle altre peculiarità facemmo però tesoro. Sebbene la forma conservasse una vaga reminescenza dei calici della Daum, da questi si differenziavano per la qualità della lavorazione tipica dell’isola e non potendo usare la gioiosa cromatura del vetro locale utilizzammo solamente delle gocce di color acquamarina, come riflesso della laguna veneziana. Tutte le esperienze fin qui riportate non scindono dalla rigorosità del calice per il vino ma sono un percorso che ha permesso di sondare i limiti, o meglio, i margini, che un progetto per un nuovo calice dovrebbe o potrebbe avere. Una collaborazione percorsa con l’Associazione Nazionale Città del Vino, con sede a Castelnuovo Berardenga, nel centro di un territorio di fortissima vocazione del vino, contemplava la realizzazione di un nuovo calice dedicato per il Chiaretto di Garda, un vino particolarmente delicato di colore e profumo che stentava ad avere un proprio calice capace di esaltarne le peculiarità. Un lungo lavoro con una ‘famiglia allargata’ di esperti in competenze diverse e complementari tra loro, quali produttori, ristoratori, enologi, sommelier e molti altri, con i quali abbiamo interloquito procedendo alla realizzazione di prototipi di lavoro, ha portato alla realizzazione del calice ufficiale, un “sinonimo”, o se vogliamo una “sintesi”, di quello specifico prodotto. L’operazione non nasceva come spesso accade, da un produttore del settore che impone o convince l’abbinamento, ma dal territorio stesso con i suoi operatori che si sono espressi lasciando a qualsiasi produttore di vetro il diritto e la possibilità della realizzazione del loro calice. In parallelo al primo, il doppio calice, sempre con Borek Šípek ideammo e realizzammo anche uno strano oggetto tra calice e bicchiere, con equilibri apparentemente labili e sfuggenti, ma che, di fatto, nel girare su se stesso, ritrovava una “propria stabilità”, e quando era pieno, lo stesso assumeva un andamento rallentato e perfino, goffo, ‘ubriacato’. Il tutto nasceva da una nostra ricerca sulla fragilità del vetro e cristallo, dalla sensazione di attenzione e di paura che ognuno di noi prova nel manovrare questi delicati oggetti. Questo calice animato contrasta con la stabilità e con il ruolo principe di un bicchiere di dare una forma a un liquido, forma che potrebbe sembrare dedotta da fattori oggettivi misurabili, eppure dalla mia lunga esperienza qui brevemente tracciata si percepisce facilmente che la forma ha dei valori oltre l’utile, e attraverso i suoi equilibri, le proporzioni, i pesi, le misure culturali e sensoriali, si riescono a intaccare, influenzare e condizionare dei fattori apparentemente assoluti. 76 / 77

sopra da sinistra: Calici in cristallo con applicazioni di pasta di vetro azzurre Design David Palterer 1990 Prod. CLETO MUNARI, Vicenza

© Ph. Carlo Cantini

© Ph. Carlo Cantini pagina precedente: Chiaretto Calice in cristallo per vino Chiaretto Design David Palterer 1996-97 per Associazione Nazionale Città del Vino


ACCESSORI Design e ricerca creativa Prof. Alberto Di Cintio dipartimento TAED Facoltà di Architettura Firenze

a destra: Mamba, decanter, Riedel Glas Austria

I wine lover non vanno solo a caccia dell’etichetta introvabile o della cantina di tendenza: tra gli eno-appassionati aumenta anche l’interesse per gli accessori, quel vasto mondo fatto di strumenti che ruotano intorno al mondo del vino. Dai cavatappi super elaborati, ai decanter di grande impatto scenografico, fino ai termometri per il vino di ultima generazione con tecnologia wireless. Si confermano così i dati del forte sviluppo del mercato degli accessori che è in costante aumento: secondo uno studio Vinitaly l’eno-appassionato spende circa 150 euro per la sua attrezzatura “minima”, che comprende salvagoccia, cavatappi professionale, termometro per il vino, decanter e una coppia di bicchieri da vino a stelo lungo. Una cifra che può arrivare anche a 1.500 euro aggiungendo un versa-vino, un imbuto per decanter, o i più costosi frigo-cantina. Mercato che è in grande crescita anche in quei Paesi che negli ultimi anni stanno scoprendo il vino: a partire dalla Cina, che si configura come mercato di conquista non solo per le cantine, ma anche per le aziende che producono accessori di lusso. Accessori vino come piccoli tesori da collezione, spesso mix raffinati fra tradizione e innovazione, che esaltano l’esperienza del prodotto vino. Ecco, è da questa condizione materiale e di sistema che è emersa la necessità di definire una nuova linea operativa, omogenea alle esigenze di rinnovamento della capacità di impatto della ricerca nel campo del design per il vino. Per meglio precisare, l’elaborazione sperimentata nel corso degli ultimi anni andava ad appoggiarsi, più o meno sistematicamente, alle indicazioni teoriche e progettuali che emergevano nella definizione dei nuovi sistemi tecnologici per il rinnovamento formale dei prodotti e le relative applicazioni operative. In sostanza, molto spesso, non si trattava altro che di precisare o meglio definire visivamente le scelte strategiche più


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in alto: Black/Tie Smile decanter, vari colori, Riedel Glas Austria a destra: Captain Banana design: Stefano Giovannoni, Rumiko Takeda Cavatappi in resina termoplastica e zama cromata. Decorato a mano. A di Alessi

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a sinistra: decanter Escargot Riedel Glas Austria



del mercato che della cultura, e quindi, trattando la materia alla stregua dei filmati industriali, veicolare una progettualità che si spostava dal post-funzionalismo ai fenomeni di moda e di iperconsumo. Tale sudditanza culturale ha fatto emergere nei designer non solo la frustrazione di veder negati spazi propri e peculiari sul versante dell’autonoma epressione creativa, ma ha via via accentuato un pensiero critico rivolto ad un uso “freddo” e banalmente utilitaristico della ricerca progettuale. Una impostazione “calda” invece, sottende la capacità di liberare e sostenere qualitativamente, con l’uso di apparecchiature oggettivamente impersonali ed asettiche, le sensibilità poetiche, sociali ed artistiche dell’uomo prima che del designerPer questi motivi c’è stata una svolta radicale anche nella progettazione dedicata al mondo del vino. Il progetto creativo diventa estremamente interessante se si pone l’obbiettivo di ricevere e rimandare, amplificandoli il più possibile, i messaggi di vita del terzo millennio, fluidi si, ma significanti. Così si tenta il proprio rinnovamento a partire dal superamento dei “generi” per reinventarsi come forma d’arte originale pienamente coinvolta dalle riflessioni collettive ed universali. Quindi la grande riflessione-interrogazione che dobbiamo porre all’attenzione di tutti, sarà quella dell’individuazione di nuove strategie di ricerca che rendano nuovamente orizzontali i percorsi della comunicazione artistica, che privilegino i contenuti rispetto alle moderne mitologie alla moda. Allora, mi aspetto una scelta di campo, una presa di posizione culturale. La ricerca ha si bisogno di incentivi teorici e relazionali, ma anche di punti di riferimento collettivi che ne sostengano la funzione primaria e fondante: affiancare e disvelare il mistero del processo progettuale e delle relazioni semantiche e interpersonali.

Anna Etoile design: Alessandro Mendini cavatappi in zama, placcata oro. Applicazioni in oro, diamanti, topazio e corallo. Serie limitata a 9 esemplari numerati. Officina Alessi

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sopra a destra e pagina precedente: decanter Rainman, design Matilda Ringnér, Svezia


sopra a sinistra: Socrates design: Jasper Morrison Cavatappi in acciaio inossidabile 18/10 lucido. Officina Alessi sopra a destra: Parrot - Proust design: Annalisa Margarini, Alessandro Mendini Cavatappi sommelier in alluminio pressofuso e PC. Decorato a mano, "Proust". Licensed by Pulltaps. A di Alessi


sotto a destra: Black Tie occhio nero, decanter Riedel Glas Austria

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sotto a sinistra: screw.it design: Wiel Arets Cavatappi in acciaio inossidabile 18/10 lucido e melammina. Officina Alessi



DISEGNODIVINO PROGETTO e COMUNICAZIONE



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