M E N S I L E D I D I V U L G A Z I O N E C U LT U R A L E
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Faith la voce dei The Shiver /13
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UNINDUSTRIA VITERBO Via Fontanella del Suffragio, 14 www.un-industria.it 0761228101
editoriale
Tra conoscenza ed ignoranza c’è di mezzo la cultura
C DECARTA Scripta volant Mensile di divulgazione culturale Numero 2/2013 – Luglio Distribuzione gratuita Direttore responsabile Maria Ida Augeri Direttore editoriale Manuel Gabrielli Redazione Martina Giannini, Gabriele Ludovici, Martina Perelli Redazione web e photo editor Sabrina Manfredi Design Massimo Giacci Editore Lavalliere Società Cooperativa Via Luigi Rossi Danielli, 45 01100 VITERBO Partita Iva 02115210565 info@lavalliere.it Iscrizione al ROC Numero 23546 del 24/05/2013 Stampa Union Printing SpA Pubblicità 348 5629248 - 340 7795232 Foto di copertina Francesco Meloni Chiuso in tipografia il 22/07/2013 www.decarta.it
hi ha fatto (o sta facendo) il liceo classico o scientifico, tranne rare eccezioni, avrà dovuto comprare un vocabolario di latino. I miei due vocabolari li ho ancora, stanno lì su una mensola e mi guardano polverosamente, soprattutto un Campanini-Carboni, della prima metà del novecento, passato in famiglia di generazione in generazione. Il secondo arrivò dopo, ricordo benissimo quanto fui contento di ricevere in dono da una mia cugina il suo “IL Castiglioni-Mariotti”; fu necessario rilegarlo, ma perlomeno avevo un vocabolario con qualche pagina in più e qualche acaro in meno. Nonostante non mi siano mancati gli altri innumerevoli libri comprati per lo stesso scopo del vocabolario, non posso dire di aver avuto un rapporto felice con l’istruzione; devo però riconoscere a me stesso quanto la curiosità non mi sia mai mancata e quanto spesso mi sia ritrovato a sfogliare pagine a caso sorprendendomi, nella mia ignoranza, di quante parole usate ogni giorno siano derivate dal latino o dal greco. È un po’ una scoperta dell’acqua calda, qualcosa di scontato, ma diventa tutto meno scontato se si considera quante parole utilizziamo conoscendone solo il significato superficiale. Con questo pensiero, spesso, mi ritrovo ancora a sfogliare i miei vecchi vocabolari in cerca di etimologie e tra le parole che mi hanno interessato recentemente vorrei dare la precedenza al termine CULTURA. L’ho scelto perché questa rivista si fregia di essere un mezzo di divulgazione culturale, perché è un termine dal significato mutilato poco chiaro nella sua vasta applicazione e perché allo stesso sono facilmente correlabili gli altri termini, ignoranza e conoscenza. Vorrei poi riferirmi a cultura come qualcosa legata all’individuo, al singolo e non alla definizione più vasta, come termine a sé stante.
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a breve storia etimologica di questo termine lo fa risalire, come facilmente intuibile dal nome, all’atto di coltivare, quindi come un contadino si dedica con cura e costanza alla coltivazione del proprio terreno, una persona forma la sua cultura nel dedicarsi assiduamente e con cura al campo che più preferisce. Le opzioni sono innumerevoli, si può trattare di conoscenze in campo umanistico e scientifico come di capacità manuali e prestanza fisica. Come spesso accade, i termini possono racchiudere oltre che più significati anche più accezioni, a seconda del contesto. In questo caso, oggi purtroppo la cultura è diventata qualcosa legata principalmente al lavoro puramente intellettuale e gli addetti a questi lavori sono spesso considerati delle autorità, rispetto alle quali è quasi obbligatorio sentirsi inferiori. In tal modo si è distinta una cultura di alto livello all’infuori della quale non esiste altro. Sono diventate cultura la letteratura, la storia, la scienza in tutti i suoi rami, recentemente ma solo in determinati contesti, lo sport. Ma, erroneamente, non viene considerato un uomo di cultura il contadino nella sua conoscenza pratica, oltretutto figura senza la quale probabilmente non esisterebbe il termine stesso.
Oggi cultura è un termine troppo spesso legato a figure spocchiose e ad inutili rigidità di costume per le quali se non avrai “coltivato” nella giusta maniera verrai a tua volta definito ignorante. Con queste righe vorrei far passare un altro significato: la cultura è ciò che ci piace e quindi abbiamo voglia di coltivare, può essere il contenuto di queste pagine, può essere il metodo di semina e raccolta dei pomodori o giocare a calcio, ma non dovrebbe essere un club elitario. Una persona ignorante non è una persona colpevole di qualcosa, è una persona che non conosce un determinato argomento e ne conosce tanti altri solo all’apparenza meno importanti. L’augurio è che tutti possano a loro modo fare cultura, queste pagine a mio parere lo sono, ma questo perché ciò che facciamo ci piace. Manuel Gabrielli
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erasmus & co. Uno sguardo verso il futuro Martina Giannini 7
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ippocampo Irrequietezza notturna
campus Racconto di un’esperienza d’estate Francesca Salatino, Cristiano Tiberi
Manuel Gabrielli 12
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acido lattico Vi spieghiamo la vela
ippocampo Se quei muri potessero parlare… Sabrina Manfredi
Gabriele Ludovici 16
nota bene Faith, la voce dei The Shiver Gabriele Ludovici
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report Inside. Dentro Caffeina Claudia Paccosi 20
icons Curve pericolose Martina Perelli
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incontri In itinere Martina Giannini
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Uno sguardo verso il futuro L’università europea dal 2014 al 2020. Martina Giannini | martina.giannini@decarta.it
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ell’ambito delle relazioni internazionali dell’università, sulle quali ho focalizzato il mio interesse, sono venuta a conoscenza del Lifelong Learning Programme (LLP), un programma d’azione comunitaria nel campo dell’apprendimento permanente, che riunisce tutte le iniziative di cooperazione europea, nell’ambito dell’istruzione e della formazione dal 2007 al 2013. Per il periodo 2014 al 2020, sarà adottato un nuovo programma europeo per l’educazione, la formazione, i giovani e lo sport per il quale sta per concludersi l’iter legislativo. Il Consiglio dell’Unione europea ha apportato alcune modifiche alla proposta iniziale della Commissione e il Programma è ora in discussione presso la Commissione educazione e cultura del Parlamento. Le principali novità introdotte in sede parlamentare riguardano: - il nome del programma che potrebbe divenire Yes (acronimo di Youth, Education, Sport); - la necessità di mantenere separati come sotto-programmi Grundtvig, Leonardo e Youth in Action; - la richiesta di un maggiore supporto al volontariato giovanile e all’educazione non-formale; - una azione maggiormente strutturata sui temi dell’educazione allo sport.
L’attuale LLP attualmente si divide in: - 4 programmi settoriali (Comenius, Erasmus, Leonardo da Vinci, Grundtvig); - il programma Jean Monnet. Per quanto riguarda le iniziative settoriali esistono 4 diverse possibilità. Comenius si occupa della formazione dalla scuola dell’infanzia alle scuole superiori. Gli scopi sono: sviluppare la comprensione delle diversità linguistiche e culturali e acquisire le conoscenze base necessarie per lo sviluppo personale e sociale dell’individuo nella comunità. Leonardo da Vinci si rivolge a tutte le persone coinvolte nell’istruzione e nel campo della formazione professionale. L’obiettivo è di accrescere l’interesse in tali settori e di agevolare la mobilità delle persone in formazione. Per mobilità si intende anche la possibilità di tirocini e scambi per l’inserimento nel mondo del lavoro. Grundtvig è indirizzato alle esigenze didattiche e di apprendimento degli adulti, con lo scopo di fornire percorsi volti al miglioramento delle conoscenze e competenze. Erasmus interessa tutte le persone coinvolte nell’istruzione superiore di tipo formale e nell’istruzione e formazione professionali di terzo livello. Gli obiettivi sono sostenere la realizzazione di uno
spazio europeo dell’istruzione superiore e rafforzare il contributo fornito dall’istruzione superiore e dall’istruzione professionale avanzata al processo d’innovazione. Per ultimo troviamo il programma Jean Monnet che appoggia l’insegnamento, la ricerca e lo studio di temi connessi all’integrazione europea. Il risultato che si vuole ottenere è quello di stimolare e appassionare a queste tematiche gli Stati. Inoltre il programma si prefigge di sostenere l’esistenza di istituzioni europee che operino nei settori dell’istruzione e della formazione.
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o approfondito l’argomento Erasmus con la dottoressa Felicetta Ripa, che gestisce la mobilità degli studenti in uscita e con la dottoressa Vanessa Torri, che si occupa degli studenti che dall’estero vengono a studiare nel nostro Ateneo e di Erasmus Placement, ovvero ragazzi che partono per esperienze di tirocinio presso imprese o centri di formazione e di ricerca all’estero. Parlando con Felicetta scopro che il suo ruolo è quello di curare i rapporti interni all’ufficio Erasmus, tenersi in contatto con gli Atenei partner, accogliere tecnici stranieri, gestire il percorso dello studente in mobilità, supportarlo mentre è all’estero e amministrare la parte finanziaria. Quando le chiedo come si pongono
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gli studenti all’iniziativa Erasmus, una volta che la loro richiesta è stata accettata, vedo comparire sul suo volto un sorriso, quasi una smorfia. Mi spiega che esistono due tipologie di studente, quello più consapevole delle difficoltà che potrà incontrare, consapevolezza dettata dalla conoscenza della lingua e delle differenze culturali, e quello che si rivolge al progetto in maniera meno matura, magari pensando che, anche senza sapere molto la lingua, potrà cavarsela “facendosi capire”. Felicetta Ripa
Vanessa Torri
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uando mi rivolgo a Vanessa apprendo che il suo incarico è di accogliere gli studenti stranieri e di fare da punto di contatto tra gli Atenei. Supportare nelle procedure d'iscrizione gli studenti italiani che dovranno partire con il programma Erasmus Placement, mantenersi in contatto con i ragazzi durante il soggiorno all’estero. Le chiedo quale è la realtà degli studenti in entrata, come pensa vedano Viterbo. La risposta arriva diretta senza troppi giri di parole, “Perlopiù i ragazzi si inseriscono, hanno buoni risultati a lezione e agli esami, apprezzano la città ma hanno un duro impatto con la realtà dei collegamenti”, critica niente affatto di-
scutibile considerati i percorsi che fanno i mezzi in partenza da Viterbo. In ultimo mi spiega che, nel periodo 2004/2005, l’Università della Tuscia presentò autonomamente e ottenne i finanziamenti per il progetto Leonardo da Vinci, European Training for Tuscia Marketing, che fu seguito da altri tre progetti, i quali hanno permesso di effettuare un tirocinio in Europa più o meno a 120 ragazzi neolaureati. Con questa esperienza lo studente ha la possibilità di acquisire competenze specifiche e di comprendere meglio la cultura del Paese in cui si trasferisce, con il supporto di corsi di preparazione e di aggiornamento della lingua, con il fine di agevolare la mobilità di giovani lavoratori in tutta Europa. Felicetta e Vanessa sono coloro che agiscono dietro le quinte, dirigono con efficacia ogni spostamento, anche grazie all'aiuto di collaboratori, tra cui alcuni tirocinanti. Scherzando si definiscono anche “psicologhe”: non deve essere facile capire e rispondere a tutti i quesiti degli studenti (che, diciamocelo, sono molti!).
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RACCONTO DI UN’ESPERIENZA D’ESTATE Francesca Salatino | Cristiano Tiberi
Per quattro giorni i giovani “ausfini” hanno camminato su quella terra, per quattro giorni ne hanno ammirato le bellezze nascoste: dalla sottile luce del sole che illuminava il bosco e lo rendeva incantato alla meraviglia di un paesaggio visto al tramonto.
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a Riserva Naturale di Monte Rufeno, istituita nel 1983, è un’area protetta di 3.000 ettari compresi nel Comune di Acquapendente, al confine delle terre laziali con Umbria e Toscana. In questi luoghi le piccole realtà da scoprire sono molte e tra loro diverse, tuttavia siamo riusciti ad osservarne alcune che caratterizzano un territorio evolutosi nel corso del tempo assieme ai personaggi storici che lo hanno vissuto. In particolare, nel periodo storico in cui vi risiedette il marchese Cahen, il paese di Torre Alfina, sovrastato dal suo imponente castello che domina il paesaggio circostante, acquisì molto valore essendo il castello stesso ristrutturato in stile neogotico. Se da un lato il paese ebbe modo di svilupparsi, dall’altro la natura che ancora oggi lo avvolge venne salvaguardata e gestita affinché rimanesse intatta nella sua bellezza, simbolo appunto di una coevoluzione uomo-natura.
svolgere i loro cicli biologici. Gli alberi del bosco, soprattutto cerri, aceri e frassini, sono indici di un’antica e tradizionale gestione di questi luoghi da parte dell’uomo: segni di una remota presenza a volte palpabile, osservando la luce che passa tra la fitta vegetazione e illumina il bosco con sfumature a tratti più chiari, a tratti più bui.
Le testimonianze di queste vicende storiche sono oggi visibili camminando all’interno della Riserva di Monte Rufeno. La presenza di “tròsce” o pozze, che derivano da eventi di frana e creano stagni temporanei, permettono alla tartaruga palustre e alla violetta d’acqua di
n altro valore aggiunto in questo luogo prezioso è dato dalla presenza dell’Osservatorio Astronomico, posto nel punto più elevato all’interno della Riserva, da cui è possibile osservare il sole e capire il meccanismo di evoluzione di stelle e pianeti che
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Il contatto uomo-natura è anche ben espresso e testimoniato da ciò che si osserva passeggiando all’interno dell’Orto Botanico e del Museo del Fiore: strutture immerse e ben integrate nella foresta. Tra le molteplici piante presenti, il Casale Giardino ospita rare specie di rose antiche ormai dimenticate, mentre nel Museo è possibile ricostruire la storia del territorio e capirne l’antropizzazione, soprattutto grazie alla ricostruzione di strumenti di lavoro utilizzati un tempo nelle carbonaie.
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di notte illuminano la foresta. Ma ciò che forse maggiormente caratterizza questi ambienti è il bosco del Sasseto, oggi Monumento Naturale e un tempo area ricreativa del marchese Cahen. Camminando lungo i suoi sentieri si percepisce un’atmosfera magica e si rimane spesso fermi a contemplare le curiose forme che assumono i fusti degli alberi, quasi come richiamassero figure fantastiche o celate nella memoria di ognuno. Nel bosco si cammina in silenzio, come se l’aria che vi permea e la luce che attraversa le chiome potessero essere spezzate o rovinate dalle voci. Tutto il territorio è frequentato da animali di particolare interesse faunistico e venatorio. Una sera abbiamo avuto la fortuna di assistere ad una lezione sulle procedure di dissezione di un cinghiale tenute da un professore dell’Università della Tuscia. Lezione tanto pratica quanto funzionale ai fini dell’apprendimento di una cultura anch’essa facente parte del binomio uomo-natura. Ulteriore testimonianza delle bellezze nascoste nel territorio di Torre Alfina è stata la passeggiata nel bosco limitrofo al Sasseto, che scende a una spiaggia di sassi bianchi e sabbia tra cui scorre il fiume Paglia; qui DECARTA LUGLIO 2013
Associazione Universitaria Studenti Forestali ci si è rinfrescati e deliziati con un bagno rigenerante. Arriva poi, con tristezza da parte di tutti, il momento di andare via. Ogni giorno è stato accompagnato dalla premura del personale del luogo (le esperte naturaliste, i guardia-parco, il personale del Museo e dell’Osservatorio) che in modo molto disponibile e gentile ci hanno mostrato e descritto, senza tralasciare nulla, gli aspetti botanici, storici e ambientali di questo luogo davvero unico e suggestivo. La presenza dell’uomo nell’ambiente è un fattore imprescindibile che non si può ignorare; cosa ben più affascinante è cogliere i segni di questo intimo rapporto, segni che restano impressi nel territorio attraverso il quale solo camminandovi e vivendo nel suo piccolo, nel dettaglio, si coglie e se ne comprende l’enorme bellezza che cela. Si ringrazia per la gentilezza e la disponibilità: il direttore della Riserva Naturale di Monte Rufeno, dott. Massimo Bedini, per la disponibilità delle infrastrutture; il personale della Riserva: l’operatore Maurizio, il guardia-parco e le due naturaliste Moica e Antonella; il professore Fiore Serrani dell’Università della Tuscia. DECARTA LUGLIO 2013
L’Associazione Universitaria Studenti Forestali (AUSF) è un’associazione volontaria, apartitica, a carattere tecnico culturale che non persegue scopi di lucro, avente sede nell’ex-facoltà di Agraria di Viterbo. Fu fondata il 19 luglio 1990 da un gruppo di studenti di agraria, con lo scopo di integrare allo studio universitario esperienze pratiche in campo, di promuovere la collaborazione tra studenti e professori, attraverso attività extra curriculari e, infine, di aprire una finestra sul mondo del lavoro, tramite incontri con professionisti. L’AUSF, in particolare, si propone di promuovere l’aggregazione ed il confronto tra gli studenti, svolge, all’interno dell’Università, azioni volte all’informazione e all’aggiornamento degli studenti, riguardo gli sviluppi del mondo universitario, sviluppa attività di interesse forestale che investano sia il mondo accademico che quello professionale, amplia le possibilità per gli studenti forestali di acquisire conoscenze ed esperienze promuovendo la realizzazione e la partecipazione a corsi, seminari, convegni ed eventi simili, rapporti di collaborazione con docenti universitari ed operatori del settore, rapporti di collaborazione con enti, organismi ed organizzazioni nazionali ed estere. L’AUSF di Viterbo, svolge attività, in linea con i principi guida, che abbiano sia carattere tecnico-didattico, atte ad approfondire tematiche affrontate a lezione, sia carattere sociale, atte a promuovere la collaborazione tra studenti, anche di corsi di laurea e di atenei diversi. In particolare l’AUSF organizza escursioni sia sul territorio viterbese, invitando professori, sia sul territorio nazionale ed internazionale. Oltre queste iniziative a carattere strettamente tecnico-pratico, si affiancano attività prettamente accademiche, come l’organizzazione e partecipazione a seminari e convegni, all’interno dei quali vengono affrontate tematiche, di carattere scientifico-naturalistico con il supporto di esperti in materia, ad esempio professori, dell’ateneo di Viterbo o altri atenei, di professionisti ecc., permettendo agli studenti che vi partecipano, non solo i soci AUSF, di approfondire quel particolare tema e di confrontarsi con il mondo accademico. L’AUSF di Viterbo è associata a due grandi associazioni di studenti forestali: AUSF Italia e International Forestry Students Association (IFSA). L’AUSF Italia è un’associazione universitaria a carattere tecnico culturale senza scopo di lucro, che riunisce tutte le sedi AUSF d’Italia e permette il confronto tra gli studenti di vari parti del Paese, dando loro la possibilità di conoscere nuove realtà forestali e non. Ogni anno da un’AUSF diversa, viene organizzata, l’Assemblea nazionale: 5 giorni in cui i soci di ogni sede si riuniscono per discutere delle varie situazioni presenti sul proprio territorio e scambiarsi opinioni e idee; inoltre è un’ottima occasione per conoscere nuove persone. L’IFSA è un’associazione analoga all’Ausf Italia, ma opera a scala più ampia riunisce infatti gli studenti forestali di tutto il mondo, consente ad ogni socio di poter viaggiare in Paesi stranieri e di conoscere e far conoscere la situazione forestale nel proprio Paese. 9
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Irrequietezza notturna Continua il viaggio nel dimenticatoio viterbese. Manuel Gabrielli | manuel.gabrielli@decarta.it - Foto di Massimo Giacci
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a mia città posso dire di conoscerla discretamente bene, forse non conoscerò il nome di tutte le vie e di tutte le piazze, ma credo non ci sia vicolo del centro storico dove non sia passato almeno una volta. Quindi, spesso preso dallo sconforto, sogno di intraprendere un viaggio senza fine in giro per il mondo, con quell’irrequietezza di chi pensa di poter ritrovare se stesso altrove. Di solito subito dopo tali pensieri prendo ed esco di casa, a piedi e di notte, camminando piano, quando tutto è più silenzioso. Varcato il cancello mi ritrovo però a camminare per le solite strade che già conosco, che so già dove portano, e mi ritornano in mente palazzi, negozi, viali, baracche e quant’altro attende di essere visto altrove. Poi, in preda al mio solito bipolarismo, mi rimprovero, perché sono ben cosciente del fatto che se per tutti questi anni avessi camminato per le vie di qualche set a Cinecittà anziché a Viterbo, probabilmente non mi avrebbe fatto troppa differenza; osservando da sempre solo la facciata degli edifici non posso dire di conoscerli e, per quel che mi riguarda, dietro ci potrebbe essere un telaio di legno. A quel punto tra voglia di partire e rimproveri di coscienza comincia un “loop” riguardo l’esistenzialismo che posso anche risparmiarvi. 10
È però strettamente legato a questo articolo il fatto che io sia un camminatore notturno del centro storico, conscio della sua ignoranza e di conseguenza curioso. Mettendo un passo di fronte all’altro entro da Porta della Verità, passo in mezzo, tra le “scuole rosse” e il liceo Ruffini, scendo da via dell’Orologio Vecchio e da piazza delle Erbe mi incammino verso il quartiere di San Pellegrino. Non volendo ripercorrere la stessa via due volte spesso decido di uscire da porta San Pietro, quindi percorro la via omonima per poi essere puntualmente colto dalla già citata curiosità e quindi fermarmi di fronte ad una porta aperta, dentro l’oscurità più nera. A volte entro dentro, respiro un po’ di aria ammuffita e poi continuo la mia passeggiata.
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l palazzo al quale dà l’accesso questa porta mi ha sempre incuriosito, le sue pareti sono molto incurvate, le finestre sono spellate e l’intonaco è cadente, nonostante ciò conserva un’aria imponente e spesso mi sono chiesto a cosa fosse adibito nel passato. Solo l’anno scorso scoprii, credo insieme a tante altre persone, che dietro questo palazzo si cela un cortile molto spazioso e un’area verde circostante altrettanto grande che si estende dietro le mura fino alla chiesa diroccata di Santa Maria delle Fortezze. DECARTA LUGLIO 2013
Il festival di Caffeina è uno dei pochi eventi che ha permesso l’accesso al pubblico e quindi questo cortile è a molti noto con il nome di “Cortile dell’Abate”.
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na lastra di peperino recante scritto “Istituto di assistenza per l’infanzia della provincia di Viterbo” ci ricorda che fino al 1977 quel complesso fu usato come brefotrofio. Altro indizio ce lo può dare il nome di una piazzetta vicina, “Largo degli Esposti”; infatti così venivano chiamati i neonati abbandonati. Oggi i locali dell’edificio rimasti agibili ospitano numerose realtà associative di varia natura, il resto è lasciato al destino, nessuno passando per via San Pietro o costeggiando via delle Fortezze si immaginerebbe che dietro i muri si nasconde una delle aree verdi più grandi all’interno delle mura di Viterbo, e che
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quegli stessi muri hanno assistito a tante storie importanti da conservare, che siano esse umane legate alle umili condizioni di un trovatello, oppure di una certa rilevanza storica come le decisioni di qualche potente del passato, o ancora l’esito di qualche battaglia. Di edifici importanti da recuperare ne è piena la nostra città e la nazione, è arrivato il momento di investire nella valorizzazione del patrimonio e di recuperare un po’ di quell’identità nazionale e cittadina persa mentre si rincorrevano sogni di industrializzazione con 50 anni di ritardo.
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Se quei muri potessero parlare… Cenni storici sul palazzo di Donna Olimpia Pamphili. Sabrina Manfredi | sabrina.manfredi@decarta.it - Foto di Massimo Giacci
“ Anche le città credono d’essere opera della mente o del caso, ma né l’una né l’altro bastano a tener su le loro mura. D’una città non godi le sette o settantasette meraviglie, ma la risposta che dà a una tua domanda. ” Italo Calvino, Le città invisibili
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a risposta alla meraviglia che suscita il maestoso edificio che catturerà il vostro sguardo, passando per porta San Pietro, una delle più antiche di Viterbo, è il Palazzo di Donna Olimpia, noto anche come Palazzo dell’Abbate. E qui il Marco Polo di calviniana memoria molto ardirebbe, forse, a dipanar fantasie e sogni e ad immaginare l’immaginabile rimirando gli scorci e gli angoli singolari, gettando lo sguardo dalle eleganti bifore. E forse darebbe il nome di Olimpia alla città che scorgerebbe. Ma lasciamo l’immaginifico invisibile ed entriamo nel reale storico per viaggiare nei secoli. Il Palazzo dell’Abbate Il varco stretto e basso di Porta San Pietro, che si apre da secoli nella spessa cortina delle mura civiche, ci racconta che questa punta meridionale dell’insediamento urbano è stata più volte teatro di aspre battaglie tra le milizie viterbesi inquadrate nell’esercito di Federico I Barbarossa e le truppe pontificie. A partire dal XIII secolo l’edificio che sovrasta la porta passa in uso alla comunità monastica che aveva dato vita all’Abbazia di San Martino al Cimino e che qui si rifugiava proprio durante i frequenti assalti nemici. È una costruzione che unisce gli elementi architettonici del palazzo pubblico con quelli dell’edilizia difensiva, evidente nella linea massiccia e dalla possente 12
merlatura. Il palazzo dalla struttura a pianta irregolare è di origine tardo duecentesca. Oggi ne rimane la parte inglobata nella porta con le due bifore trilobate del tutto simili a quelle di Palazzo Farnese al colle del Duomo. Come la maggior parte dei palazzi storici, chiese e monumenti dell’epoca, subisce sviluppi successivi e trasformazioni notevoli. Nel 1500 il cardinale Francesco Piccolomini, futuro papa Pio III, divenne commendatario dell’Abbazia di San Martino entrando di conseguenza in possesso del Palazzo dell’Abbate. Poco tempo dopo diede avvio ai lavori per una
Lo stemma di Viterbo che sovrasta la porta nell’originaria versione con il leone e la picca
grande opera di ristrutturazione, aggiungendo un nuovo corpo a quello preesistente e inglobandolo alle mura della città. Oltre all’evidente ampliamento del corpo di fabbrica, è possibile notare le sovrapposizioni rinascimentali con le mezze lune disposte a croce, gli stemmi della famiglia Piccolomini e, soprattutto, l’elegante serie di finestre riquadrate con mensole e cornici, di grandezza differente, che il cardinale fece aprire prima di essere eletto Papa sul lato della via suburbana. La “Pimpaccia” Narra la leggenda che, da morta, corresse a bordo della sua nobile carrozza in fiamme, trainata da creature degli inferi. Per rimanere nella fervida immaginazione, questo accadeva per le vie di Roma. Ma Donna Olimpia Maidalchini ebbe i natali a Viterbo nel 1594. Dopo essersi ribellata e sfuggita al destino di una vita in convento e dopo una breve vedovanza riuscì ad entrare nelle grazie del “vecchio” Pamphilio Pamphili, divenendone la sposa ed entrando così di diritto nella nobiltà romana. Ma la scaltra Signora non sempre solea giacere con il nobile marito, spesso preferendo il di lui fratello, il brillante avvocato di curia, sua grazia Giovanni Battista Pamphili. Nobiluomo che per le doti di brillantezza e capacità, ma anche grazie a sapienti intrallazzi di corte e... DECARTA LUGLIO 2013
cortili, divenne nel 1644 papa con il nome di Innocenzo X. E quando si entrava nelle grazie (e non solo) del Papa si entrava di diritto nella grazie di Roma tutta. E fu così che ricchezza, fama e potere giunsero al palazzo di Donna Olimpia. O meglio nei palazzi: i principi e i pontefici del tempo non si facevano di certo scrupoli nel donar castelli e possedimenti alle proprie amanti e così Donna Olimpia, dopo essere stata fregiata del titolo di principessa di San Martino, entrò di diritto in possesso della dimora nobiliare di San Martino e quindi dell’ex Palazzo dell’Abate, da allora entrambi conosciuti come “Palazzo di Donna Olimpia”. La “papessa”, così soprannominata al tempo, morì di peste a San Martino al Cimino nel 1657 lasciando in eredità 2 milioni di scudi. Fu sepolta (pecunia non olet) sotto l’imponente navata centrale dell’abbazia cistercense.
tendo. Poi soggiunse: – Perché mi parli delle pietre? È solo dell’arco che mi importa. Polo risponde: – Senza pietre non c’è arco.” È così che attraverso l’arco di Porta San Pietro ti ritroverai oggi, cittadino o viandante, di fronte a tutte quelle pietre, cadenti e un po’ in rovina, che ancora nobilitano il Palazzo dell’Abbate.
L’Ospizio degli Esposti Nel XVIII secolo il palazzo presso porta San Pietro fu adibito a brefotrofio nell’ambito del riassetto del modello organizzativo dell’assistenza all’infanzia abbandonata nei territori dello Stato Pontificio. Il decentramento si era reso infatti necessario per alleggerire il carico sul brefotrofio romano del Santo Spirito ma anche per ridurre la distanza dai luoghi di provenienza dei neonati e quindi a limitare l’alta mortalità nel corso dei trasferimenti verso gli ospizi di accoglienza. La nuova destinazione rese necessari un ulteriore allungamento e ampliamento del fabbricato, arrivando successivamente a chiudere la circonvallazione interna per unirsi alle case di via San Pietro, secondo un progetto realizzato tra il 1891 ed il 1899 dall’architetto viterbese Enrico Calandrelli, che ripropone nel prospetto del nuovo fabbricato i caratteri architettonici dell’adiacente palazzo duecentesco con le bifore e il soprastante ricamo. Marco Polo descrive un ponte, pietra per pietra. Ma qual è la pietra che sostiene il ponte? – chiede Kublai Kan. Il ponte non è sostenuto da questa o da quella pietra, – risponde Marco, – ma dalla linea dell’arco che esse formano. Kublai Kan rimase silenzioso, riflet-
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Vi spieghiamo la vela Intervista a Rino Bellavia presidente del Club Nautico Capodimonte. Gabriele Ludovici | gabriele.ludovici@decarta.it - Foto di Manuel Gabrielli
La vela è una religione… ha i suoi riti. Se fa bello, fa bello. Se c'è vento, c'è vento. E se non c'è vento, si aspetta, si sorveglia. Hai fame, mangi. Hai sete, bevi. Ti prende sonno, dormi. È una scuola di pazienza.
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ueste parole sono di Bernard Moitessier, navigatore e scrittore francese noto per aver raccontato nei libri le sue straordinarie imprese sportive, tra cui il giro del mondo senza scalo passando per i tre capi (Buona Speranza, Capo Leeuwin e Capo Horn) promosso nel 1968 dal Sunday Times. A dire il vero l'impresa non fu portata a termine per decisione dello stesso Moitessier, che decise di non tornare al punto di partenza dopo aver letteralmente girato il mondo: preferì concludere il viaggio senza ottenere il riconoscimento della vittoria, per-
ché la sfida era con se stesso. Natalino Bellavia, per tutti noto come Rino e per essere il presidente del Club Nautico Capodimonte A.S.D., durante l’intervista mi ha dato una definizione della vela che sembra riprendere il filo del discorso di Moitessier: «La vela è uno sport altamente distensivo, completo ed adatto ai giovani perché insegna a lottare, nello specifico contro le onde ed il vento. Bisogna impegnare il fisico e la mente e quando si passa alle regate ci si accorge come sia necessario affidarsi a se stessi per ottenere il massimo».
Bellavia, la cui forte abbronzatura è un segno distintivo per ogni skipper che si rispetti, è l’ideatore ed uno dei fondatori del Club Nautico, che ha aperto i battenti nell’ottobre del 1969: «All’inizio eravamo una ventina di soci appassionati di vela, e chiedemmo al Comune il terreno per fondare il circolo. Col tempo ci siamo allargati, affiliandoci all’associazione velica italiana nei primi anni Settanta e realizzando le prime regate, inizialmente nella classe Flying Dutchman. In seguito il nostro circolo ha ospitato quindici campionati italiani e nel 1982 anche il mondiale della classe Vaurien. Attualmente continuiamo ad organizzare regate: l’anno scorso ha avuto molto successo il campionato con i piccoli cabinati chiamati Fun. Quest’anno invece, nel primo week-end di luglio, si è tenuta la regata regionale di classe Optimist, in cui gareggiano i ragazzi su imbarcazioni apposite. La partecipazione è stata elevata, con 120 imbarcati, ed abbiamo ricevuto i complimenti per l’organizzazione sia dalla giuria che dai partecipanti».
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Alcune derive pronte per la regata
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l Club Nautico è anche in grado di formare i campioni del futuro, mettendo a disposizione degli iscritti un’equipe di istruttori federali ed una «flotta» di imbarcazioni adatte agli skipper alle prime armi. Facendo un giro nel circolo, che è stato curato ed ampliato dagli stessi soci, si respira un’atmosfera tranquilla. I velisti si preparano metodicamente sulle rive del lago di Bolsena; alcuni di loro sono venuti con la famiglia al completo ed hanno organizzato il classico pic-nic domenicale. Parlando con alcuni iscritti del circolo, traspare ben presto la loro passione per questo sport: DECARTA LUGLIO 2013
tutti mi chiedono come mai non abbia ancora navigato in vita mia, e mi danno consigli su quale sarebbe l’imbarcazione adatta per iniziare. Preferisco non sottolineare il fatto che non sono esattamente un grande nuotatore, altrimenti ai loro occhi apparirei ancor più indegno di aver invaso il feudo velico, e per questo
mi limito ad osservare i loro gesti ed i loro preparativi. Purtroppo, come mi fa notare lo stesso Rino, negli ultimi tempi alcuni soci non hanno rinnovato l’iscrizione e ci sono imbarcazioni ferme e distanti dalla riva. Sicuramente la manutenzione di una barca a vela non è uno scherzo, e per qualcuno potrebbe essere diventato un impegno non più sostenibile. Tuttavia, la vita del Club Nautico prosegue senza sosta: «Sono diversi anni che organizziamo un campionato invernale per i cabinati, – afferma Bellavia, – dieci regate che si tengono tra ottobre ed aprile con una sosta tra dicembre e gennaio, e questo avverrà anche quest’anno. D’estate organizziamo la Tuscia Cup, torneo che include sia derive che cabinati, ed una regata di beneficienza i cui proventi finanziano il progetto umanitario in Kenya del dottor Giuliano Bacheca, uno dei nostri iscritti».
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ino Bellavia, come già accennato, è un veterano della barca a vela: «Ho scoperto la vela nel 1967, pensando come tutti che si trattasse semplicemente di una barca con un lenzuolo e che si muovesse grazie al vento; in realtà è più simile all'ala di un aereo, che si muove a causa della portanza aerodinamica. Questo sport mi ha entusiasmato subito e dopo aver comprato una barca iniziai ad uscire in acqua, presso il circolo velico di Orbetello. Le regate poi sono come le ciliege: una tira l’altra, e la voglia aumenta sempre di più!». Nella sua lunga carriera, anche e soprattutto nelle vesti di organizzatore, si è potuto togliere diverse soddisfazioni e non ha dubbi su quale sia stato il riconoscimento più importante: «Nel 1982 orDECARTA LUGLIO 2013
ganizzammo qui a Capodimonte il mondiale per la classe Vaurien (ovvero una deriva con tre vele, ndr): cinque giorni di regate in cui la Nazionale Italiana era composta da dieci equipaggi, di cui io facevo parte. A metà campionato si presentò il presidente mondiale della classe, arrivato direttamente da Parigi. Dopo aver assistito ad una giornata di regate, rimase con noi anche per la serata e mi confidò che probabilmente le imbarcazioni azzurre non avrebbero vinto il mondiale vista la bravura degli olandesi e degli spagnoli, ma che tuttavia per la bellezza del posto, per l’organizzazione e la simpatia degli italiani poteva affermare che si trattasse del miglior campionato mondiale mai disputato». A rendere ancora più prestigioso il nome del circolo capodimontano è anche il contributo che ha dato uno dei propri iscritti allo sport italiano. Francesco Geronzi è stato campione italiano nella classe Flying Dutchman e sesto classificato nel campionato europeo: si è cimentato anche in altre classi con ottimo successo ed attualmente contribuisce alla vita del Club istruendo le nuove leve. Insomma, nonostante una leggera crisi che rispecchia il difficile momento del Paese, il movimento della vela procede nella direzione giusta: la bellezza dello scenario del lago di Bolsena continuerà a rendere questo circolo qualcosa di speciale, oggetto di ammirazione per gli appassionati di tutto il mondo. L'importante è che vengano coinvolti i più giovani, per far sì che la “scuola di pazienza” di cui parlava Moitessier possa accogliere nuovi aspiranti skipper e, chissà, lanciare qualche nuovo talento in questo affascinante sport. 15
© Massimiliano Ferigo
nota bene
Faith, la voce dei The Shiver Dai successi in giro per l’Europa con gli Shiver al progetto Backstage per rilanciare la musica viterbese. Gabriele Ludovici | gabriele.ludovici@decarta.it
Il sogno che accomuna gran parte degli artisti è la possibilità di rendere la propria passione una vera e propria professione, che permetta di vivere della propria arte. Volendo pensare ancora più in grande, il massimo sarebbe contribuire a realizzare i progetti degli altri artisti, magari industriandosi per tessere delle reti di contatti e strutture in grado di supportare chiunque voglia provare ad emergere.
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ederica Sciamanna (26 anni), in arte Faith, rappresenta proprio questi due aspetti: non è solo cantante ed autrice dei testi degli Shiver, band viterbese che vanta numerose esibizioni in giro per l'Europa. Da qualche mese, assieme al batterista Francesco Russo (anche lui membro degli Shiver) ha deciso di mettere in gioco la propria esperienza ed il proprio entusiasmo nella Backstage Academy, destinata a divenire un grande punto di riferimento per la comunità musicale di tutta la provincia grazie alla peculiare triplice funzione di sala prove, accademia musicale ed organizzazione di eventi. Andiamo a conoscere meglio sia lei che questo ambizioso progetto. Federica, com’è nata la tua passione per la musica? 16
«Ho sempre studiato musica fin da piccola, e sono stata influenzata dai vinili che ascoltava mio padre: Pink Floyd, Genesis, Cure… poi a 14 anni ho iniziato ad ascoltare cose più alternative, focalizzandomi sulla musica londinese anni ’80 e sulla scena dark partendo dai Depeche Mode ed i Joy Division. A quel punto ho iniziato a suonare la chitarra acustica del mio bisnonno che avevo in casa, costringendo mio padre a comprarne una elettrica tutta mia! Ho iniziato a frequentare il Progetto Giovani ed a suonare con le mie amiche, buttandomi anche nel canto: in quel periodo ho avuto il primo contatto con i “primordiali” Shiver. Ho cominciato subito a scrivere, anche se all’inizio facevamo soprattutto cover. Con l’arrivo di Finch (Francesco Russo, ndr) come batterista
sono nati ufficialmente gli Shiver, anche se sono cambiati molti componenti del gruppo. Poi abbiamo realizzato la demo Shades Changing con tutti pezzi nostri.» Oltre a cantare sei anche autrice dei testi. Come nasce un testo degli Shiver? «Ognuno ha il proprio modus operandi, io parto dalla musica e poi scrivo il testo in base alle sensazioni che mi dà l’atmosfera della composizione. Dipende anche dall’ambiente: inizialmente scrivevo i testi in una saletta chiamata “New Horizon”, dentro ad un bosco. Ci ho persino vissuto per un periodo. Poi c’è anche il mare… sono posti che ti ispirano ed è da lì che si parte.» C’è stato un momento che ha rappresentato la svolta che vi ha portato ad esibirvi fuori dai confini nazionali? «Non c’è stata una vera svolta, ma solo determinati step che ci hanno permesso di suonare in un certo modo. Una molla è stata la difficoltà di suonare qui, visto che una band che propone pezzi inediti fatica a trovare spazio. Dopo aver registrato Inside, il primo disco, decidemmo DECARTA LUGLIO 2013
di fare il nostro primo tour in Gran Bretagna e non in Italia. Il problema è che nel nostro paese la mentalità è chiusa e nessuno e disposto a darti una mano, mentre all'estero le altre band ad esempio sono pronte a collaborare per farti suonare dalle loro parti.»
native. Noi ci stiamo provando grazie al grande supporto del Glitter Café, dove abbiamo invitato a suonare gruppi come i Vitriol ed i Rhyme. Diamo spazio a tutti, è stato e sarà così anche per Caffeina, di cui abbiamo la direzione artistica per il programma musicale: vogliamo affiancare le band emergenti viterbesi a quelle già affermate fuori dalla nostra provincia.»
Come vedi attualmente la scena musicale viterbese? «Secondo me c’è un bel giro di gruppi, spesso sottovalutato: nessuno pensa a quante band ci sono nei comuni viterbesi, c’è una concentrazione attiva e di qualità. Qualcosa si sta smuovendo, queste realtà vogliono fuoriuscire dalla sala prove ed andare un po’ fuori. Sono sempre di meno coloro che vogliono restare chiusi e diffidenti.»
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© Francesco Meloni | MGML Industries
Parliamo del progetto Backstage Academy, dall’idea di base alle prospettive. «Da svariati anni sia io che Finch insegnamo musica e ci siamo resi conto da tempo che a Viterbo mancava un movimento artistico, un punto di aggregazione. Così abbiamo deciso di mettere la nostra esperienza nel mondo della musica a supporto degli altri artisti: ad esempio se una band ci contatta perché ha la volontà di fare un tour all'estero o vuole promuovere l’uscita del proprio disco possiamo dargli una mano come se fossimo un’agenzia, ma non lo facciamo per una questione economica. Le sale prove sono la parte fisica della Backstage, che ci permette di automantenerci. Fortunatamente stiamo ottenendo l’attenzione di artisti di tutti i livelli, è un bel fermento: tuttavia Viterbo ha una grossa lacuna che sono gli eventi. Ci sono tante band e pochi posti dove suonare, alcuni dei quali sfruttano gli artisti senza nemmeno pagarli: manca un posto dove puoi “andare e suonare”, per far magari tornare Viterbo una tappa delle band alter-
Tornando agli Shiver, cosa c'è nel futuro della vostra band? «Un nuovo disco che abbiamo registrato tra Natale e Pasqua: e Darkest Hour. Arrangiatore e produttore è stato Vincenzo Mario Cristi dei Vanilla Sky, che è stato eccezionale nel trasformare la demo del progetto in tutto ciò che avevo
musicalmente in testa. Siamo in attesa del mixaggio e per settembre il cd sarà disponibile, poi proveremo a promuoverlo con un tour italiano. Il nostro obiettivo è comunque quello di suonare fuori dall’Europa, esiste la possibilità di esibirci negli Stati Uniti ed anche nei paesi latinoamericani, in cui abbiamo dei contatti per la distribuzione dei nostri dischi. e Darkest Hour comunque sarà qualcosa di diverso dal gothic metal cui vi abbiamo abituati!» Non ci resta dunque che attendere l’uscita di questo disco, augurando a Federica, Francesco e tutti coloro che gravitano nell’orbita della Backstage Academy di poter contribuire a rilanciare il panorama musicale viterbese.
The Shiver: Michele Colantuoni, Federica “Faith” Sciamanna, Francesco “Finch” Russo, Vincenzo Lodolini
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report
Inside. Dentro Caffeina Diario, memorie, gioie e fatiche di un volontario. Claudia Paccosi
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re 17:06, sono in ritardo, cammino a passo sostenuto per via San Lorenzo, la maglietta è pulita e stirata, la scritta “Caffeina festival” colpisce lo sguardo di ogni passante, ho caldo, il sole picchia forte oggi, ho dimenticato solo una cosa, il cartellino, lo appunto al petto, “Claudia P.”, ecco ora sono perfettamente identificabile. L’appuntamento di noi volontari è a piazza Cappella, presso l’ex pizzeria “Il Ciuffo”, ogni giorno alle 17, più o meno tutti puntuali; dentro quello stretto locale Alessandra, Ida e Gianpaolo coordinano le nostre mosse: “corri a portare una sedia trasparente a piazza delle Erbe”, “devi comprare uno specchio per lo spettacolo di stasera”, “serve gente al Paradosso da Annalisa”. Siamo più di 130 eppure lì dentro ci entriamo tutti (anche se a turni), a volte stanchi, a volte affaticati, quasi sempre felici, e dopo aver mangiato stretti l'uno all'altro - più per un problema di spazi che di affetto - un semplice piatto di pasta, corriamo attraverso il quartiere grigio di pietre medioevali e colorato di volti giovani, di libri, di storie, di sorrisi, di magliette rosse che insieme creano un evento, l’evento di Viterbo.
Siamo tutti volontari, motivi diversi ci hanno condotto a dare una mano, alcuni avevano amici che li hanno invitati a partecipare, altri faticano per ottenere crediti universitari, altri ancora vogliono riempire la loro vita di amici o dimenticare almeno per quei pochi giorni un dolore segreto; a fine serata però ognuno si è dimenticato il perché di quella scelta e sembra che l’unica vita possibile sia solo quella che si trascorre a Caffeina. Divisi in 10 squadre i volontari di Caffeina cambiano ogni giorno location (ce ne sono ben 24) e ancora più spesso 18
compito da svolgere, oggi la squadra Tolstoj sarà a piazza del Fosso, domani in accoglienza, oggi Giulia lavorerà alla cassa, domani Francesco al backstage del giardino di Porta Fiorita. Persino gli appellativi delle squadre traboccano cultura, portano il nome di famosi scrittori del passato, anche se i più giovani pronunciano ancora Kùndera e non sanno cosa abbia scritto Dumas; orgogliosi di appartenere a quel gruppo presto si informeranno su di loro e magari questa estate si troveranno ad appoggiare sotto l’ombrellone L’insostenibile leggerezza dell’essere o a trascorrere interi pomeriggi ipnotizzati dalle avventure de I tre moschettieri. La squadra che organizza, mantiene e dà vita a Caffeina è grande, varia e unita da un unico intento: far vivere la città e la vita di ognuno, anche se solo per alcuni giorni, fra la cultura, le emozioni, i sentimenti, i libri e colorare quelle desolate e splendide vie medioevali di una nuova gioia.
Ognuno dà il massimo affinché l’evento sia perfetto, in orario, affinché i posti bastino per tutti, affinché chi quella sera, dopo la sua presentazione lasci Caffeina, voglia solo tornare il prima possibile, per rivedere il viso di Elena, il sorriso di Gabriele, ascoltare le parole di Rossella e magari mangiare anche una frittura in compagnia degli organizzatori. Quello che si crea negli undici giorni di durata del festival è un’enorme famiglia, che alla fine fa fatica a smembrarsi, che si commuove alle parole di Andrea e Filippo quando ringraziano ogni singolo componente, l’ultima sera, radunando tutti in piazza.
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affeina è molto più bella se vissuta dall’interno, è ancora più viva e può dare ad ognuno qualcosa da ricordare con gioia e soddisfazione. Il lavoro è certamente per tutti faticoso, non è di certo fatto solo di cene con lo scrittore che hai sempre adorato, si devono anche trasportare sedie pesanti o presenziare, in piedi, in un luogo dove non passerà nessuno, ma la vera gioia è quando, anche da quella postazione scomoda e lontana senti l’evento iniziare, il pubblico applaudire in piedi all’arrivo di Franca Valeri, o senti da vicino, mentre regoli la fila, le parole che Philippe Daverio dedica ad ogni persona che si avvicina per un autografo a fine spettacolo. Partecipare attivamente a Caffeina è davvero un’occasione per ognuno: per un ragazzo di sedici anni che meravigliosamente insiste per poter conoscere Odifreddi, per una mamma di quaranta anni che trova nuovi figli fra i suoi colleghi di lavoro a cui volere bene e con cui mangiare una pizza a mezzanotte, per qualcuno che ha perso tutto e trova di nuovo la voglia di ricominciare. DECARTA LUGLIO 2013
Caffeina è una festa, una nuova storia che vuoi conoscere, è Massimo Gramellini che entra nel quartier generale, da uno sguardo alle carpe giapponesi e indossa una camicia uguale alla nostra, è una lunga chiacchierata a luci spente, a spettacolo concluso, su un palco a Piazza del Fosso, quando il sonno fa chiudere i tuoi occhi, ma i nuovi amici che hai incontrato li fanno ancora brillare di gioia, è Valerio Massimo Manfredi che ti chiede come stai, è un lavoro e un piacere, una professionalità tedesca con un cuore italiano, è una corsa verso Porta San Pietro per spostare una transenna e la soddisfazione di aver dato una mano a far risollevare il mondo dal suo cupo grigiore quando ti stendi sul letto a notte fonda.
del Fosso, è anche un'occasione per accrescere e migliorare chi lavora all'interno dell'organizzazione, per percepire quanto sia davvero faticoso e bello costruire un evento, diffondere sapere e soprattutto far amare quell’evento, quella cultura, renderla divertente e accessibile, non schermata da un’idea politica o da eccessivo intellettualismo. Diventare parte del festival, indossare quella maglietta, scattare fotografie sotto
scendo, anche tramite la pagina Facebook della Fondazione Caffeina Cultura si possono proporre suggerimenti per gli ospiti del prossimo anno. Per cambiare questa vita, questa città, questa Italia, non possiamo stare ancora a lungo seduti ad aspettare, a lamentarci di ciò fanno e non fanno gli altri, a criticare, valutare senza conoscere. Dobbiamo alzarci dalla nostra comoda poltrona di pelle, spegnere lo
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l festival è gestito da moltissime persone, la segreteria, i “grandi capi”, gli autisti, i moderatori, i fotografi, i reschermo del portatile e uscire, fare, aiutare, in qualsiasi forma, cercare di creare ciò che vogliamo per noi e non aspettare che ci sia servito quando ormai saremo stanchi.
A sponsabili di location, coloro che gestiscono la logistica e chi corre da una parte all’altra in bici portando pezzi di palco, microfoni e luci. Caffeina è quindi una stupenda occasione di crescita non solo per chi ascolta la serata dei cinque finalisti al Premio Strega nello stupendo parco del Paradosso o per chi si siede per un po' a sentire Fabio Stassi fra i palazzi di piazza
un palco illuminato dalle parole di Andrea De Carlo è possibile, aiutare è possibile. Tramite il sito www.caffeinacultura.it/ fai-volontario/ e la mail volontari@caffeinacultura.it chiunque può inviare il suo curriculum e vivere ciò che ho vissuto io insieme a Antonio, Francesca, Barbara e tanti altri. L’edizione di Caffeina 2014 sta già na-
prire mente e occhi sulla realtà, raccogliere quel foglio accartocciato che sporca il prato, rivolgere un sorriso a chi lo chiede con gli occhi lucidi e stanchi di essere soli, uscire per le strade, fra la gente, dipingere un quadro e posarlo in una via, nascondersi dietro una colonna e vedere che effetto fa sui passanti, scrivere una poesia e leggerla una sera, in una piazza affollata di giovani la cui unica compagnia è un cocktail alcolico. È giunto il momento di capire che il nostro paese, ma soprattutto noi, abbiamo bisogno di svegliarci, di alzarci e bere quella calda tazza di “Caffeina”.
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Curve pericolose La bellezza fuori dagli schemi. Martina Perelli | martina.perelli@decarta.it
Betty Page (1923 - 2008) archetipo della pin-up e icona fetish per innumerevoli artisti, fotografi e registi
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l punto è che io non mi sentirei grassa. Non mi ci sentirei perché non lo sono, eppure devo usare il condizionale. Io non mi ci sentirei ma a giorni alterni mi ci sento. È un po’ come per l’abbronzatura: in questa particolare fase storica in cui per essere piacente devi avere la pelle del colore del cuoio, io sono bianca. Molto bianca, bianchiccia tendente al diafano. Lo sono d’inverno come d’estate e girerei fiera (torna il condizionale) se non fossero secondi e terzi a fare della mia “bianchitudine” un problema. Pronti a dirmi con sguardo incredulo e impertinenza nella parola che “dovrei proprio prendere un po’ di sole”. Mentre io sono bianca, bianchissima e, a tratti, mi sento pingue. Se sei una donna e ti senti fuori forma ci sono dei riti particolari che ti troverai ad osservare: il conto delle calorie, primo malatissimo meccanismo in cui saprai dire che quel particolare biscotto contiene esattamente il doppio 20
delle calorie dell’altro, che mangiare finocchi ti aiuterà moltissimo perché le leggende dicono che, solo nell’attività del mangiarlo, disperderai tutte le calorie che andresti a depositare in quel corpo già pingue, già grasso, già pieno di depositi. Poi c’è la palestra per le meno pigre e vagonate di buoni propositi, sempre rimandata ad un lunedì che, una volta arrivato, diventerà guarda caso quello successivo perché, diciamocelo, ma chi è che ha voglia di darsi alla dieta del finocchio o chiudersi in palestra? Personalmente mangio schifezze e sono pigra. Non amo correre, cammino. Non so fare le flessioni e gli addominali mi atterriscono. Il finocchio è buono, ma gratinato con su delle belle cucchiaiate di besciamella. Sarà per questi ed altri motivi che quei momenti ci sono, quelli dello sconforto in cui fai del peso un problema più grande di quello che è. O semplicemente fai del peso un problema e già stai sba-
gliando, perché non dovrebbe esserlo, almeno non per questioni frivole. Se stai a guardare non rischi l’obesità e nemmeno il sovrappeso. Potresti essere più magra sì, ma se è per questo potresti anche avere un quoziente intellettivo più alto, essere più abbiente e vivere in una casa più grande, avere cose più interessanti da dire e magari anche un carattere migliore. Eppure, chissà perché, ad oggi il peso è il problema madre. Il più grande, forse l’unico insormontabile e maledettamente legato a tutti gli altri. Come a dire che magari quella casa più grande non posso averla, come non posso avere un Q.I. da genio e grandi doti dialettiche, allora ci mangio su, non levatemi anche quello. E lo sfogo, la fonte di piacere si fa problema e ogni tanto mi sento pingue. Ma la disperazione è momentanea, riesco a riflettere, torno a ragionare e so che io grassa non lo sono. Probabilmente non lo siete neanche voi e dovreste saperlo.
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orse è per questo che voglio raccontarvi una storia: il soggetto è una tizia bella, ma bella. Una di quelle che guardi e puoi dire solo che è bella, con gli occhi grandi e la pelle candida. Bella sopra ogni etto in più e ogni canone. La tizia in questione si chiamava Bettie Mae Page, nota come Betty Page. Qualcuno ha scritto un libro su di lei, io sono andata ad ascoltarne la presentazione ed ho capito che nella donna normodotata di bellezza ce n’è. Normodotata su una donna sembra strano, ma in fondo non è così anche per noi? Gli uomini stanno lì a misurarsi altro, e noi alle prese coi fianchi e le cosce a chiederci se c’è troppa roba o troppo poca. Ecco, se Betty avesse di questi timori non lo so ma Lorenza Fruci, autrice del libro Betty Page. La vita segreta della reDECARTA LUGLIO 2013
gina delle pin-up, qualcosa me l’ha fatta scoprire. Negli anni Cinquanta delle bionde eteree alla Marilyn o della classiche super maggiorate tutte coscia-tutto petto fa la sua comparsa una giovane Betty, che aveva un fianco ben presente e un seno non proprio prominente. E la taglia della classica ragazza normale con un peso normale con forme normali. Incantevole nei suoi 165 cm d’altezza, donna nei 58 chilogrammi di peso. Non voglio dare cifre, ma in fondo è il modo migliore per rispondere a quella che sembra essere ormai la “sagra del numero” dove se non raggiungi i 170 cm (per essere buoni) la modella non la puoi fare e sì, sei magra, ma mai abbastanza. Sopra i 50 chili puoi anche andare al macello. Ecco, in barba ai nostri psicotici anni Zero, Betty faceva la modella, posava in abiti succinti e aveva quel sorriso per cui parlare è superfluo. Lorenza Fruci ci ricorda una naturale predisposizione di Betty per l’obiettivo della macchina fotografica, una sorta di empatia difficile da spiegare che fa del soggetto immortalato quanto di più ammaliante occhio umano abbia mai visto. Ammaliante e naturale al contempo, in un gioco esclusivo tra la macchina e una modella senza tante pretese. Una che del proprio corpo di donna faceva mostra e vessillo senza immaginare che, più di cinquant’anni dopo, qualcuno sarebbe stato ancora qui a parlarne. Sperando che di Betty in giro ce ne siano, magari nascoste dietro la miracolosa dieta del minestrone. Magari lì a pensare che non sono poi così graziose.
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anno chiesto all’autrice cosa l’abbia spinta a parlare proprio della figura di Betty Page e lei ha dato una risposta che mi ha colpita, ricordando tra i tanti un motivo: il fatto che spesso si ritrovi ad incontrare in giro tante Betty, ragazze che la emulano e la imitano nell’abbigliamento, nella frangetta sbarazzina e nelle movenze, a ricordare quel fascino retrò fatto di una sessualità mai volgare. Ed io mi sono chiesta: ma queste ragazze lo sanno che per essere Betty non hanno bisogno della dieta dimagrante? Che Betty era bella perché il corpo splendido era accompagnato da un sorriso luminoso? E che, probabilDECARTA LUGLIO 2013
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Non ho cercato di essere scandalosa o di essere una pioniera. Non ho cercato di cambiare la società o di anticipare i tempi. Non ho pensato di essere un’emancipata e non credo di aver fatto qualcosa d’importante. Sono solo stata me stessa. Non conosco altro modo di essere o di vivere.
”
mente, le diete erano il suo ultimo pensiero? Che di Betty Page ce ne sia stata solo una e che non sia facile da ritrovare è chiaro. Sapevo chi fosse ma non le avevo mai prestato grande attenzione, dopo averne sentito parlare ho trovato un che di tremendamente intrigante nella sua figura. Allora ho cercato vecchi video, guardato le sue foto e le sue pose più sbarazzine e provocanti. Ho ingrandito immagini fino a sgranarle per carpirne meglio i sorrisi e gli sguardi ed ho trovato così strano il fatto che l’occhio non mi cadesse quasi mai sulle gambe, seppur belle. Raramente sui fianchi e le fattezze, seppur armoniosi. Ho osservato la frangetta cortissima che ancora imi-
tiamo, mentre come lei ci autoproclamiamo libere e intraprendenti, figlie e nipoti della generazione che ha rivoluzionato i costumi sessuali di un’epoca. Siamo donne ed abbiamo voti migliori dei maschietti, lo dicono i risultati e le statistiche. Spesso siamo dotate di grande praticità e rendiamo al meglio anche sotto stress. Eppure aggrottiamo la fronte pensierose davanti a un piatto di carbonara, a chiederci se si può o non si può. Se poi ingrasso, se poi non vado bene, se poi gli altri lo vedono. Eppure sempre titubanti e insicure di fronte alla modella di turno, a dimenticarci che c’era una tizia bella, ma bella, con un volto strepitoso, non tanto alta, non troppo magra che si chiamava Betty Page. 21
incontri
In itinere Intervista a Fabio Stassi, scrittore viaggiante, viterbese d’adozione. Martina Giannini | martina.giannini@decarta.it
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ammino senza una meta precisa, mi sento come quando si è appena incontrato un amico che non si vede da tanto. Uno di quelli che non hai più sentito perché il trantran di tutti i giorni ti ha risucchiato, perché si scelgono strade diverse. Uno di quelli a cui ogni tanto si pensa e scappa un sorriso rivolto ai tempi passati, ai momenti trascorsi insieme, alle risate. I ricordi sono una bizzarra, ma fondamentale, componente della vita. Quando poi l’incontro è stato del tutto casuale è anche meglio, a molti piace attribuire il merito al destino, altri pensano a quanto il mondo sia piccolo. Stasera mi sento così, dopo aver partecipato alla presentazione de L’ultimo ballo di Charlot di Fabio Stassi. Il mio incontro con il romanzo è, in qualche modo, casuale dato che fino a poco tempo fa non ne conoscevo l’esistenza. Ho incontrato quest’opera, per caso, tra chiacchiere e consigli di letture fatte tra amici, un pomeriggio di fine maggio. Mi ero ripromessa di comprarla e leggerla… ma, come tutti i buoni propositi fatti durante la sessione d’esame, la mia promessa è sfumata. Fino a quando non l’ho ritrovata, di nuovo casualmente, tra le presentazioni del festival Caffeina. Io sono una di quelle persone che un po’ al destino ci crede, più che altro credo ad un destino creato da noi giorno dopo giorno, magari sapendo cogliere i giusti “segnali”. Così ho fatto, ed armata di quaderno e penna mi sono ritrovata in terza fila a piazza del Fosso.
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a presentazione è stata animata da Fabio Stassi con aneddoti sulla sua vita, i suoi ricordi, i ricordi dei suoi cari. I suoi racconti, proprio come quelli di Charlot, sono divertenti e allo stesso tempo hanno un retrogusto un po’ ma22
linconico. La malinconia è un’altra di quelle componenti della vita di cui non si vorrebbe essere affetti, ma una volta provata non se ne può fare a meno. Scriveva Victor Hugo “La malinconia è la felicità di essere triste”. Tutte queste sensazioni e riflessioni mi hanno spinta ad intervistare Fabio Stassi, ma sopratutto a scoprire, in piccola parte, la realtà di un autore pendolare, di un uomo che appartiene a più terre. Fabio Stassi e la scrittura. Come ha capito che questa era la sua vocazione? «Non so, un po’ l’ho sempre saputo. Amavo leggere, e poi ho avuto uno zio che è un poeta. Ho letto da qualche parte che la letteratura si trasmette da zio a nipote. Ecco, forse è avvenuto così anche per me. Lui portava in casa libri, suggestioni. Io scoprii da parte mia Salgari.
Scrivere era per me il modo più congeniale per esprimermi.» È noto che lei scrive sul treno. Quanto prende dalle persone e dai panorami che la circondano? «Il treno, il vagone ferroviario, è un po’ il mio studio, la mia scrivania. Anche se non prendevo niente, rimaneva come il calore dell’umanità pendolare che lo abita. La solidarietà che si instaura fra chi fa la stessa vita, si alza presto, si incontra alle sei su un binario, si riconosce. In treno sono nate delle amicizie molto forti e molto profonde. Poi, in quest’ultimo libro, ho anche ritratto tre personaggi che somigliano molto a tre miei amici con cui viaggio da vent’anni, e li ho fatti incontrare con Charlie Chaplin, li ho fatti andare da una costa all’altra dell’America del Nord, cercando di riprodurre quel clima che a volte si crea sul nostro treno.» DECARTA LUGLIO 2013
Quanto c’è di Viterbo e della sua terra d’origine nei romanzi? «Sopratutto c’è la Sicilia. Diceva Vittorini, “di qualunque cosa io scriva, che sia Persia o India, per me sarà sempre Sicilia.” Solo che la mia Sicilia è una terra che non ho abitato se non per poco, e d’estate. Ma è alla Sicilia che appartengo, sono cresciuto nella sua lingua, nella sua cultura. Sono impastato di un’idea siciliana del mondo. Viterbo è arrivata nella mia vita come una piccola migrazione imprevista. Ma mi ha offerto un altro scenario, molto diverso, un’altra luce. Apparirà in qualche racconto che non ho ancora pubblicato, anche se mistificata.» Spesso nei suoi romanzi veniamo catapultati in realtà diverse dalla nostra, l’ambientazione è all’estero. Ha mai visitato quei luoghi o sono descrizioni basate sul frutto della sua fantasia? Cosa l’ha affascinata al punto di sceglierli? «I luoghi letterari disegnano sempre, per me, una geografia immaginaria. Ho scritto su molti posti prima di vederli, in
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alcuni, la maggior parte, non ci sono mai stato. Ma per me sono voci, l’America è un racconto, un insieme di storie che ho ascoltato da bambino e che volevo restituire.»
Fabio Stassi nato a Roma nel 1962 lavora presso la Biblioteca di Studi Orientali della Sapienza. Residente a Viterbo e quindi pendolare, da anni ha investito il tempo del viaggio quotidiano nella scrittura dei suoi romanzi. L’esordio è avvenuto nel 2006, con Fumisteria, opera con cui ha vinto il “Premio Vittorini prima opera 2007”, l’anno successivo viene pubblicato il suo secondo romanzo intitolato È finito il nostro carnevale, ristampato poi nel 2012. Nel 2008 esce La rivincita di Capablanca, tradotto, come il precedente, in lingua tedesca e successivamente nel 2010 Holden, Lolita, Zivago e gli altri. Piccola enciclopedia dei personaggi letterari (1946-1999). È del 2011 la pubblicazione di due racconti, uno in tedesco, nella raccolta Der Mann meines lebens e l’altro in italiano, nella collana “S/confini”. Infine, nel 2012 è la volta di L’ultimo ballo di Charlot, che lo ha portato ad essere attualmente tra i 5 finalisti del “Premio Campiello 2013”.
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