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M E N S I L E D I D I V U L G A Z I O N E C U LT U R A L E

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Speciale

Macchina di Santa Rosa

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SETTEMBRE


UNINDUSTRIA VITERBO Via Fontanella del Suffragio, 14 www.un-industria.it 0761228101


editoriale

DECARTA Scripta volant Mensile di divulgazione culturale Numero 3/2013 – Settembre Distribuzione gratuita Direttore responsabile Maria Ida Augeri Direttore editoriale Manuel Gabrielli Redazione Martina Giannini, Gabriele Ludovici, Claudia Paccosi, Martina Perelli Redazione web e photo editor Sabrina Manfredi Design Massimo Giacci Editore Lavalliere Società Cooperativa Via della Palazzina, 81/a 01100 VITERBO Partita Iva 02115210565 info@lavalliere.it Iscrizione al ROC Numero 23546 del 24/05/2013 Stampa Union Printing SpA Pubblicità 348 5629248 - 340 7795232 Foto di copertina Sergio Galeotti Stampa su carta uso mano riciclata Igloo offset Chiuso in tipografia il 27/08/2013 www.decarta.it

Il grande cestino del ’68

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o appena 22 anni, mio padre ha 43 anni più di me e qualche volta ci è capitato di fare calcoli sul futuro: “caspita, quando avrai 37 anni io ne avrò 80”. Ci sono opinioni discordanti sull’avere un figlio in un’età non più giovanissima, per qualcuno legittimo, per altri impensabile. Io, da figlio non posso lamentarmi, oggi percepisco questa differenza di età come una fortuna, la fortuna di essere cresciuto in questa epoca potendo integrare ciò che imparo ogni giorno con i valori e le consapevolezze appartenenti ad una generazione sotto molti aspetti lontana dalla mia. Mio padre, nato nel ’48, è un uomo cresciuto nelle condizioni umili di un paese uscito ferito da un disastro bellico, apprezza per questo il mangiare bene ma è saggiamente parsimonioso nelle spese di tutti i giorni. Come molti altri suoi coetanei ha vissuto una gioventù tranquilla anche se testimone di quel grosso cambiamento che sono stati gli anni ’60. Prima però c’era il dovere (e il piacere) della famiglia, l’obbligo della cravatta in ufficio e per quanto sia stata proprio la generazione di mio padre a rivoluzionare e in alcuni casi stralciare molte delle convenzioni dell’epoca, questa stessa generazione è rimasta legata chi più chi meno al dopoguerra. Non sono loro i figli del ’68, questi ultimi sono infatti i genitori della maggior parte dei miei coetanei, persone che hanno vissuto da giovani e giovanissimi il cambiamento, il boom economico, l’informatizzazione e in generale quella già citata rottura e rivoluzione delle convenzioni. Quindi oggi del ’68 rimangono le tante libertà trasmesse dai nostri genitori, qualcosa che oggi è diventato così tanto una consuetudine da aver perso valore. E più passano le generazioni più ci si allontana dal periodo che ha reso il mondo occidentale come è oggi. La rivoluzione maggiore è stata la velocità, uno dei pilastri del nostro stile di vita, velocità nei trasporti, nella comunicazione, nella produzione, nel pensare; abituati in questo modo si aspetta con altrettanta velocità un cambiamento che in un altro periodo storico sarebbe dovuto arrivare nel giro di centinaia di anni e che invece adesso è richiesto nell’immediato. Io questo cambiamento lo attendo e lo cerco, vorrei farne parte senza farmi trovare impreparato, ma nessuno può dire con esattezza di cosa si tratterà. Guardo mio padre, ciò che mi ha insegnato e penso che sia proprio necessario, soprattutto per la mia generazione, dare di nuovo uno sguardo al grande cestino del ’68, capire cosa è stato buttato, il motivo, ed eventualmente ritirare fuori una parte del suo contenuto. Manuel Gabrielli Presidente Lavalliere Società Cooperativa

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università 5

erasmus & co.

Repetita iuvant Martina Giannini

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campus

L’esperienza all’estero dell’Ausf Viterbo F. Marini, D. Saccoccia, F. Salatino

ippocampo speciale Santa Rosa 10

storia

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Quella sera del tre

Tutti d’un sentimento

Martina Perelli

Sabrina Manfredi

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memorie

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incontri

Trasporto e vicissitudini

Quel momento magico

Manuel Gabrielli

Claudia Paccosi

acido lattico

carta stampata

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incontri

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caos letterario

L’unione fa la forza

Storie di una libreria disordinata

Gabriele Ludovici

Claudia Paccosi

nota bene 26

Sergio Galeotti fotografo

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inside

Al di là del Paradosso

Prima puntata (as it began)

Gabriele Ludovici

Lorenzo Rutili

eventi 30

www.sergiogaleotti.com

incontri

report

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incontri

Come in un mondo ideale

Incontro con Tano D’Amico

Manuel Gabrielli

Manuel Gabrielli

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università

erasmus & co.

Repetita iuvant Affrontare le proprie paure premia. Martina Giannini | martina.giannini@decarta.it

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na ripetizione è una figura retorica che serve a rafforzare un concetto, un’idea. Se la ripetizione è detta con foga, un po’ di quell’emozione che fa tremare la voce e alla fine si ha un sorriso stampato in faccia, di quei sorrisi contagiosi, allora vuol dire che quello che ci viene fatto non è uno di quei discorsi degni di finire nel dimenticatoio. Quando ho chiesto a Giorgio Graziotti cosa vorrebbe dire a chi decide di partire in Erasmus, la sua risposta è stata chiara e semplice “Provate, provate, provate”. Una ripetizione, appunto. Una ripetizione che ha reso perfettamente l’idea dell’importanza che questa esperienza ha avuto per lui, ma forse dovrei essere più chiara. Giorgio Graziotti è un ragazzo disabile, iscritto all’Università degli Studi della Tuscia, che ha vissuto, partendo per l’Erasmus, sei mesi a Siviglia. Per il suo coraggio e la sua risolutezza, lo scorso 10 maggio, ha ricevuto un premio speciale in occasione del Festival d’Europa, tenutosi a Firenze. Quella tra me e Giorgio è stata una chiacchierata tra studenti che si incontrano tutti i giorni, o quasi, per i corridoi o davanti alle macchinette in facoltà. È stato bello scoprire di avere davanti una persona che non si vergogna di condividere le proprie emozioni. Proprio parlando del premio mi ha spiegato di essere stato, in un primo momento, scettico. Scettico perché non gli sembrava di aver fatto nulla di che, alla fine dei conti stava solo vivendo la sua vita, solo dopo si è reso conto di essere un Esempio, lo è per tutti quei ragazzi disabili che credono di non essere adatti, che non riescono a superare lo scoglio. La prima forte emozione provata è stata nel momento dell’accettazione della sua domanda Erasmus, Giorgio l’ha definita una “vera e propria doccia fredda”, DECARTA SETTEMBRE 2013

ha ammesso di aver avuto paura, di essersi chiesto, più volte, cosa avrebbe potuto fare. Le sue aspettative erano piuttosto buie, credeva che avrebbe avuto numerose difficoltà, negli spostamenti, con la lingua, nel comunicare con gli altri, fortunatamente una volta a Siviglia è stato smentito.

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iunto a destinazione Giorgio si è totalmente ricreduto, grazie alla gentilezza della sua professoressa di Arte e Società che, alla prima lezione, gli chiese se riteneva l’aula fosse idonea alla sue difficoltà, alla completa disponibilità di alcuni suoi coetanei che si offrirono spontaneamente di aiutarlo nello studio, alla mancanza di barriere architettoniche in “una città a misura di persona disabile” e grazie al suo accompagnatore; mentre a Viterbo gli capita di incorrere in alcune difficoltà. Le esigenze dei ragazzi disabili devono essere segnalate dal delegato del Rettore per gli stu-

denti con disabilità, il professor Saverio Senni. Giorgio mi ha spiegato che è proprio al professor Senni, al professor Grego e alla dottoressa Felicetta Ripa che deve buona parte della sua gratitudine, perché queste persone si sono mobilitate affinché non incorresse in alcun intralcio; i suoi ringraziamenti vanno anche al suo accompagnatore e a sua madre. Ripartire da zero non è stato facile, ma sua mamma lo ha spinto a vivere questa forte esperienza e si è impegnata nel cercare qualcuno che potesse aiutarlo e sostenerlo. La sua forza Giorgio l’ha trovata, anche, in questo accompagnatore, un ragazzo di cui all’inizio non sapeva nulla, che aveva visto una sola volta su Skype e poi il giorno della partenza. Giorgio ha superato lo scoglio, ha vissuto un’avventura, è più coraggioso ora, e prima di salutarci mi rivela che ha intenzione di fare domanda anche per l’Erasmus Placement. 5


università

campus

L’esperienza all’estero dell’Ausf Viterbo Il lavoro è condivisione e la condivisione diviene conoscenza. Francesco Marini | Diana Saccoccia | Francesca Salatino

tedeschi, successivamente la sua parte orientale è stata annessa al nuovo stato polacco ed i suoi abitanti originari sono quasi tutti emigrati in Germania. Dei 23 parchi nazionali presenti in Polonia, quello relativo alla regione Pomerania fa parte del distretto di Drawno, presso il fiume Drawa; parco fondato nel 1990 e grande circa 115 km². Tutti gli studi sono stati effettuati all’interno della foresta di Drawno.

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uest’estate, nell’agosto 2013, tre giovani studenti dell’Associazione Universitaria Studenti Forestali (Ausf) hanno partecipato ad un progetto cofinanziato dall’Unione europea denominato Sviluppo del sistema di supporto decisionale transfrontaliero da remoto e con il metodo degli alberi modello per la determinazione della biomassa forestale nella Regione Pomerania, a cui hanno aderito diversi paesi quali Germania, Polonia e Turchia. Argomento del progetto riguardava la determinazione della biomassa legnosa di particelle forestali di pino silvestre attraverso nuove tecnologie satellitari che sfruttano informazioni basate sulla localizzazione di GPS (Global Positioning System) sub-metrici, ovvero ad alta precisione. Territorio ospite del progetto è stata la Polonia, nella re6

gione della Pomerania appunto, e in particolare vicino la città di Poznan, nella località di Wrzosy. Il progetto si articolava in campi di studi settimanali distribuiti durante l’estate, a cui hanno preso parte studenti forestali e non, da tutto il mondo. Si è alloggiato presso una splendida struttura chiamata Palac Wrzosy, che in lingua polacca significa “palazzo delle eriche”. La Pomerania, parola che in lingua polacca significa “vicino al mare”, è una regione storica e geografica situata nel nord della Polonia e della Germania sulla costa meridionale del mar Baltico. Nei secoli passati è stata prima un’importante provincia del Regno di Prussia e poi della Germania Imperiale; fino al 1945 è stata prevalentemente abitata dai

e attività svolte durante la settimana sono state molteplici e ben suddivise tra workshop, attività di campo, convegni e momenti ricreativi di socializzazione e scambi culturali. In particolare, i lavori di gruppo hanno riguardato lo sviluppo e l’utilizzo delle conoscenze basate su nuovi software ad alta tecnologia per la localizzazione e il telerilevamento: GPS, GIS, LIDAR e le corrispettive applicazioni come ArcGis, ArcMaps, Lastools, ecc. Questi studi sono stati fatti all’interno della struttura che ha ospitato gli studenti, provvista di computer; a fare da guida a questi lavori c’era il dottor Martin Isenburg che, mettendo a disposizione le sue conoscenze ha consentito l’apprendimento base dei sopracitati programmi. Parallelamente a questi studi sono stati effettuati lavori di campo presso una particella forestale situata all’interno del distretto di Drawno, dove gli studenti hanno preso parte attivamente al lavoro sul calcolo della biomassa legnosa, i cui dati saranno successivamente comparati con i risultati ottenuti dal telerilevamento. Questo ha lo scopo di verificare l’efficienza delle tecnologie satellitari. In DECARTA SETTEMBRE 2013


campo, le attività erano ripartite in più fasi: abbattimento degli alberi presi come modello per l’intera particella, suddivisione dei rami nelle diverse parti della chioma (cimale, mezza chioma e rami d’ombra), pesatura di aghi, rami e tronchetti sezionati a partire dal fusto abbattuto. Per ognuna di queste attività gli studenti hanno potuto utilizzare gli strumenti messi a disposizione, sotto la supervisione di giovani esperti; tra le operazioni più importanti ci sono state l’abbattimento di alcuni alberi con la motosega, la misurazione dell’altezza dell’albero con ipsometri, la misurazione del peso delle diverse parti della pianta con apposite bilance, la divisione manuale degli aghi dai rametti, e la ricerca delle coordinate dei vertici dell’area di riferimento con GPS.

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urante l’esperienza di questo campo non sono state acquisite soltanto conoscenze tecniche ma anche quelle relative al territorio: l’organizzazione del programma prevedeva infatti anche la visita alle diverse strutture dirigenziali appartenenti alla Riserva di Drawno, al vivaio forestale, al laboratorio di analisi dendrologiche, e la verifica dei punti di controllo per la protezione da incendi boschivi dalla torre di osservazione, alta 38 metri. Queste visite hanno consentito la critica osservazione di realtà gestionali totalmente diverse dalle nostre, e ciò è dovuto sia a differenze strutturali che relative alle specie presenti a causa di un differente clima e una differente orografia.

La voce del bosco è la voce della gente Avete mai sentito la voce del bosco? Ogni senso è toccato, l’animo diventa pacifico, si distende e ogni inquietudine passa. Quando ti lasci toccare i sensi, quando hai la percezione del legno secco che scricchiola sotto i tuoi piedi, del profumo di resina che emanano le cortecce degli alberi, della lieve luce che passa tra le chiome e illumina il muschio morbido, del vento che corre tra le chiome e ti sembra di sentire il mare… Quando provi tutto questo, tu ascolti la voce del bosco. Esso ti parla, ti racconta la sua storia trasformata in emozioni che suscita dentro di te. Quieto è il bosco come quieta la gente che lo vive, così se ascolti la storia del bosco ascolti la storia della gente, e ancora una volta capisci come sia un tutt’uno. L’aria che sa di legno e pesa come piombo, così la gente trasmette senso di casa, di famiglia, di protezione, qualcosa che profuma e riscalda. Quando il sole cala e le stelle illuminano il cielo, una fiamma e una nota uniscono tutte le diversità in un’unica nuvola di fumo che si diffonde nell’aria e si espande tanto quanto il cielo. Così della terra avrai ricordi felici e duraturi, ormai entrati nei polmoni e nel sangue, quindi indelebili. Così della gente porterai un loro pezzetto dentro di te, e la tua storia si incontra con la loro e si crea una sola strada, percorsa da tutti e che un giorno, forse, porterà a incontrarci di nuovo.

Nota comune di tutte le esperienze del progetto è stata comunque la condivisione e il continuo scambio di opinioni tra i ragazzi provenienti da paesi diversi che ha consentito di trascorrere delle piacevoli serate intorno ad un falò, di percorrere tutti insieme il fiume Dry (che, dall’inglese, significa “asciutto”) in kajak, di divertirsi durante una rappresentazione di costumi e armi medievali del luogo. Così ciò che i giovani ausfini hanno appreso maggiormente da questo campo è la consapevolezza che il lavoro comune può avvicinare lo scambio tra le persone: il lavoro è condivisione e la condivisione diviene conoscenza.

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Speciale Macchina di Santa Rosa Foto di Sergio Galeotti

Si ringrazia il Sodalizio dei Facchini di Santa Rosa e il suo presidente Massimo Mecarini.

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Quella sera del tre Una storia tra romanzo e realtà. Martina Perelli | martina.perelli@decarta.it - Foto di Sergio Galeotti

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apita a tutti di provare sensazioni spiacevoli. Sono sensazioni spiacevoli quelle particolari situazioni in cui sai che non sta accadendo niente di fondamentale, che non è un problema, eppure quell’amaro in bocca proprio non se ne va. Tra le più spiacevoli delle sensazioni, almeno per me, ce n’è una: il fare ritorno ai luoghi d’infanzia. Un flashback che, nella maggior parte dei casi, comporta grandi delusioni: basta partire alla volta di un luogo dei nostri ricordi, ripercorrere con la mente le sensazioni che quel luogo ci dava e l’impressione visiva che ne avevamo. Questi posti nel nostro immaginario erano sempre sterminati, infiniti loro e piccoli noi. Poi, una volta giunti, ecco la triste verità: quel prato che ricordavamo enorme non è che un cortile, l’albero che sovrastava tutti gli altri non è che un arbusto striminzito e gli altri, be’, neanche ve lo sto a dire. Anche l’allora

enorme corridoio di nonna ora appare una strettoia angusta e in casa non ci sono più cantucci per nascondersi perché in quei cantucci, date le dimensioni, non c’è proprio modo di entrare. Eppure, a Viterbo, una scappatoia c’è. È un rito, una manifestazione, un culto, chiamatelo come volete: il trasporto della macchina di Santa Rosa è anche questo, la possibilità di far ritorno a un cantuccio sicuro senza restarne delusi. Gli anni passano, la sensazione nel vederla sfilare resta la stessa, e non è mai spiacevole. Che a mirarla siano gli occhi di una bimbetta di cinque anni o quelli di sua madre non cambia molto: un filo conduttore lega le loro sensazioni. Sensazioni che, a sentire un passante o il nostro amico di sempre, non sono diverse da quelle di molti altri. L’emozione nell’assistere al trasporto della macchina per un viterbese ha duplice valenza: da un lato non possiamo

che ammirarne l’imponenza, restarne ammaliati, quasi intimoriti; dall’altro ci troviamo a vivere un momento di profonda condivisione. La macchina è emozione condivisa: passare la giornata assiepati, spalla a spalla con degli sconosciuti, tutti lì a procurarsi un posto, a guadagnarsi una buona visuale sul percorso, ad aspettare. Che tu sia un viterbese doc o meno, quando vedi il “cupolino” della macchina spuntare dai tetti, non puoi che emozionarti. Perché sta per sfilare un campanile sorretto solo dalla forza di duecento e più braccia, cento e più corpi che sostengono la loro Santa. E ognuno non può che riscoprirsi un po’ credente e un po’ viterbese. Se poi sei uno di quelli duri a cedere e non facile alle emozioni, sappi che comunque la si voglia mettere Santa Rosa resta Santa Rosa.

Una suggestiva e rara immagine del corpo di Santa Rosa portato a spalla dai Facchini

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Possiamo accantonare la religione e sminuire il pathos, ma a dare importanza alla manifestazione resterà coDECARTA SETTEMBRE 2013


SPECIALE SANTA ROSA

Il giorno che precede il trasporto della Macchina si svolge la processione religiosa con il cuore della Santa e il corteo storico

munque la cronaca, il vero cui si poggia, la storia che fa da sfondo agli eventi e alla nascita del culto, un Medioevo lontano eppure sempre vivo tra i vicoli di Viterbo.

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a storia, tra romanzo e realtà, ci narra di una giovinetta che nasce nel 1233 e muore solo diciotto anni più tardi. Riesumazioni postume ci diranno che Rosa soffriva di una rara malattia, quella che oggi chiamiamo “agenesia dello sterno” e che sappiamo portare a morte prematura. Non è facile spiegare come la ragazza abbia raggiunto il diciottesimo anno di età. La miracolata Rosa professa con veemenza la sua religione, la diffonde tra i viterbesi e diventa un personaggio scomodo, così scomodo da essere esiliata prima a Soriano e poi a Vitorchiano. Farà ritorno a Viterbo dopo la dipartita di Federico II per morire anch’ella poco dopo, nel marzo del 1251. Miracolata e mirabolante in vita, continua a stupire post mortem: il suo corpo resta incorrotto nei secoli nonostante nel corso del tempo non siano sempre state prese misure preventive per conservarlo adeguatamente: fu seppellito nella nuda terra, poi riesumato e traslato nel 1258; nel Trecento rimase coinvolto in un incendio che si limitò ad anneDECARTA SETTEMBRE 2013

rirlo. A quell’episodio dobbiamo l’aspetto bruno della Santa così come siamo abituati a vederla oggi, incorrotta e accessibile agli occhi di tutti. Da quella prima riesumazione del 1258 e alla relativa traslazione da Santa Maria in Poggio alla chiesa delle Clarisse, cui fu affidata la cura, i viterbesi non hanno mai smesso di celebrare la loro santa rievocando quel primo tra-

Piazza delle Erbe gremita di pubblico fin dalle prime ore del pomeriggio del 3 settembre

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storia sporto della salma. Prima con altari, poi con baldacchini poco pretenziosi fino alle straordinarie macchine. Il museo civico di Viterbo conserva i bozzetti delle prime creazioni, a fare da capostipite il disegno della macchina del 1690, attribuita a Giovan Vincenzo Calmes e patrocinata da Giuseppe Franceschini. Da questa prima raffigurazione, la storia ci dà testimonianza di un rito

che si perpetua negli anni e nei secoli, imperituro. Una manifestazione che nasce dalla devozione e poi, nel tempo, si forgia di suoi rituali e regole. D’altronde, stiamo parlando di un manufatto pesante circa cinquanta quintali ed alto ventotto metri: la regola è precauzione, prevenire significa non dover curare dopo. La storia in-

segna, la storia insegna sempre e ci dice che, forse per natura, noi uomini siamo più inclini a curare che a prevenire. Le vicende della macchina non ne sono esenti: qualsiasi viterbese venga interpellato, al nome di “Volo d’angeli” non farà che dirci: “Che bella, che bei ricordi, quella sì che era una macchina!”. Io a quei tempi non c’ero, stiamo parlando del 3 settembre 1967 e dell’esordio di quella che sarebbe stata una macchina nel cuore di tutti per molto tempo. Un esordio sicuramente sfortunato: il trasporto è costretto ad interrompersi all’altezza di via Cavour, i facchini non sono in grado di proseguire sotto il peso di un apparato che sembra avvitarsi su se stesso. Facile immaginare il rammarico e il dispiacere di non aver portato a termine quella missione: per la prima volta i devoti erano costretti ad abbandonare la loro Santa. Spesso sono proprio le storie iniziate male quelle a finire meglio e, in barba a quello spiacevole episodio, “Volo d’angeli” sfilerà per le vie di Viterbo per ben dodici anni consecutivi. Per prevenire questo ed altri inconvenienti ed assicurare l’incolumità dei partecipanti sotto la macchina e non, dall’anno successivo, il 1968, venne istituita la “prova di portata” cui ogni facchino deve sottoporsi prima di prender parte al trasporto.

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A pochi metri dall’arrivo davanti al Santuario di Santa Rosa

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e l’inconveniente della prestanza fisica del facchino è risolto, qualcosa torna di nuovo a mettere i bastoni tra le ruote: il 1986 è l’anno di “Armonia celeste”. Anche per lei un infausto esordio: prima urta un cornicione lungo corso Italia poi sfiora la tragedia quando è ormai in dirittura d’arrivo: davanti la gradinata della chiesa di Santa Rosa s’inclina pericolosamente, subito è rimessa nella giusta posizione, poi torna a sbandare. Si verifica un unicum nella storia del trasporto: la macchina è depositata con la statua della santa che mostra la schiena alla basilica. Quasi un affronto per gli stessi facchini che decidono di prendere in mano la situazione e “bissare il fermo” per dare a Rosa il giusto rispetto: la macchina torna a sollevarsi e la statua è deposta nella posa abituale. DECARTA SETTEMBRE 2013


SPECIALE SANTA ROSA

Un pericolo scampato, quello dell’86, che porta con sé conseguenze decisive: fino ad allora il peso delle varie macchine era conosciuto solo in modo approssimativo, ora è forte l’esigenza di conoscerne le dimensioni reali e, se necessario, adottare misure restrittive. Negli anni a seguire la macchina sarà sempre pesata la mattina del 2 settembre con appositi mezzi forniti dall’Esercito e

saranno stabilite le misure massime che questa dovrà avere: l’altezza non dovrà superare i 28 metri e il peso i 55 quintali. Inoltre, il trasporto fino ad allora affidato al costruttore, ora è nelle mani del Sodalizio dei Facchini di Santa Rosa. Chi meglio di coloro che portano quel peso ogni anno può guidare l’avanzata? Non so bene immaginare cosa significhi essere lì sotto, aspettare ogni

anno di diventare per una notte l’eroe della città e vivere nell’attesa di quella giornata. Immagino il procedere solenne della macchina come una poesia, la cadenza dei passi del facchino suonano come un verso. Passo, a capo, passo, a capo. Parole festose e la stessa melodia, quella dell’inno “Quella sera del tre”, che torna a ripetersi. Ora e ancora, la macchina di Santa Rosa non la ferma nessuno.

Specialità tipiche della tradizione popolare

Qualche curiosità

T Nei giorni dei festeggiamenti è facile trovare i cibi della tradizione popolare ai quali, ancora oggi, molti viterbesi non sanno rinunciare: la porchetta e l’anguilla marinata su tutti. E poi i dolci tipici come la torta “Rosa della pace” del forno artigianale a porta della Verità o il “pane di Santa Rosa”. Per i più piccoli lo zucchero filato, un vero protagonista del settembre viterbese.

T La Macchina di Santa Rosa concorre per essere riconosciuta dall’Unesco come bene intangibile dell’umanità, la decisione definitiva sarà presa a dicembre. T Lo statuto del Sodalizio non fa distinzioni di genere, nulla vieta a una donna che ritenga di essere idonea di accedere alla prova di portata per entrare nella formazione dei Facchini di Santa Rosa. T Nella storia della macchina non mancano nomi di donna: Rosa Papini prima, Maria Antonietta Palazzetti dopo: è lei a realizzare “Spirale di fede”, trasportata dal 1979 al 1985. T “Spirale di fede” è anche la protagonista dei due trasporti eccezionali del 9 luglio 1983 e del 27 maggio 1984. Il primo avvenuto per celebrare il 750° anniversario della nascita di Santa Rosa, il secondo in occasione della visita di papa Giovanni Paolo II.

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Tutti d’un sentimento Il motore umano della macchina: i Facchini di Santa Rosa Sabrina Manfredi | sabrina.manfredi@decarta.it - Foto di Sergio Galeotti

Un uomo che comunica ad altri uomini: un uomo, vero, dotato di una più acuta sensibilità, di maggiore entusiasmo e sentimento, che ha una maggiore conoscenza della natura umana e un’anima più grande… William Wordsworth

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ordsworth nella prefazione alle Lyrical Ballads, il suo capolavoro, si riferiva con queste parole al poeta romantico ma io vorrei translarne il significato per parlare di una figura che, nel nostro territorio, ha una forza poetica notevole: il facchino di Santa Rosa. E sono proprio entusiasmo e sentimento le forze motrici che, ogni anno, spingono questa figura a compiere un sacrificio fisico e psicologico enorme, frutto di preparazione, abnegazione e devozione verso la patrona della città, Santa Rosa. Rimanendo in tema di Romanticismo definirei Sublime la forza che spinge ognuno di questi uomini a mettersi ciclicamente in gioco per far sì che l’Assoluto possa giungere ancora una volta nella sua dimora storica. Ma usciamo dal titanismo e dal Sehnsucht per entrare più da vicino e anche un po’ più “prosaicamente” nelle vesti di questa figura, senza la quale a Viterbo 14

non potrebbe svolgersi l’evento più importante dell’anno. I Facchini sono il “motore umano” della Macchina di Santa Rosa, l’altro termine di un binomio indissolubile: senza i Facchini non ci sarebbe il Trasporto, così come senza Macchina la figura del facchino non avrebbero motivo di esistere. La selezione Ogni anno, l’ultima settimana di giugno, si svolgono presso la ex chiesa della Pace le selezioni per essere ammessi a ricoprire il ruolo di facchino. Non bastano ovviamente le pur necessarie attestazioni mediche di buona salute. Si deve superare una “prova di portata” che consiste nel sostenere sulle spalle una cassetta di 150 chili, per circa 90 metri, lungo un tracciato che segue il perimetro della navata e che richiede tre giri. La prova deve essere sostenuta sia dai veterani che dai nuovi aspiranti e la valutazione dell’idoneità è di esclu-

siva responsabilità del Capofacchino. Nella stessa sede, la mattina dell’ultima domenica di agosto si tiene una riunione per definire la formazione e assegnare i compiti con la rituale consegna delle tradizionali protezioni. La divisa e i ruoli I facchini direttamente chiamati a portare la Macchina devono indossare il tradizionale costume: camicia bianca a maniche lunghe arrotolate sopra i gomiti, pantaloni bianchi fermati sotto le ginocchia alla “zuava”, fascia rossa in vita, fazzoletto bianco annodato alla corsara, scarponcini neri alti e calze bianche lunghe fin sopra il ginocchio. La prima parola che viene in mente guardandoli è “candore”: il bianco della divisa è infatti il simbolo della purezza di spirito della Santa, mentre il rosso della fascia ricorda il porpora dei cardinali, protagonisti della traslazione del 1258. Il Capofacchino e le Guide si distinguono perché indossano pantaloni neri DECARTA SETTEMBRE 2013


SPECIALE SANTA ROSA

e la fascia trasversale con i colori di Viterbo: giallo e azzurro. Diversi sono i ruoli previsti all’interno della formazione ma tutti rivestono uguale importanza e responsabilità per la sicurezza e la buona riuscita del trasporto: Guide, Ciuffi, Spallette, Stanghette, Leve, Cavalletti. I facchini di maggiore esperienza si posizionano sotto la base della macchina e prendono il nome di Ciuffi dal copricapo in cuoio imbottito che indossano a protezione della cervicale. Sono disposti in sette file di nove uomini ciascuna per un totale di 63 elementi. Ai lati, lungo i due sostegni sporgenti integrati nel telaio della base, si dispongono due file di otto Spallette che sostengono la macchina appoggiandola su una spalla. All’esterno di queste entrano in formazione, quando i tratti più larghi del percorso lo consentono, altre due file di spallette, dette appunto “aggiuntive”, da 11 facchini ciascuna. Sul fronte e sul retro della Macchina si trovano infine le Stanghette, sei per lato, che facendo leva sui sostegni che sporgono dalla base contribuiscono a bilanciare le oscillazioni. Questa è la formazione “standard” di 113 uomini che porta la macchina lungo la prima parte del percorso fino alla seconda fermata a piazza del Comune. Per il tratto successivo di via Roma e quasi tutto il Corso, dove si deve fare a meno dell’apporto delle aggiuntive, la formazione si riduce a 91 facchini. Ma nei punti più stretti di questo tratto, quando la base della Macchina passa radente ai muri, anche le Spallette fisse devono momentaneamente mollare la presa e proteggersi spostando la testa e le spalle all’interno dei legni: per alcuni istanti la formazione “utile” può contare soltanto su 75 portatori. Ci sono poi le Guide, facchini disposti ai vari angoli della base che hanno il compito di coadiuvare il Capofacchino per direzionare la Macchina nella maniera ottimale. E infine, nella parte conclusiva del percorso, quella della difficile salita in corsa verso il Santuario, intervengono le Leve e le Corde a spingere e tirare. Il raduno e il giro delle chiese L’interminabile giornata del 3 setDECARTA SETTEMBRE 2013


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tembre inizia per i Facchini dal primissimo pomeriggio con il raduno e i saluti delle Autorità civili e religiose. Al termine dell’incontro, la formazione schierata si avvia verso la rituale visita alle sette chiese sfilando per le vie della città. Il lungo giro si conclude al Santuario di Santa Rosa dove i Facchini sfilano lentamente davanti alla grata che protegge l’urna con il corpo della santa soffermandosi in preghiera. Il ritiro Quindi si spostano al boschetto del convento dei Cappuccini a San Crispino per riposare e intrattenersi con le proprie famiglie. Quando si avvicina l’ora del tra-

I Facchini nella chiesa di San Sisto

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sporto i facchini si raccolgono in silenzio attorno al Capo che li saluta e li incita a dare ancora volta il meglio di sé con entusiasmo, per la Santa e per la Città. Concluso questo momento di solenne raccoglimento la formazione si avvia verso la chiesa di Santa Rosa. Quando i Facchini passano davanti al sagrato del Santuario ripetono la bella tradizione del saluto ai propri familiari, lì raccolti, alzando ciuffi e spallette. Poi, compiendo il percorso del trasporto in senso contrario, sfilano abbracciati verso la Macchina tra le ali della folla che li acclama calorosamente. Verso la “mossa” Quando i Facchini raggiungono la piazza del Comune si incontrano con il Sindaco e le altre Autorità presenti che si uniscono al corteo per precederli verso la salita a San Sisto. Appena le prime file di facchini arrivano in prossimità della monumentale Fontana Grande la Macchina, fino a quel momento oscurata dal buio, viene improvvisamente illuminata, come a salutare ed accogliere i propri portatori. Giunta a San Sisto, la formazione entra all’interno della Chiesa dove i facchini si raccolgono in preghiera. Uno dei veterani del trasporto legge la poesia da lui stesso scritta, poi il Vescovo impartisce ai Facchini la benedizione “in articulo mortis”. Da alcuni è stata ripristinata un’antica tradizione e la cerimonia della benedizione viene ripetuta anche all’esterno con tutti gli uomini in ginocchio ai piedi DECARTA SETTEMBRE 2013


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della Macchina. Infine, il Sindaco “consegna” ufficialmente la Macchina nelle mani del costruttore, il quale affida il trasporto al Capofacchino. Il sollevate e fermi I Facchini sono pronti, schierati nella loro divisa bianca e rossa, armati di forza, coraggio e determinati a far sì che anche quest’anno il trasporto della Macchina di Santa Rosa si svolga nel miglior modo possibile. È il momento di dare il “motore” alla macchina, il Capofacchino inizia a chiamare gli uomini in posizione, a partire dalle stanghette posteriori, via via fino a quando tutta la formazione è al completo, ciascuno al proprio posto. La piazza è gremita, ogni finestra e terrazzo dei palazzi stracolmi di gente. Alla fine nel buio dell’aria settembrina sale il silenzio, tutti trattengono il fiato nell’attesa della voce del Capofacchino che risuona potente il tradizionale: “Siamo tutti di un sentimento?” Il “sì” esplode come uno scoppio da sotto la base della Macchina, anticipato mentalmente da tutti i presenti e replicato all’infinito dagli schermi disposti nelle piazze e da quelli nelle case. È il via per una sequenza di comandi che chiunque abbia assistito a un trasporto conosce ormai a memoria: “Sotto col ciuffo e fermi!” “Fermi!”

“Facchini di Santa Rosa, sollevate e fermi!” L’impeto dei Facchini è tale che la macchina balza verso l’alto di colpo, come a prendere il volo, quasi più in alto di quanto volessero spingerla e infatti sembra ricadere leggermente verso il basso, assestandosi sulle schiene e le spalle dei facchini e oscillando lievemente. Il Capofacchino verifica che sia tutto sotto controllo, qualche secondo di attesa per riassorbire la botta della “mossa” e finalmente dà l’avvio al trasporto al grido di “per Santa Rosa, avanti!”.

Una fila di Ciuffi si avvia di corsa a prendere posizione sotto la Macchina

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Trasporto e vicissitudini Cenni storici di una volontà popolare. Manuel Gabrielli | manuel.gabrielli@decarta.it - Foto di Sergio Galeotti

sosta a piazza Fontana Grande) esiste così come la conosciamo dal 1721, anno in cui venne aperta per volere di Innocenzo XIII. È quindi ovvio che il percorso oggi noto è stato definito con il passare dei secoli. Esistono varie ipotesi di cui nessuna è certa sulla nascita del trasporto della macchina, sappiamo però con sicurezza che c’è una vera continuità a partire dal 1664, probabilmente per festeggiare la fine della pestilenza che aveva colpito Viterbo nel 1657. È quindi a partire da questo momento che rinvii a parte si sono date il cambio molte serate di settembre e sono state molto rare le situazioni che hanno portato a obbligati cambiamenti di percorso.

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arte dell’atmosfera che caratterizza la sera del trasporto è dovuta al periodo dell’anno. Per quanto la temperatura sia spesso ancora permissiva e ancor più spesso anche gradevole per uscire la sera, Settembre è un mese di transizione stagionale. Le piogge possono essere improvvise come quelle estive ma anche durature come quelle autunnali. La luce poi è il cambiamento più impattante, le giornate cominciano ad accorciarsi in maniera evidente e risulta irrilevante quante volte si sia stati testimoni di questi cambiamenti, all'apperenza eterni ed immutabili se paragonati alle nostre vite; inutile perché in ogni caso ci si ritroverà sorpresi nel constatare che la giornata è già finita e che insieme alla luce se ne sta andando anche ciò che rimane dell’estate. Da secoli quindi, la 18

sera del 3 settembre, alle ore 21 del sole rimane appena un tenue bagliore nel cielo, poi lo spegnersi delle luci lungo le vie del centro e l’improvvisa oscurità avvertono riguardo l’imminenza di un evento eccezionale. Per noi Viterbesi l’appuntamento del 3 settembre è così tanto una consuetudine da apparire un evento immutabile, come le stagioni appunto. Origini del percorso Il tragitto compreso dalla chiesa di San Sisto a quella di Santa Rosa è quanto di più consolidato possa esistere, da non molti anni delle placche bronzee ci ricordano 365 giorni l’anno le soste di quella sera di vigilia. Basti però pensare che via Garibaldi (per chi non fosse di Viterbo la via che porta dal luogo di partenza della macchina fino alla prima

Partendo dai casi più lontani, tra il 1845 ed il 1846 a causa del rifacimento della facciata del Santuario di Santa Rosa e dell’inagibilità del piazzale antistante, venne dirottato il percorso fino a piazza della Rocca nel 1845, e fino al vicino piazzale dell’Oca l’anno seguente. Altro cambiamento più recente avvenne invece nel 1952, quando per festeggiare il trasporto della prima macchina concepita nel dopoguerra si decise di farla sfilare lungo via Marconi con sosta al Sacrario, per poi tornare indietro e compiere ugualmente la salita al santuario. Un fatto isolato e fin da subito mal digerito sia dai tradizionalisti che ovviamente dai facchini stessi. Interruzioni del trasporto La pausa più lunga si ebbe a partire dal 1802 e durò fino al 1810, anno in cui venne ripristinato grazie alle pressioni dei cittadini viterbesi. Risale infatti al 1801 l’incidente più grave che sia avvenuto durante un trasporto. Durante gli DECARTA SETTEMBRE 2013


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Nella foto di apertura, i Ciuffi indossano gli omonimi copricapi predisponendosi al trasporto. Qui di lato, un’immagine che coglie lo sforzo e la concentrazione delle Spallette. Sopra, il passaggio attraverso uno dei punti più stretti del percorso, fino a sfiorare i muri, impone alle Spallette di lasciare momentanemante la propria posizione per proteggersi dentro la base. Sotto, nella salita finale le leve posteriori spingono verso l’alto per constrastare la pendenza della Macchina.

anni si sono succedute varie descrizioni del fatto, con bilanci che vanno dai 10 ai 30 morti. Oggi tra le ipotesi più accreditate c’è quella di una folla caduta nel panico a causa dell’imbizzarrimento dei cavalli della processione e il conseguente travolgimento di alcune persone che non poterono fare largo alla macchina. A creare scompiglio fu sicuramente anche l’incendio della macchina stessa, altra disgrazia che costrinse i facchini all’abbandono a piazza delle Erbe. Fu quindi a causa di questo fatto che, attraverso un delegato apostolico, il papa proibì la celebrazione. Al riprendere del trasporto nel 1810 questo grave incidente servì per l’introduzione di nuove norme, tra cui la sosta su cavalletti a piazza Fontana Grande. A dimostrare la bontà delle misure di sicurezza adottate nel corso degli anni, l’ulDECARTA SETTEMBRE 2013

tima morte durante la ricorrenza del 3 settembre fu quella di un facchino nel 1926, non è ben chiaro poi se per un incidente o per un malore dello stesso. Anche se più brevi della famosa pausa di 9 anni, nel ’900 ci furono altre due grosse interruzioni coincidenti con i due conflitti mondiali. La prima durò dal 1915 al 1918, e grazie alle insistenti richieste del costruttore Virgilio Papini fu addirittura possibile ripristinare il trasporto prima del finire della guerra. Furono meno fortunate le richieste dello stesso costruttore nel 1944, infatti non si considerò prudente far muovere nell’oscurità della guerra una torre illuminata, il tutto ad appena 150 km dalla Linea Gotica dove il combattimento era ancora vivo. Nel ’45 si pensò subito di riproporre il trasporto della macchina di

Papini, il telaio era però sparito misteriosamente durante i bombardamenti del ’44. Si dovette quindi aspettare il 1946 per tornare a vedere la macchina sfilare per le vie della città, anche se con una grossa variante. Le bombe del ’44 avevano lasciato il segno, la chiesa di San Sisto era divelta e da via Garibaldi a piazza Fontana Grande era rimasto in piedi solo il palazzo del Conte Fani. Così si decise di assemblare la stessa macchina di Papini sul muro dell’oramai extribunale e di iniziare da quel punto il trasporto. Dal dopoguerra ad oggi non si sono verificate altre interruzioni e il culto di Santa Rosa è oggi più vivo che mai, continuando a radunare la sera del 3 settembre persone di ogni provenienza, credo ed età.

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Quel momento magico Viterbo e Santa Rosa attraverso gli occhi di chi è arrivato e di chi è partito. Claudia Paccosi | claudia.paccosi@decarta.it

La testimonianza di due spettatori d’eccezione in un’intervista “a specchio” a Giorgio Capitani, regista, che da fuori ha deciso di venire ad abitare a Viterbo, e a Claudio Brachino, giornalista, che per le esigenze della sua professione si è invece allontanato da Viterbo per abitare altre città.

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razie alla cortese mediazione di Romolo Tredici, uno degli oltre cento facchini che trasformano il miracolo del trasporto della macchina di Santa Rosa in faticosa realtà, raggiungiamo Giorgio Capitani nella sua abitazione per un’inusuale intervista: il regista oltre ai suoi successi cinematografici e televisivi è infatti ormai anche un ben noto e amato personaggio viterbese; proprio per l’affetto della città verso il suo lavoro e la sua persona è stato insignito della cittadinanza onoraria e della carica di Ambasciatore dei Facchini di Santa Rosa e nutre una particolare affezione per la città e la sua grande festa. Perché, dopo la sua nascita a Parigi e le varie esperienze vissute ha scelto di abitare nella nostra città? «Vorrei dire per combinazione. Per girare Il maresciallo Rocca cercavamo una città vicino Roma, grande, ma non troppo e Viterbo ci è piaciuta subito. Io non la conoscevo, ma dopo cinque serie è diven-

Giorgio Capitani, regista e sceneggiatore

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tata una succursale di casa. Mi sono innamorato della città, dei viterbesi e i viterbesi di me. Anche per gli altri film (Papa Giovanni, Edda) ho trovato il modo di girare a Viterbo, ne ho girato ogni pietra e ogni angolo, è una città che si presta a molte cose. Ho sentito un grande calore che mi ha colpito molto, la città mi ha anche voluto premiare facendomi cittadino onorario, poiché avevo aiutato a diffondere nel mondo l’immagine di Viterbo. Quello che sento di più è proprio l’affetto, per la strada mi salutano persone che nemmeno conosco, questo mi ha davvero gratificato. Io non solo voglio bene a Viterbo, ma sento che la città ne vuole a me.» Poiché a breve Viterbo sarà palcoscenico della festività e del trasporto della macchina di Santa Rosa desideravamo conoscere quali sentimenti, ricordi ed emozioni le suscita questo evento. «Ne Il maresciallo Rocca ho girato un trasporto, questo è stato il mio primo in-

contro con Santa Rosa. Quando sono diventato Ambasciatore dei Facchini ho assistito all’intero trasporto vicino alla macchina camminando all’indietro, faticosissimo. Sono stato affascinato dalla fede e dal coraggio dei facchini, ho visto dei miei amici con le lacrime agli occhi, questo entusiasmo, questo “Viva Santa Rosa” della popolazione è molto toccante, suona nelle orecchie tutti i giorni.» Qual è l’aspetto, il momento, la tradizione legata a Santa Rosa che la emoziona di più? «Tutti i momenti, mi emoziona l’alzata e mi emoziona il fermarsi alle varie stazioni e la ripartenza. Mi stravolge quando passano per il corso vicinissimi ai palazzi e buttano giù i laterali. È un atto di fiducia davvero molto commovente.» Visto il contributo che ha dato alla conoscenza della città di Viterbo, quale potrebbe essere, a suo parere, un modo per incentivare la conoscenza della tradizione del trasporto in Italia e nel mondo? «Mi sembra molto conosciuta. Un giorno alle terme ho incontrato una coppia milanese che dopo aver visto Il maresciallo Rocca ha deciso di trascorrere le vacanze a Viterbo. Effettivamente il mio lavoro è servito a qualcosa.» Ultima curiosità: qual è il luogo più suggestivo da cui ha assistito al trasporto? «Viterbo mi piace tutta. Non esiste strada, piazza o angolo dove non abbia girato; ho creato persino una strada di Istanbul per Callas e Onassis a San Pellegrino. Non so, sono molto combattuto, è molto bello vederla dalla piazza del Municipio, vederli scendere e poi ripartire, anche vedere l’ultimo tratto mi piace molto, con tanti amici intorno, proprio da casa mia, da via Santa Rosa.» DECARTA SETTEMBRE 2013


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Claudio Brachino, giornalista, direttore di Sport Mediaset

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bbiamo raggiunto telefonicamente Claudio Brachino al rientro dalle ferie, nel pieno della febbrile attività della testata Sport Mediaset di cui recentemente è diventato direttore giornalistico. Ci hanno fatto da tramite colleghi della redazione di Decarta, che con lui hanno condiviso gli anni del liceo e dell’università e ben conoscono il suo profondo legame affettivo con la città e con il settembre viterbese. Da viterbese che vive altrove, cosa ancora la lega alla città? «Non vivo più a Viterbo non per colpa mia, ma semmai per colpa di Viterbo, se è lecita una piccola forzatura. Nel senso che faccio un mestiere, uno dei mestieri che avrei voluto fare, che a Viterbo a un certo livello non potrei fare. Si comincia con l’università, si prosegue con il posto di lavoro, si finisce con il fatto che tuo figlio nasce a Milano a novembre in un giorno di nebbia… Come tutti gli emigrati, è ovvio che soffro di nostalgia.» Poiché a breve Viterbo sarà palcoscenico della festività e del trasporto della macchina di Santa Rosa desideravamo conoscere quali sentimenti, ricordi ed emozioni le suscita questo evento. «L’ho scritto qualche anno fa in un articolo, tutto della mia infanzia parla della macchina di Santa Rosa. Dalla preparazione, ai facchini, al trasporto, al rischio, al correre come pazzi per trovare la visuale migliore, meglio, l’emozione estetica migliore. Ora che faccio il direttore mi invitano, qualche volta, in tribuna ma dopo vent’anni sono tornato a ve-

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derla nel 2010 e ho preferito andare a San Sisto e seguire la macchina a piedi nel buio, improvvisamente uomo del Medioevo.» Qual è l’aspetto, il momento, la tradizione legata a Santa Rosa che la emoziona di più? «L’alzate e fermi, all’inizio, con la macchina che vacilla un attimo prima di assestarsi sulle spalle dei facchini. C’è l’omaggio al Sacro, c’è la fatica, c’è il rischio, c’è il fantasma della morte, c’è la disciplina fisica e ingegneristica. Quel momento, prima che tutto inizi, è magico.» Quale potrebbe essere, a suo parere, un modo per incentivare la conoscenza della tradizione del trasporto in Italia e nel mondo? «La comunicazione, in senso lato, non è il massimo per i viterbesi. Basti pensare ai collegamenti stradali e alle altre vie di trasporto. Ma dal materiale al digitale contemporaneo, basterebbe semplicemente parlarne di più nel modo giusto nei canali più diversi. Bisognerebbe, nel contesto, parlare del “brand Viterbo” che è straordinario e ancora poco conosciuto. È una questione turistica e insieme una questione filosofica.» Ultima curiosità: qual è il luogo più suggestivo da cui ha assistito al trasporto? «In parte ho già risposto, in tutti i luoghi e in nessun luogo, come il Dio medievale. E il Medioevo c’entra molto con Viterbo.»

Giorgio Capitani nasce nel 1927 a Parigi, comincia a lavorare come regista e sceneggiatore di film già a partire dai primi anni ’50, poi di fiction e serie di successo dalla fine degli anni ’80 tra cui Papa Giovanni (2002), Puccini (2009), Callas e Onassis (2005) il recentissimo Enrico Mattei – l’uomo che guardava al futuro (2009) oltre alle amatissime diciotto puntate ambientate nella nostra città andate in onda tra 1996 e 2005 de Il maresciallo Rocca.

Claudio Brachino è nato a Viterbo il 4 ottobre 1959. Nel 1978 si trasferisce a Roma dove si laurea con Walter Binni in Letteratura Italiana con una tesi su Ambrogio Viale. Nel 1988 approda al Gruppo Fininvest, dove inizia come consulente creativo per Domenica Più, con Rita Dalla Chiesa, in onda su Retequattro. Passa quindi a Videonews seguendo Dentro la Notizia, il notiziario sperimentale di Retequattro. Dal 1995 assume la carica di vicedirettore di Studio Aperto e conduce per anni l’edizione delle ore 18,30. Nel settembre 2007 diviene direttore della testata giornalistica Videonews e firma e conduce con Barbara d’Urso la prima stagione di Mattino Cinque. Sotto la sua testata nascono anche altre produzioni tra cui Pomeriggio Cinque, Domenica Cinque e Storie di Confine e continuano la loro esperienza marchi storici come Top Secret, Verissimo e Matrix. Dal giugno 2013 è direttore giornalistico di Sport Mediaset, la testata più longeva del Gruppo Mediaset.

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L’unione fa la forza Intervista alla scoperta della nuova società rugbystica viterbese. Gabriele Ludovici | gabriele.ludovici@decarta.it

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econdo la leggenda, il rugby ebbe origine da un gesto di “ribellione” da parte di uno studente inglese della Rugby School che un giorno, durante una partita di calcio, prese la palla con le mani e la condusse fino a fondo campo, realizzando la prima meta della storia. All’epoca le regole degli sport di squadra erano ancora in fase embrionale ed ogni scuola aveva le proprie: tuttavia, il destino volle che quella cittadina del Warwickshire restasse legata indissolubilmente alla palla ovale, grazie alla folle corsa di William Webb Ellis. A Viterbo, poco prima del secondo confilitto mondiale, nacque un movimento rugbystico che nel 1952 venne consolidato con la nascita dell’Unione Sportiva Rugby Viterbo. Questa squadra ha vissuto la propria storia tra alti e bassi, ma gli alti sono di quelli da ricordare: sotto la presidenza di Sauro Sorbini giunse in Serie A (1961-62) e, dopo un sali-scendi tra le categorie, la dirigenza guidata da Roberto Pepponi riuscì a rinnovare i fasti societari centrando la Serie A2 (1997-98). Dopo l’avvicendamento societario del 2001 per il Rugby Viterbo inizia un periodo in chiaroscuro, culminato con la discesa in Serie C. La stagione 2013-14 si è già aperta con il gradito ritorno di Roberto Pepponi, che raccoglie il testimone di Aldo Perugini alla presidenza e cambia denominazione al club in Union Rugby Viterbo 1952, scelta che richiama fortemente le origini. La notizia ha suscitato un rinnovato entusiasmo negli amanti della palla ovale e cogliamo l’occasione per parlare del futuro del club con Alessandro Pepponi, vicepresidente della società: «Gli eventi che accadono nella vita non sono duplicabili. Sono contento che il nome della mia famiglia sia legato alle 22

vette raggiunte dal rugby cittadino ma questo da solo non basta. In me c’è la convinzione che la gestione oculata di una società – di qualunque società – possa portare buoni risultati, in primis sportivi e poi anche economici. Gestire un club ha dei costi rilevanti: siamo grati al vecchio presidente per aver riportato la squadra in Serie B, ma la situazione che abbiamo trovato è disastrata».

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el nuovo progetto c’è un assioma, ovvero coinvolgere più persone possibili: «Il rugby non è come gli altri sport… gli incontri internazionali

riescono a coinvolgere il grande pubblico, ma i campionati locali no. Si tratta di una disciplina complicata da capire, ma la missione della nuova dirigenza sarà quella di riportare gli appassionati a seguirci dal vivo. Ovviamente per questo scopo saranno necessari dei risultati ma il problema della passata gestione, di cui ho fatto parte per un breve periodo, era proprio quello di non riuscire a coinvolgere le persone». A questo proposito, la nuova dirigenza sembra voler ampliare le figure societarie con numerosi referenti, persino tra i tifosi ed i genitori dei piccoli rugbysti. In fondo, come ci ricorda Alessandro, il rugby si basa proprio sulle relazioni umane: «Lo spirito di gruppo è fondamentale quando si tratta di scendere in campo e prendere un sacco di botte!». Nello specifico, la nuova società ha ristrutturato il direttivo dividendolo in aree ben definite: la prima squadra, le giovanili (Under 16 ed Under 18), il minirugby (dagli Under 8 agli Under 14) e la club house, il cuore pulsante del centro sportivo che peraltro sforna eccellenti pizze fritte e supplì per la gioia dei visitatori. Inoltre, al centro del progetto c’è la voglia di rilanciare l’appeal verso il movimento: «Noi vogliamo curare gli interessi degli atleti e divenire un punto di riferimento per l’Alto Lazio, la Bassa Toscana e l’Umbria: la collocazione geografica ce lo permette e siamo la società più credibile dal punto di vista sportivo ed istituzionale. Dobbiamo preoccuparci di giocare bene in Serie B e puntare alla Serie A in 4-5 anni, per diventare attraenti agli occhi delle piccole società di provincia ed oltre. Con i numeri della prima squadra possiamo dimostrare come giocare con noi possa rappresentare una possibilità di crescita per arrivare più in alto. Noi sforniamo talenti e non li fermiamo, se una DECARTA SETTEMBRE 2013


persona può esprimersi deve farlo e per questo ci occorrono canali preferenziali con squadre di serie superiori. In cambio di giocatori con del potenziale chiediamo principalmente supporto tecnico. Chi contribuisce alla nostra crescita potrà coglierne i frutti in futuro. Questa è la base che vogliamo imporre al movimento». Già in passato il Rugby Viterbo ha lanciato giocatori arrivati fino alla Nazionale. Tra gli ultimi citiamo Simon Picone e Riccardo Bocchino, che ora giocano rispettivamente nel Calvisano e nella Capitolina, squadre del massimo campionato. Per chiarire meglio le idee, l’Union Rugby Viterbo parte dalla terza serie nazionale: le categorie superiori sono la Serie A e l’Eccellenza, oltre queste ci sono poi due franchigie che giocano in un torneo internazionale chiamato PRO12.

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a difficoltà nel reperire risorse umane può frenare la crescita del rugby nei paesi più piccoli, ma il club sta lavorando anche per questo: «Sono favorevole a creare poli di minirugby nei paesi limitrofi, a livello strategico sarebbe importante e permetterebbe a tanti giovani di avvicinarsi a questo sport senza dover venire due pomeriggi a settimana a Viterbo. Inoltre si formerebbe un bacino di utenza a nostro favore, ma per farlo occorre che dietro ci sia una società con le spalle forti. Il rugby non ha l’attrattiva del calcio, ma in passato abDECARTA SETTEMBRE 2013

biamo provato a reclutare nuove leve nelle scuole mediante il supporto di alcuni allenatori, ed i risultati sono stati positivi. La priorità ora è quella di consolidarsi per poi avviare progetti come questo». Dal punto di vista tecnico, c’è qualche novità che riguarda l’Union Rugby Viterbo: «Il direttore tecnico sarà Cristiano Notarangelo ed il suo incarico riguarda tutti i livelli, dal minirugby agli Old (la formazione degli over, ndr), mentre il responsabile della prima squadra sarà Marco Lanzi. Il progetto tecnico riguarderà i piccoli e i grandi, per dare una impronta ed un’idea di gioco univoca. Michele Fabiani invece sarà l'allenatore della prima squadra, è un tecnico con ottime credenziali ed esperienze a Roma e Civitavecchia. Per quanto riguarda i giocatori, l’organico sarà formato dagli elementi della passata stagione e da alcuni innesti che stiamo trattando. Affronteremo un girone duro, quello del Centrosud: ci attendono trasferte a Roma, in Puglia ed in Sicilia». Anche la divisa è stata modificata, con il ritorno al tradizionale nero-verde in sostituzione del giallo-blu. Un tocco vintage che rievoca proprio la stagione dell'ultima promozione in Serie A2.

memorial dedicato ai giocatori Domenico Gasperini ed Eraldo Gabrielli, mentre ad aprile è previsto il Torneo Città di Viterbo, che ruota attorno al minirugby. Prima di salutare Alessandro, exrugbysta, ci tengo a chiedergli cosa significhi per lui questa nuova avventura nella dirigenza della squadra: «Il rugby per me è una famiglia. Dopo l’incidente stradale che mi è accaduto ho trovato un gruppo di persone pronte a supportarmi ed a fidarsi di me. Per me questo è un ritorno a casa: io e tutta la nuova dirigenza vogliamo dare lustro ad uno degli sport più longevi e titolati della città. E non dimentichiamoci che il rugby è cultura, ed esprime il valore della solidarietà umana».

La nuova stagione inizierà ad ottobre, ma oltre al campionato l’Union Rugby Viterbo organizzerà come di consueto alcuni eventi paralleli. A fine settembre si svolgerà il Torneo del Capitano, doppio 23


carta stampata caos letterario

Storie di una libreria disordinata Un omicidio nascosto per trent’anni, un amore impossibile e 31 “semplici” regole per scrivere un capolavoro. Claudia Paccosi | claudia.paccosi@decarta.it

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i presento: sono una libreria molto disordinata, sui miei cinque ripiani in legno di pino i libri si accatastano, si stringono, si schiacciano, sgomitano l’un l’altro per farsi notare e alcuni ci riescono davvero bene, quel libro fotografico su Doisneau ad esempio è proprio un gran vanitoso,

con la sua scritta a caratteri cubitali fa cadere gli occhi di ogni visitatore occasionale su di lui (tirarlo fuori dal ripiano è poi tutta un’altra storia). Poi ci sono i libri nascosti, che la mia padrona neanche ricorda di avere in camera, celati dietro elastici per capelli ormai esausti di tirare, dietro bracciali, cioccolatini scaduti, cavi caricabatterie, addirittura dietro una scatola che anni fa conteneva una macchina fotografica, ma io mi chiedo, perché tenere quella scatola lì, davanti a capolavori come Il barone rampante e Decameron? L’ultimo ripiano viene da me chiamato “il cimitero dei libri dimenticati”: (va bene lo ammetto, per questo nome mi sono ispirata a Zafón, d’altronde ho tutti i suoi libri sulle spalle e con il tempo ho imparato a conoscerli e a sfruttare l’incredibile inventiva dello scrittore spagnolo) e vi campeggia in bella vista una raccolta mai conclusa dell’enciclopedia per ragazzi, libri sulla danza, romanzi letti e abbandonati alla sedicesima pagina, tomi di esami odiati (storia della lingua italiana) e qualche trofeo velico vinto (im)meritatamente. Non sono però di certo qui per far polemiche sull’ordine e la pulizia tenuti dalla mia padrona, la polvere ormai mi entra nelle narici ogni volta che lei apre la finestra (anche se effettivamente lei non sa che io possa avere naso, braccia e tutto il resto) e il peso da sorreggere comincia ad essere un po’ eccessivo; ma per tirare fuori, per quanto sia possibile, ogni mese un libro dalla sua strettoia e presentarlo a voi, perché, questo devo am-

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metterlo, sono una libreria disordinata, confusionaria, impolverata e caotica, ma non mi mancano mai nuovi arrivati, nuovi libri da accogliere fra i miei ospiti, libri di cui poter sentire per alcune settimane l’odore della carta nuova, fresca di stampa, libri di cui poter studiare la copertina, il peso, la simpatia.

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ggi quindi debutto su Decarta come la prima libreria che scrive di se stessa, che racconta dei propri libri, che non dimentica nemmeno quelli dell’ultimo scaffale e tenta, a fatica, di rendersi simpatica ai lettori, non come alcuni romanzetti fin troppo spocchiosi che si credono romanzi intellettuali, scritti con cura, magari davanti ad una tazza di tè in un elegante chalet, ma come quei libri belli, interessanti, nuovi ed esaltanti, scritti con dedizione, sudore e fatica, scritti da qualcuno che la notte doveva alzarsi dalle comode e calde coperte del suo letto per correre a fissare su carta i suoi pensieri. Questa prima volta voglio quindi consigliarvi La verità sul caso Harry Quebert di Joël Dicker, un romanzo di 775 pagine (non spaventatevi o “scantatevi”, come direbbe Camilleri) che vi terrà con il fiato sospeso fino alla fine, che vi farà continuare a sfogliare le sue pagine anche mentre cucinate la cena o imboccate vostro figlio con terribili zuppe. È un abile intreccio di generi e filoni che possono interessare vari tipi di lettori: è un thriller, un giallo, un romanzo d’amore e un utile consigliere per chi sogna di scrivere un capolavoro. DECARTA SETTEMBRE 2013


Nola è la vittima della storia tessuta da Dicker, è una ragazzina, forse ancora una bambina, che all'età di quindici anni scompare misteriosamente e trenta anni dopo viene ritrovata morta, seppellita in un giardino; Harry è lo scrittore più famoso d’America, con Le origini del male ha raggiunto l’apice della sua carriera, ma forse anche l’abisso più profondo della sua vita, Marcus è invece il narratore della vicenda, del mistero, dell’abile intreccio di bugie e finzioni creato dai personaggi, che cerca una soluzione, non solo per il caso, ma anche per la sua vita: vuole scrivere un capolavoro e verrà aiutato dalle 31 regole che Harry dispensa a lui e a noi nel corso del romanzo.

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i tratta di un romanzo interessante, a mio parere differente, lo scrittore è inoltre molto giovane e in Francia, prima nazione in cui è stato pubblicato, ha ottenuto il Grand Prix du roman de l’Acadèmie Française nel 2012 ed è in corso di traduzione in oltre 25 paesi. E dato che io sono una libreria che dà

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molta fiducia ai giovani non posso che consigliarvi un romanzo di un ragazzo di 27 anni, un romanzo meditato, studiato, ma anche d’impulso, scorrevole e ricco di colpi di scena. Joël inoltre non può che lasciarsi amare, farvi scorrere il sangue sotto pelle rapidamente fino a raggiungere il cuore con una piccola e piacevole emozione, quando conclude il suo grande romanzo con queste parole: “Un bel libro, Marcus, non si valuta solo per le sue ultime parole, bensì sull’effetto cumulativo di tutte le parole che le hanno precedute. All’incirca mezzo secondo dopo aver finito il tuo libro, dopo averne letto l’ultima parola, il lettore deve sentirsi pervaso da un’emozione potente; per un istante, deve pensare soltanto a tutte le cose che ha appena letto, riguardare la copertina e sorridere con una punta di tristezza, perché sente che quei personaggi gli mancheranno. Un bel libro, Marcus, è un libro che dispiace aver finito.”

Joël Dicker La verità sul caso Harry Quebert Tit. orig. La Vérité sur l’Affaire Harry Quebert Traduzione di Vincenzo Vega Bompiani, 2013 pagine 775 - euro 19,50

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nota bene

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Al di là del Paradosso Intervista ad un trio di viterbesi Honoris Causa. Gabriele Ludovici | gabriele.ludovici@decarta.it - Foto di Alberto Scaglietta

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l cosiddetto mainstream, inglesismo che indica tutto ciò che fa parte della “cultura di successo”, pervade gran parte della nostra esperienza culturale: il circo mediatico detta senza appello le leggi di ciò che deve piacere o non può piacere. Eppure, lontano dai singulti dello show-business (altro pedante inglesismo), può capitare che tre amiche ed ex compagne universitarie incappino in un pomeriggio di noia, decidendo di creare una band musicale pur non avendo significative esperienze alle spalle. Può anche capitare che sempre più persone ascoltino i loro brani, rimanendo colpiti da attributi che ormai non vengono più associati alle canzoni: originalità, ironia e genuinità. Il gioco è fatto: nel giro di pochi mesi le Tuttattaccate diventano una realtà apprezzata in tutta Viterbo e non solo, attraverso quello che loro stesse definiscono cantautorato paesistico eclettico (approfondiremo). Con Emilia Olivieri a Brighton per motivi di lavoro, ho l’occasione di intervistare Barbara Ruggiero e Francesca Occhiogrosso. La prima cosa che mi incuriosisce è la nascita del loro progetto: «Era l’8 Marzo del 2011 e a Roma si teneva una manifestazione per i diritti delle donne… tuttavia ci stavamo annoiando, così decidemmo di andarcene a bere una birra. Proprio in quell’occasione buttammo giù il testo di una canzone che poi registrammo a casa di Barbara ed Emilia». Il pezzo in questione è Bluescarano, un omaggio ad un quartiere storico viterbese: «Per noi Pianoscarano è importante, rappresenta paradossalmente una fuga verso qualcosa di intimo. Se Viterbo è una città a dimensione umana, Pianoscarano lo è ancora di più e questo ci piace molto, a partire dalla classica vecchietta affacciata alla finestra. Dopo aver inciso il pezzo sul computer, ci siamo riascoltate 26

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esclamando: “Hei, ma siamo davvero noi?”. I nostri amici hanno subito apprezzato e per loro Bluescarano era diventato quasi una mania. Per noi invece, da quel momento vederci tutte le domeniche e suonare è diventata un’esigenza, a prescindere dai nostri impegni di lavoro». Inventano anche un linguaggio tutto loro per comunicare durante la composizione dei brani, che avviene sempre all’unisono: da questo deriva il nome del trio. L’originalità e la ricerca di un linguaggio legato al territorio viterbese sono fattori che contraddistinguono i loro brani. Emilia è di Vitorchiano, Barbara e Francesca sono rispettivamente di Toro e Bari, ma trovano subito il bandolo della matassa: «Noi cerchiamo di descrivere il vissuto quotidiano in chiave viterbese, come ad esempio abbiamo fatto in Franz citando il famoso detto “il lago di Vico ogni anno si fa un amico”. Il nostro è un cantautorato paesistico eclettico; cantautorato perché i brani sono nostri, paesistico perché descriviamo situazioni e luoghi, ed infine eclettico in quanto tutte e tre abbiamo una formazione musicale differente… anche se abbiamo iniziato canticchiando sotto la doccia!». La loro è una scelta che rispecchia il forte legame con Viterbo. Il loro primo vero live avviene in occasione di un evento di beneficenza al Razzmatazz di Roma. «Non ci aspettavamo un’accoglienza così positiva, la gente riempì i pullman per arrivare da Viterbo!» rivela Barbara.

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a volontà di espandersi arriva ben presto: «Sul sito Bandcamp abbiamo pubblicato due EP (L’anno ventuno e Faccallo perché, ndr) e tramite internet siamo entrate in contatto con una radio

milanese (latrasmissione.eu, ndr) che ci ha persino proposto di usare i nostri brani come jingle. Grazie a loro partecipammo ad un raduno in un locale di Roma, in cui si leggevano brani tratti da riviste indipendenti e noi suonavamo negli intervalli. Dopo esserci esibite a Viterbo e provincia, dove siamo state sempre accolte bene nonostante non ci conoscessero, avevamo in programma un piccolo tour nel Nord Italia che purtroppo ci tocca rimandare a causa degli impegni di Emilia». L’anno scorso le Tuttattaccate hanno anche aperto la serata di Alessandro Mannarino durante Caffeina, ottenendo un ottimo riscontro ed un momento da ricordare. Capire cosa c’è alla base del loro successo non è difficile: «I nostri brani sono ironici e leggeri, ma anche profondi visto che cerchiamo di sdrammatizzare la condizione di precarietà che in tanti vivono. C’è bisogno di musica più autentica, il panorama italiano è piatto e non c’è nessuno che metta in gioco la propria identità… eppure tutti sentono l’esigenza di ascoltare qualcosa di vero, concreto e tangibile, che faccia parte della realtà. Inoltre cerchiamo di far scaturire la curiosità verso questa terra, l’ente del turismo dovrebbe pagarci!».

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l loro eclettico repertorio piace ad un pubblico di tutte le età: si passa da una storia d’amore rivissuta attraverso la raccolta differenziata (Decoro urbano) all’ipocondria verso i medicinali (Bugiardino). Anche per questo le TuttattacDECARTA SETTEMBRE 2013

cate sono coinvolte in due progetti trasversali. Attraverso un consorzio di aziende agricole è nato il progetto Le fattorie vanno in città, da cui è scaturito un brano in cui il trio ha collaborato con dei bambini. Inoltre, le Tuttattaccate hanno attirato l’attenzione dei Poeti della Tuscia Dialettale, con cui è in fase di lavorazione una rilettura delle poesie viterbesi in chiave musicale. A coronamento di questo periodo, dopo Santa Rosa – «perché a Viterbo tutto riparte dopo Santa Rosa!» – uscirà il loro primo ed atteso cd, intitolato Biulle: «“Biulle” in viterbese indica la camminata barcollante o l’impennata col motorino, ed è anche un brano che si potrà ascoltare… nel nostro secondo disco! In questo ci sono delle collaborazioni con alcuni artisti viterbesi, mentre per il prossimo coinvolgeremo un soggetto importantissimo che ora abita a Firenze». L’immediato futuro prevede qualche nuova serata: «Ci esibiremo il 6 settembre nel castello di Roccalvecce ed il 12 all’Archea Brewery di Firenze. Quando Emilia tornerà qui però sarà anche il momento di tornare a frequentare i laghi ed il mare per scrivere pezzi nuovi». L’intervista si conclude e rimango con loro ancora qualche minuto, a finire il bicchiere di Falanghina e a parlare di come Viterbo sia in grado di conquistare le persone grazie al proprio – a volte inconsapevole – fascino della semplicità. Una semplicità che rende il quotidiano uno spunto perfetto per tre fije con tanta voglia di suonare e raccontare. 27


nota bene

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Prima puntata (as it began) Ed eccoci qua… appena nato, Decarta già si fa internazionale e accoglie le confessioni e riflessioni di un musicista emigrato. Lorenzo Rutili

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lcuni di voi lettori in terra viterbese forse mi conoscono già, altri forse no, in ogni caso mi presento: mi chiamo Lorenzo, sono nato a Viterbo in una fredda notte di ottobre del 1987, e sempre a Viterbo ho passato i miei primi 23 anni di vita. Mio padre fu il batterista del primo complesso beat della Tuscia, e in quei magici anni settanta in cui tanti giovani entusiasti mettevano su una radio libera, insieme a mia madre fondò Radio Verde, tuttora baluardo storico della radiofonia viterbese; con dei trascorsi familiari così, era inevitabile che io venissi svezzato a latte e rock’n’roll, e che la musica finisse per diventare la mia grande passione. A otto anni mi misero davanti a un pianoforte, con scarsi risultati, lo strumento non mi era proprio congeniale; ero assai più affascinato dalla chitarra, ma mi ripromisi di iniziare a studiarla a dieci anni. Così fu, e da allora non mi sono fermato. Poco dopo vennero le prime esperienze live, prima affiancando la blues band di mio padre, poi con le prime band mie, tra cui la prima storica incarnazione dei Rifflessi e soprattutto i Funktion. Tanti anni di concerti, registrazioni, soddisfazioni, anche qualche prima collaborazione come session-man, ma qualcosa ancora non mi sfaciolava, come si suol dire dalle nostre parti.

Fu così che, alla fine del 2010, presi la decisione di trasferirmi in Inghilterra dall’inizio dell'anno successivo, per continuare a studiare musica, e di rimanere lì per costruirmi una nuova vita e portare avanti la mia passione. Perché sono arrivato a ciò? È stato fa28

cile? È davvero la scelta migliore da fare? A questi e tanti altri interrogativi darò la mia personale risposta, da questo numero in poi, raccontandovi tutto ciò che ho imparato finora, ma anche ciò che devo imparare ancora, sull’essere un musicista italiano emigrato nell’algida Albione. Ma per iniziare, parlerò di come tutto ebbe inizio.

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orrei tracciare brevemente un quadro socio-economico (a dire così risorgono antiche memorie dei miei libri di geografia dove ogni santo paese era specializzato nella coltivazione di patate e cereali… ma non divaghiamo!) di Viterbo quando l’ho lasciata: essere musicista a Viterbo stava diventando sempre più difficile, un tempo c’era un fottìo di locali dove si poteva trovare musica live, ma già da metà degli anni Duemila, pian piano sparivano, o al limite diventavano pizzerie, o peggio ancora, Dio ce ne scampi e gamberetti, ci piazzavano un distributore di bibite o un compro-oro o un kebabbaro… Ricordo ancora quando andai a chie-

dere una serata in un locale, di cui non farò nome, il cui capoccia mi consigliò di tornare dopo una settimana con demo e rassegna stampa. Così feci, e dopo una settimana esatta arrivai con il mio bel portfolio sottobraccio… trovando il locale chiuso. Per sempre. Arrivati al 2010, le speranze per un giovane musicista viterbese di trovare tante opportunità e tanti posti per poter suonare erano ai minimi storici, spazi quasi zero, eccettuando forse qualche sagra (dove a una band di quattro-cinque elementi tendenzialmente si preferisce un DJ o un pianobarista che costano meno e creano meno rogne) oppure le rare manifestazioni estive (God save Caffeina!!!) Viterbo versava in condizioni alquanto squallide, insomma, ma nemmeno nelle restanti regioni d’Italia si era da meno, sia per risicare una serata in trasferta, che un qualche contatto con il vero business musicale, ci si scontrava con ciò che dovrebbe essere il vero testo del primo articolo della nostra Costituzione: “l’Italia è una repubblica fondata sulla zeppa e sull’aggancio politico”. Il nostro bello stivalotto, che un tempo fu culla di tanti grandi artisti, non solo musicisti, ma anche poeti, scrittori, attori e quant’altro, sembrava voler rinnegare quel suo glorioso passato, la promozione delle arti in genere non era a livelli eccezionali, ma soprattutto per i musicisti la situazione era scoraggiante anziché no.

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i ero appena laureato e avevo bisogno di fare un’esperienza davvero nuova e di inserirmi in un ambiente con molti veri sbocchi, e l’occasione mi arrivò sottoforma di corso di DECARTA SETTEMBRE 2013


master in performance musicale alla Academy of Contemporary Music di Guildford. Naturalmente, non fu facile convincere i miei genitori a farmi prendere questa strada, ma d’altronde è fisiologico, per un genitore l’idea di avere un figlio non solo lontano da casa, ma in un’altra nazione, non è certo di pronta digestione. Tuttavia, potetti contare sull’appoggio dei miei amici musicisti, compresi i restanti Funktion, che fu una sofferenza dover lasciare dopo sei anni di attività e soddisfazioni, ma che sapevano che a Viterbo come in tutt’Italia la situazione era quel che era e quindi mi spronavano a puntare verso l’Inghilterra, e sull’appoggio di una delle mie due sorelle, che in Inghilterra ci vive ormai da 18 anni e sa quanto sia diverso l’andazzo da quelle parti. Così, dai che ti ridai, convinsi i miei genitori ad aiutarmi finanziariamente e l’8 gennaio 2011, data per me fatidica poiché collegata a un mio vecchio exploit di Youtube (cercate Esce ma non mi rosica e capirete di cosa parlo…) arrivai in terra britannica, trovando dopo pochissimi giorni un appartamento condiviso con altri studenti, dove rimasi fino ad agosto.

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u un’esperienza che mi aprì gli occhi su molte cose, carica di gioie, dolori, inquilini rompiballe, ispirazioni creative, e così via. Dopodiché, al termine del corso e del contratto dell’appartamento, tornai in Italia per l’estate e decisi di ripartire a settembre per stabiDECARTA SETTEMBRE 2013

lirmi fisso in UK. Ancora una volta, mia sorella appoggiava la scelta, così come tanti miei amici, ma di nuovo la cara vecchia sindrome del nido vuoto colpì i miei genitori. Ma ripeto, tutto ciò è perfettamente normale, alla fine si trova sempre un compromesso giusto, che nel mio caso fu quello di partire con un budget di tremila sterline fornite dai miei, da sfruttare con parsimonia mentre entro un termine ultimo di tre mesi mi sarei cercato un lavoro fisso. Funzionò su tutti i punti, tranne che su quello del lavoro, dove dovetti aspettare un po’ di più e passare per svariati lavori a tempo determinato, che però mi sono serviti sia a integrare il gruzzoletto e a farlo durare di più, sia a formare un curriculum di esperienze lavorative. Inoltre, aspiravo a stabilirmi a Londra, ma avevo fatto i conti senza l’oste, non sapevo quanto sarebbe stato costoso, e quanto il mito di Londra come meta ideale per chi vuole fare il musicista sia un mito da sfatare sotto tanti punti di vista.

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osì rimasi a Bracknell, nel Berkshire, dove tuttora mi trovo, e oltre a cercare lavoro iniziai a fare il giro dei locali della zona dove si facevano i cosiddetti “open mic”, ossia serate in cui chiunque può presentarsi e suonare quel che più gli piace. Tali serate sono ben più di una semplice jam session, non ci sono limiti stilistici e danno l’opportunità di stringere contatti con altri musicisti. Fu proprio una di queste serate a

dare origine a quella che è la mia attuale band, i Nevertones, con cui iniziai a registrare demo e fare concerti, arrivando al primo contratto con una piccola etichetta e a suonare in svariate occasioni, senza dimenticare tante serate, finalmente, nella tanto agognata Londra.

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a vivere di sola musica è difficile, quasi impossibile, il vecchio luogo comune che alla frase “faccio il musicista” vuole come risposta “sì ma di lavoro cosa fai?” rimane una triste realtà e anche in Inghilterra trovare un lavoro non è cosa facilissima, ma qualche possibilità c’è, ed è così che all’attività musicale sono riuscito infine ad affiancare un lavoro come magazziniere in un supermercato, a due passi da dove vivo. Non sarà il più nobile dei lavori, ma è pur sempre un lavoro, e ciò che è più importante, porta a casa una discreta cifra che mi permette di continuare a sopravvivere… in attesa di trovare qualcosa di meglio. Trovare una serata pagata è estremamente difficile se fai parte di una band emergente che suona pezzi propri, certo è che di spazi dove esibirsi ce ne sono a non finire e così anche di possibilità di farsi notare, ma non mancano le ordalie da affrontare, i prezzi da pagare (a volte letteralmente!) e i tanti episodi assurdi in cui ci si può trovare per poter continuare a seguire il proprio sogno. Ma avrò modo di continuare a parlarne… alla prossima puntata e KEEP ROCKIN’! 29


eventi

report

Come in un mondo ideale Bolsena in dieci giorni di organizzazione e di amicizia. Manuel Gabrielli | manuel.gabrielli@decarta.it portanti della fotografia professionale italiana. Sempre come in un mondo ideale anche le attività commerciali hanno saputo cogliere la bontà dell’evento mettendo a disposizione i propri spazi per piccole mostre fotografiche. Grazie a questo pacifico spirito di iniziativa sono state messe da parte anche le tipiche guerre all’italiana tra associazioni ed organizzazioni che operano in uno stesso luogo.

Quando questo numero di Decarta verrà distribuito il Bolsena Photo Festival e Temp’Estiva saranno già conclusi, ugualmente abbiamo ritenuto giusto dare spazio a queste due realtà per un senso di vicinanza ad altre iniziative giovani come la nostra.

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er un cittadino di un piccolo centro abitato la grande città conserva il suo fascino, saranno le grandi infrastrutture o semplicemente perché in quanto ad attività si ha a disposizione un'offerta molto più ampia. La fuga dalle grandi metropoli sembra però far intendere che più andremo avanti negli anni più verranno rivalorizzati i piccoli centri abitati, intimi, a misura d’uomo. Il Bolsena Photo Festival ha origine proprio in un piccolo centro abitato, ma è proprio nei limiti spaziali che si può trovare la sua forza. È un dato di fatto, nel centro di Bolsena è pressoché impossibile perdersi e nel giro di poche ore si ha la piacevole sensazione di trovarsi in un luogo familiare. Se uniamo al tutto la bellezza intrinseca del posto e delle attività commerciali gestite da persone intelligenti, capiamo perché negli anni è diventata meta fissa di molti turisti pro30

venienti dal nord Europa. Basta aggiungere alla ricetta un altro ingrediente come una buona organizzazione e diventa facile capire anche perché alla seconda edizione il Bolsena Photo Festival ha l’aspetto di un evento già ben avviato.

Non solo pace, ma addirittura alleanza, questo è stato il primo anno di Temp’Estiva, un festival della cultura che ha riunito sotto un unico nome il Bolsena Photo Festival, il Lacuaria Bolsena Musica Festival, la rassegna di cinema ISM, Immagini dal sud del mondo, le presentazioni di libri del Club Unesco di Viterbo, la mostra mercato di prodotti agroalimentari Di Tuscia un po’ e 15 ore Sotto Sante ovvero un’intera giornata dedicata al benessere.

Le menti di questo ciclo di esposizioni, incontri e workshop sono Valentina Burla e Francesca Adami, due ragazze che in barba alle fughe di cervelli hanno deciso di usare le loro capacità per creare qualcosa per il luogo dove sono cresciute.

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ome in un mondo ideale il clima di amicizia all’interno dell’organizzazione è di immediata percezione, tutte quante le collaborazioni prima di tutto sembrano essere mosse da questa nobile causa, da citare fra tutti il fotografo Gianni Mercuri, il quale è riuscito a radunare per l’occasione vari nomi imDECARTA SETTEMBRE 2013


eventi

incontri

Incontro con Tano D’Amico Una grande fede nelle immagini. Manuel Gabrielli

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sullo sfondo, diventavano subito più comprensibili anche i discorsi che avvenivano sul palco. Contesti, sguardi di persone spesso ignare di essere rimaste catturate in un momento, rappresentano un tipo di fotografia che nella sua semplicità lascia spazio alla fantasia, immagini che vivono anche grazie all’osservatore.

n questo momento, mentre sto scrivendo mi posso definire soddisfatto della giornata, il tutto nonostante un po’ di stanchezza. Sono contento di aver colto un’occasione al volo, perché incontrare Tano D’Amico è stato per metà un caso. È vero che il 24 agosto mi trovavo a Bolsena proprio per il Photo Festival, ma è anche vero che verso l’ora di pranzo mi stavo incamminando verso casa. Poi incrociando un indaffarato Gianni Mercuri mi unisco a lui nell’aspettare l’ospite della giornata. Mi vorrei soffermare sugli attimi che si sono succeduti dopo che ho stretto la mano a Tano D’Amico; infatti quasi nell’immediato ho sentito lo stesso sconsigliare ad una mia amica l’idea di una professione nel mondo della fotografia: “sei ancora in tempo per scegliere un mestiere per bene” e quindi sono prontamente intervenuto: “scusi, ma se potesse tornare indietro, lei non rifarebbe le stesse cose?”, altrettanto prontamente mi sono sentito rispondere un probabile sì, ma un sicuro no nel caso avesse dovuto prendere questa decisione nel presente. A seguito di questa risposta così scarna ho scoperto essere numerose ed interessanti le motivazioni di Tano. Durante il pranzo il destino voleva seduto dall’altra parte del tavolo anche Sandro Mengoni, altro fotografo ospite a Bolsena e per questioni anagrafiche anche spettatore in prima persona di quell’Italia immortalata negli scatti del D’Amico reporter. Se in un primo momento avevo pensato ad un’intervista, dopo aver ascoltato attentamente le loro conversazioni ho deciso che mi sarei trattenuto non solo a pranzo, ma anche all’incontro delle 18, durante il quale ero sicuro la mia domanda avrebbe ricevuto risposte che non avrebbero necessitato di altre DECARTA SETTEMBRE 2013

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spiegazioni. Con una apprezzabile puntualità l’incontro è iniziato alle 18 nell’intimo Teatro Piccolo Cavour di Bolsena, gli altri due interlocutori sono stati Luciano Zuccaccia e Romualdo Luzi, mentre a fare da sfondo le proiezioni di alcuni scatti del reporter dagli anni ’70 ai primi 2000. La prima domanda, genitrice anche di tutte le altre, è di rito “come è cominciato tutto?”. Ho potuto immaginare il giovane Tano D’Amico, insieme ad altri reporter dell’epoca, dare l’inizio attraverso un nuovo modo di intendere la fotografia e nuovi formati ad una nuova corrente del reportage fotografico. Per tutta la durata dell’incontro è trasparito il momento storico nel quale un uomo solo, attraverso una macchina fotografica, poteva cambiare il modo di pensare di un paese. Mentre si alternavano le immagini

con questa concezione della fotografia che diventa comprensibile perché per un reporter di fine anni ’60 è improponibile l’idea di accettare di lavorare come professionista al giorno d’oggi. È cambiato un intero contesto, in passato vedersi un lavoro rifiutato da una rivista significava avere altre 50 porte a cui bussare. Oggi la stampa nazionale con il potere di acquisto è in mano a poche persone, la concorrenza obbliga chi vuole tentare la via professionale a piegarsi al volere dei potenti, obbliga a creare delle immagini che impongano un messaggio. Le parole di Tano D’Amico fanno riflettere sulla qualità di ciò che ci viene propinato ogni giorno dai mezzi di comunicazione, una quantità di immagini omologate, disumanizzate, di realtà che non ci somigliano e che quindi apparentemente non ci riguardano. Non fanno impressione, non commuovono le immagini delle stragi o di un pestaggio in piazza, perché sono incomplete, mancano i contesti, tutto per volere di un potere che vuole appiattite le coscienze. È stato un incontro che ha risvegliato qualcosa in me, adesso ho una risposta all'insensibilità che provo davanti ad un telegiornale o mentre leggo un quotidiano, ho la coscienza per cercare altre immagini, perché adesso ho qualcosa in più da cercare.

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