M E N S I L E D I D I V U L G A Z I O N E C U LT U R A L E
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Andrea Seki
Il suono dell’Atlantico
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OTTOBRE
UNINDUSTRIA VITERBO Via Fontanella del Suffragio, 14 www.un-industria.it 0761228101
editoriale
Sì, viaggiare… DECARTA Scripta volant Mensile di divulgazione culturale Numero 4/2013 – Ottobre Distribuzione gratuita Direttore responsabile Maria Ida Augeri Direttore editoriale Manuel Gabrielli Redazione Martina Giannini, Gabriele Ludovici, Claudia Paccosi, Martina Perelli Redazione web e photo editor Sabrina Manfredi Design Massimo Giacci Editore Lavalliere Società Cooperativa Via della Palazzina, 81/a - 01100 VITERBO Tel. 0761 326407 Partita Iva 02115210565 info@lavalliere.it Iscrizione al ROC Numero 23546 del 24/05/2013 Stampa Union Printing SpA Pubblicità 348 5629248 - 340 7795232 I contributi, redazionali o fotografici, salvo diversi accordi scritti, devono intendersi a titolo gratuito. Stampa su carta uso mano riciclata Igloo offset Chiuso in tipografia il 01/10/2013 www.decarta.it
DECARTA OTTOBRE 2013
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robabilmente chi questa mattina si è recato in una concessionaria per ritirare un’automobile, si è sentito consigliare di non far sforzare troppo il motore per i primi km, o più precisamente di non farlo salire troppo di giri, questo processo si chiama rodaggio. Odiernamente i nuovi sistemi produttivi permettono di pre-rodare i motori su un banco e grazie alle nuove tecnologie meccaniche e dei materiali il rodaggio non è più così essenziale come poteva esserlo stato in passato. Ugualmente però ogni motore, anche il più moderno, ha bisogno di essere “slegato”, le sue componenti interne appena assemblate si comportano un po’ come un piede dentro una scarpa di cuoio nuova, stanno un po’ scomode. Poi con il tempo cuscinetti, para-oli, bronzine si assestano e svolgono ogni giorno un po’ meglio il lavoro per il quale l’ingegnere le ha disegnate. Poi ovvio, non basta fare un buon rodaggio, ad ogni accensione, soprattutto durante le fredde mattine di inverno, è bene far scaldare qualche minuto la macchina, fare in modo che l’olio vada in circolo a lubrificare il tutto. Svolti nella maniera corretta ed uniti ad una manutenzione costante, questi processi faranno in modo che il motore ripaghi il suo proprietario della previdenza avuta negli anni. Detto questo, premetto che, nonostante un’incurabile fissa per tutto ciò che ha un motore, per il momento ancora non ho “svalvolato”.
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ra mia intenzione creare questo contesto “meccanico”, perché vorrei far immaginare Decarta come il concept di una macchina e la sua redazione come il suo motore, le analogie sono tante. Direi che per motivi di gioventù la fase di rodaggio ancora deve arrivare, piuttosto in questo momento tutto quanto si trova in mezzo ad un test di affidabilità della fase di pre-produzione, gli ingegneri progettano ed i meccanici montano e smontano parti a seconda delle esigenze, è tutto meno che un prodotto finito. Per adesso c’è da ringraziare “operai” e finanziatori per i risultati ottenuti, dal 27 giugno di quest’anno quando abbiamo presentato il nostro primo “concept”, fino ad oggi. Il lavoro da fare è ancora tanto, ma sarà tutto in funzione della strada che ci apprestiamo a percorrere, perché prima di un buon rodaggio è necessaria una buona macchina! Manuel Gabrielli Presidente Lavalliere Società Cooperativa
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Una “mini-guida” su Bochum Martina Giannini
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Lotta individuale, lavoro di squadra
report
Non dite a mamma che… Sabrina Manfredi
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report
In prima persona Chiara Bartolucci
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Ei fu Dobici Martina Perelli
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incontri
caos letterario
Storie di una libreria… / 2 Claudia Paccosi
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xenofilia
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Apriamo i microfoni
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Lorenzo Rutili
report
Una missione per la vita Claudia Paccosi
LAVALLIERE Editoria e Servizi editoriali
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DECARTA OTTOBRE 2013
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erasmus & co.
Una “mini-guida” su Bochum Iniziamo un viaggio alla scoperta delle principali mete Erasmus. Martina Giannini | martina.giannini@decarta.it
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ochum è una città, della Renania Settentrionale-Vestfalia, che conta più di 370.000 abitanti, di cui un’alta percentuale sono studenti. Questa città è famosa per l’Università della Ruhr, che è una delle più importanti in Germania. Bochum basa la sua economia, in particolare, nel settore terziario, mentre in passato la principale fonte di guadagno era ricavata da attività di estrazione, in primo luogo dalle miniere. Essendo una città industriale, con il tempo è stata meta di numerose migrazioni, soprattutto da parte di turchi, tanto da diventare un vero melting pot culturale. La città è caratterizzata dalla continua alternanza tra industrie, fabbriche e zone verdi, come lo Stadtpark o il Westpark. Inoltre lungo le coste del Kamnader, uno dei fiumi della Ruhr, sono allestite diverse zone di balneazione, piste di pattinaggio, che consentono di godere di questi spazi durante tutto l’anno. Dal punto di vista turistico si possono visitare il Deutsches Bergbau-Museum, ovvero il museo minerario tedesco, che è la testimonianza del valore storico-culturale che ha avuto l’attività estrattiva per la città. Nella città sono presenti anche l’Eisenbahnmuseum (Museo delle ferrovie) e lo Schulmuseum (Museo della scuola). Un altro simbolo della città è la campana del Palazzo municipale (Rathaus), realizzata nella seconda metà dell’ottocento in una fonderia di Bochum e che, a causa dei danni provocati dai numerosi bombardamenti subiti durante la Seconda Guerra Mondiale, è oggi esposta nella piazza antistante. La città è ben collegata con tutto il Land e il resto della Germania, con poco meno o poco più di un’ora si possono raggiungere Düsseldorf, Essen, Colonia, Bonn e molte altre città. Ad Essen si trova lo Stiftung Zollverein, che è divenuto patrimonio dell’Unesco nel 2001. DECARTA OTTOBRE 2013
Trovandosi poi vicina al confine con i Paesi Bassi, da Bochum è possibile raggiungere in treno, a modici prezzi, anche Amsterdam e Rotterdam. L’Università L’Università della Ruhr è, come detto, una delle università più importanti di tutta la Germania grazie, sopratutto, alla sua organizzazione. Gli studenti sono obbligati a frequentare i corsi, a numero chiuso, ai quali si iscrivono attraverso un sistema computerizzato detto VSPL (Verwaltung von Studien und PrüfungsLeistungen). Nell’arco della durata del corso, gli studenti devono sostenere continui test e, nel caso di più di una bocciatura, sono costretti a cambiare corso. Per quanto riguarda le tasse l’università richiede una quota semestrale a prezzi ridotti, nel pagamento di tale tassa sono compresi l’abbonamento ai mezzi per tutta la Renania-Vesfalia (con cui, nel fine settimana, può viaggiare, oltre al possessore, anche un’altra persona). All’interno dell’università si trovano: il Botanischer Garten, costruito nel 1966, con il caratteristico giardino cinese “Qian Yuan” (giardino dei poeti e degli studiosi); il Kunstmuseum, del 1960, ovvero il museo d’arte; e infine l’Audimax, che viene considerato il centro della Ruhr-Universität Bochum (RUB) e uno dei simboli della città. All’interno del Campus anche il KulturCafé che è il pub universitario, dove si tengono le feste di facoltà e non solo; inoltre ogni studentato ha un proprio bar/pub dove una volta a settimana viene organizzata una serata. Vita notturna e festival culturali Poco distante dal centro di Bochum c’è il Bermudadreieck, ovvero il triangolo dove si svolge buona parte della movida e dove si trovano diversi locali. Dai semplici Kneipe, che sono come i
nostri pub/birrerie fino a locali dove ballare diversi generi musicali: latino-americano, dubstep, rock, indie, alcuni di questi locali propongono anche serata a tema musicale. Tutta la zona è ricca di ristoranti, cinema, teatri, negozi e supermercati che rimangono aperti fino a tarda notte. Il Bermudadreieck, per di più, ospita il più grande festival musicale di tutto il Land, ovvero il Bochum Total. Dal 1986, verso la metà di luglio, questo festival permette a più di 70 band, tedesche e internazionali, di esibirsi su dei palchi dislocati per tutto il Bermuda, e a un numero infinito di giovani e studenti di passare quattro giornate all’insegna della buona musica e del divertimento. Un altro evento importante è l’Extraschicht, che offre una notte di cultura industriale in tutte le città della Ruhr: ex fabbriche, miniere e officine diventano luogo di spettacolo, con musica, danza, produzioni creative di artisti provenienti da tutto il mondo. Sempre in estate, alla fine dell’anno accademico, la RUB organizza la Sommerfest, cioè la festa dell’estate, in cui vengono presentate numerose attività che coinvolgono dai bambini agli adulti di tutta la città: lettura di fiabe, concerti dell’orchestra universitaria, gare sportive e manifestazioni culturali varie. Cibi e bevande da assaggiare I Le patatine da Max Frituur. I Il Bratwurst e il Currywurst, alla Bratwursthaus. I La Schnitzel (fettina di vitello impanata e fritta nello strutto). I La Fiege, ovvero la birra locale di Bochum. Per la creazione di questa “mini-guida” devo ringraziare Ermanno Pernafelli, Francesca Monarca e Chiara Bartolucci, tre studenti dell’Università della Tuscia che hanno vissuto a Bochum la loro esperienza Erasmus. 5
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report
In prima persona Un percorso difficoltoso per tornare a casa felicemente nostalgici. Chiara Bartolucci
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l mio primo giorno alla Ruhr-Universität Bochum (RUB) non sapevo dove guardare: 50.000 studenti ca., giusto per darvi una vaga impressione. Gli spazi sono enormi e così la burocrazia. Io ho impiegato circa un mese per capire come funzionava il tutto; per fortuna il gruppo degli Erasmus Student Network (ESN) segue tutti gli studenti internazionali passo per passo, dall’iscrizione all’università fino all’iscrizione al comune. Quello che invece è un po’ sottovalutato dall’ufficio internazionale (che non è ESN) è ciò che riguarda i corsi e quindi lo studio in sé: nelle università italiane si paga la rata d’iscrizione e si è automaticamente iscritti anche ai corsi. Alla Ruhr Uni invece, ci si iscrive all’università e poi ai corsi di interesse, che ogni studente sceglie poiché non ci sono piani di studio già fatti. Problema: i corsi sono a numero chiuso di ca. 30 persone, e il partecipare o meno ad un corso dipende tutto dal sistema “random” di VSPL (il sistema elettronico che ti permette di iscriverti ai corsi). E se non rientri nel corso? Beh, aspetti un semestre nella speranza di poter rientrare successivamente, oppure cambi. E se sono erasmus e sono venuto addirittura da un altro paese per fare questo corso? Non importa a nessuno, poiché in Germania (o almeno alla RUB) gli studenti stranieri sono esattamente allo stesso livello dei tedeschi. Passata questa prima difficoltà del sistema VSPL (rigorosamente in tedesco), arriva il problema dell’ambientazione. Ambientarsi alla RUB è un’impresa, non tanto per trovare i palazzi dove si tengono le lezioni, il problema, sono le aule. Allora se dovete orientarvi, vi consiglio di imparare a decifrare i codici che indicano i luoghi dove hai lezione, per 6
es. GB 8/160 (esempio casuale) GB indica che la lezione sta nel palazzo degli studi umanistici ‘G’ (Geistwissenschaft) nel palazzo B (sì, ci sono anche A e C), all’8° piano nella stanza n. 160 che potrebbe trovarsi a nord o a sud del palazzo. Fino a qui non è molto complicato, il problema arriva quando ti trovi un codice tipo: GABF 04/247 (esempio casuale): i palazzi A B e C sono sotterraneamente collegati da ponti e capire il collocamento di queste aule ha una logica tutta loro. Inutile chiedere informazioni ai tedeschi, neanche loro sanno come arrivarci. Ora che sei riuscito ad iscriverti al corso e hai trovato l’aula puoi finalmente andare a lezione carico di aspettative e ansioso di vedere cosa verrà: segui 1h30’ di lezione totalmente in tedesco (ovviamente non hai capito nulla perché sei ad un livello A2) e a fine
lezione ti rendi conto che quel giorno 22.10.2012 è già la seconda lezione del corso, dato che il 15.10 c’è già stata la prima, ma tu eri troppo occupato a capire il funzionamento di VSPL per accorgerti quando iniziava il tutto. Quel giorno stesso scopri che tutti i corsi sono a frequenza obbligatoria e che si possono fare al massimo due assenze e che tu una te la sei già giocata, e usare la tecnica “ per favore sono erasmus” vi assicuro che non funziona.
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ll’inizio di ogni insegnamento (o quasi) c’è da aspettarsi la fatidica domanda: “Come mai seguite questo corso?” Questo è perché i tedeschi sono un popolo programmato, tutto quello che fanno deve avere un senso e una ragione. Tanto che quando al corso di letteratura tedesca ti viene chiesto perché tu ti trovi lì, non te la senti proprio di rispondere “perché mi piace la letteratura tedesca” dopo che le cinque persone prima di te sono riuscire a rendere questa materia il loro scopo ultimo nella vita in cinque modi differenti: perché ti trovi qui? Perché hai scelto la Germania? Perché questa città? Perché studi questo? Perché questo corso? Perché A e non B? E tu non lo sai! Diventa tutto una questione esistenziale. Ora, per chi dice che i tedeschi sono freddi: si sbaglia. Sono quasi più festaioli degli italiani, poi, che loro non siano minimamente interessati a te è un’altra storia. Anche qui è ovvio che ci sono tedeschi e tedeschi, ma per la maggior parte, ognuno vive la sua vita e non è minimamente interessato ad includerti. Gli stranieri fanno gruppo tra di loro di solito, poiché durante un corso puoi parlare con un tedesco, puoi chiedergli delle informazioni, e loro saranno molto genDECARTA OTTOBRE 2013
ma anche come un’esperienza di vita, grazie ad eventi quali l’Unifest o tutti i corsi sportivi e di danza e di teatro che la RUB offre. Quando penso alla Ruhr Uni non penso allo studio in sé o agli esami o ai punti di credito, penso a un ecosistema che consiste in qualcosa di più che in dei professori che portano avanti dei corsi.
I tili, ma è estremamente difficile che qualcuno ti inviti ad una festa o ad uscire con i suoi amici. La maggior parte dei contatti che hai con i tuoi colleghi di corso al di fuori dell’aula sono comunque per preparare dei testi o delle presentazioni per le lezioni. Se invece tu provi ad invitare un tuo collega ad uscire, può darsi che ti dica di sì ma sarà giusto l’incontro di una sera, se invece non vuole uscire con te può capitare che molto schiettamente ti risponda: “Non capisco perché devo diventare amico di qualcuno che fra qualche mese se ne va. Questo non mi porterebbe a nulla”. È tutta un’ altra storia se invece convivi con dei tedeschi. Allora diventi automaticamente uno di loro, anzi il loro super cool coinquilino straniero, vieni iniziato alla movida tedesca e entrerai a far parte dello stretto gruppo di amici che ogni buon tedesco che si rispetti ha. Ma non ci fate l’abitudine, alla fin fine sono molti gli stranieri a Bochum quindi non sentitevi troppo speciali. Dopo aver ironizzato un po’, voglio precisare che sto scherzando e che non è per niente tutto così estremamente complicato.
Quello che io ho riportato a casa alla fine di 10 mesi non è la difficoltà di VSPL o l’incapacità di orientarsi all’interno dell’università. Dell’esperienza strettamente universitaria ho portato a casa tanto appagamento, coscienza delle mie capacità e l’esperienza stessa in sé (da non sottovalutare). Sono grata per l’opportunità che ho potuto vivere, nonostante io sia magari rimasta indietro nel mio studio universitario, nonostante non mi sia stato riconosciuto quasi nulla di quello che ho fatto, nonostante tutto e tutti ne è valsa la pena. Ne varrà sempre e comunque la pena. Porto nel cuore ogni giorno, ogni professore che mi ha lasciato qualcosa, ogni lezione e ogni compagno di corso. Porto nel cuore ogni viaggio in U35 CampusLinie. Porto nel cuore ogni luogo, dal GB al Botanischer Garten, al centro musicale universitario, fino alla Biblioteca, la mensa e l’Audimax. Porto nel cuore ogni esperienza che mi ha permesso di vivere l’università non solo come un’occasione di studio e di lavoro
l mio Erasmus non è un’esperienza conclusa, è un seme, il seme di qualcosa che deve ancora nascere e crescere, e la sua capacità di svilupparsi dipende da chi lo porta, da quanto gli sta dietro, da quanto lo tenga con cura. Perciò siate fertili, pronti ad accettare le sfide e aperti ad accogliere tutto quello che vi viene dato. La Germania può sembrare un paese freddo e ostico, ma bisogna solo saperlo prendere, così come i tedeschi, alle volte vanno solamente un po’ “ interpretati”, e anche loro sapranno lasciarvi molto. Io sono partita e non sapevo bene cosa aspettarmi, né sapevo come prepararmi. Ho solo cercato di non avere pregiudizi e soprattutto mi sono ripromessa che non avrei cercato “casa” in nessun luogo e in nessuna persona. Bochum è diventata la mia nuova casa e la RUB la mia università. La realtà che io ho vissuto è una realtà che mi ha aperto la mente, e che mi ha dato tanti nuovi stimoli e curiosità. È ovvio che ora come ora ho nostalgia delle giornate passate e mi manca tutto di Bochum e della Vestfalia in generale, ma è la fine che da valore a quello che c’è stato nel mezzo, quindi per me va bene concludere così.
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i tenevo a parlare di alcune difficoltà che si possono incontrare, per non parlare sempre delle solite cose. Tutto quello che all’inizio sembra un insormontabile ostacolo dopo poco tempo sembrerà che non sia mai esistito. Ci si ambienta, si impara dove sono le aule senza problemi e vi chiederete come certi luoghi prima di quello non vi siano stati stretti. La soddisfazione e la consapevolezza che si raggiunge alla fine ripaga di tutte le fatiche fatte se così si possono definire; in fondo è tutto una sfida, che serve per mettersi alla prova, è per questo che si è parte o sbaglio? DECARTA OTTOBRE 2013
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Ei fu Dobici Appuntamenti ed iniziative in direzione di una mostra permanente. Martina Perelli | martina.perelli@decarta.it
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l vocabolario Treccani alla voce ignoranza recita “Con sign. ristretto, l’ignorare determinate cose, per non essersene mai occupato o per non averne avuto notizia”. Ecco, che sia per noncuranza mia o casualità, io fino a poco tempo fa ignoravo chi fosse Cesare Dobici. Di primo acchito sono portata a pensare che non ci sia nulla di strano. Quel sottile senso di colpa viene a manifestarsi solo quando scopro che Dobici ha natali viterbesi e, come viterbese, è piuttosto celebre. O dovrebbe esserlo. Dico dovrebbe perché, come spesso accade, tendiamo a dimenticare ciò che di bello abbiamo in casa. Un po’ come la storia di quello che va in vacanza all’estero, gira tutte le capitali europee e poi se gli chiedi dove si trovi il museo civico della sua città ti dice: “Ah, perché, esiste?”. Sì, esiste. Un tempo esisteva anche Cesare Dobici, brillante compositore. Nacque a Viterbo nel 1873 dove, sin dalla giovane età, scoprì le sue attitudini musicali. A Roma ebbe la possibilità di studiare composizione presso il Conservatorio di Santa Cecilia godendo della dottrina di
un insegnante autorevole come il De Santis. Negli anni successivi alla formazione fece ritorno a Viterbo dove assunse la direzione della Cappella Musicale della città. Intraprese poi la carriera di didatta al Pontificio Istituto di Musica Sacra e, ormai noto ai più, fece ritorno al Santa Cecilia, questa volta nelle vesti d’insegnante. Di lui uno stimato allievo, don Tommaso Gardella, scrive: “Non era avaro di lodi a chi le meritava e non demoralizzava chi non riusciva. Per tutti buono, comprensivo, vero Maestro, vero Pedagogo insomma e perciò largamente amato e stimato”. Ottimo didatta, mirabile compositore, fu tra i maggiori esponenti di quel movimento ceciliano
Il busto di Cesare Dobici a Prato Giardino e, di lato, il nipote Cesare Jr.
La Corale polifonica San Giovanni di Bagnaia
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promosso da Pio XI e volto a riportare in auge la musica sacra, da troppo tempo messa in ombra dalla lirica. Il suo fu un contributo costante che lo impegnò da un lato nella formazione delle “giovani leve” di compositori, dall’altro in una feconda produzione artistica. Di tutto ciò che di pregevole produsse, tuttavia, vedremo pubblicata solo la minima parte. Quasi un affronto: l’essere umano è in grado di produrre tanta bellezza e il caso vuole che nessuno possa goderne.
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ualcuno però non ci sta e ha voluto fare di questo patrimonio culturale perduto un bene pubblico, a tutti accessibile, da ognuno godibile. La Corale polifonica San Giovanni di Bagnaia s’impegna a fare questo: promuovere il bello, regalarlo ai concittadini donando loro un po’ di quello che fu il genio del grande compositore. Il progetto è partito lo scorso anno con un carrello di attività promosse dalla Corale e coadiuvato dal minuzioso lavoro di ricerca alla riscoperta del grande autore dei maestri Maria Loredana Serafini e Ferdinando Bastianini. La questione non è semplice, occorrono impegno e dedizione: i due riescono a contattare un parente del maestro ancora residente a Viterbo, attraverso la sua collaborazione rintracciano Cesare Dobici Jr., nipote dell’“Ei fu Dobici”. Da subito il rapporto si mostra fruttifero ed entusiasmante: il nipote conserva gelosamente i ricordi del nonno, le sue corrispondenze, i riconoscimenti che nel corso del tempo ha ottenuto. Alla disponibilità mostrata fanno seguito i fatti e il nipote cede di buon grado tutta la documentazione di cui è in possesso perché la Corale possa fruirne e darle adeguata visibilità. Ora la possibilità di omaggiare l’autore come meglio conviene esiste: nel 2012 sono istituiti una mostra e quattro incontri per promuoverne la figura e la musica, inDECARTA OTTOBRE 2013
contri durante i quali intervengono anche il nipote Cesare Dobici Jr. ed autorevoli esponenti della Scuola Santa Cecilia e del Pontificio Istituto di Musica Sacra. Un successo garantito dallo stile dell’autore che lo stesso M° Bastianini definisce “elegante, colto nelle scelte armoniche, affascinante nella conduzione polifonica ma soprattutto semplice nelle linee, umile, puro”. Le quattro conferenze-concerto si concludono con una intitolazione importante: mons. Valentino Miserachs Grau, preside del prestigioso Pontificio Istituto di Musica Sacra, a conclusione dell’anno accademico, dedica ufficialmente una sala al M° Cesare Dobici. La risposta di chi ha partecipato alla rassegna musicale è entusiastica, il riscontro c’è e dà una spinta tutta nuova a chi ha creduto così fortemente nel progetto. Spinta che in questo anno 2013 porta alla costituzione dell’associazione di cui sono soci fondatori i maestri Bastianini e Serafini, la Corale polifonica San Giovanni, il M° Francesco Telli, docente al Santa Cecilia e partecipante soddisfatto, e lo stesso Dobici Jr.
consolidandosi, quelli per il compositore: Associazione e Corale tornano ad omaggiarlo nel corrente mese di ottobre attraverso un laboratorio con prove di concertazione ed esecuzione rivolto ai direttori di coro, una vera Master Class tenuta dal M° Giovanni Acciai. Una due giorni particolare che si snoderà tra la Chiesa della Trinità e la sala Alessandro IV (Palazzo Papale). A farla da padrone saranno la musica e i buoni propositi, primo fra tutti l’augurio di una ripresa dell’attività bandistica a Viterbo. Non a caso la rassegna sarà chiusa dal concerto della Fanfara della Polizia di Stato, un chiaro segnale dell’impegno che gli stessi maestri Serafini e Bastianini impiegheranno nella promozione di questa attività. Perché, anche se poco risaputo, la banda
comunale di Viterbo ha una sua storia e nel 1961 fu intitolata proprio a Dobici. Purtroppo negli anni a seguire si andò a perdere, anche a seguito della morte del suo direttore. Sembra sia giunto il momento del ritorno di un’attività spesso privata della sua dignità musicale e senza motivi reali, a dire il vero. L’Associazione Dobici se ne fa paladino e difensore, auspicando un ritorno in grande stile. Ché non si dica che a Viterbo non c’è nulla di bello, ché non si dica che nessuno se ne fa promotore. Aspettando che i materiali, gli spartiti, le corrispondenze e i ricordi del Maestro trovino una opportuna collocazione in una mostra permanente, l’appuntamento per tutti è per le giornate del 19 e del 20. Per ricordare un viterbese e un patrimonio.
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inalmente Viterbo sembra pronta a riconoscere il suo Maestro. Un maestro il cui ricordo è stato spesso dimenticato, bistrattato. Eppure vivo nei cuori di chi lo conosceva, di quei viterbesi di metà novecento che, al momento della scomparsa, vollero intitolargli una via. Basta scendere lungo via della Sapienza e nei pressi di piazza della Repubblica eccola lì: una viuzza nascosta, ma presente. Un nuovo omaggio è quello del 1971 quando a Dobici è dedicato un busto in quel di Prato Giardino. Non sto a raccontarvi come nel tempo la cittadinanza e le istituzioni tutte se ne siano dimenticate, lasciandolo in balia delle intemperie e all’incuria generale. Solo il 25 aprile dello scorso anno, in occasione dell’anniversario della scomparsa del Dobici (Roma, 25 aprile 1944), qualcuno torna ad averne cura: la Corale polifonica San Giovanni adotta il monumento, ha premura di ripulirlo da erbacce e scritte e di riportarlo allo splendore iniziale. Nel corso della cerimonia è deposta una targa a rinnovarne il ricordo e, nello stesso giorno, è realizzato per l’occasione uno speciale annullo filatelico. Un amore e un interesse che vanno DECARTA OTTOBRE 2013
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Lotta individuale, lavoro di squadra Alla scoperta del Brazilian Jiu Jitsu. Gabriele Ludovici | gabriele.ludovici@decarta.it
Royce Gracie, con accanto il padre Hélio, vince il primo torneo UFC
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li appassionati degli sport di combattimento conosceranno senz’altro la federazione statunitense Ultimate Fighting Championship (UFC), in cui competono lottatori provenienti da tutte le discipline di lotta in tornei di arti marziali miste. In questi incontri, ad esempio, un pugile può trovarsi di fronte ad un karateka e a vincere è colui che riesce a costringere alla resa o
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a mandare k.o. il proprio avversario. Il 12 novembre del 1993, a Denver, ebbe luogo il primo di questi tornei. Parteciparono otto atleti di varie nazionalità e ad imporsi fu il brasiliano Royce Gracie, il cui fratello Rorion era stato tra i fondatori della UFC. In seguito Royce riuscì ad aggiudicarsi tre dei primi quattro tornei, diventando uno dei lottatori più temuti del mondo e rimediando la
prima sconfitta nei match di arti marziali miste solo nel 2000, dopo quasi sette anni. Eppure Royce Gracie era tutt’altro che imponente: superava di poco il metro ed ottanta e pesava circa ottanta chilogrammi. Tuttavia, in quella storica serata di Denver, costrinse alla resa atleti enormi come il lottatore di pancrazio Ken Shamrock ed il savateur Gerard Gordeau, ai quali cedeva una ventina di chili. E per “costringere alla resa” non usiamo un eufemismo, visto che per chiudere gli incontri utilizzava una manovra di strangolamento nota come rear naked choke. Classe 1966, Royce Gracie attualmente è semi-ritirato ma resta cintura nera di jiu jitsu brasiliano, una disciplina che affonda le radici proprio nel suo albero genealogico. Per saperne di più ascoltiamo le parole di Enrico De Paolis, che insegna jiu jitsu brasiliano alla palestra Top Center di Viterbo: «Il jiu jitsu brasiliano è una variante dell’antico jiu jitsu giapponese. La divisione è avvenuta all’inizio del Novecento: da una parte si è sviluppato il judo di Jigoro Kano, mentre la variante brasiliana è nata più tardi, negli anni Venti, quando un istruttore di judo di nome Mitsuyo Maeda si trasferì in Brasile ed ottenne il sostegno di un politico
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locale, Gastão Gracie. Per sdebitarsi, Maeda insegnò le tecniche di lotta a terra alla sua famiglia, composta anche dai figli Hélio e Carlos. Hélio, che era gracile ed asmatico, con l’applicazione riuscì a sviluppare e praticare uno stile tutto suo, che gli permetteva di sfruttare l’inferiorità fisica al cospetto di lottatori più grossi e violenti. Fu qualcosa di rivoluzionario, perché in tutti gli altri sport di lotta a prevalere era sempre il lottatore che si trovava sopra e non quello schiena a terra. In seguito, Hélio Gracie combatté in Giappone praticando il vale tudo (letteralmente “vale tutto”, l’antenato delle moderne arti marziali miste, ndr) con grande successo». La particolarità di Hélio Gracie è stata quella di aver sconfitto molti atleti di discipline diverse tra cui pugili, stelle del wrestling e persino un lottatore di sumo tra gli anni Trenta e Cinquanta. Dovette soccombere solo al campione olimpico di judo, Masahiko Kimura: fu un evento di tale impatto che ancora oggi la presa con la quale il judoka si aggiudicò l’incontro è nota proprio come kimura.
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uttavia, il jiu jitsu brasiliano rimane una disciplina di nicchia fino agli anni Novanta: il silenzio dei media viene interrotto dopo il primo torneo UFC di cui abbiamo parlato all’inizio vinto da Royce Gracie, figlio di Hélio: «Si è trattato di una vera rivoluzione copernicana perché fino ad allora, nell’immaginario collettivo, erano note solo le arti marziali di percussione che si vedevano nei film di Bruce Lee e Chuck Norris. Invece Royce Gracie riusciva a vincere i tornei UFC senza riportare nemmeno un graffio, e questo diede giustizia ad altri tipi di arti marziali. In seguito, oltre alla UFC, in Giappone si è sviluppata la federazione PRIDE, dominata per anni da Rickson Gracie, altro figlio di Hélio». Attualmente le federazioni di arti marziali miste vanno alla grande: i pay-perview mensili sono seguiti in tutto il mondo e gli atleti sono sempre più popolari. Parlando dell’ambito viterbese, chiedo ad Enrico come è nata l’idea di avvicinarsi a questo sport: «Nei primi anni Novanta un mio amico tornò da un viaggio negli Stati Uniti con alcune VHS dei DECARTA OTTOBRE 2013
than Moggi Fight Clan, in memoria di un loro compagno scomparso, il che sottolinea l’alto valore dell’amicizia che pervade la loro attività.
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primi match di Royce Gracie. All’inizio rimasi stupito e ben presto compresi che il jiu jitsu brasiliano era quello che cercavo dalle arti marziali: un sistema in cui anche il più sfornito fisicamente poteva riuscire ad avere la meglio. All’epoca in Italia non esistevano corsi di questa disciplina e dovetti ripiegare sul jiu jitsu tradizionale e sul judo, ma non era la stessa cosa. Nel 2005 però Victor Hugo Correa Estaba, un insegnante venezuelano di jiu jitsu brasiliano, venne a trasferirsi qui a Viterbo. Dopo la prima lezione, io ed il mio amico Stefano Cianchella stracciammo le nostre cinture nere di judo ed indossammo quelle bianche per imparare da zero questa nuova disciplina. Victor Hugo insegnò qui per due anni, dopodiché iniziammo io e Stefano a lavorare come istruttori pur non sentendoci dei veri maestri; tuttavia avevamo fatto nostro l’assioma del jiu jitsu brasiliano, ovvero la realizzazione dell’individuo attraverso lo spirito di squadra ed i sacrifici dei compagni. Negli anni, con tanta umiltà, ricerca tecnica, stage e competizioni, siamo riusciti a preparare atleti di ottimo livello: posso citare Francesco Corbucci (campione italiano juniores e terzo classificato agli Europei), Alessio Vittori (pluricampione italiano in procinto di diventare professionista), Valerio Zolla, Maurizio Cianchella ed il giovane e promettente Lorenzo De Grossi». Enrico De Paolis e Stefano Cianchella nel 2005 hanno formato il Jona-
uesto sport è indicato davvero per tutti, vista la sua peculiare visione volta a valorizzare gli atleti meno dotati fisicamente: l’importante è avere le motivazioni per intraprendere un cammino molto più ampio di quello che appare. Per Enrico infatti nel jiu jitsu brasiliano c’è qualcosa che va oltre lo sport: «Si tratta di uno stile di vita. Normalmente il praticante deve essere calmo, pacato, rilassato e seguire uno stile di vita lontano dai vizi. L’allenamento è quotidiano, e permette di staccare col mondo esterno. Inoltre abbiamo un motto: there’s always an escape (“c’è sempre una via d’uscita”, ndr). Questo vale anche nella vita, bisogna imparare a migliorarsi sempre e non arrendersi mai, mettendo da parte orgoglio ed invidia. Ci tengo poi a sottolineare che non c’è nessuna esaltazione in quello che facciamo e siamo lontani da qualsiasi contatto con estremismi politici, perché nel rispetto e nella comprensione siamo disposti a lavorare con allievi di qualsiasi nazionalità ed orientamento sessuale. Quindi nessuna ghettizzazione, ma massima apertura». Un messaggio importante, soprattutto in un paese come il nostro in cui purtroppo alcuni aspetti della cultura sportiva sono ancora infangati da episodi di discriminazione. Questo possiamo definirlo un bel coronamento per una storia nata nel secolo scorso, dalla forza di volontà di un ragazzo brasiliano che non aveva alcuna intenzione di cedere il passo alla forza bruta, sapendo di poterla fronteggiare con l’intelligenza e la tecnica.
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nota bene
incontri
Il suono dell’Atlantico Musica e origini, dall’Etruria alla terra dei Celti. Gabriele Ludovici | gabriele.ludovici@decarta.it
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a prima cosa che colpisce di Andrea Seki è il particolare equilibrio che riesce a mantenere tra il suo modo di fare cortese ed il fervore con cui vuole comunicare la sua più grande passione. Definirlo semplicemente un grande suonatore di arpa celtica non rende bene l’idea; per lui la cultura degli antichi Celti in tutte le sue accezioni rappresenta il centro gravitazionale di una vita, e la sua esperienza ha reso quest’intervista il nucleo di un discorso più ampio sulla storia della Tuscia, inquadrata nel computo degli antichi culti che accomunano tanti popoli dal Nord Africa alla Scandinavia. Incontro Seki al termine di un suo tour italo-francese, dove ha avuto anche l’occasione di suonare al Caffeina Music Festival. Il bardo si presenta in maniera semplice e senza troppi preamboli inizia a parlare, col tono di chi è abituato ad esporre i propri punti vista seduto al tavolino di un pub. Il punto di partenza è la sua patria d’adozione, quella Cornovaglia francese che si affaccia sull’Atlantico ed ancora mantiene intatta la propria antica identità: «Nel 1995 vivevo a Bologna e dopo un breve soggiorno a Londra decisi di visitare la Bretagna. Quando raggiunsi Quimper ebbi la sensazione di essere tor-
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Andrea Seki, musicista e compositore, attualmente residente in Bretagna
nato a casa, anche se in quelle terre vi ero stato solo una volta da bambino per una vacanza a Carnac».
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ndrea Seki si sente un predestinato, come se non fosse stato lui ad avvicinarsi alla cultura celtica ma viceversa, se non addirittura un cercarsi vicendevolmente. Prima di tornare in Francia aveva già intuito qualcosa del
suo futuro suonando il suo liuto in India; un giorno gli fanno notare come le sue belle melodie somiglino molto a quelle bretoni. Nei due mesi passati a Quimper si convince della nuova strada da percorrere, colpito da numerose esperienze in cui avverte la sensazione di trovarsi nel posto più congeniale al suo modo d’essere; paradossalmente è solo nel viaggio
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incontri di ritorno che conosce l’arpa celtica: «A Nantes, tornando verso Bologna in autostop, conobbi per caso Jean-Luc. Facemmo subito amicizia ed in seguito si rivelò essere un druido: fu lui a farmi provare per la prima volta l’arpa celtica presso una fabbrica di arpe di proprietà di un suo amico musicista. Fino ad allora suonavo il liuto e l’esraj (il violino indiano, ndr) e con la mia prima band a Viterbo ero stato
dievale e della cultura celtica fin da ragazzo e si appassiona in seguito anche alla storia dell’arpa, questo antichissimo strumento che le popolazioni pelasgiche – note anche come “i popoli del mare” – hanno introdotto in tutta Europa. Secondo la tradizione celtica l’arpa è il veicolo di comunicazione tra i messaggi ancestrali dei cieli e la terra; il bardo è la figura che alla musica aggiunge anche il
il pioniere della musica rock e folk, con le influenze di quella musica medievale che mi ha sempre affascinato. Quel giorno, toccando per la prima volta le corde dell’arpa, provai una sensazione incredibile. Tornato a Bologna continuai per un anno a suonare liuto ed esraj, fino all’incontro con Alan Stivell all’evento “Torri di avvistamento” che si svolse a Viterbo nel settembre del ’96. Fu lui, leggenda della musica celtica, a proporsi per iniziarmi allo studio dell’arpa». Un cammino che inizia con un misto di eventi casuali legati alla consapevolezza sempre meno inconscia di come certe passioni non nascano per caso. Seki è un amante della cultura me-
testo, riferendosi agli assiomi di questa cultura. Il leitmotiv è il culto della Dea Madre, che si identifica nella natura e viene celebrato nei boschi attraverso le pietre. Un culto basato sull’armonia tra arte e natura e non sulla violenza, ma nonostante ciò quasi dimenticato dai libri di storia, che indugiano sulle culture che hanno posto le fondamenta dell’imperialismo e conquistato di prepotenza un posto nell’immaginario collettivo socialmente accettato.
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roprio su questo tema Seki vuole ricordarci come la Tuscia svolga un ruolo culturale importantissimo, seppur non troppo noto: «L’Etruria,
come l’Irlanda, è divisa in dodici città sacre, quattro regni ed un centro sacro rappresentato dal lago di Bolsena. Esso corrisponde a Dana e all’Avalon, rispettivamente centri dei regni celtici irlandesi ed inglesi. La Tuscia è piena di reperti collegabili alle tribù antiche che coltivavano il culto della Dea. A fondare i popoli celtici sono stati i popoli del mare provenienti dalla Mesopotamia, che passando per l’Egeo hanno colonizzato l’Europa prima della storia conosciuta, circa 7.000 anni fa. Si tratta di periodi storici avvolti in gran parte nel mistero, ma attraverso il druidismo moderno possiamo rievocare le celebrazioni e i riti dei bardi antichi, tradizioni che si sono tramandate oralmente DECARTA OTTOBRE 2013
miti degli antichi popoli presenti sul territorio italiano e la cultura celtica. Di lì a poco produce il disco che lo consacra come uno dei migliori bardi moderni: «Nel 2010 realizzo un lavoro intitolato Mistery of Dana; durante due mie serate a Roma e Firenze vengo ascoltato da Renato Roversi, il quale rimane entusiasta dei miei brani. Grazie a lui entro in contatto con Delmar Brown, tastierista che vanta collaborazioni con Sting e Bruce Springsteen; è lui a propormi di remixare Mistery of Dana, che viene reintitolato Through the Passage ed esce, dopo la revisione in uno studio orvietano, sotto la storica etichetta Coop Breizh. Sono l’unico italiano ad aver prodotto dischi con loro».
Spinto dagli insegnamenti di Stivell, artista di fama internazionale che ha collaborato anche con Peter Gabriel, Seki si lancia dunque nell’avventura musicale di arpista. La sua demo (Verso Is, 1998) ottiene un notevole riscontro ed un brano viene pubblicato sul cd allegato alla rivista Celtica. Si tratta del primo passo della nascita del progetto Elfic Circle, che vede Seki come artista fisso in collaborazione con numerosi altri musicisti.
per secoli». Ed infatti, come già detto, è proprio attraverso il druido conosciuto a Nantes che si avvicina allo strumento principe dei bardi celtici.
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eki sciorina nomi di antichi popoli e di amici che lo hanno aiutato a saperne di più; parla anche di una Stonehenge di tufo presente in Etruria, confermando ancor di più la necessità di approfondire questo discorso sulle pagine della nostra rivista. Fonte inesauribile di citazioni, autori e siti archeologici, il bardo afferma la necessità che le nuove generazioni portino avanti il lavoro di ricerca sulle radici più antiche del territorio viterbese. DECARTA OTTOBRE 2013
Nel 2001 pubblica Fairylands, che si basa proprio su Verso Is. Questo disco ottiene numerosi consensi ed un riscontro talmente d’impatto da prestare il suo nome ad un importante festival di musica celtica – tutt’ora attivo a Guidonia – nonché all’etichetta discografica che all’epoca lo promosse. Seki riprende a viaggiare: in Irlanda ed India prosegue il proprio percorso di conoscenza, ma nel 2003 decide di ritornare nella Tuscia spinto da una proposta discografica della Sony. Il terreno sembra fertile per provare ad introdurre la sua amata cultura celtica in Italia e si apre una fase di intensa attività in cui continua a suonare in tutta Europa. Realizza due album: A Journey to Other Lands (2005) e Arpe del Sidhe (2007), quest’ultimo complementare all’uscita del libro L’arpa celtica del Sidhe, opera che si pone come raccolta del percorso spirituale dell’artista ed anche come una panoramica delle sue ricerche personali in merito ai collegamenti tra i
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l bardo, come accennato, è una figura vitale per la cultura celtica e la sua formazione segue delle regole ben precise: «Un bardo deve dare ampio spazio all’immaginazione e conoscere le tre tradizione bardiche. La prima evoca la sfera della malinconia, la seconda quella della gioia e la terza quella del sonno, inteso come luogo in cui prende vita il sogno». L’ultimo lavoro del musicista acquesiano, prodotto sempre dalla Coop Breizh, si chiama Son Atlantel ed il filo conduttore delle tracce è legato all’amore di Seki verso l’Oceano Atlantico. Si tratta di un disco molto peculiare, in cui si parla molto dei popoli del mare: «Son Atlantel ha già ricevuto glorificazioni in Francia, in Inghilterra ed in Germania. Assieme a Through the Passage ed il libro sono i miei lavori che hanno ottenuto maggior successo all’estero». Andrea Seki è pronto a proseguire il suo tour in giro per l’Europa, ma artisti come lui vivono perennemente alla ricerca di nuovi stimoli culturali ed è come se il loro tour non finisse davvero mai. Attualmente ha formato un trio assieme a David Hopkins (percussionista irlandese) e Joe van Bowel (cantante e flautista belga) con cui è pronto ad allietare i festival di musica celtica: il suo Elfic Circle Project procede a gonfie vele e, se tra i suoi intenti c’era quello di suscitare l’attenzione verso le radici della nostra cultura attraverso la storia degli antichi celtici, si può dire che l’obiettivo sia stato raggiunto. 15
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inside
Apriamo i microfoni Seconda puntata di “nota bene - inside”, racconti e consigli di un musicista viterbese emigrato in Gran Bretagna. In open-mic alla ricerca del prossimo. Lorenzo Rutili
Lorenzo Rutili si esibisce dal vivo con la sua band nel corso di una serata “open-mic”
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mmaginiamo la situazione: lasciare il proprio paese d’origine è come ricominciare da capo... I vecchi amici e conoscenti non si perdono affatto di vista, nonostante le distanze ci accorrono in aiuto le telecomunicazioni e i social network; tuttavia, sarebbe un peccato non affiancare a tutto ciò una vita sociale in carne ed ossa, ed è qui che ci si ricostruisce, dal momento che appena arrivi all’estero sei uno sconosciuto totale che va a incontrare persone a te altrettanto sconosciute. Nel caso mio personale, poi, io sono una persona tendenzialmente timida, anzi diciamo pure una vera frana, che si apre al meglio sia attraverso “ganci” (a Viterbo tutti conoscono tutti… dovrebbe essere eletta capitale mondiale della regola dei sei gradi di separazione) che usando come pretesto la mia tanto beneamata musica. 16
Insomma, l’ideale per me sarebbe una situazione in cui posso suonare il più possibile, condividere la mia passione, farmi notare, e al contempo stringere nuovi contatti anche al di là della sfera musicale. In Gran Bretagna esiste un’occasione così: come accennai la volta scorsa, si chiama “open-mic night”, ossia serata a microfono aperto. Si tratta di serate allestite nei pub in cui chiunque ha la possibilità di salire su un palco ed esibirsi, a seconda del locale la cadenza può essere settimanale, mensile, quindicinale, bisettimanale, e chi più ne ha più ne metta. Nella maggior parte dei casi un open-mic è assolutamente gratis, a volte può occorrere prenotare il proprio spazio all’interno della serata, ma generalmente basta semplicemente presentarsi al locale, al che l’organizzatore, a seconda
del numero di altri musicisti presenti alla serata, stabilisce il turno e la durata della performance, che in genere è compresa tra i 15 e i 30 minuti. A fare gli onori di casa c’è sempre un artista o band che si esibisce a inizio serata, con una scaletta un po’ più lunga, per poi lasciare posto ai dilettanti allo sbaraglio. Si possono trovare open-mic presentati da band con strumenti elettrici, amplificatori, batteria eccetera, ma la maggior parte prediligono gruppi o solisti acustici, ai quali viene comunque fatto usare l’impianto voci fornito dal locale o dalla band d’apertura. Una realtà quasi assente in Italia, dove di tanto in tanto si possono trovare rare serate di jam-session, ma principalmente orientate sul jazz (contrariamente all’open-mic dove passa di tutto e di più) dove si va a suonare i soliti standard correndo appresso alle pagine del Real Book e al clima aperto e socievole delle serate britanniche, si contrappone un’atmosfera generale all’insegna del “vediamo se riesci a essere più bravo di me”.
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d introdurmi all’open-mic per la prima volta fu, a Guildford, una ragazza che vidi esibirsi in centro: si chiamava Lauren, ma gli amici la chiamavano Lol, si trovava a Guildford per studio, mancina come me, pettinatura con dreadlocks come Bo Derek in 10, cantava accompagnandosi con la chitarra Long Train Running dei Doobie Brothers, una delle mie canzoni preferite di sempre. Avevo sulle spalle la mia chitarra e spontaneamente mi unii a lei, al che ci presentammo e poco dopo mi invitò a una di queste serate, in un pub del posto. Mi presentai lì e fu una rivelazione: in maniera totalmente improvvisata, saDECARTA OTTOBRE 2013
limmo insieme a suonare, io facevo la chitarra solista, lei la ritmica e il cantato, e oltre a divertirmi un mondo suonando, mi divertivo anche conoscendo nuova gente. Fu così che da allora divenni fisso a quell’open-mic, fin quando purtroppo una serie di motivi interruppero progressivamente la mia frequenza, tra cui il ritorno di Lol nella sua città natale, e soprattutto l’arrivo del mio primo lavoro fisso che, a causa di orari sempre diversi di settimana in settimana, unitamente alla distanza tra Bracknell, dove mi sono poi stabilito, e Guildford, rendeva difficile i miei spostamenti specialmente in orari serali. Ma non mi sono fermato lì: contemporaneamente ho iniziato a bazzicare altri open-mic nel territorio, per non restare fossilizzato su quello guildfordiano ed espandermi. Se a Guildford mi esibivo come chitarrista solista assieme ad un’altra musicista, altrove dovevo trovare un modo per lanciarmi autonomamente, e non essendo io mai stato un cantante eccelso, dovevo inventarmi qualcosa di particolare con la chitarra. Occorre ora fare un piccolo passo indietro e dire che, poco prima di lasciare l’Italia, misi su un duo acustico insieme a colei che ancora chiamo la mia cantante preferita, la brava Chiaretta Celestini, ci chiamammo, unendo i nostri nomi inglesizzati, Clarence. Per quel duo, dopo essere stato per anni un chitarrista principalmente elettrico, tornai alla chitarra acustica, ne comprai una elettrificata e ricominciai ad esplorare quel tipo di strumento,
usando insieme ad essa un effetto divertentissimo, chiamato Loop Station. Cos’è la Loop Station? Trattasi di un pedale con al suo interno un registratore digitale, lo si schiaccia una volta mentre si suona e inizia a registrare, lo si schiaccia quindi una seconda volta e ciò che si è suonato inizia ad andare in loop, ossia a ripetersi all’infinito, al che vi si possono anche sovraincidere altre parti strumentali, una seconda, terza volta e così via. Nei miei mesi all’ACM a Guildford mi feci spedire la mia chitarra elettroacustica insieme alla Loop Station, che allora ancora usavo semplicemente per registrare sul posto una parte di brano, mandarla a loop e suonarci sopra un assolo, per poi ritornare a finire il pezzo, senza far perdere pienezza al tutto; a Viterbo ero uno dei pochissimi che la usavano così. Finita l’esperienza ACM, un giorno trovai l’idea giusta per girare negli openmic: memore di esperimenti simili ad
opera di chitarristi quali Alex Britti e Fausto Mesolella, collegai la chitarra elettroacustica a tutti i pedali che avevo, distorsore, wah-wah, eco e così via, e la Loop Station per ultima, e iniziai a cazzeggiare un po’.
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coprii così che potevo sfruttare il tutto per creare una sorta di oneman band: battendo sulla cassa della chitarra o sfregando le corde, si possono imitare suoni di percussioni, a cui poi aggiungere una linea di basso, per poi passare all’accompagnamento, su cui cantare e poi improvvisare un assolo, magari trasformando la chitarra acustica in un’elettrica inserendo effetti più consoni a quest’ultimo tipo di strumento. Uno spasso, insomma, e un’idea che, pur forse non essendo nuovissima, è creativa e di sicura attrattiva per il pubblico. Fu così che, spontaneamente, iniziai a buttar giù un arrangiamento per uno
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inside dei pezzi più insospettabili: Blue Monday dei New Order, brano notoriamente eseguito con una strumentazione principalmente elettronica, e la cui linea vocale non richiede doti canore strepitose. La presentai poco dopo all’open-mic del Jagz di Ascot, e fu un successo, da allora è uno dei miei cavalli di battaglia, insieme ad altri brani che ho riarrangiato con questa tecnica. Questo locale, per inciso, è uno di quelli a cui attualmente sono più affezionato, gestito da colui che, si narra, è stato l’inventore dell’open-mic, oramai ogni volta che ci torno c’è sempre un clima di gran familiarità con lo staff e con gli altri ospiti fissi.
Evans, in cerca di qualcuno con cui lavorare su qualche canzone che aveva cominciato a comporre, e da lì fondammo i Nevertones… e la strada prosegue, volta dopo volta, microfono dopo microfono, tutto questo non è che l’inizio. Bene, anche per questa volta ho raccontato abbastanza, non me ne abbiate se sono stato un po’ più tecnico del solito, vi invito a vedere sul sito di Decarta il video della mia performance di Blue Monday al concorso Bracknell’s Got Talent, e vi dò appuntamento alla prossima puntata. See you soon!
Vai su Decarta online per vedere Lorenzo Rutili in una strepitosa esecuzione live di Blue Monday al Bracknell’s Got Talent.
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ullo spazio del Jagz, come in ogni open-mic, è passato di tutto, tutti i generi dal blues, al folk, al jazz, al pop più semplice… e tutti i tipi di personaggi che li interpretano. Uno che è diventato a suo modo un beniamino della serata è un simpatico cantautore noto ai più come “Pausa-Sigaretta”, poiché è quello che il pubblico tendenzialmente espleta appena la sua esibizione inizia, peraltro si esibisce sempre per ultimo, abile mossa strategica del gestore per segnalare la fine definitiva della serata. Ha un talento particolarissimo: quando esegue canzoni di composizione propria è in grado di cantare una canzone e, al contempo, accompagnarsi suonandone una completamente diversa sulla chitarra. Oppure, se esegue cover, lo fa rigorosamente a cappella, rifuggendo a ogni schema di quadratura ritmica, regalandoci pertanto preziosissime versioni progressive-rock di brani anni cinquanta. Dio lo benedica, il buon Pausa-Sigaretta. Gli open-mic mi hanno offerto tante opportunità per iniziare una mia carriera musicale: in un locale di Bracknell mi hanno offerto uno spazio fisso pagato di due ore al mese, in un altro pub ho fatto amicizia con un cantante-chitarrista-fonico con cui in tante occasioni ho fatto serate in duo, sia tutte nostre che, a sua volta, come gruppo presentatore di un open-mic, sempre ad Ascot ho incontrato un giovinotto di nome Nathan 18
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eventi
report
Non dite a mamma che… Un simpatico “dietro le quinte” dell’industria dell’hard. Sabrina Manfredi | sabrina.manfredi@decarta.it
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oi “decartisti” ci occupiamo di divulgazione culturale sul e del territorio e vorremmo provare a farlo a 360°. Siamo al nostro quarto mese di vita e questo di cui vi parlerò è il primo evento pubblico che organizziamo, in collaborazione con Raffaella Sarracino nell’ambito della sua rassegna “Aperitivo con l’Autore”. L’occasione è la presentazione del libro di Debora Attanasio Non dite alla mamma che faccio la segretaria. Memorie di una ragazza normale alla corte del re dell’hard. Il libro, a metà tra cronaca e diario, narra le “avventure” di una giovane segretaria che per 9 anni ha lavorato alla “corte” di Riccardo Schicchi: lo
fa in modo brillante, arguto e, nonostante l’argomento, senza cadute di tono. La lettura scorre velocemente e dopo essere arrivati alla fine la domanda d’obbligo è: “già finito?”. Nel prossimo numero daremo notizie più approfondite sul libro e pubblicheremo un’intervista all’autrice con il reportage dell’incontro. L’appuntamento è per venerdì 11 ottobre alle ore 18,30 presso il Due Righe Book Bar. Ospite d’eccezione Eva Henger, accompagnata dal marito, il produttore Massimiliano Caroletti. Nel corso dell’incontro saranno letti alcuni brani del libro e proiettati documenti e foto d’archivio. Vi aspettiamo numerosi.
Raffaella Sarracino incontra
Debora Attanasio autrice di
Non dite alla mamma che faccio la segretaria. Memorie di una ragazza normale alla corte del re dell’hard. edizioni Sperling & Kupfer Con l’autrice sarà presente
EVA HENGER
venerdì, 11 ottobre 2013 : ore 18,30 due righe book bar : via del macel maggiore 1/3 : Viterbo organizzato da
in collaborazione con
LAVALLIERE
Apertivo con l’Autore
Editoria e Servizi editoriali
Raffaella Sarracino
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due righe book bar
www.decarta.it
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carta stampata caos letterario
Storie di una libreria disordinata / 2 “La famiglia Karnowski” di Israel Joshua Singer: dopo 70 anni ripubblicata la vita di tre generazioni attraverso tre paesi. Claudia Paccosi | claudia.paccosi@decarta.it
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apeva di sale quand’è arrivato, ha portato con sé, sullo scaffale, anche un po’ di sabbia, più che altro sassolini, fastidiosi, assai fastidiosi sulla mia schiena. 498 pagine, carta ruvida al tatto, giallastra, copertina lillà, un bel lillà né troppo acceso né troppo spento, un colore che non avevo ancora mai avuto fra i miei ospiti. Arrivò alla fine di agosto, come se fosse rotolato con l’ultima mareggiata della stagione trasportato dalle onde; ai bordi era liso e consumato, la copertina aveva delle macchie provocate
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dal sole, eppure era bello, imponente, importante, sembrava darmi valore, con lui sulle spalle mi sono subito sentita una libreria di tutto rispetto. Tutto questo finché non ha cominciato a strepitare e urlare, a dimenarsi aprendo e chiudendo le sue pagine con tonfi profondi, dentro c’erano tre generazioni, tre persone, tre uomini che litigavano, cercavano di comprendersi, si allontanavano, crescevano, una sera ho persino udito uno sparo e poi tanta concitazione, fretta, chissà cosa era successo, sembrava che un padre e un figlio si fossero ritrovati, poi il silenzio, la calma. Fra i miei scaffali disordinati è quindi arrivato un nuovo romanzo, rigorosamente in seconda fila, fra Tropico del Cancro di Henry Miller e Lolita di Nabokov, proprio davanti alla raccolta di romanzi di Carlos Ruiz Zafòn; non c’è davvero più spazio, non c’è più spazio per volumetti vezzosi dalla copertina lucida e morbida, le pagine sottili, i caratteri accatastati e le storie frivole, figuriamoci per tomi di dimensioni spropositate con vicende intrigate da raccontare. Ho però voluto allungare un braccio nella notte, quando nessuno poteva ve-
dermi, e prendere La famiglia Karnowski di Israel J. Singer, l’ho sfogliato, mi ha raccontato la sua storia e così ho subito pensato che ai lettori di Decarta potesse piacere, lo scorso mese avevo consigliato un thriller, un giallo, ancora non ho deciso a quale genere letterario ascriverlo, stavolta invece qualcosa di totalmente diverso proprio perché nella lettura, io credo, da umile libreria di una studentessa inesperta di Lettere, bisogna variare, alternare, provare, conoscere autori lontani e vicini, storie terribili e romantiche, parole auliche e lineari. Perché la lettura è un piacere, una distrazione dalla monotona realtà, basta sdraiarsi sul divano mentre in pentola ribolle il minestrone caldo, inforcare gli occhiali da vista, poggiare sulle gambe una morbida coperta e dopo solo uno sguardo si precipita in un nuovo mondo, a volte anche in un’altra epoca, magari in una foresta con le foglie di piante selvatiche che pizzicano le nostre braccia sudate o in un salottino vittoriano costrette in un abito sfarzoso, dalla scomoda sottana in ossa di balena a sorseggiare un tè. Ecco, quindi, vado a presentare il mio nuovo amico. La famiglia Karnowski di
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I.J. Singer è stato da poco ristampato, nel 1943 uscì per la prima volta, 70 anni fa, a quel tempo non avrà di certo avuto una copertina così euforica né l’ampia tiratura di questo anno, essendo uscito in tristi tempi di guerra, ma il timbro del capolavoro era marchiato in maniera vivida sulle sue spesse pagine.
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srael Joshua Singer per troppo tempo è rimasto all’ombra del fratello Isaac Bashevis, vincitore del Premio Nobel per la Letteratura, ma Adelphi dedica alla sua storia, proprio nel 2013, un’elegante edizione. Il romanzo è stato paragonato dalla critica ai Buddenbrook di Thomas Mann, esempio di quale sia lo spessore del libro; è la storia di tre generazioni di uomini ebrei: David, il primo di cui viene narrata la vita, lascia il piccolo shtetl polacco per trasferirsi nella grande Germania e proprio da lui nasce il forte conflitto fra ebraismo e mondo esterno, fra nostalgia per le forti tradizioni familiari yiddish e voglia di andare incontro ad un nuovo futuro. I tre personaggi che attraversano il libro vivranno una vita in cui “essere ebrei in casa e uomini in strada” è la prima delle
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loro ferree regole; Georg è figlio di David e affronta la vita in maniera totalmente diversa, diventa un medico affermato e integrato nella società tedesca; però l’ascesa del giovane dottore dovrà presto arrestarsi per l’arrivo delle leggi razziali e avrà il più profondo tracollo nell’esperienza del figlio, Jegor. La potente, ricca e rispettata famiglia ebrea è costretta a trasferirsi a New York per sfuggire alla persecuzione, Jegor, figlio di Georg vive inoltre la sua origine con un forte disprezzo di sé. Il finale è sempre un mistero nei romanzi, ti lascia sospeso, ti sconvolge, a volte rimani a bocca aperta, ma non sarò di certo io a svelarvelo, anche se il mio ospite sembra non riuscire a trattenerlo, lì, posato sullo scaffale, già con una sottilissima patina di polvere, dopo lo sconvolgimento di quella sera rimane nella quiete, respira con lentezza, come un bosco di alberi millenari, inspira lentamente, espira con dolcezza, quasi a non voler spostare nemmeno un filamento della sua lanugine protettiva e rimane in silenzio quando “i primi raggi dell’alba trafiggono la fitta nebbia, illuminando le finestre con la luce livida del sole nascente.”
Israel J. Singer La famiglia Karnowski Tit. orig. Di mishpohe Karnovski Traduzione di Anna Linda Callow Adelphi, 2013 pagine 498 - euro 20,00
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Una missione per la vita L’esperienza di Giuliano Bacheca, medico radiologo viterbese, nell’Africa dell’AIDS. Claudia Paccosi | claudia.paccosi@decarta.it
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arungu. Kenya. Africa. In una delle zone a più alta diffusione del virus HIV, virus dell’immunodeficienza umana, padre Emilio Bagliana, appartenente all’ordine dei Padri Camilliani della regione Veneto, ha fondato un’organizzazione di supporto medico e sociale per la popolazione africana delle rive del lago Vittoria. La missione è composta da due principali strutture: l’ospedale missionario e il centro orfani (Dala Kiye). Il centro orfani ospita circa 600 bambini e con il supporto di una struttura per le scuole e di nuclei abitativi accompagna la vita di molti piccoli, inoltre circa 70 di loro sono sieropositivi e necessitano di cure tramite farmaci antiretrovirali per evitare il contagio di malattie opportunistiche e occasionali. Giuliano Bacheca è un medico radiologo viterbese in pensione che ogni anno, dal 1998, raggiunge Karungu per supportare la missione con il suo lavoro; grazie ad un incontro da lui concesso alla rivista un’esperienza tanto lontana dal quotidiano mondo occidentale può essere trascritta su queste pagine e raggiungere i concittadini. 15 anni fa comincia l’avventura di padre Emilio che con il sostegno di alcuni benefattori ha potuto costruire l’ospedale in questa zona del Kenya afflitta da molti e diversi problemi. Karungu si affaccia sulle rive del 22
grande lago Vittoria ed è popolata da circa 30.000 abitanti, la zona ha un’alta diffusione del virus dell’AIDS a causa della frequente promiscuità praticata dai pescatori del lago che spesso si trovano a lavorare molto lontano da casa, coloro che ne scontano i danni sono però soprattutto i bambini, spesso orfani, che, sieropositivi, necessitano di cure, attenzione, affetto e di una mamma. Grazie all’organizzazione attenta di St Camillus la loro vita può scorrere in condizioni migliori, abitano in casette a gruppi di 10 bambini seguiti da una madre adottiva della zona, frequentano le scuole e sono seguiti dalle cure dell’ospedale missionario. Giuliano racconta la sua esperienza con emozione. Ogni anno abita a Karungu per un mese e mezzo accompagnato da sua moglie Gabriella, lavora nell’ospedale nel reparto di radiologia ed ecografia, oltre alle visite quotidiane nei reparti di medicina, chirurgia, pediatria e ginecologia. Nel pomeriggio dedica il suo tempo agli orfani con cui ama giocare e ridere, la moglie invece cuce abiti per la popolazione povera. Giuliano vive un’avventura ricca di solidarietà e ci rivela la differenza netta fra occidente tecnologico e Africa vera, povera, ma umana; negli ospedali rurali come quello di Karungu il malato non è più un nu-
mero da analizzare come nei nostri centri specializzati, bensì è considerato in maniera globale, la medicina è povera – nel Mission Hospital mancano apparecchiature costose come la TAC e la risonanza magnetica – ma infine è utile lo stesso.
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urante la sua permanenza in Africa Bacheca può trasmettere ai colleghi le sue conoscenze, infatti indice lezioni sulla tubercolosi, malattia che spesso colpisce i sieropositivi, e istruisce il tecnico radiologo per i periodi in cui sarà assente dall’ospedale. L’ospedale ha infatti scarso personale, molti volontari giungono dall’Italia, ma anche dall’estero, i medici però sono pochi. Padre Bagliana organizza l’anno secondo turni per non essere mai scoperto, l’aiuto di nuovi medici sarebbe però necessario. Giuliano ci confida che è difficoltoso trovare medici volontari, dato che la sanità mondiale ne ha sempre bisogno anche nei paesi sviluppati, e che la sua partecipazione è così assidua proprio perché in pensione. La Catholic Relief Services (CRS www.catholicrelief.org), associazione americana di supporto ai paesi in via di sviluppo, invia però ogni anno uno o due volontari che operano con una permanenza di un anno. Il lavoro del medico, ci riferisce GiuDECARTA OTTOBRE 2013
liano, mette alla prova. Deve combattere con malattie infettive e parassitarie, che nei paesi occidentali sono ormai debellate da anni, come la malaria che subisce picchi alternati di diffusione. Negli ultimi anni la prevenzione all’AIDS – immunodeficienza che provoca il facile contagio di tali malattie – è però aumentata ed è stata recepita in maniera più completa e matura dalla popolazione della zona, grazie anche alla mutata opinione della Chiesa riguardo all’uso degli anticoncezionali. La percentuale di malati di AIDS della zona è quindi diminuita passando dal 25% della popolazione al 10/15%. Le economie della medicina in Africa sono però totalmente lontane dai nostri livelli di sicurezza sanitaria, senza la presenza del Welfare spesso mancano i soldi per attuare operazioni necessarie e una diagnosi perfetta, studiata e sudata diventa carta straccia per un bambino il cui futuro sarà inevitabilmente breve.
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’Africa non è però solo malattia, povertà e guerra, vive sicuramente in una situazione più difficoltosa della nostra, ma Giuliano in tutti questi anni è riuscito ad odorarne l’essenza, a percepire un mondo differente, a conoscere le relazioni fra la sua gente. I media fanno apparire la parte peggiore dell’Africa, scorrono in tv immagini terribili e tristi, terreni senza acqua dalle crepe sul suolo e bambini dal ventre gonfio e dai grandi occhi imploranti aiuto; il grande continente ha tutto questo, possiede la miseria, la morte, la fame e le malattie, ma fra la gente vive anche altro, scorre nelle vene probabilmente o popola le menti una mentalità a noi estranea. “Umoja”, è chiamato così, lo stare insieme, il senso di comunità e di aiuto reciproco, fra gli uomini e le donne di Karungu conosciuti da Giuliano c’è questo sentimento, questa umanità. L’individualismo che pervade l’occidente facendo racchiudere ciascuno in se stesso e mostrare il lato più combattivo e feroce al mondo esterno per raggiungere quell’obiettivo nella carriera, nella vita privata e nella società in Africa non esiste. A Karungu il villaggio raccoglie fondi per un ragazzo che deve studiare fuori città, raccoglie fondi per una donna che deve praticare un costoso e compliDECARTA OTTOBRE 2013
cato intervento chirurgico a Nairobi, il villaggio aiuta, il villaggio sta insieme a chi ha bisogno. A conclusione del nostro incontro Giuliano Bacheca ci racconta le sue esperienze dirette, due in particolare: la più difficile e la più bella. Alcuni anni fa si tennero le elezioni
presidenziali in Kenya proprio mentre Giuliano e Gabriella trascorrevano l’abituale mese nel Mission Hospital e nel Dala Kiye, l’etnia sconfitta attaccò la vincitrice con scontri a fuoco che provocarono feriti, sfollati e 1.500 morti. Giuliano assistette con orrore dalle finestre dell’ospedale ai terribili scontri che si avvicinavano con pericolosa invadenza anche attorno alle zone abitate dalla missione del St Camillus. Grazie al jet di una coppia di volontari americani riuscirono fortunatamente a lasciare in fretta Karungu, anticipando la loro abituale partenza. L’esperienza più bella che invece il medico ricorda per le pagine di Decarta è legata a un bambino, un piccolo abitante africano dagli occhi scuri; era affetto da una meningite causata dalla sua sieropositività, Giuliano riuscì però a guarirlo con le sue cure e provò un’im-
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mensa gioia nel vederlo correre di nuovo insieme agli altri piccoli del Dala Kiye con il sorriso bianco circondato dalle scura labbra screpolate.
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a missione a Karungu di padre Emilio Bagliana ha bisogno dell’aiuto di molti, di fondi, di volontariato e soprattutto di attenzione,
desiderio che speriamo di aver esaudito, anche se nel nostro piccolo, tramite questo articolo. Giuliano può essere contattato tramite l’indirizzo bacheca2@gmail.com per domande a cui l’articolo non risponde, offerte di volontariato medico, infermieristico e non e per donazioni, il sito della missione è invece www.karungu.net e in fondo alla sua pagina si possono trovare tutti i contatti di padre Emilio. La prima donazione significativa al St Camillus per la missione di Karungu è arrivata dall’associazione Viterbo con Amore e permise la costruzione delle scuole primarie. La nostra città ha quindi contribuito molto per la missione in Kenya, ha contribuito con il validissimo supporto medico di Giuliano Bacheca e con le donazioni per la scuola; il percorso cominciato 15 anni fa ha necessità però di crescere ancora, il sorriso di quel bambino guarito dalla tubercolosi deve rimanere acceso grazie all'aiuto dei volontari, grazie alle medicine del Mission Hospital e grazie alle carezze della sua madre adottiva. Karungu è solo un piccolo ospedale, è solo un centro orfani sulle rive del lago, è solo un bianco sorriso, ma quel sorriso luminoso, quegli occhi profondi, sembrano popolare il mondo intero quando si ha la viva consapevolezza che un proprio piccolo aiuto sia servito a farli splendere con forza. 23