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M E N S I L E D I D I V U L G A Z I O N E C U LT U R A L E
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Sauro Sorbini, non solo un tipografo
Pi첫 rudi, pi첫 stoner: arrivano i Gorilla Pulp
Anteeksi, mit채 se tarkoittaa?
Il profumo dei ricordi
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editoriale
Il leone di Nemea S DECARTA Scripta volant Mensile di divulgazione culturale Numero 14 – Settembre 2014 Distribuzione gratuita Direttore responsabile Maria Ida Augeri Direttore editoriale Manuel Gabrielli Redazione Ilenia Boschi, Carlo Alberto Bianchini, Gabriele Ludovici, Claudia Paccosi, Martina Perelli, Paola Salvati, Elisa Spinelli Redazione web e photo editor Sabrina Manfredi Design Massimo Giacci Editore Lavalliere Società Cooperativa Via della Palazzina, 81/a - 01100 VITERBO Tel. 0761 326407 Partita Iva 02115210565 info@lavalliere.it Iscrizione al ROC Numero 23546 del 24/05/2013 Stampa Union Printing SpA Pubblicità 0761 326407 - 340 7795232 Foto di copertina Manuel Gabrieli I contributi, redazionali o fotografici, salvo diversi accordi scritti, devono intendersi a titolo gratuito. Chiuso in tipografia il 25/08/2014 www.decarta.it
DECARTA SETTEMBRE 2014
econdo la mitologia greca, Eracle (o per noi “romani” Ercole) compì una delle sue 12 fatiche presso Nemea, una città del Peloponneso ancora oggi esistente. In quel luogo era stato infatti inviato da Era (sempre per noi “romani” Giunone) il leone Nemeo, un mostro dalla pelle inscalfibile dotato di zanne ed artigli duri quanto il metallo. Specifichiamo che Era o Giunone, era la matrigna di Eracle o Ercole, e simpaticamente aveva scatenato la ferocia del leone proprio per annientare il figliastro. Come sempre a pagarne le conseguenze sono i più deboli, e fu così che il povero popolo di Nemea si vide costretto a barricarsi in casa per timore di questo flagello divino. Il prode Ercole si mise quindi alla ricerca della bestia e una volta trovata, non riuscendo a ferirla con le armi, decise di tramortirla con una mazza per poi terminarla a mani nude. Non contento la scuoiò e si confezionò un’armatura con la pelle dell’animale. Viterbo, come è noto, ha anche lei le sue origini mitologiche, e se non lo sapevate non incolpate come sempre Palazzo dei Priori, perché sul sito del Comune c’è scritto! Infatti leggenda vuole che Viterbo si sia chiamata in un tempo lontano Surina, in onore del dio infero Suri che, altra leggenda, voleva manifestarsi in prossimità delle nostre sorgenti di acqua termale. In memoria di Ercole, che ne vestiva la pelle, il popolo di Surina decise di farsi rappresentare dal Leone. Pare infatti che l’eroe mitologico figlio di Giove abbia vissuto nelle nostre terre e abbia con il tempo preso il posto di Suri come divinità principale. La testimonianza è conservata sotto il pavimento del Duomo, che si dice sia stato costruito proprio sopra le rovine di un tempio dedicato ad Ercole. Questo è quindi il motivo per il quale Viterbo ha da sempre come simbolo il leone e non un più geograficamente appropriato cinghiale, cosa da specificare in quanto, per sentito dire, so che questa è l’osservazione fatta da un turista contrariato dalla scelta del mitologico simbolo cittadino in favore del più saporito quadrupede. Forse qualche pappardella di troppo? Il leone scelto per la copertina ha quindi un suo motivo di esistere, ma per la palma? Per quanto riguarda l’altro elemento che figura nello stemma cittadino, la storia ci dice che l’abbiamo (noi Viterbesi) fregata a Ferento dopo averla distrutta nel 1172. Se avete un occhio attento avrete notato come il leone in copertina è la scultura che sormonta la base della macchina di Santa Rosa, questo in quanto è stato ripreso dalla fontana di piazza delle Erbe. Quindi due copertine dedicate al trasporto e ad un fiero campanilismo. A Viterbo è tipica l’abitudine di rimandare tutto a dopo Santa Rosa, di certo come rivista non potevamo non coprire l’appuntamento, quindi quale altro modo se non questo per ripresentarci dopo la pausa estiva? Buona lettura. Manuel Gabrielli Presidente Lavalliere Società Cooperativa
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Sauro Sorbini, non solo un tipografo Manuel Gabrielli
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Anteeksi, mitä se tarkoittaa?
Se è Re ci sarà un perché 11
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expo 2015
Gabriele Ludovici
Imparare in fattoria
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… e se invito a cena un vegano?
Più rudi, più stoner: arrivano i Gorilla Pulp
Martina Perelli
Gabriele Ludovici
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Un nuovo benessere 9
vapori e visioni
La qualità di vivere la Tuscia
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mentre cucino
Il profumo dei ricordi Monica Angela Baiona
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caos letterario
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Storie di una libreria disordinata / 9
Ti mandiamo a quel paese… gratis
Claudia Paccosi
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pillole di lettura
LAVALLIERE Editoria e Servizi editoriali
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Sauro Sorbini, non solo un tipografo Manuel Gabrielli | manuel.gabrielli@decarta.it
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na volta dissi ad un amico barista “sei simile ad un non vedente, immagini il mondo attraverso i racconti degli altri”. Questo perché il barista, quando è bravo, interagisce con le persone, ci parla, e spesso è più informato degli stessi avventori riguardo a ciò che succede al di fuori del bancone. Se dovessi cercare di spiegare l’unico modo nel quale potrei parlarvi dello Zio Sauro, probabilmente mi paragonerei ad un barista… ed in parte ad un ficcanaso. Mi paragonerei al barista perché conosco tanti aneddoti su questo mio parente, ovviamente tutti per sentito da dire da chi li ha vissuti in prima persona. Mi paragonerei ad un ficcanaso perché altre sono esperienze dirette con suoi oggetti ma sempre indirette con la sua persona, un po’ come fanno giornalisti ed investigatori e quindi i ficcanaso. Ecco, confesso che dello Zio Sauro conservo pochissimi ricordi, così pochi che li potrei contare sulle dita di una mano. Ricordo benissimo una bottiglia di Biancosarti ed una di Martell, riposte nella credenza di mia nonna a suo uso e consumo, ricordo la sua casa e qualche pranzo con i parenti, qualche litigata per la spartizione del telecomando all’ora di pranzo ed in generale alcuni momenti di una vita che stava volgendo al termine. Infatti non molto tempo più tardi, più precisamente nel 2003, ricordo una teDECARTA SETTEMBRE 2014
lefonata mattutina e la notizia che lo Zio Sauro ci aveva lasciati. Sauro Sorbini era il fratello di mia nonna e quindi zio di mio padre, nonché più precisamente mio prozio. La mia ficcanasaggine parte da lontano, quando frugando nella credenza di mia nonna, da piccolo, ogni tanto tiravo fuori e spiegavo qualcuno dei suoi celebri manifesti (uno mi saluta tutte le mattine quando entro in ufficio). Continua ancora oggi, quando frugando in un armadio di casa mi imbatto nei suoi ancor più celebri farfallini. O ancora meglio, aprendo un libro di Poe che tra le sue pagine, nonostante sia stato letto e riletto, conserva ancora l’odore di casa sua. Quelli citati fino ad ora sono i ricordi personali di un mio parente, ma Sauro Sorbini è stato tante altre per-
sone, è stato il partigiano, il tipografo, l’anarchico repubblicano e altri personaggi collaterali, come Il cittadino scomodo, L’uomo con il farfallino, Il Presidentissimo. Quello che rimane a me dello Zio Sauro a 10 anni dalla sua scomparsa è più del ricordo di un caro che non c’è più, è diventato con il tempo la personificazione dei valori che mi sono stati trasmessi dalla famiglia che mi lega a lui e quindi il motivo di tante scelte. Evidentemente non sono l’unico a pensarla così, ogni persona che ha avuto modo di incontrarlo in vita conserva almeno un aneddoto da raccontare, e forse proprio per questo dopo tutto questo tempo il suo ricordo è ancora vivo e fa parte della cronaca recente la decisione di intitolare una via alla sua memoria.
I manifesti di Sauro Sorbini Esposizione degli originali dei manifesti (1970 -1989)
Sala Anselmi Via Aurelio Saffi, Viterbo 29 agosto / 10 settembre 2014 Inaugurazione mostra: venerdì 29 agosto ore 11,30 Orario apertura giorni feriali: 17,00 / 20,00 Domenica (31 agosto e 7 settembre): 10,30 / 13,00
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… e se invito a cena un vegano? Vera consapevolezza o finzione di tendenza? Martina Perelli | martina.perelli@decarta.it
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rançois de La Rochefoucauld, aforista francese vissuto nel XVII secolo, scriveva: “Mangiare è una necessità. Mangiare intelligentemente è un’arte”. Il nostro uomo ci aveva visto lungo in tempi non sospetti, quando l’etica del “fagocitamente corretto” ancora era lontana, si scuoiavano daini e, chi se lo poteva permettere, banchettava con carni pregiate. Oggi invitare degli ospiti per una cena o un pranzo a casa non è poi così semplice: una chiacchierata con quei nuovi colleghi, una certa affinità e scatta l’invito.Ti dicono di sì, che vengono volentieri, e poi il momento della precisazione, uno di loro apostrofa: “Però te lo devo dire, io e Tizio siamo vegani”. Ah. E io ora a questi cosa cucino? L’invito è fatto e quando si è digiuni di nozioni in quanto a vegan e simili, non resta che addentrarsi nei meandri del mondo del consumo etico. Farsi una cultura, per così dire. Quali siano le linee guida di un vegetariano è facile dirlo, la parola parla da sé. Per un vegano la questione si fa un po’ più complessa e poi l’osservazione va fatta: perché i vegani impazzano ovunque? Secondo il campione rappresentativo preso in esame quest’anno dall’istituto di ricerca Eurispes, il 6,5% degli intervistati è vegetariano, lo 0,6% vegano, per un totale del 7,1%. Quasi un terzo (31%) dei vegetariani e vegani ha scelto questo tipo di alimentazione per rispetto nei confronti degli animali, un quarto (24%) perché fa bene alla salute e infine un altro 9% afferma di farlo per tutelare l’ambiente. I dati tendono poi ad aumentare o subire variazioni se si va a spulciare tra quanto sostengono le varie associazioni veg.
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l fenomeno può essere interpretabile in termini di una maggiore consapevolezza da parte del consumatore medio rispetto ai prodotti che va ad acquistare; a ciò che questi stessi prodotti comportano all’ambiente; alle modalità con cui vengono assemblati, inscatolati, venduti. A nessuno piace sapere come macellano la carne di maiale e se le parti selezionate lo sono davvero e, una volta conosciuto l’intero processo, non si guarda più all’hamburger nello stesso modo. Io, da parte mia, continuo a consumare quella carne per un motivo molto semplice: mi piace e non riesco a fare facilmente rinunce alimentari. DECARTA SETTEMBRE 2014
C’è invece chi quelle rinunce le fa, un po’ per l’animale e per l’ambiente e un po’ per sé. Sia chiaro, i vegani veri esistono, quelli che lo fanno con una convinzione che va al di là del modaiolo, della tendenza, del business. Ecco, questi vegani, ma non ne hanno un po’ le scatole piene di tutti gli altri? Gli altri che si svegliano una mattina e odiano il salmì, gli altri che vedono complotti internazionali nel tonno in scatola. Gli altri che rimandano indietro le crocchette di patate perché ci scorgono dentro un briciolo di mozzarella e poi ti iniziano una filippica su quando il mondo vada a rotoli per ogni fettina panata che cucina tua nonna. Il vegano crede in un’etica del consumo, nel combattere ogni forma di sfruttamento animale evitando l’utilizzo di ogni articolo che ne derivi, che sia cibo, abbigliamento, un cosmetico o un medicinale. Il vegano per moda ti dice che è vegano dieci volte in un discorso, ti guarda con fare di superiorità, ti fa sentire una specie di schiavo di ogni peccato imputabile a essere umano e ti manda la cena di traverso. Ecco, soprattutto ti manda la cena di traverso.
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i questa tendenza fanno tesoro gli imprenditori più arguti: nascono festival veggie in ogni angolo della nostra “Italietta”, che fino a qualche anno fa sarebbe rabbrividita di fronte al seitan (un alimento che ricorda molto il pollo e viene in realtà ricavato dal glutine del grano tenero o da altri cereali). Qualcuno, a parer mio, sembra aver capito che il veg è il nuovo sushi. Se fino a qualche tempo fa faceva tanto chic andare a mangiare pezzi di pesce crudo su una base di riso (e guai a dire che in fin dei conti si tratta di una robetta insapore inconsistente e pure indigesta al momento del conto!), ora è caccia aperta a quei posti che, accanto a un menù tradizionale, propongono piatti vegani. E, dopo pranzo, si va tutti insieme al Veggie Pride! Sto pensando a quella che sarebbe la combo micidiale: il sushi-veg. Cumuli di riso sovrastati da salmone fittizio. Quasi quasi brevetto la cosa, fa chic. E se fa chic ci si guadagna.
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Un nuovo benessere Soggiornare a Viterbo in un tempo sospeso tra acqua e cielo. L’HOTEL SALUS TERME di Viterbo è una scelta ideale per esaudire la sete di benessere di chiunque visiti o risieda in Tuscia. JazzUp collabora ormai da tempo con questa Azienda, un impegno attivo allo sviluppo della vita culturale della propria città. La recente ed interessante mostra fotografica sul termalismo dal titolo “Vapori e visioni”, realizzata dal freelance umbro Sergio Coppi, attualmente esposta nelle sale dell’hotel, rappresenta senza dubbio uno degli ultimi più riusciti obiettivi. L’hashtag di oggi, pone quindi l’occhio vigile ed attento del festival, su una struttura alberghiera moderna e aggiornata, dotata di ogni comfort e servizio, con personale sempre gentile e preparato, un ottimo ristorante diretto dallo chef stellato Luca Maragliano. Una posizione che ne fa un punto di partenza ideale per andare alla scoperta delle meraviglie di questo territorio: l’hotel dista solo un chilometro e mezzo dal centro di Viterbo e si trova vicino a tutte le principali arterie stradali, che vi consentiranno di visitare facilmente il resto della
provincia. Ma neanche Roma è troppo distante e soggiornare qui può essere un buon modo per visitare la magnifica capitale italiana, potendo a fine giornata tornare in un ambiente comunque più rilassante e tranquillo. Le comodità, infatti, certamente non mancano: d’estate, ad esempio, gli ospiti dell’albergo possono contare su tre piscine esterne saline, attrezzate con lettini, zone d’ombra, snack-bar e ristorane all’aperto. Inoltre, la seconda ragione che ci spinge a consigliarvelo sta nel fatto che l’Hotel Salus è anche un centro termale d’eccellenza nel cuore dell’area termale di Viterbo. La struttura termale del Salus si trova comodamente annessa all’albergo stesso: pertanto, vi basterà scendere dalla vostra camera per accedervi o usufruire dei numerosi servizi offerti come visitatore esterno. Ciò è possibile grazie al fatto che l’hotel dispone di una propria sorgente termale interna: la sorgente San Valentino. La sua acqua sgorga a una temperatura compresa tra i 36° e i 40°, e possiede caratteristiche chimico-fisiche utili nella cura e nella prevenzione delle
affezioni croniche dell’apparato respiratorio, articolare e cutaneo. La sorgente San Valentino alimenta un parco termale all’avanguardia, con piscine interne ed esterne, cui si aggiungono un calidario, una sauna, un hamman, suggestive aree relax, una palestra e numerose cabine in cui potrete godere di una completissima gamma di trattamenti per la bellezza e la salute effettuati da personale cortese e competente. Infine, ci sono gli incantevoli Giardini di Turan, su cui permetteteci di spendere qualche parola in più. Uscendo all’aperto dal lato interno della Spa, la prima impressione che si ricava è il verde smeraldino del prato, cui segue il celeste opalescente e fumante dei ruscelli d’acqua termale che guidano fin dentro Menerva e Nethuns, due vasche esterne con cascate e sedute chaise longue, dov’è possibile immergersi e abbandonarsi alla pace di un tempo letteralmente sospeso tra acqua e cielo.Turan, nume tutelare di Vulci, era per gli antichi etruschi la dea dell’amore. Mai nome fu più indovinato, perché trovarsi in un posto simile significa davvero amarsi.
Strada Provinciale Tuscanese 26/28 - Viterbo 8
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jazzup
vapori e visioni
La qualità di vivere la Tuscia inizia dall’arte dell’immagine Viaggio immaginario nei luoghi del termalismo della Tuscia. ergio Coppi, descrive se stesso nella propria immagine riflessa, focalizzando istantanee iconoclastiche, non convenzionali e carpite nei luoghi conosciuti e descritti anche nella Divina Commedia da Dante Alighieri: “Quale del Bulicame esce ruscello che parton poi tra lor le peccatrici tal per la rena giù sen giva quello…” (XIV canto dell’Inferno). Sergio Coppi è nato a Roma nel 1945, molto presto si trasferisce a Terni dove risiede e compie gli studi. La fotografia come pratica e come arte. Intorno a queste definizioni si declina un cammino progressivo più che un percorso. Si definisce un “fotografo ambulante”, un fotografo che si sposta alla ricerca della bellezza ma che è anche capace di attenderla. Le frequentazioni giovanili della Galleria Poliantea a Terni consentono a Coppi di conoscere e “toccare” le avanguardie dell’arte. Fotografa people, il movimento, le masse degli operai ternani nei giorni dell’esaltazione e verso il declino. Sergio Coppi punta la sua reflex catturando diversi scenari e restituendoceli con una bellezza che, stupisce la capacità di ognuno di guardare. “Non c’è confine tra la mia vita e il mio lavoro! Faccio foto quasi da mezzo secolo, uso indistintamente analogico e digitale, non sono un purista della fotografia, amo la contaminazione e la sperimentazione! Credo che una foto debba sempre dire di più di quello che mostra…”
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La mostra dell’artista umbro Vapori & Visioni, è stata molto apprezzata nel mese scorso all’interno delle sale di Palazzo Ducale nella cittadina di Martina Franca in Puglia, inserita nel progetto La Tuscia incontra la Valle d’Itria, sostenuto e realizzato dal JazzUp Festival in collaborazione con l’Associazione Novapulia. Due terre meravigliose creano un ponte culturale solido sulle fondamenta dell’arte e della musica. Due storie diverse, lontane nei tempi, dove storicamente vengono attribuiti i primi insediamenti di comunità civili e pacifiche, gli Etruschi ed i Messapi. La mostra è attualmente allestita presso la Sala Lounge dell’Hotel Salus Terme.
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Se è Re ci sarà un perché A cura di Re Panino
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e siete di Viterbo e avete voglia di un panino diverso dal solito, se siete turisti in visita alla stupenda Città dei Papi, se volete sentirvi un Papa mangiando un panino, allora la vostra sosta deve essere da Re Panino. Per farvi sentire come un Papa, Andrea Cesarini dal grande spirito imprenditoriale, dall’amore per la sua terra, e dall’amore per il buon cibo e dal desiderio di coinvolgere il cliente, ha creato ben venti diversi tipi di panini. Dai nomi dei panini si capisce l’amore per la sua terra; si va dal panino Etruschello in onore di Tarquinia, per raggiungere il Bisentino, il Ferento, il Farnese, il Martano, il Cimino, il Vico, il Civita, il Maremmano, l’Est-Est-Est il 7 cannelle, il Mostro (legato a Bomarzo), per esaltare la Tuscia. Il San Pellegrino, il Bulicame, il Parapija, il Faul, il Piascarano in onore di Viterbo. Dagli ingredienti si capisce il suo amore per buon cibo. Si inizia con prosciutto cotto e crudo, mozzarella, pomodori secchi, pomodori, salmone, lattuga, mortadella, speck, zucchine, scamorza, peperoni, funghi, bresaola, tonno, primosale, emmenthal, salame, carciofini, melanzane, fontina, rucola, lonza, ciauscolo, stracchino, e si finisce con tante salse. Dalla salsa tabasco a quella ai carciofini, si passa poi a quella di olive, ci si ferma un attimo a quella piccante e poi ci si dirige verso quella ai funghi e quella rosa. Ma la vera forza di questi panini è il pane. È una ricetta creata personalmente dal titolare, che per ben due mesi ha
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provato varie ricette, modificandole e aggiustandole, fino a creare un impasto soffice e croccante. Il pane viene cotto al momento, quindi sarà sempre croccante, caldo e soprattutto leggero. Insieme agli ingredienti sarà una vera libidine per il vostro palato. Non il solito panino caldo, ma qualcosa che vi farà tornare per provare altri panini.
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n questo tripudio di ingredienti e sapori si cerca di pensare anche all’ambiente, infatti tutte le verdure sono a chilometro zero. Ma in tutto questo il cliente viene coinvolto perché potrà anche “farsi il suo panino”. Potrà decidere quali ingredienti mettere nel suo panino.Tutto questo è possibile perché i panini non sono preconfezionati, ma vengono creati al momento con pane caldo e ingredienti freschissimi. Particolare non certo trascurabile per chi volesse essere servito a casa c’è il servizio a domicilio e così, dopo aver visitato il sito, si compila il numero 0761 223418 per vedersi recapitare un plateau ben confezionato. In fondo per essere trattati da monarca o da Papa non serve a tutti i costi un trono ed un regno, è sufficiente frequentare Re Panino, il Re dei Re dei Panini. E ognuno di noi si sentirà proclamato sovrano non di un semplice e anonimo panino, bensì un Re Panino. Provare per credere. Ci potete trovare in via Cesare Dobici 9, a due passi da via Ascenzi proprio davanti al Sacrario, nel cuore della Viterbo storica.
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Imparare in fattoria I percorsi didattici proposti da I giardini di Ararat. A cura di I giardini di Ararat
ono ormai cinque anni che la fattoria didattica I giardini di Ararat propone percorsi formativi innovativi sul territorio. Nei primi due anni ci siamo dedicati alla formazione di noi stessi partecipando a master sulla didattica nelle più grandi fiere nazionali come la Fiera degli agriturismi e dell’agrididattica ad Arezzo, dove abbiamo vinto nel 2012 il secondo premio per la qualità della didattica in fattoria. Ci siamo poi dedicati alla segnaletica della fattoria didattica all’accoglienza in agriturismo e alla biodiversità umana impegnandoci con progetti interessanti nel sociale. Dopo aver prontamente aderito all’elenco delle fattorie didattiche istituito nel 2009 dalla Provincia di Viterbo, con loro abbiamo collaborato alla realizzazione di momenti di aggregazione formativa importantissimi anche attraverso la
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www.igiardinidiararat.it Strada Romana, 30 (o Strada Provinciale, 57) 01100 Bagnaia (VT) Tel. +39 0761 289934 - Email: giardinidiararat@gmail.com Orari di apertura per la ristorazione da Mercoledì a Domenica: Pranzo e Cena festivi: Pranzo - prefestivi: chiamare in Agriturismo N.B.: è gradita la prenotazione.
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comico didattica, grazie a Walter Del Greco. Uno spettacolo comico e didattico sulla lavorazione del formaggio, incontro a cui hanno partecipato più di 1.200 bambini di tutta la provincia di Viterbo. Dopo quattro anni di vita da corsisti ad Arezzo con i migliori docenti della didattica a livello nazionale, oggi gioiamo perché siamo stati selezionati come buona pratica all’interno del nuovo libro di fattorie didattiche di Margherita Rizzuto.
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a il vero traguardo di quest’anno è la convenzione stipulata con Giratlantide, un’agenzia che si occupa di smistare il turismo scolastico di Expo 2015. Expo 2015 è l’evento più importante in Italia dei prossimi 10 anni che ospiterà 1.300.000 studenti da tutta Europa. Questi studenti dopo aver visitato Expo 2015 faranno tappa in una delle mete turistiche che Milano ha scelto in Italia. Doppia fortuna perché oltre ad essere stati selezionati come referenti del Lazio, anche Villa Lante è stata inserita come meta turistica. Dopo anni di percorsi formativi all’avanguardia ci troviamo oggi in piena linea con i punti fondamentale della didattica Expo 2015. Invitiamo quindi tutte le scuole del territorio, primo grado, secondo grado e superiori, a chiederci informazione per questi nuovi percorsi in programma per il 2015 che saranno i temi fondamentali scelti per la didattica mondiale dei ragazzi e dei bambini all’interno degli istituti scolastici. Mandate una mail a giardinidiararat@libero.it per avere il catalogo con tutti i percorsi formativi.
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Più rudi, più stoner: arrivano i Gorilla Pulp Il rock senza vincoli del quartetto viterbese. Gabriele Ludovici | gabriele.ludovici@decarta.it - Foto di Alessandro Sangiorgio
Viterbo, ore 00,07. Dovrei andare a letto presto, non mi ricordo perché ma dovrei.
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i trovo davanti ad un noto locale di San Pellegrino, quello coi tavolini di fuori che ogni tanto io ed un altro noto esponente di Decarta portiamo dentro per conquistarci l’agognato diritto-di-restareoltre-l’orario-di-chiusura*. Sto aspettando delle persone per un’intervista poco dopo aver staccato dall’Altro Lavoro, perché un bravo giornalista deve sempre avere un Altro Lavoro che gli permetta di vivere la quotidianità da un punto di vista privilegiato. O in un’alternativa più realistica, di pagare l’affitto, le bollette e le birre.
Note biografiche a parte, la band che arriva poco dopo l’ora delle streghe si chiama Gorilla Pulp ed è di recente formazione, includendo tuttavia tra le sue fila musicisti di ottimo livello ed esperienza: Maurice Flee (voce e chitarra), Angioletto (chitarra), Choris (basso) e Giorgio Bulldozer (batteria). Il nome unisce il rude “cugino” dell’essere umano con il genere pulp, che indica quel ramo della letteratura e del cinema che presenta contenuti forti e crudi. La voce principale è di Maurice, ma anche gli altri componenti del gruppo partecipano al microfono nei cori ed in altre linee vocali. Ordinate le 12
birre, iniziamo a tracciare l’identikit dei Gorilla Pulp: «Il nostro genere è lo stoner rock, un sottogenere del rock che richiama l’hard-rock degli anni ’70 riproponendolo in una salsa diversa. Per intenderci, è il genere di band come i Red Fang, i Cathedral ed i Church of Misery». L’idea di mettere su una band stoner è nata dopo che Choris e Maurice assistettero proprio ad un concerto dei Red Fang: «Ci siamo appassionati a questo genere e poi abbiamo coinvolto altre persone: Angioletto, che è davvero una sicurezza nel panorama europeo dei chitarristi estremi, ed il batterista Giorgio. Il gruppo è nato d’istinto circa tre mesi fa ed ora stiamo già lavorando ad un EP di quattro pezzi, i cui testi sono stati scritti da Maurice in lingua inglese. L’affiatamento è stato molto spontaneo, visto che alcuni di noi hanno già avuto modo di suonare assieme: in questo modo per produrre pezzi nuovi ci è voluto giusto un mese. Lo scenario delle nostre prove invece sono le famose grotte di Valle Faul, dove hanno visto la luce altre band locali». Le tematiche delle canzoni sono chiaramente tutte in stile pulp: «Ognuno di noi si ritrova nei testi, perché trat-
tano di argomenti come alcol, sesso e tutto ciò che può accadere in una serata improbabile. Parliamo di fatti realmente accaduti e non, sempre in modo esplicito». Chi ha avuto modo di apprezzare i libri di Palahniuk e i film di Tarantino può farsi già un’idea. Lo stoner rock come detto appartiene ai sottogeneri del rock, ma non per questo è destinato a non ricevere i giusti riconoscimenti: «Anche in Italia la musica underground può vantare una realtà solida, si suona eccome. La voglia di andare all’estero c’è, ma è un piacere anche esibirsi sui palchi nostrani: la musica italiana finirà quando inizieremo a darla per finita!».
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Gorilla Pulp puntano ad un esordio d’impatto e nei prossimi giorni uscirà il loro primo video – prodotto da Sbob Tv – relativo al brano Mean Devil Blues, dove compariranno, oltre a delle facce note di Viterbo, anche le attrici di film erotici Marina Mantero e Giada Da Vinci. La loro presenza non è casuale, e si riferisce al significato del testo: «Il protagonista è un inetto moderno succube del sistema, che tenta di liberarsi da qualcosa che lo opprime: ognuno può trovarci il motivo che vuole. Marina e Giada hanno dei ruoli DECARTA SETTEMBRE 2014
che rappresentano la tentazione». La band si dichiara molto soddisfatta di queste presenze illustri, e ci tiene a ringraziare le due attrici per la loro professionalità e disponibilità. Proprio la necessità di contenuti forti, a loro giudizio, serve a combattere il finto buonismo, ed in questo periodo storico è giusto sbarazzarsi di censure
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e boicottaggi: «Il rock è nato proprio per andare contro a ciò che proponeva la società, ed ancora oggi la ribellione è necessaria per scacciare gli incubi». Tornando all’EP, esso vedrà la partecipazione di Elliott Hammond, tastierista degli australiani Wolfmother. Entusiasta del progetto Gorilla Pulp, Hammond ha deciso di collaborare
nella traccia Witchcraft, un brano che attraverso la metafora della stregoneria racconta i tentativi di conquistare una donna dopo aver bevuto oltremisura. L’intervista volge al termine, non è ancora troppo tardi e decido seduta stante che farò un altro giro notturno a cercare qualche amico randagio. Prima di salutarci, i Gorilla Pulp mi ricordano che ovviamente sono presenti su Facebook e che sul web potete seguire tutti gli sviluppi della loro invasione stoner in procinto di scatenarsi: «Long live rock ’n’ roll, l’era dei Gorilla Pulp è vicina... sempre che ci sia la birra!». In bocca al luppolo, come minimo. –––– * Tale diritto è un volo pindarico dell’autore dell’articolo. Ometto il nome del locale sennò tutti vanno lì durante l’ora di chiusura a trafficare con il mobilio.
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Storie di una libreria disordinata / 9 In “A sangue freddo” di Truman Capote resoconto giornalistico e racconto si fondono in un meccanismo narrativo perfetto. Claudia Paccosi | claudia.paccosi@decarta.it
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’estate è il periodo più bello per leggere un libro, il tempo si dilata, l’aria si scalda e la luce rende accecanti anche le pagine più noiose. Con l’estate tutti, più o meno, leggono. C’è chi sfodera un classico rimasto sepolto fra i tanti bestseller durante l’inverno, chi invece riesce a sfogliare solo riviste scandalistiche ricoperte di fotografie sfocate e di scarsa qualità dei divi sulla spiaggia, chi porta l’ultimo successo letterario al mare, chi ama svegliarsi la mattina e leggere, ancora prima di far colazione, fra le bianche lenzuola ancora umide di sudore. La lettura estiva è riflessiva, pensata, le parole colpite dall’iride rimangono impresse nella mente, nell’animo e fanno alzare lo sguardo verso un quieto tramonto all’orizzonte, verso il vento che violento scuote gli alberi. Io, libreria disordinata, amo l’estate. Anche se la casa si svuota, i rumori si spengono e le persiane sono socchiuse, io e i miei libri amiamo la calda stagione del sole, quei mesi di tempo infinito, di docce quotidiane, di dita dal colore ambrato che, irrequiete, girano una pagina, un’altra, chiudono e corrono a gettarsi in acqua, perché è davvero troppo caldo. Le letture estive fra i miei scaffali ovviamente in questo periodo si moltiplicano, portando le mie spalle a sovraccaricarsi, quasi, insopportabilmente. I volumi si accumulano ovunque, sui mobili, a terra, gli uni davanti agli altri, in una lotta continua per avere più visibilità, c'è chi si sporge di lato, mostrando un angolo di copertina rossa, chi tronfio d’orgoglio urla il suo titolo con giganteschi e pacchiani caratteri cubitali, chi infine, più timido o forse solo più piccolo, scompare schiacciato dalla marea di pagine a riposo. Fra i villeggianti estivi che si sdraiano sui miei scaffali questo mese ho scelto di presentarvi A sangue freddo di Truman 14
Capote. Si tratta di un signorotto attempato, abbastanza in carne, di quelli che la domenica si siedono a tavola verso le 12 e si alzano nel tardo pomeriggio, con la cintura slacciata, qualche rossa macchia di sugo sulla camicia e una tonda pancia compatta che annuncia il loro arrivo in salotto, rigorosamente per sedersi davanti al quotidiano programma sportivo in tv. Ha una copertina rigida ricoperta da un rivestimento a tinte bianco e nero, è essenziale, rigoroso e quanto mai presente. A sangue freddo è il grande romanzo di Truman Capote, lo scrittore hollywoodiano degli anni ’50 conosciuto in tutto il mondo per aver inventato la storia del romantico Colazione da Tiffany con la filiforme Audrey Hepburn. In realtà l’apice della sua carriera fu proprio A sangue freddo, pubblicato nel 1966, che suscitò polemiche non solo letterarie, ma anche etico-sociali. Nel lungo romanzo, resoconto giornalistico lo scrittore statunitense descrive a fondo e oggettivamente un terribile caso di cronaca nera avvenuto nel cuore del cattolico Middle West agricolo. Due ragazzi, entrati in una villa per compiere una rapina, non trovando beni di valore nell’abitazione, sterminano un’intera famiglia a sangue freddo, adagiando ogni vittima in una posizione comoda, come a non volerli far soffrire.
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o scrittore estrapola uno straordinario resoconto tinto da uno stile sapiente e originale che lo rendono un grande classico americano. Per lungo tempo Capote ha indagato sul caso per andare a fondo della vicenda soprattutto ottenendo uno stretto rapporto con i due colpevoli, che furono poi giustiziati dopo sei anni di processi. Il testo scava a fondo negli animi di due persone, di un momento fatale e dell’azione compiuta con raziocinio, istantaneamente. Un romanzo indubbiamente di spessore, crudo, di violenza, ma scritto in maniera magistrale, dove non solo si può apprezzare lo stile narrativo, ma anche l’impegno nel trattare oggettivamente una tematica tanto difficile, senza influenze esterne dettate dall’opinione pubblica, dal timore verso chi ha compiuto tale gesto e dalla personale visione dello scrittore. Interessante per completare la lettura di una figura particolare e influente per il secolo scorso come Truman Capote è la visione del film Truman Capote – A sangue freddo del 2005 diretto da Bennett Miller, per cui il prematuramente scomparso attore Philip Seymour Hoffman ha vinto l’Oscar al miglior attore, recitando proprio la parte di Truman Capote alla presa con le ricerche e gli incontri con i due sospettati per la stesura del libro A sangue freddo. Ovviamente solo dopo aver letto il romanzo.
Truman Capote A sangue freddo Titolo originale: In Cold Blood Traduzione di Mariapaola Ricci Dettore Garzanti, 2005 - pp. 391 € 19,60 ISBN 978-8811683117
DECARTA SETTEMBRE 2014
carta stampata pillole di lettura Claudia Paccosi | claudia.paccosi@decarta.it
Zweig: Lettera di una sconosciuta
Fowler: Zelda
“Tutti, tutti mi hanno viziata, tutti sono stati buoni con me – solo tu, solo tu mi hai dimenticata, solo tu solo tu non mi hai mai riconosciuta!” Breve, romantico e disperato: letteratura. Testo di 73 pagine edito da Garzanti che merita un’ora del vostro tempo. Lettera di una sconosciuta è il grido disperato di una donna innamorata raccontato in una lunga lettera che riempie tutto il breve romanzo. La lettera di una donna che durante la sua esistenza incontra spesso l’amore della sua vita senza che lui la riconosca mai, rimarrà per sempre nell’ombra, invisibile e anonima, anche se il suo sentimento è forte, folle e puro. Stefan Zweig è un autore austriaco che scrisse fra gli anni venti e trenta, influenzando i suoi racconti e le sue novelle con le teorie psicanalitiche di Freud. Uno scrittore dalla penna sorprendentemente elegante, che con poche parole riesce a catturare il lettore in un tunnel di parole da cui non può uscire e sarà costretto a tuffarsi ininterrottamente nelle sue pagine finché la trama non si sarà sbrogliata.
“Così continuiamo a remare, barche contro corrente, risospinti senza posa nel passato.” Questa frase conclude Il grande Gatsby di Francis Scott Fitzgerald, marito di Zelda Fitzgerald e preziosissimo scrittore dei primi decenni del Novecento. Con questo romanzo l’autrice intende stendere una biografia-romanzo della moglie di Francis, attraversando la sua vita accanto al grande scrittore dell’età del jazz, fra feste, lussi, debiti, amanti e crisi psicofisiche. È la vita di una grande donna all’ombra di un grande uomo, che vive la sua esistenza proprio come le barche che chiudono il più bel romanzo di suo marito, remando verso il futuro, ma inesorabilmente spinta verso il passato, verso un matrimonio che ha cambiato la sua vita per sempre. Quella di Zelda è una vita di domande, le cui risposte non la soddisfano, è la vita di una donna già emancipata, moderna, capace e talentuosa, vissuta ancora a metà fra un destino legato alla famiglia, al marito e alle antiche tradizioni che una moglie era costretta a seguire, e un futuro dove le gonne si accorciano, gli alcolici si allungano e le donne sembrano ormai essere diventate degli uomini, padrone di loro stesse, libere (quasi) di indossare i pantaloni.
Stefan Zweig Lettere di una sconosciuta Titolo originale: Brief einer uberkannten Traduzione di C. Galli Garzanti, 2014 - pp. 74 € 6,90 ISBN 978-8811810292
Therese Anne Fowler Zelda Titolo originale: Z - A Novel of Zelda Fitzgerald - Traduzione di M. Maffi Frassinelli, 2013 - pp. 448 - € 18,50 ISBN 978-8820053567
Schnakenberg: Vite segrete dei grandi scrittori “Agatha Christie aveva un disturbo dell’apprendimento chiamato disgrafia, che le impediva di scrivere in maniera leggibile. Tutti i suoi romanzi vennero dettati.” A volte dobbiamo anche divertirci. Il libro di Schnakenberg è un simpatico diversivo da sfogliare quando abbiamo pochi minuti liberi e voglia di imparare qualcosa senza annoiarci troppo. Si tratta della raccolta di vite segrete dei grandi scrittori del passato, con curiosità e stranezze che anche il lettore più appassionato non conosce. La copertina e le pagine all’interno sono un piacere per gli occhi, combinando graficamente immagini e scritte con una veste quasi giornalistica, dove i titoli a caratteri cubitali urlano i loro scandali e non possono che essere letti. L’autrice di Piccole Donne aveva il vizio dell’oppio. Kafka era un nudista? Racconti strani ma veri di assassini, drogati e altre leggende della letteratura. Davvero spassoso e interessante, per sapere qualcosa di più sui grandi miti che orgogliosi mostriamo sulla nostra libreria e che in fondo, nonostante i loro indiscussi talenti letterari, avevano degli scheletri nell’armadio. E forse anche, ogni tanto, per farci belli con gli amici e inserire nei discorsi aneddoti che nessuno conosce, ma di cui tutti sono curiosi. Della stessa serie è edito anche Vite segrete dei grandi artisti. DECARTA SETTEMBRE 2014
Robert Schnakenberg Vite segrete dei grandi scrittori Tit. orig.: Secret Lives of Great Authors Illustrazioni: Mario Zucca Traduzione di S. Lombardi Electa, 2014 - pp. 304 € 19,90 ISBN 978-8837098629
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xenofilia
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Anteeksi, mitä se tarkoittaa? Ovvero: “Scusa, che vuol dire?” Gabriele Ludovici | gabriele.ludovici@decarta.it - Foto di Gabriele Ludovici
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i dice che ai tempi in cui Dio viveva più vicino agli uomini tutti i cittadini del mondo parlassero la stessa lingua. Poteva quindi capitare che un pellegrino camminasse per tante e tante miglia, e che potesse conversare con il primo che passava senza difficoltà: - Salve buon uomo, sono Piero e vengo da Cordoba. Sarebbe così cortese da abbeverare un povero assetato che ha varcato i Pirenei? - Ossequi Piero, benvenuto in Gallia, io sono Michele! Sarà un piacere servirla con la migliore delle nostre cervogie. Poi accadde che qualcuno decise di costruire la torre di Babele per raggiungere Dio, e siccome l’Onnipotente non è mai stato il tipo da lasciar correre queste alzate d’ingegno (per conferme chiedete al capitano del Titanic o ai Beatles), solerte arrivò la punizione divina: da quel momento, l’umanità sarebbe stata divisa dal muro delle differenze linguistiche. Poco tempo dopo i nostri amici fecero fatica a scambiarsi due battute: - ¡Hola Miguelito! ¿Qué pasa? - Pierre? Je n’ai pas compris… Chi studia lingue di sicuro è arrivato a certe conclusioni prima di me. Però, per rendersi conto di cosa voglia dire imparare una lingua e soprattutto cosa sia una lingua, non basta andare all’estero. I tizi che vanno in vacanza a Sharm-El-Sheik o a Londra e non fanno altro che chiamare la mamma su Skype mangiando le melanzane alla 16
parmigiana hanno semplicemente dislocato il loro corpo altrove. Due anni fa andai in Finlandia, perché tempo prima avevo ospitato due ragazze finlandesi che in seguito vollero ricambiare il favore. Nella vita di ognuno capita prima o poi un momento turning point, in cui capisci che hai visto qualcosa di speciale, e poco dopo aver messo piede in quel paese capii che non sarebbe stato male approfondirne la conoscenza. Vedrai, dissi alla mia amica finlandese prima del commiato, appena torno in Italia inizierò a studiare il finlandese, e poi verrò a vivere qui!. Generalmente affermazioni di questo tipo appartengono alla categoria delle frasi che lasciano il tempo che trovano, ma siccome superata una certa età (che può variare dai cinque ai novantanove anni) si tende a volare con i piedi per terra, decisi effettivamente di iscrivermi ad un corso di lingua finlandese. Davvero studi finlandese? Perché vuoi andare a vivere in Svezia, dove non c’è il sole e tutti quanti si suicidano in mezzo alla nevi? è il rozzo commento tipico che ho sentito durante i primi tempi, variante degli epiteti rivolti agli studenti di lingue orientali (Quindi anche tu mangi i cani?) o arabe (E poi vai a fare il terrorista?). In fondo anche all’inventore del telefono dissero che il suo lavoro non avrebbe mai ottenuto successo, quindi mi cimento nell’opera con grande fervore. Anzitutto cerco di reperire i libri adatti, e non è un’impresa facile visto che quelli più recenti
costano assai. Ripiego su due volumi acquistati su internet: il primo è una ristampa della più antica grammatica finlandese mai pubblicata, scritta da Clemens Niemi nel lontano 1917, mentre la seconda, di Terttu Leney, è del 1993. Si tratta di una vera fortuna, perché così studiando mi immergo in due mondi lontani ed affascinanti: Niemi nei suoi esempi cita la remota vita contadina di una Finlandia ancora non indipendente, mentre Leney si inserisce nel contesto di una Europa preEuro, in cui un intero capitolo è dedicato a come cambiare i soldi in banca e dove il telefonino cellulare viene citato come un prodigio di cui il popolo scandinavo può vantare un’ampia diffusione. La grammatica è utile, ma scoprire la storia di un paese attraverso le variazioni linguistiche è davvero stupendo: cambiano i termini, cambia la percezione di un territorio che passa dall’essere un granducato russo speranzoso in un futuro più libero ad una nazione modernissima e fiera delle proprie tradizioni.
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on essendo più uno studente universitario, torno di soppiatto in un mondo di quaderni, appunti e qualche esame. L’impossibilità di confrontarmi sul campo dura un paio d’anni, in cui ostinatamente continuo a raccogliere materiale su materiale. Come qualcuno di voi saprà, il finlandese non è proprio una lingua facile. Tuttavia, arriva la Grande Occasione: mi invitano a tornare su per un DECARTA SETTEMBRE 2014
© Lobke Thijssen
matrimonio, e mi preparo al battesimo del fuoco. Saranno stati due anni buttati o no? Atterro ad Helsinki: l’aeroporto brulica di scritte in finlandese, ed inizio a compiacermi del fatto di riconoscerne qualcuna. Mi avvicino verso il classico paninaro di lusso dell’aeroporto, ma capisco che c’è qualcosa che non va perché le parole faticano ad uscire, e mi limito ad annuire quando il ragazzo dietro al bancone mi propone un’offerta in promozione. Per qualche ora, durante gli spostamenti utilizzo la coperta di Linus chiamata inglese, ma mi rendo conto che così non può andare: occorre osare. Finalmente il giorno dopo arriva il riscatto ed in un chiosco di yogurt a Kauppatori, nel centro di Turku, riesco ad ordinare qualcosa sentendomi dal gestore dire il fatidico …puhutko suomea? …parli finlandese? Ne segue una simpatica chiacchierata che mi dà la carica. Poco dopo mi vedo con un’amica con cui posso finalmente scatenarmi senza paura: pian piano i discorsi iniziano a farsi fluidi, e con le antenne al massimo della ricezione capisco pure qualcosa che mi dice lei. L’escalation mi porta a rivolgermi a tutti gli invitati alle nozze che conosco in finlandese, e ricevo persino dei complimenti: anvedi questo, due anni che studia questa lingua di cui persino noi ammettiamo la difficoltà e già in qualche modo si fa capire! Tosi hyvin! L’ebbrezza del piccolo successo lascia dei postumi ed il giorno dopo la testa inizia a dirmi che ho portato a casa il risultato e che non devo strafare. Provare a leggere la pagina di econoDECARTA SETTEMBRE 2014
mia di un quotidiano è difficile, ma rivolgermi ai commessi senza far scaturire volti confusi è possibile. Il giorno prima della partenza canto una canzone in finlandese nel karaoke di un piccolo pub di Nastola, e mi regalano una maglietta ricordo ricevendo ancora dei consensi. Alla fine mi convinco che lo studio ha dato i suoi frutti.
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ornando al quesito iniziale, cos’è esattamente una lingua? Credo che Dio, se la leggenda non mente, nel tentativo di punire l’umanità gli abbia fatto invece un bel regalo. La lingua rappresenta la storia, la mentalità ed il cuore di ogni popolo, ovvero la più essenziale chiave di lettura che una mente possa possedere. Parlare più lingue significa possedere più punti di vista della realtà, e non ci si può avvi-
cinare a nessuna cultura ignorando il modo in cui viene comunicata dagli autoctoni. Quelle che noi chiamiamo stelle, in Finlandia le chiamano tähdet, e vi assicuro che ciò che illumina i nostri cieli di notte è differente da quello che si può ammirare lassù. Necessita di un termine diverso. Necessita del primo uomo che disse stella, o tähti, ricevendo sguardi di assenso: sì fratello, è proprio così. Bisogna insistere, imparare una lingua è davvero la prova d’amore necessaria se si vuole andare a vivere in un altro paese, ma non solo. Imparare una lingua è sempre utile, e forse la non troppo velata ondata di razzismo che pervade alcuni settori del nostro paese è dovuta proprio a fattori come l’esiguo insegnamento delle lingue straniere che ci viene propinato nella scuola dell’obbligo. Ciò rappresenta una sottile condanna a dover ritardare l’ingresso tra i cittadini del mondo e l’ottenimento di quella marcia mentale in più che fa la differenza. Tornando dalla Finlandia faccio scalo a Riga, in Lettonia. Mi tocca stare due ore e spiccioli nell’aeroporto, e ne approfitto per fare un giretto nel terminal. Intorno a me è tutto scritto in lettone. Ecco un nuovo idioma ed ho l’impressione che si adatti perfettamente alla gente che vedo sfilare e che mi sembra del posto. Che la storia di questa ex-repubblica sovietica fosse già scritta nella sua lingua? Congetture mie, che leggo libri di Henning Mankell. Ma chissà perché, da quando ho iniziato a studiarne una seriamente, ho voglia di imparare tutte le lingue e di conquistare sempre più punti di vista sulla realtà. 17
ospiti
mentre cucino
Il profumo dei ricordi Monica Angela Baiona
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ara entra in casa e, come al solito, lancia le chiavi sul piattino di ceramica sul mobile vicino alla porta d’ingresso. “Sei già tornata?” le chiede Giada, sua sorella. “Già…” e si lascia cadere sul divano accanto a lei “che facevi davanti al televisore spento?” “Pensavo” risponde Giada continuando a guardare il video nero. “Ah…” “C’era tanta gente?” “Certo! Come ogni anno.” “Chi c’era?” “Tutti i suoi amici, la nonna, i parenti eccetera eccetera” risponde con tono annoiato, roteando la mano in aria davanti a lei. “Cavoli! Mi dispiace non essere potuta venire quest’anno.” “Beh! Mica è colpa tua! Con quel coso addosso!” fa scivolare il suo sguardo dal suo collo fino al piede destro “quando te lo vengono a firmare il gesso i tuoi amici? Sarebbe tutto bianco se non ti avessi concesso il privilegio di andare in giro con i miei affreschi!” ride di gusto buttando la testa all’indietro. Giada accenna appena un sorriso, non è nello spirito di ridere. Non che sua sorella ne abbia motivo ma hanno un modo differente di affrontare la vita. Rimangono qualche minuto in silenzio. Giada continua a guardare il riquadro nero del televisore e Sara il soffitto della stanza. “Pensi che lui si sia accorto che non 18
c’ero?” chiede ad un tratto Giada con tono preoccupato, girando di qualche grado la testa verso la sorella. Sara ride a bocca chiusa e poi dice: “Stronzate!” “Non dire così! Lo sai che mamma non vuole!” “Che dico parolacce?” “No! Che dici che sono stronzate!” “La mamma ancora non è tornata e se tu non fai la spia non lo saprà mai.” “Beh, comunque anche io non voglio che tu dica queste cose!” Segue ancora qualche minuto di silenzio. Sara deglutisce a fatica qualcosa che da un pò di anni non riesce proprio a mandar giù, poi dice: “Dipende a cosa credi. Non è che io devo credere a quello che credi tu!” “Abbine almeno rispetto.” “E tu rispetta il mio punto di vista.” I loro toni sono pacati. Sono troppo stanche per essere arrabbiate. Dopo questo scambio di battute ritornano a stare in silenzio fino a quando la madre non entra in casa. “Eccoti! Sei sparita Sara, potevi aspettare, cos’era tutta questa fretta di andar via?” “Ero preoccupata per la mia sorellina” risponde, poi guarda la sorella alzando le sopracciglia e portandosi le mani al petto. Giada inclina appena la testa di lato e finge un sorriso compiaciuto. Anche la madre ora si siede sul divano in mezzo alle figlie e tutte e tre ri-
mangono a guardare lo schermo spento del televisore. “C’era un sacco di gente. Mi hanno chiesto tutti di te, Giada.” “Pensi che lui si sia accorto che non c’ero?” chiede con rinnovata preoccupazione. “No! Sono sicura di no” risponde prontamente come se avesse aspettato che la figlia le ponesse questa domanda. Sa bene come funzionano le sue figlie. Il silenzio che segue fa rieccheggiare quelle parole e Giada le trova sempre più rassicuranti. “Se tra qualche minuto entrasse dalla quella porta che gli diresti?” chiede Sara. “Gli chiederei di restare” risponde la sorella senza doverci pensare. “E poi... cosa gli diresti?” chiede la madre.
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iada fissa lo schermo nero del televisore e lo vede tingersi di verde, nel centro vede materializzarsi un grande fiume di acqua cristallina che scende a valla formando una esse. Giada si sorprende a sorridere e batte forte le palpebre degli occhi affinché non si riempiano di lacrime. Non può piangere proprio adesso che sta per rivedere una delle immagini più belle della sua vita, di quando galoppava con il suo papà. Vede Stella mentre corre per i campi con lei in groppa e il suo papà su uno stallone che la segue. Sono felici e fieri. “Gli racconterei di quanto mi piace DECARTA SETTEMBRE 2014
galoppare e anche del volo che ho fatto per ridurmi così. Però gli direi che non ho paura, che su Stella ci risalgo appena posso.” “Brava!” dice la madre e l’abbraccia baciandole la fronte. “E tu Sara? Cosa gli diresti?” chiede la madre. “Stronzate! Non c’è pericolo che entri da quella porta almenoché non crediate agli zombi!” e ride fino a diventare paonazza, fino a piangerci. La madre e la sorella rimangono in silenzio. Giada teme che la madre si arrabbi e la tensione le stringe lo stomaco. La madre questa volta non si arrabbia. Ora, più delle altre volte, sa che Sara non ha trovato ancora il modo giusto per piangere la morte del padre. Sa bene come funzionano le sue figlie. Il silenzio ricade in quella stanza, riempie la casa e i campi che la circondano. “La facciamo anche quest’anno la torta?” chiede Giada con entusiasmo. “Certo che la facciamo!” risponde la madre e si alza di scatto. “Ma perché dovete fare sempre la solita torta margherita ad ogni anniversario della sua morte? Che palle!” “Perché era la torta preferita di vostro babbo!” “Ma è una torta finta! Non ha crema, cioccolato è…” “È un dolce semplice, genuino e buono, come era lui” la interrompe la madre con dolcezza. “Io lo odio quel dolce, odio il suo odore!” ribatte con ostentato disappunto incrociando le braccia. La madre si avvicina alla figlia, le accarezza i capelli e le dice dolcemente: “Ci sono odori o profumi che ci ricordano spesso un evento, un luogo, una persona e se siamo pronti ad accogliere quel ricordo vuol dire che non siamo più arrabbiati per non essere più in quel luogo speciale o vicino ad una persona speciale. Quando non sarai più arrabbiata riuscirai ad ammettere a te stessa che il profumo del dolce preferito dal tuo babbo ti piace tanto, proprio come allora” e la bacia sulla fronte. “Continuo a non capire che senso abbia mantenere certe tradizioni…” borbotta fra sé Sara. “Servono per ricordare” risponde dolcemente la madre. “Cosa? Che mio padre mi ha lasciato?” replica Sara furiosa. “No. Che ti ha amato. Che ci ha amato tantissimo.” Gli occhi di sua madre ora si riducono a due fessure e si riempiono di lacrime. Si concede di piangere un po’ per ricordare a sua figlia come si fa. Il nodo che spesso sente stringerle la gola ora si fa più stretto del solito. Poi respira forte con il naso, si alza dal divano e va in cucina a preparare la torta margherita.
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Ricetta della Torta margherita Per la quantità degli ingredienti utilizzare il vasetto di yogurt da 125g che occorre per la preparazione del dolce. 3 uova medie 1 vasetto di yogurt al limone o bianco o alla vaniglia 1 vasetto di olio di semi 2 vasetti di farina 00 1 vasetto di fecola di patate 1 vasetto e mezzo di zucchero 1 bustina di lievito per dolci Un pizzico di sale Un cucchiaino di miele di acacia
Procedimento Rompere le tre uova e unirle allo zucchero formando una cremina. Aggiungere il vasetto di yogurt, le due farine, il pizzico di sale, l’olio e il miele. Amalgamare gli ingredienti con l’aiuto di uno sbattitore elettrico. Aggiungere infine il lievito e amalgamare ancora il tutto per circa due minuti. Versare il composto in un teglia imburrata e infarinata della forma che più si gradisce, consiglio lo stampo per plumcake, e infornare a 180 gradi per circa 30 minuti. Controllare la cottura infilando uno stuzzicadenti nella torta, se rimane asciutto la torta è pronta. Si può farcire con la crema pasticcera, con la nutella o con la marmellata, tagliandola in due parti e spalmando la farcitura nel mezzo. È comunque ottima anche semplice con una spolverata di zucchero a velo sopra.
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incontri
Ti mandiamo a quel paese… gratis Il Servizio Volontario Europeo: un’esperienza di volontariato in Europa e in altri Paesi extra-europei. Elisa Spinelli | elisa.spinelli@decarta.it
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apita spesso, in questi ultimi tempi, di sentir parlare di uscita dell’Italia dall’Unione Europea; senza considerare che il nostro Paese è stato tra i fondatori di quello che era il primo “pilastro” dell’Unione Europea, la Comunità Economica Europea, e che proprio un politico e scrittore italiano, Altiero Spinelli, è considerato storicamente tra i padri dell’Europa unita. È comunque utile una riflessione sul ruolo che l’Italia ha nel sistema Europa a proposito, per esempio, di progetti socioculturali. Sono più di trent’anni che l’Europa finanzia e promuove programmi di scambio culturale (Lifelong Learning Programme), tra i quali il più conosciuto è l’Erasmus, che permette a giovani universitari di studiare, per alcuni mesi, in un’istituzione accademica europea. Questo programma di scambio socio-culturale non è l’unico degno di nota, infatti, ne esiste un altro molto interessante: il Servizio Volontario Europeo (SVE), che ha come obiettivo basilare di offrire ai giovani europei un’opportunità d’apprendimento grazie alla collaborazione con persone di Paesi e culture diverse. Nella provincia di Viterbo c’è un’organizzazione che si occupa di questo programma: la Cooperativa sociale Muovimente; per approfondire la questione abbiamo incontrato, Cinzia Pasquali, la giovane responsabile dei progetti SVE per la Cooperativa. La Cooperativa Muovimente si occupa da diversi anni dello SVE, quali sono le vostre attività? La nostra Cooperativa nasce nel 2007 ed è impegnata in diverse attività: sviluppo sostenibile, educazione non formale, turismo responsabile, educazione ai diritti umani e promozione della cittadinanza attiva. Attraverso Muovimente, quindi, diffondiamo tecniche e 20
strategie per migliorare dal basso tutti gli aspetti della convivenza civile. Crediamo fermamente che esista un altro modo di gestire il lavoro, la vita scolastica e anche il proprio tempo libero. Con Muovimente siamo impegnati principalmente su due fronti: uno è il turismo responsabile, infatti, abbiamo preso in gestione un ostello dal Comune di Sermugnano, piccolo borgo tra Viterbo e Orvieto, dove poter mettere in pratica ciò che – appunto – “ci muove”; l’altro settore è l’apprendimento non formale: organizziamo corsi di formazione - gestione dei conflitti, mediazione interculturale, corsi di lingue, etc. - e creiamo luoghi d’incontro per i giovani e le categorie sensibili, dove poter condividere azioni, idee e proposte. Uno dei settori dell’apprendimento non formale su cui siamo impegnati è anche il Servizio Volontario Europeo, di cui sono responsabile per la Cooperativa dal 2010.
Cos’è lo SVE? Il Servizio Volontario Europeo è un programma di volontariato internazionale finanziato dalla Commissione Europea, che permette a giovani, tra i 18 e i 30 anni, di svolgere un’esperienza di volontariato presso un’organizzazione o un ente pubblico in tutta Europa, in Africa, Asia o Sud America per un periodo che va dai 2 ai 12 mesi. Purtroppo è l’azione meno conosciuta del Programma d’apprendimento permanente – rispetto all’Erasmus – eppure offre tantissimo: prevede il rimborso delle spese di viaggio al 90%, la copertura completa dei costi di vitto e alloggio, il corso di lingua straniera, un pocketmoney e l’assicurazione. In sostanza: tutte le spese sono coperte dalla Commissione Europea. Ai volontari non è richiesta alcuna quota di partecipazione allo SVE, nemmeno per candidarsi. I progetti dello SVE riguardano vari settori o aree d’intervento: dalla cultura DECARTA SETTEMBRE 2014
allo sport, dall’assistenza sociale all’ambiente. La Cooperativa Muovimente che tipo di attività svolge nell’ambito dello SVE? Siamo un’organizzazione di “sending” – invio – e di “coordinating” – coordinamento – dei volontari; quindi, gestiamo i progetti per i giovani che svolgeranno lo SVE in Italia, e inoltre ci occupiamo dei volontari italiani che vogliono partecipare al programma all’estero. La nostra cooperativa sta svolgendo collaborazioni e progetti anche con l’Est europeo (Armenia, Ucraina, Azerbaijan, Georgia, Bielorussia). Dal 2011 a oggi abbiamo coordinato 6 progetti presso la Cooperativa Alice, dove sono stati ospitati 22 volontari provenienti da 12 Paesi differenti, tra i quali anche alcuni extra-europei. Inoltre, abbiamo inviato 15 volontari per svolgere all’estero lo SVE, tra i quali, si sono rivolti a noi, anche alcuni giovani che risiedono in regioni diverse dal Lazio. Per i volontari che arrivano in Italia, nello specifico nella provincia di Viterbo, abbiamo un partenariato con la Cooperativa Alice – molto strutturata sul territorio – che accoglie 8 volontari l’anno. Il partenariato con la Cooperativa Alice riguarda attività di agricoltura biologica nelle fattorie sociali e di sostegno del disabile nei centri diurni. Ci occupiamo anche della formazione obbligatoria dei volontari che ospitiamo, e forniamo un tutoraggio per tutto l’arco del progetto. E non è finita: anche l’associazione/cooperativa, dove il volontario svolge le sue attività, lo prepara e lo forma adeguatamente. In che modo un giovane tra i 18 e i 30
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anni può partecipare allo SVE? Innanzitutto, occorre premettere che lo SVE non prevede che ci siano delle competenze specifiche che il volontario deve possedere per svolgere le attività, quindi non è necessaria la laurea. Quello che conta per partecipare allo SVE non è tanto il curriculum, ma la motivazione: il futuro volontario deve essere motivato a intraprendere quello specifico progetto. Nel momento in cui dei ragazzi si rivolgono alla nostra Cooperativa per fare lo SVE già è un passo avanti, perché significa che conoscono il Programma. Muovimente si occupa inizialmente di informare il volontario su come è organizzato lo SVE e cosa prevede, successivamente si cerca il progetto che è adatto alle attitudini e alle motivazioni del volontario. I progetti dello SVE sono riuniti in un database europeo online, dove sono inseriti tutti gli enti accreditati. Una volta scelto l’ente e il relativo progetto, Muovimente prende contatto con l’organizzazione di destinazione per iniziare le procedure di selezione; se il volontario è scelto per iniziare lo SVE, Muovimente si occupa delle procedure d’invio, tra le quali c’è anche la formazione pre-partenza (diritti, doveri, informazioni di carattere generale sul Paese di destinazione). Come descriveresti l’esperienza dello SVE? Che tipo di formazione rende possibile? Lo SVE è un’esperienza di vita all’estero di grande portata formativa. Il volontario è costantemente supportato anche dal punto di vista “psicologico”. Prima ho accennato al tutoraggio, ebbene nello SVE è prevista la figura del mentore, che aiuta il volontario nella
comprensione dell’esperienza d’apprendimento e lo supporta nell’autovalutazione – lo “Youth Pass”, una certificazione delle competenze acquisite – di ciò che ha appreso durante il percorso, così da averne maggiore consapevolezza. In poche parole: partecipare allo SVE significa intraprendere un’esperienza di apprendimento interculturale in un ambiente informale, promuovendo l’integrazione sociale e la partecipazione attiva. Inoltre, aumenta anche le potenzialità future d’impiego. Come si può contattare Muovimente per avere informazioni sullo SVE e i relativi progetti? Cerchiamo di fare informazione in vari modi, ad esempio promuovendo lo SVE anche nelle scuole superiori della provincia di Viterbo, ci rivolgiamo soprattutto alle classi dell’ultimo anno. Inoltre, siamo anche su Facebook: cercando “Cooperativa Sociale Muovimente”, è possibile seguire la nostra pagina, dove pubblichiamo – periodicamente – notizie su progetti e corsi formativi; e ancora sul famoso social network, abbiamo aperto anche il gruppo “EVS Cooperativa Sociale Muovimente”, dove nuovi ed ex volontari entrano in contatto diretto tra loro per potersi scambiare informazioni ed esperienze. Infine, è possibile contattarci tramite posta elettronica, scrivendo a: evs@muovimente.it.
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Macchina di Santa Rosa
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Il patto d’amore che ogni anno si rinnova Leonardo Michelini | Sindaco di Viterbo
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uella della Macchina di Santa Rosa è per noi una tradizione ultrasecolare, la cui origine risale al lontano 1258, quando, per volontà di papa Alessandro IV, ci fu la traslazione del corpo di Santa Rosa dalla chiesa di Santa Maria in Poggio all’attuale monastero a lei dedicato. Il suo corpo incorrotto, custodito dalle Sorelle Clarisse, è venerato da milioni di fedeli. Viterbesi e non solo. Questa fede, questa devozione dei viterbesi verso la santa patrona, è alla base di quel patto d’amore che ogni 3 settembre si rinnova tra Viterbo e Santa Rosa. Tutti di un sentimento quella sera, tutti pronti ad alzare lo sguardo tra le vie strette e buie del centro per vedere arrivare la Macchina di Santa Rosa sulle spalle degli oltre cento Facchini. Tutti con il battito del cuore accelerato per qualche istante. Anche questa emozione che Santa Rosa ci regala ogni anno rientra e alimenta un prestigioso e inestimabile patrimonio. E noi vogliamo che questa nostra festa, questa nostra tradizione così radicata possa divenire davvero patrimonio dell’Italia, dell’Europa e dell’umanità, proprio come l’Unesco l’ha dichiarata lo scorso dicembre. È anche un nostro dovere contribuire e promuovere al di fuori dei nostri confini territoriali questa nostra importante manifestazione, patrimonio immateriale dell’Umanità insieme alle altre tre città,
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Sassari, Nola e Palmi, che come Viterbo hanno la tradizione delle grandi macchina a spalla devozionali. Un onore e anche una responsabilità per le istituzioni e la comunità. Indubbiamente uno stimolo che ci porta a una maggiore determinazione nel voler esportare al di fuori dei nostri confini territoriali i nostri valori e le nostre tradizioni. Quello del prossimo 3 settembre sarà un Trasporto nuovo, il primo con il riconoscimento Unesco. Un Trasporto contraddistinto dal cambiamento. Un cambiamento coraggioso legato anche alla scelta dei Facchini di Santa Rosa di voler inserire un tratto aggiuntivo, non previsto nel consueto percorso. Un tratto, quello di via Marconi, che richiede uno sforzo non da poco. Una decisione che comporta ulteriore fatica, sacrificio e sudore. Questo Trasporto segnerà un cambiamento anche per quel che riguarda la promozione di questa nostra festa. Per la prima volta, quest’anno, abbiamo deciso di presentarla non solo a Viterbo, ma anche a Roma, in un contesto diverso e più ampio, di fronte ad autorità come il presidente della Regione Lazio Zingaretti e a organi di stampa di carattere regionale e nazionale. Io credo che questa città debba puntare molto sul cambiamento. Cambiamenti coraggiosi che portano indubbiamente a tracciare una linea di demarcazione e soprattutto a guardare oltre i nostri confini locali.
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Dietro le quinte, tra le impalcature Come si costruisce, come si monta e come si smonta la macchina di Santa Rosa. Manuel Gabrielli | manuel.gabrielli@decarta.it - Foto di Manuel Gabrielli
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ome da consuetudine, intorno alle 21 del 3 settembre, l’improvviso spegnersi delle luci del centro ci avvisa dell’imminenza di un evento eccezionale. Migliaia di persone sono assiepate lungo le vie del percorso, la banda suona e quell’enorme struttura che è la Macchina di Santa Rosa sovrasta illuminata i tetti dal punto più alto del centro storico di Viterbo. Pochi minuti dopo la macchina, mossa dal motore umano dei facchini, comincia a scendere sobbalzante in direzione di piazza Fontana Grande. Solo chi ha pazientemente preso posto nei litigatissimi spazi di piazza San Sisto, luogo della partenza, ha la possibilità di notare fin da subito un lavoro febbrile che sul momento passa inosservato agli occhi dei più. Una scena simile si ripete subito dopo l’arrivo della macchina, quando altri operai si apprestano a stabilizzare le 5 tonnellate di metallo e vetroresina che hanno appena attraversato le vie della città. Conoscere i vari momenti che compongono la preparazione del trasporto della Macchina di Santa Rosa, ci permette di capire perché questo appuntamento fisso del settembre Viterbese non è una semplice manifestazione del folclore locale, ma un vero e proprio spettacolo, e che come tale richiede l’impegno “dietro le quinte” di tante figure che nelle ore che intercorrono tra il sollevate e fermi e l’arrivo al Santuario, passano per forza di cose inosservate. Dal 2011 l’assemblaggio di Fiore del Cielo, arrivata in questo 2014 all’ultimo IV
trasporto, è affidata a due ditte: la Cesarini Costruzioni e la Edil Nolo. Entrambe ditte di grande esperienza, la prima partecipa con quest’anno al 15esimo dei trasporti, di cui 11 come costruttrice ed assemblatrice (Una Rosa per il 2000 e Ali di Luce) e 4 come sola assemblatrice (Fiore del Cielo). La seconda è ufficialmente assemblatrice dal 2011 ma partecipa come collaboratrice fin dal 1986. Il loro lavoro, quest’anno come gli anni passati, inizia a mostrarsi agli occhi dei passanti intorno alla metà di luglio quando, a ridosso del campanile di piazza San Sisto, gli operai cominciano ad allestire il ponteggio necessario al montaggio della macchina, un lavoro che dura fino alla prima settimana di agosto. Lo stesso mese, senza risparmiare la set-
timana del 15, è dedicato alle verifiche degli impianti elettrici e alla manutenzione ordinaria. Con quest’ultima ci riferiamo ad una rinfrescata alle parti verniciate che durante ogni trasporto vengono scurite dalle fiamme delle candele. A questo ci aggiungiamo altri interventi eccezionali, come quello effettuato nel 2013, quando il colore delle tre spirali esterne è stato cambiato dall’oro al bianco ed all’ultimo di quest’anno con il quale è stato verniciato di bianco anche l’interno. Per questo 2014 la lista degli impegni è stata allungata da un evento del tutto eccezionale, ovvero una prova di trasporto e girata a via Marconi per la quale è stato necessario preparare una base “manichino”. La mattina del 10 agosto, alle 6 in punto, i mezzi erano già presenti DECARTA SETTEMBRE 2014
Si ringraziano per la cortesia, la disponibilità e le informazioni prestate all’autore del presente articolo: Contaldo e Andrea Cesarini della Cesarini Costruzioni e Vincenzo, Mirko, Alessio e Stefano Fiorillo della Edil Nolo.
taggio delle transenne lungo il percorso, un lavoro che comincia a fine agosto e che impegna circa 20 persone e 2 mezzi per il trasporto. Cappella Palatina di Palazzo dei Priori: Andrea Cesarini, Antonio Delli Iaconi, Contaldo Cesarini, Leonardo Michelini, Vincenzo, Mirko e Stefano Fiorillo posano di fronte alla statua della Santa che andrà sulla sommità della Macchina (foto di Cristina Pallotta).
da qualche minuto e si apprestavano allo scarico del materiale necessario, un lavoro iniziato quindi ben prima delle luci dell’alba.
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l momento più impegnativo e che richiede la maggiore organizzazione è ovviamente il giorno del trasporto dei pezzi, in totale 10, trasportati da 7 camion. La preparazione inizia alle prime ore del mattino e si protrae fino alle 8, momento nel quale, scortati dai vigili urbani, i vari componenti vengono portati a piazza San Sisto dove li attende una autogrù. La consegna, a parte la statua della Santa che apre la fila del “corteo” avviene per ordine di montaggio, quindi dalla base verso l’alto. Per questa operazione è necessario bloccare parte del centro storico, in quanto i pezzi vengono fatti risalire lungo via Cavour, piazza Fontana Grande e via Garibaldi. Il montaggio dei moduli può consiDECARTA SETTEMBRE 2014
derarsi finito nella sua fase preliminare solo intorno alle 19 di sera e i giorni successivi sono tutti dedicati alla verifica del corretto montaggio e all’allaccio dell’impianto elettrico. Sono quindi necessari degli operai specializzati, tra cui elettricisti e tecnici delle luci. Da qualche anno è consuetudine che l’ultimo pezzo, la statua della Santa, venga portata in cima da sindaco e costruttori con una piattaforma aerea. Una volta ultimato il montaggio viene verificato come da norma il peso della macchina. Per questa operazione ci si avvale delle bilance usate dell’Esercito Italiano per pesare gli elicotteri, e sono quindi presenti, oltre ai costruttori, alcuni tecnici dell’esercito, altri del comune di Viterbo e una rappresentanza dei facchini. Un dettaglio che non tutti conoscono è che le due ditte si devono occupare oltre che della macchina anche del mon-
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’ultimo vero trasporto eccezionale avviene all’alba del 3 settembre, quando da quattro camion vengono scaricati 400 metri cubi di pozzolana che 15 operai, con l’ausilio di due pale meccaniche ed un rullo, utilizzano per pianeggiare i primi metri di dislivello che i facchini dovranno percorrere poche ore dopo. Questa è un’operazione che, solo per quest’anno, sarà necessario effettuare anche nel punto della girata a via Marconi per pianeggiare il dislivello tra manto stradale e marciapiede. Immediatamente dopo la partenza del trasporto inizia la parte del lavoro più frenetica in assoluto, con persone impegnate nella pulizia della pozzolana e nello smontaggio delle transenne,sempre con l’attenzione di altri operai, che una volta arrivata la macchina a destinazione, dovranno provvedere al suo fissaggio.L’operazione di pulizia e sgombero del centro impegna fino a 50 uomini tra dipendenti delle due ditte e collaboratori e si protrae fino a notte inoltrata in modo da lasciare terreno libero alla fiera del giorno successivo.
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Fiore del Cielo: fra tradizione e innovazione Cosa si nasconde sotto la Macchina attuale. Manuel Gabrielli | manuel.gabrielli@decarta.it - Disegni originali e rendering di Arturo Vittori Si ringrazia l'architetto Arturo Vittori per la disponibilità e le informazioni fornite.
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sufficiente conoscere un minimo della storia costruttiva della macchina di Santa Rosa per capire quanto, grazie all’aiuto della tecnologia, ci si sia scostati con il tempo dal semplice tradizionalismo alla ricerca dell’efficienza. Basti pensare che la prima macchina ad avere la struttura portante in metallo fu quella di Salcini nel 1952, mentre fino a quel momento a questo scopo veniva utilizzato il legno. Fiore del Cielo, arrivata all’ultimo anno, rappresenta oltre che l’ultimo modello, anche la più recente evoluzione tecnologica. Il disegno, le decorazioni e la scenografia
Fiore del Cielo è stata disegnata dallo studio Architecture and Vision di Arturo Vittori e Andreas Vogler. Lo studio ha confermato anche in questo progetto i suoi punti fermi con l’utilizzo di tecnologie a basso impatto ambientale e l’uso di materiali riciclabili o già riutilizzati, come nel caso dell’alluminio del rivestimento che è proveniente da scarti di altre lavorazioni. La struttura, per quanto conservi nella base i classici simboli viterbesi, è caratterizzata da un disegno che alla sua presentazione si è scostato molto da ciò che era stato visto prima. Il concetto ruota in parte intorno al numero 3, che oltre ad essere il giorno del trasporto, è anche il numero delle componenti della spirale, dei leoni, dei tre globi che dividono la struttura ed è multiplo dei dodici lati della fontana e dei dodici angeli. Due sono invece gli artisti che si sono occupati delle varie sculture. Francesca Romana Di Nunzio, artista romana, ha realizzato i nove angeli, Pascal Baur, artista svizzero, i tre leoni e la VI
statua di Santa Rosa. Gli angeli essendo tutti uguali sono realizzati in vetroresina tramite dei calchi in silicone, i leoni e la statua essendo tutti diversi sono stati invece ricavati da blocchi di polistirolo e poi rinforzati e rifiniti con vetroresina e stucco. Le innumerevoli rose rosse che decorano le spirali sono state invece concepite e sviluppate da Sara Donati e sono formate da una struttura in alluminio rivestita di tessuto ignifugo rosso. La scenografia, che trova la sua più grande espressione durante le soste con i giochi di luce dei globi e la caduta dei petali di rosa dalla sommità, è opera di Gianni Massironi. La struttura
A partire dalla metà degli anni ’80 la struttura della macchina è divisa in settori, in questo caso ne abbiamo 10 comprendendo la statua della Santa. Partendo dalla base, quest’ultima è composta da una struttura portante in alluminio rivestita di legno e vetroresina. Come consuetudine le parti pesanti, come l’impianto di illuminazione, sono stati inseriti all’interno della base per contribuire al bilanciamento. Spostandoci più in alto troviamo gli 8 settori del traliccio portante per i quali sono stati usati tubolari di acciaio e alluminio di vario diametro. Dovendo puntare sia alla solidità quanto al contenimento del peso del traliccio, quest’ultimo è stato verificato nella sua struttura dell’ingegnere Cristiano Cecotti di Udine. La realizzazione è stata poi affidata alla compentenza delle officine Pasianotto di Udine e Stefanuto di Venezia. DECARTA SETTEMBRE 2014
Per esigenze costruttive le spirali di rivestimento della macchina sono formate da centinaia di lamiere di alluminio larghe 40 cm e spesse 1.2 mm fissate al traliccio tramite viti e rivetti. Queste al momento del taglio sono state anche decorate con delle traforature realizzate con i macchinari della PLP Meccanica di Viterbo, ditta specializzata nel taglio ad acqua. L’illuminazione
La macchina di Santa Rosa conta di un’illuminazione mista di candele e luci led, più un proiettore posto sulla sommita. Le candele con la loro fiamma rappresentano ancora quell’aspetto tradizionale mai perduto, considerato però il numero ed il peso unitario è stata
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studiata una soluzione leggera e totalmente in alluminio per il loro contenimento. L’illuminazione a led è invece tra gli aspetti tecnologicamente più interessanti, in quanto oltre ad essere una soluzione a bassissimo dispendio energetico, offre anche la possibilità di variare a piacimento sia l’intensità della luce sia il colore. Certo è che la gestione di migliaia di led richiede un impianto che è sicuramente più facile a raccontarsi che a farsi. A questo scopo sono stati coinvolti nel progetto i tecnici della viterbese Studio Due. Grazie al sistema di gestione con rete dmx è possibile creare alcuni effetti di luce come l’impressione di pulsazione.
L’ultimo trasporto
Già nel 2013, giunti al quinto trasporto, fu presa la decisione di cambiare totalmente colore alla parte esterna della macchina passando dall’oro al bianco. Il 2014 ha dato l’occasione di effettuare ulteriori modifiche, ovvero un cambio di colore sempre sul bianco che ha interessato la parte interna del traliccio e la base, e altre modifiche invece previste fin dall’inizio ma mai realizzate, come l’uscita di acqua da alcuni ugelli posti sulla base. Quest’ultima modifica insieme alle macchine del fumo e al lancio dei petali di rosa è parte di quel processo di innovazione iniziato dalla precedente Ali del Cielo, prima macchina ad interrompere la staticità con le sue componenti motorizzate.
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La macchina nel tempo Brevi cenni storici sulla tradizione del trasporto. Sabrina Manfredi | sabrina.manfredi@decarta.it
Un’illustrazione di Walter Molino per “La Domenica del Corriere” del 15 settembre 1946. Sotto, una rara immagine del 1975 con il Volo d’Angeli allestita senza il capannone di montaggio grazie all’uso di resine protettive idrorepellenti.
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uella che oggi si presenta come una slanciata costruzione di quasi 30 metri era in origine poco più che un altare mobile portato in processione per commemorare la traslazione del corpo di Rosa dalla chiesa di Santa Maria in Poggio alla attuale collocazione presso il Monastero delle Clarisse a lei intitolato. Narrano le cronache che il 4 settembre 1258, per volere di papa Alessandro IV, il corpo della giovane Rosa venne solennemente trasportato a spalla da quattro cardinali fino al monastero, dando così origine alla festa liturgica e al culto della santa. Le prime fonti attendibili sul trasporto datano però alla fine del 1600. Nella raccolta di bozzetti custodita presso il Museo Civico è presente quella che si ritiene la prima immagine certa della macchina. È un disegno del 1690 eseguito da Giuseppe Franceschini che rappresenta la costruzione dell’epoca, progettata da Gregorio Fani. Nei secoli, il piccolo baldacchino si è evoluto nelle forme e nelle dimensioni, grazie all’adozione di materiali sempre più flessibili e leggeri, fino alle alte torri che noi tutti oggi conosciamo. Nel recente passato la macchina ebbe prevalentemente l’aspetto di un campanile gotico, illuminato con torce e candele, da cui la tradizionale definizione di “campanile che cammina” che le diede lo scrittore Orio Vergani. VIII
Soltanto sul finire degli anni ’60 del secolo scorso, grazie al visionario e innovativo progetto di Giuseppe Zucchi si arrivò per la prima volta, con l’amatissimo Volo d’Angeli, ad abbandonare la consueta e massiccia struttura architettonica per liberarsi verso forme plastiche e creative che ancora oggi vivono nel ricordo di tantissimi viterbesi.
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l trasporto viene tradizionalmente effettuato la sera del 3 settembre, vigilia della festa della patrona, ma dal dopoguerra sono stati effettuati passaggi straordinari in due occasioni: il 9 luglio 1983 per il 750° anniversario della nascita di Santa Rosa e il 27 maggio 1984 in occasione della visita di papa Giovanni Paolo II. Dal dicembre 2013 il trasporto della Macchina di Santa Rosa è stato inserito dall’Unesco nel Patrimonio culturale immateriale dell’umanità insieme ad altre tre manifestazioni analoghe riunite nella Rete delle grandi macchine a spalla italiane. Proprio per celebrare questo importante riconoscimento il Sodalizio dei facchini ha deciso, in via eccezionale, di prolungare il percorso su un tratto di via Marconi fino ad arrivare in prossimità del monumento a loro intitolato per poi tornare indietro verso piazza Verdi e affrontare, come da tradizione, l’ultimo spettacolare tratto in salita verso il Santuario.
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Il “regalo” dei Facchini Il presidente Massimo Mecarini ci parla del trasporto a via Marconi. Elisa Spinelli | elisa.spinelli@decarta.it
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a notizia del prestigioso riconoscimento Unesco, per la festa di Santa Rosa come Patrimonio culturale immateriale dell’umanità, deve essere festeggiata in grande stile. Per questo motivo il Sodalizio dei Facchini di Santa Rosa farà un regalo davvero speciale alla città di Viterbo e a tutti quelli che parteciperanno allo spettacolo del 3 settembre. Così, per quest’occasione abbiamo incontrato il presidente del Sodalizio, Massimo Mecarini, al suo secondo mandato – confermato per acclamazione – che esordisce così: “Siamo tutti molto contenti e soddisfatti, il riconoscimento Unesco è frutto di un lungo lavoro, che ci ha visto impegnati per quattro anni, dal 2010 fino a dicembre del 2013. Tutto è iniziato nel 2006, quando è stato avviato il progetto della Rete delle grandi macchine a spalla italiane. In questo protocollo – però – erano principalmente impegnate le istituzioni. Infatti, per arrivare al riconoscimento Unesco il progetto ha visto in prima linea le quattro comunità della Rete: Viterbo, Nola, Palmi e Sassari.” Dal 2010 le varie amministrazioni comunali, il Ministero dei beni culturali, il Ministero degli esteri, la Commissione nazionale italiana per l’Unesco, l’Istituto centrale per il catalogo e la documentazione, le Soprintendenze ai beni storici,
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artistici ed etnoantropologici regionali avviarono un percorso di “Prospettiva Unesco” che portò, nel giro di poco tempo, alla proposta di candidatura delle feste della Rete come “Patrimonio orale e immateriale dell’umanità”. “Ci sono stati momenti positivi, ma anche molto complessi durante le fasi progettuali, soprattutto quando la comunità di Gubbio – in origine, infatti, la Rete era composta da cinque città – ha deciso di ritirarsi per poter concorrere da sola al riconoscimento Unesco; inoltre, abbiamo subito anche alcuni momenti di stallo – sempre superati – dovuti molto spesso a intromissioni di carattere politico. Alla fine, però, ha vinto la genuinità del progetto.” Occorre considerare che, la fase di candidatura non è stata semplice, basti pensare che altre eccellenti e celebri feste italiane, tra le quali il Palio di Siena e il Carnevale di Venezia, hanno cercato di conquistarsi la presentazione all’Unesco, senza riuscirci. E Mecarini, spiega i motivi che hanno portato al riconoscimento: “La commissione ha apprezzato soprattutto il fatto che il progetto fosse concepito da una Rete ed è, tra l’altro, la prima – a livello nazionale – nata per ottenere il riconoscimento di Patrimonio culturale immateriale.” Per festeggiare il risultato raggiunto, il Sodalizio ha pensato di rendere la
prossima Festa di Santa Rosa un evento davvero unico, e Mecarini ci svela cosa accadrà: “Un paio di mesi fa, parlando con un vecchio facchino che partecipò al Trasporto del 1952, abbiamo avuto l’idea: passare nuovamente per viale Marconi. Abbiamo ragionato e organizzato il tutto per non dilatare troppo i tempi del Trasporto. In sostanza, il percorso si allunga di 200 metri rispetto al tradizionale tragitto, quindi dopo la classica sosta a piazza del Teatro, la Macchina passerà per viale Marconi, dove eseguirà la girata e la fermata per poi proseguire nuovamente verso piazza del Teatro.” C’è un legame storico che unisce il trasporto del 1952 con quello attuale. Infatti, nel 1952, per festeggiare la prima Macchina di Santa Rosa concepita e realizzata dopo la guerra, si decise di allungare il trasporto verso viale Marconi e di compiere una sosta al Sacrario. All’epoca, questo cambiamento non fu molto apprezzato, oggi, invece, Mecarini confida nella spettacolarità del Trasporto su viale Marconi sia perché i “tempi” sono mutati sia perché la stessa architettura del viale è stata trasformata. Aspettiamoci altre sorprese anche dai prossimi Trasporti del 3, perché, svela Mecarini: “Il Sodalizio si impegna per proporre ogni anno – ove possibile – novità a questa Festa, soprattutto alla luce del riconoscimento dell’Unesco.”
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