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M E N S I L E D I D I V U L G A Z I O N E C U LT U R A L E

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raccontati da Lorenzo Cantarini

Un ventoso pomeriggio sulla cima di una torre C’era una volta la boutique Fabio Stassi: il generoso svitato che scrive sul treno Viterbo-Roma Balbuzie: cos’è e come intervenire

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2014 NOVEMBRE



editoriale

Rabbia generazionale àbbia, dal latino ràbies ma ancor prima probabilmente derivante dal sanscrito rabhate. Indica sia in latino, che in sanscrito che in italiano una reazione violenta, ovvero compiuta con impeto. Più che sul risultato finale però, bisognerebbe soffermarsi prima di tutto sulle cause, che siano esse giustificate oppure no. La rabbia comunque si manifesta – questo sempre secondo la lingua italiana – come reazione a delle gravi contrarietà, una risposta a qualcosa che va a porsi in maniera molto aggressiva nei confronti del contrariato. Al di fuori delle azioni tutto il resto è interpretazione, non sempre c’è volontà di offendere, non sempre c’è la capacità di capirlo. Ciò non esclude il fatto che la rabbia è un sentimento che è naturale quanto giusto provare e soprattutto utile, perché – a patto di ascoltarlo – ci racconta molto di noi. Spesso un’emozione così forte può sfociare, purtroppo, in azioni incontrollate. Che siano verso il prossimo o autolesioniste – a meno che non sia per difesa personale – non è quasi mai positivo, ma per fortuna può diventare anche la “classica” rabbia incanalata positivamente, per alcuni uno stimolo insostituibile per dare il meglio di sé. Può, invece, una comunità di persone provare rabbia? Personalmente non sono un esperto, ma penso di sì, ce lo dimostrano i molteplici moti rivoluzionari che si sono verificati lungo l’accidentato percorso della storia umana. Sono sempre stati causati da ingiustizie nei confronti dei popoli: in fin dei conti cosa è più contrariante di non avere cosa mangiare? E come per il singolo, anche la massa può muoversi in maniera negativa, facendo del male al prossimo (di fatto certi rovesciamenti politici li inserirei più nella casistica della difesa personale, in questo caso della comunità) oppure in maniera positiva, esprimendosi in movimenti caratterizzati dalla grande creatività.

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DECARTA Scripta volant Mensile di divulgazione culturale Numero 16 – Novembre 2014 Distribuzione gratuita Direttore responsabile Maria Ida Augeri Direttore editoriale Manuel Gabrielli Redazione Gabriele Ludovici, Claudia Paccosi, Martina Perelli, Elisa Spinelli Redazione web e photo editor Sabrina Manfredi Design Massimo Giacci Editore Lavalliere Società Cooperativa Via della Palazzina, 81/a - 01100 VITERBO Tel. 0761 326407 Partita Iva 02115210565 info@lavalliere.it Iscrizione al ROC Numero 23546 del 24/05/2013 Stampa Union Printing SpA Pubblicità 0761 326407 - 340 7795232 Foto di copertina Ufficio stampa Dear Jack

I contributi, redazionali o fotografici, salvo diversi accordi scritti, devono intendersi a titolo gratuito. Chiuso in tipografia il 05/11/2014 www.decarta.it

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e invece che un’intera società considerassimo soltanto una determinata generazione? Fu celebre la Lost Generation di Hemingway, quei ragazzi che diventarono maggiorenni proprio in coincidenza della prima guerra mondiale, poi ci fu la Greatest Generation che crebbe nell’incertezza della grande depressione e si ritrovò a combattere nella seconda guerra mondiale. A seguire abbiamo le ultime tre generazioni dagli anni ’60 ad oggi, in ordine cronologico: generazione X (1960-1980), Y (1980-2000) e Z, dove quest’ultima rappresenta i nati dall’inizio del 2000 ad oggi. Se della generazione X oramai è rimasto poco da scoprire, per la Y il futuro è ancora in gran parte da scrivere e per la Z sta appena iniziando il presente. Gli appartenenti alla generazione Y vengono chiamati millennials e sono coloro che hanno vissuto e stanno vivendo l’avvento dell’informatica, gli Z sono i nativi digitali. Personalmente faccio parte degli Y, sento di avere ancora tutto da dimostrare e credo non esista altro modo di agire se non con rabbia. Non è una bella situazione quella che ci verrà consegnata da chi ci ha preceduto, essere un po’ contrariati mi sembra il minimo. Manuel Gabrielli Presidente Lavalliere Società Cooperativa

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Dear Jack raccontati da Lorenzo Cantarini

Claudia Paccosi

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Un ventoso pomeriggio sulla cima di una torre

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Fabio Stassi: il generoso svitato che scrive sul treno Viterbo-Roma Claudia Paccosi

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C’era una volta la boutique Martina Perelli

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pillole di lettura

a cura di Claudia Paccosi

Balbuzie: cos’è e come intervenire

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mentre cucino

Chiara Monica Angela Baiona

LAVALLIERE Editoria e Servizi editoriali

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Un ventoso pomeriggio sulla cima di una torre L’ascesa della torre di Palazzo Chigi e la vista, sovrana sulla città. Claudia Paccosi | claudia.paccosi@decarta.it - Foto di Manuel Gabrielli

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lcuni posti necessitano di attesa per essere visitati, la nostra vita e la loro percorrono strade separate, seppur così accostate, finché, un giorno, per un motivo che solo il destino conosce, si incrociano. Palazzo Chigi è stato uno dei più frequentati luoghi della mia adolescenza, periodo in cui ci si affeziona morbosamente ad un’amica che poi, molto probabilmente, rimarrà accanto a noi per sempre. Ecco, io avevo un’amica, anzi, quell’amica che abitava a Palazzo Chigi; per chi non lo conosce è un antico palazzo nobiliare sito appunto in via Chigi, traversa di via san Lorenzo: una strada stretta e buia, dall’acciottolato deforme, sconnesso, quasi piegato a creare un arco al centro della via, dove le macchine scorrono lasciando dietro di loro un rumore turbolento e fastidioso, quello del presente che cammina sul passato. Nonostante io abbia trascorso a Palazzo Chigi pomeriggi interminabili in cui regnava il disordine dei giocattoli abbandonati sul tappeto, merende trafugate e tanti piccoli segreti sussurrati, non sono mai salita sulla sua torre. Sapevo della sua esistenza e la temevo, perché spesso accompagnata da infantili racconti di DECARTA NOVEMBRE 2014

fantasmi e spettri e forse perché i luoghi chiusi e vuoti di vita mi hanno sempre un po’ intimorita, come se non potesse esistere una stanza disabitata, priva di suoni e di voci, come se qualcuno ci dovesse essere comunque, nascosto dietro un mobile, celato dall’ombra. Oggi mi avvio a salire sulla torre, un luogo così vicino a me e a dove ho trascorso tanto tempo, eppure sconosciuto, inedito. Entro da un portone che fa fatica ad essere aperto e salgo un’ampia rampa di scale, subito mi trovo in un locale enorme, dal soffitto alto, le finestre non hanno imposte e la luce filtra dentro riflettendosi sullo strato di sporco che ricopre il pavimento. Mi dicono di camminare piano, il solaio è fragile, cerco di diventare leggera, invisibile, e di invadere questo privato luogo del passato solo con i miei occhi e le mie mani, che intimorite si aggrappano ad una fragile ringhiera di legno. Guardo in alto, devo salire delle piccole scale appoggiate alle quattro mura della torre, sono strette e ripide, traballanti e antiche. Devo aggrapparmi bene per salire, ma non mi spaventa, mi è sempre piaciuto salire in

alto, passare per cunicoli, faticare per raggiungere la vetta, passare tempo nel buio per uscire alla luce, contare gli scalini di un'infinita scala a chiocciola per non confondere la mente, scandire il tempo dei passi in maniera rigida, come in una marcia militare, per non perdere la ragione in un luogo che dopo ogni passo sembra lo stesso di prima.

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ntorno c’è il passato che sbiadisce. Pietre cadute dal muro, polvere, piume ed escrementi di uccelli. C’è una poltrona appoggiata alla parete, un tempo deve essere stata rossa, o forse verde smeraldo, dalle bordature oro, ricamata e comoda, ora è solo di un indistinto colore grigiastro, scucita, consumata, il suo cuscino è distrutto e la morbida lana interna è riversa all’esterno come se qualcuno con rabbia l’avesse voluta liberare dalla sua prigione. Più avanti, in uno dei solai che attraverso cautamente e che fanno da pausa, da silenzioso intermezzo alla mia salita, ci sono degli antichi telefoni neri, sono accatastati, abbandonati lì chissà da quanti anni, interminabilmente taciturni. Le scale terminano in una botola, 5


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Confrontarsi con i propri limiti… … praticando il Brazilian Jiu Jitsu.

© Sabrina Manfredi

Manuel Gabrielli | manuel.gabrielli@decarta.it

devo sollevarla con le braccia e schermare i miei occhi dalla luce, dentro era così buio e la vista non è più abituata. Esco a fatica, non appena alzo il viso una folata di vento scompiglia i miei capelli e ruggisce forte nelle orecchie, traballo. Mi trovo su un piccolo quadrato d’intonaco, a lato la botola con la sua grata spostata, a terra sassi e piume bianche che impazienti combattono contro il vento, come a voler fuggire da questo fragile e anziano edificio.

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e pareti sono quattro ampie finestre, quattro archi che si affacciano su Viterbo. Trattengo il fiato, provo le stesse sensazioni che provai salita sulla cupola di Brunelleschi a Firenze e sulla torre di Santo Stefano a Vienna: meraviglia. Dall’alto vedo esattamente tutto: una piccola grande cittadina ammucchiata, tetti accatastati e compressi, vicinissimi e piccoli. Non riesco a riconoscere i luoghi della mia città al primo 6

sguardo, ma ecco, piazza del Comune da un lato, scorgo piazza del Gesù dall’alto, lontano le piccole e precise mura di valle Faul, da una parte l’ingombrante torre a righe di piazza San Lorenzo. Il vento soffia rabbioso nelle orecchie, suonando la sua musica indimenticabile, furiosa e potente, pulisce il cielo dalle nuvole e mi permette di vedere Montefiascone e la conca del lago di Bolsena a sinistra, i monti Cimini e la Palanzana a destra, perfino la ciminiera di Civitavecchia e una leggera e indistinta striscia di mare in lontananza. Mi sporgo da una delle quattro aperture, il vuoto è impressionante, il mio baricentro si sposta paurosamente verso l’abisso dell’altezza, sono molto in alto, in alto sulla mia città come mai sono stata fino ad ora. Provo sensazioni contrastanti, tocco con le mani il muro della torre, è rugoso e opaco, piccoli detriti del passato mi rimangono fra le dita: si sta sbriciolando. Sotto scorrono le macchine, camminano le persone, così insignificanti e piccole, la loro fretta, i loro pensieri, appaiono da quassù così futili e miseri. Dalla torre di Palazzo Chigi posso spiare le vite degli abitanti di Viterbo, scrutare luoghi che hanno cercato di nascondere alla vista di tutti, ma che non sfuggono all'alto sguardo inquisitore della torre. Vedo un piccolo “richiastro”, antico nome con cui a Viterbo si chiama un cortile interno, vedo panni stesi al sole che si scuotono violenti, vedo una coppia che si bacia di sfuggita in una via solitaria, vedo il bastone di un vecchio che batte il suo cammino, vedo un futuro che vive all’ombra del suo passato, vedo un passato che resiste calmo stagnante, ricoperto da uno strato di polvere, così pesante e fitto da coprire la sua essenza, così leggero e illusorio da poter essere spostato con il colpo di un dito. La cima di questa torre è un meraviglioso luogo del pensiero, è uno spazio da vedere, uno spazio da cui si può vedere. DECARTA NOVEMBRE 2014


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Alessio Vittori L’atleta locale convocato per i Mondiali di novembre in Russia. Gabriele Ludovici | gabriele.ludovici@decarta.it

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gni cosa, vista da una prospettiva diversa, assume un nuovo significato. Viterbo, vista dall’alto, ha un aspetto totalmente nuovo. È come quando ti trovi a ripetere più volte una parola, alla fine perde il suo senso e assume un nuovo suono, le lettere si impastano e l’immagine che prima ci evocava in maniera così evidente diventa ora sfocata, improbabile, finché non riusciamo più a collegarla alla casuale successione di suoni che la denominava. Viterbo dall’alto diventa una parola irriconoscibile, diventa un’altra città, dove il suo mucchio di case ci confonde, i luoghi non si riconoscono più e non troviamo la via di casa. Salire sulla torre è un’indimenticabile momento di vita, è un attimo cucito fuori dalla giornata, un momento ritagliato dal sempre, durante il quale ci sentiamo immersi nel passato, ci sentiamo parte di un ieri che, abbattuto, non trova spazio nel domani. È un attimo in cui il vento, confondendo la mente, la luce, abbagliando gli occhi, rendono una città che

tanto bene conosciamo, totalmente altra. È un momento in cui riflettiamo, in alto, con la mente vuota e fresca, sui preziosi tesori che sono dietro le nostre spalle, proprio lì, dove non riusciamo a raggiungerli. Stendiamo il braccio una volta, ci voltiamo, ma già pigri rinunciamo, non sapendo che proprio lì, vicinissimo, se solo facessimo un piccolo sforzo in più, se solo girassimo le spalle leggermente a destra e aprissimo il palmo della mano, sarebbero nostri, chiusi fra dita tremanti e sudate.

Torre di Palazzo Chigi Palazzo Chigi è un palazzo nobiliare eretto nella seconda metà del XV secolo dalla famiglia toscana Caetani, nel Cinquecento fu acquistato dai Chigi, al suo interno ospita molti altri tesori, tra cui gli appartamenti affrescati, il cortile e il giardino. La Torre di Palazzo Chigi, seconda torre più alta di Viterbo dopo quella di piazza del Comune, si trova in via Chigi, traversa di via san Lorenzo, al civico 17 (quando il portone è aperto si può curiosare nel cortile interno del palazzo nobiliare) non è però visitabile, perché privata. Ringraziamo Beatrice e Lucia che ci hanno permesso di vederla e di trasmettere con queste foto e parole anche a chi legge la sua bellezza.

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C’era una volta la boutique L’avanzata dei low-cost e i processi del mercato. Martina Perelli | martina.perelli@decarta.it

schiera di fini indagatori del mercato, psicologi e mostri del marketing e, solo alla fine della grande macchina, esperti di moda e creativi. Dopo essermi immaginata questo temibile team penso alla signora Rossana, alla sua boutique nella frazione di un paesino e a come non mi sorprende che l’avanzata del low cost abbia travolto anche lei.

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i sono ricordi che sanno di antico e hanno di bello il fatto che, in quanto ricordi, lasciano addosso quella malinconia tipica del non ritorno. Sono relegati nel passato e destinati a restarci. Nel caso del mio ricordo, il ritorno è impossibilitato dal naturale processo di crescita che ha lasciato qualcuno e qualcosa per strada. Ha lasciato mia nonna, ormai scomparsa, come ha lasciato quel negozio di paese col suo abbigliamento per clienti affezionati. Mia nonna era solita portarmi nella sua boutique di fiducia quando voleva che anche io indossassi qualcosa di bello, come lei. Come i grandi. Mi chiedo come potrebbero svolgersi gli eventi se dovesse portarmi a comprare qualcosa oggi e immagino la sua delusione nel constatare che, quello di cui necessito, non è reperibile in una boutique di paese. Quando mi figuro la scena mi piange il cuore, un po’ per lo sguardo di sconforto che farebbe e un po’ perché, se dovessi tornare in quella particolare boutique, la troverei chiusa. Come troverei chiuso il punto vendita di un calzaturificio di produzione artigianale che stava proprio lì accanto. Sembrava fatto apposta quell’accostamento delle due attività, quasi a suggerirti “Ora che hai comprato un bell’abito, non resta che andare al negozio qui accanto ad acquistare una scarpa da abbinarci”. Forse quei due commercianti sono stati dei precursori dei grandi brand e non l’hanno mai saputo. Invece, i grandi brand, loro sì che lo sanno. Loro studiano a tavolino come soddisfare il cliente, in un continuo rinnovarsi di mode e idee. E anche quando quella moda non ti piace trovano il modo di farti credere che è giusta, che è per te. Immagino che dietro ogni grande colosso del low cost (da Zara a H&M, passando per Bershka e altri) si nasconda una 8

alle luci ai commessi e alla vasta scelta dei capi, in un punto vendita di un grande brand tutto è perfetto. Laddove per perfetto si intenda accessibile, variegato, economico. Perché rivolgersi ad un negozio piccino, magari provvisto di merci in base al gusto del proprietario che, rivoltosi al suo fornitore, ha selezionato tra tanti solo certi capi, quando basta entrare in un qualsiasi H&M per avere davanti un mondo di scelte? Questo è un quesito che forse un utente medio si è posto dopo aver percepito il cambiamento, averlo criticato e poi essersi adattato. D’altronde quel che conviene conviene e veder morire le piccole attività una dietro l’altra appare il giusto prezzo da pagare per lo sviluppo. Anche se sviluppo è una parola che sento sempre meno e mi sorge il dubbio che forse far morire il piccolo pesce per rivolgersi allo squalo di avanzato abbia ben poco. Peraltro il cliente medio non può permettersi di scegliere ogni volta l’eccellenza dell’artigianato o del piccolo negozio curato in un mondo dove questa normalità di un tempo non può che rappresentare qualcosa di eccezionale. Eccezionale perché è in tutto e per tutto l’eccezione da concedersi di tanto in tanto, almeno ragionando sulla fascia dell’acquirente medio. Le eccellenze con la loro clientela selezionata costituiranno sempre una nicchia florida e danno vita ad un discorso a parte. Purtroppo la signora Rossana non aveva proposte di nicchia né il giro giusto e i suoi clienti si sono dati al low cost. Saranno i normali processi del mercato, ma l’altro giorno non ho potuto fare a meno di sentirmi un po’ in colpa e allora ho fatto un gesto per tutte le signora Rossana che ci sono in giro: avevo bisogno di nuovi collant e, passeggiando per il corso, ho snobbato questo e quel brand e sono entrata in una antica merceria. Dovevate vedere la cura del proprietario nel coccolarmi e capire di cosa avessi bisogno, sebbene si trattasse solo di calze. Ecco, forse anche per tutta quell’attenzione, questo paio di nuove calze sono le più belle che abbia mai indossato.

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raccontati da Lorenzo Cantarini. Gabriele Ludovici | gabriele.ludovici@decarta.it - Foto a cura dell’Ufficio stampa

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iunti al sedicesimo numero di Decarta, possiamo dire di aver dato spazio alla voce ed ai pensieri di molti artisti locali e non. Alcuni di essi ci hanno espresso le difficoltà dell’affrontare una carriera musicale all’ombra delle major e dei grandi network, spesso lamentandosi di come i talent show abbiano inaridito la scena. I pareri in materia sono discordanti, ma ora possiamo fornire un quadro completo della situazione presentandovi una lunga chiacchierata con qualcuno che dell’argomento se ne intende e che vive in prima persona un percorso artistico che ha avuto come trappa principale proprio la partecipazione ad uno dei talent show più famosi del nostro paese. Lorenzo Cantarini, nato ad Orvieto e cresciuto a Montefiascone, è chitarrista e seconda voce dei Dear Jack, band che dopo essersi messa in luce attraverso Amici, vincendo il premio della critica giornalistica, ha conquistato un successo rapido ed in costante ascesa. Il loro primo album, Domani è un altro film (prima parte), ha ottenuto il doppio disco DECARTA NOVEMBRE 2014

di platino nel giro di cinque mesi e la band ha già avuto modo di esibirsi all’Olimpico e a San Siro come supporter dei Modà. Oltre a Lorenzo, del gruppo fanno parte anche i tarquinesi Alessio Bernabei (voce) e Francesco Pierozzi (chitarra elettrica ed acustica) più il viterbese Alessandro Presti (basso) ed il pescarese Riccardo Ruiu (batteria). Brani come Domani è un altro film e La pioggia è uno stato d’animo li abbiamo ascoltati tutti: accendendo la radio, guardando la televisione o sentendo le persone canticchiare in giro è impossibile ignorare il fenomeno Dear Jack. Ma come si vive dall’interno un percorso musicale del genere? Quali sono le difficoltà, i sogni ed i progetti di una band che ha scalato la classifica delle vendite in Italia? Anzitutto Lorenzo, come hanno avuto origine la band e la partecipazione ad Amici? «I Dear Jack esistevano già mentre io ero impegnato in altri progetti. Tramite un amico comune conobbi Alessio e mi

piacque subito il suo stile: organizzammo una prova per divertimento, in cui portai Alessandro e Riccardo, e decidemmo di proseguire provando poi ad essere ammessi ad Amici. Non ne ero mai stato un fan ed era un aspetto della società che non tolleravo, ma quando ci fu da prendere la decisione mollammo tutto e tutti (i Dear Jack sono stati la prima band ammessa ad Amici, ndr). Suonare e vivere insieme per noi è stato bello: con loro c’è stato subito affiatamento e tuttora consideriamo il nostro progetto come un qualcosa che non dovrà avere fine». Possiamo considerare i talent show come un’esperienza positiva? «Per chi viene preso sì, e ciò che mi ha spinto a partecipare non è stata solo la visibilità ma anche la possibilità di vedere cosa c’è dentro. Tra tutte quelle che ho frequentato Amici è stata la scuola più impegnativa, ed io sono stato anche al conservatorio! La quantità di lavoro è notevole: sette giorni su sette dalle nove di mattina alle 9


incontri otto di sera. Ci davano molti pezzi da provare in vista del venerdì, scelti anche in base alle nostre richieste, ed avevamo a disposizione due grandi maestri come Pino Perris ed Enzo Campagnoli, pianisti e direttori d’orchestra con una competenza fuori dal comune. Ma c’è di più: tornati nell’albergo, che si trovava proprio davanti agli studi, la sera continuavamo a lavorare. Io mi occupo anche delle sequenze computerizzate e degli arrangiamenti, e mi capitava di restare fino alle tre di notte assieme agli strumenti».

riguardano i concorrenti. Il percorso è strutturato, ma noi eravamo del tutto liberi pur rispettando le regole della struttura, senza altri vincoli. Quando si inizia ad ingranare la marcia poi si può crescere molto e lasciarsi alle spalle i momenti bui, come è successo a Francesco. Lui ha saputo affrontare e superare le difficoltà: la sua famiglia si era appena divisa, sarebbe dovuto partire per andare a vivere ad Edimburgo ma ha deciso di rimanere. Riuscire a tenere duro è formativo, sia dal punto di vista umano che musicale!».

Visto dall’interno, come possiamo descrivere l’ambiente che hai trovato? «Un talent show è qualcosa di inimmaginabile: quando il gioco inizia devi giocare perché partecipi con la tua faccia, tutto dipende da te. La pressione psicologica è grande perché Amici è una macchina immensa, la struttura è composta da molte persone oltre ai milioni di spettatori che assistono alla trasmissione. La fatica è davvero notevole, ho dovuto isolarmi da tutti, riuscendo a tornare a casa solo per Natale e non potendo più frequentare né le persone né i luoghi di prima: non è facile dare il 100% quando si è destabilizzati in questo modo. Una cosa bella di Amici è che pur essendo un programma televisivo non impone un copione ai partecipanti: tutto viene scritto solo in base alle circostanze reali che

Quindi fondamentalmente è un’esperienza utile per un musicista. Pensi che tutti dovrebbero provarci? «Quando uno trova un’opportunità deve coglierla al volo: Amici è un punto di riferimento per le case discografiche, come tutti i talent show. L’industria musicale preferisce lavorare su artisti già lanciati per avere la sicurezza di vendere i dischi, ma questo non basta: occorre sostanza per poter proseguire un progetto, altrimenti non si va da nessuna parte. Domani è un altro film è stato primo nelle classifiche di vendita, ma noi abbiamo ancora tutto da dimostrare: attorno a noi c’è un progetto grosso e siamo consape-

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voli di voler meritare ogni nostro successo. Bisogna però considerare che non tutti possono partecipare ai talent show, perché ci sono requisiti che non riguardano solo il talento ma anche l’immagine. È vero che questi programmi hanno un peso sul percorso per individuare talenti, ma chi suona e decide di fare musica nella vita a questo non ci deve pensare. Bisogna buttarsi, salgono sul palco anche band di cani e in fondo anche questo è un bene, servono per fare selezione! L’importante è avere chiara in mente una strategia per emergere, perché tanto la discografia è in mano a delle vere industrie che lavorano su dei progetti, e in merito a ciò non possiamo farci niente. O queste dinamiche vengono intese come un ambito da rivoluzionare oppure chi suona deve avere il compito di non abbattersi: se uno ha un messaggio, la gente lo capirà e lo recepirà». Si parla molto di una vostra possibile partecipazione al prossimo Festival di Sanremo. Cosa puoi dirci a riguardo? «Stiamo preparando un pezzo, partecipare sarebbe per noi una consacrazione nel percorso musicale che stiamo seguendo per dare una svolta alla nostra

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rimborso spese: parlo di Pescara, Bologna, Arezzo e Firenze, da quelle parti ci sono scene che soddisfano i musicisti».

sabilità, perché essi prestano molta attenzione a modelli come i nostri. Quindi dobbiamo trasmettere messaggi ed ideali coerenti e corretti, privi di demagogia, perché l’adolescenza è il periodo in cui si forma la persona. Noi vogliamo crescere con loro e reputiamo importanti per la società i sogni ed i desideri dei più giovani, è un onore potercisi dedicare». carriera. Il Festival di Sanremo è importante perché ti dà un ritorno di immagine, tutti i brani vengono passati in radio. Noi comunque vogliamo lavorare al fine di raggiungere un suono internazionale e stiamo preparando pure pezzi in lingua inglese: cerchiamo di far valere le nostre idee nella fase di produzione del prossimo disco, perché quando sono valide vengono prese in considerazione sotto ogni punto di vista. L’importante ora è suonare bene, comporre in maniera assennata e proporre qualcosa di valido». Avete ottenuto un successo davvero rapido: com’è il vostro rapporto con i numerosi fan che vi seguono? Come vi relazionate a loro? «Il nostro pubblico ha un’età media abbastanza bassa, ma quando arrivi a riempire un palazzetto dello sport significa che i presenti non possono essere tutti ragazzini! Il rapporto con loro è bello e senza vincoli, loro ci hanno conosciuti tramite Amici e quindi sono stati i primi a credere in noi. Tantissimi di loro si sono affezionati emotivamente ai Dear Jack e io a questo spero di non farci mai l’abitudine: mantenere il contatto con i fan è importante, anche se i produttori preferirebbero far mantenere le distanze. Ma quando ci avviciniamo a loro capiamo che dobbiamo essere più grati ai fan che ad altri, per questo ci sono situazioni in cui ci impuntiamo sulla nostra volontà di incontrarli, sia dal vivo che in chat! Sono sicuro che mantenere stretto il legame con chi ci segue non sia uno sbaglio: molti di loro sono teen-ager e per noi ciò rappresenta una grande responDECARTA NOVEMBRE 2014

Parliamo del legame con la tua città di origine e dei luoghi e le situazioni che ti hanno fatto crescere come artista. «Io sono nato ad Orvieto ma dopo il divorzio dei miei sono cresciuto a Montefiascone, frequentando poi il liceo a Viterbo. Dopo gli studi non vedevo l’ora di andare via: sono fatto così, farei volentieri il nomade! Musicalmente parlando sono cresciuto proprio a Viterbo, iscrivendomi alla Staff Music School e conoscendo Giacomo Anselmi, per me un vero amico fraterno. Ho suonato con gruppi locali e partecipato a tutti i concorsi possibili ed in particolare non sono mai mancato alle Giornate dell’Arte. Viterbo è una città con la mentalità chiusa e poco propensa a promuovere le attività giovanili, mentre in realtà i giovani sono molto intraprendenti e tra loro troviamo molte band di tutti i generi: dallo ska al punk, dal folk irlandese alle cover band… tutti meriterebbero spazio. Di questo la città non si è accorta: anche se non tutti questi gruppi vivranno solo di musica, bisogna ricordarsi che non conta solo chi fa i soldi, bensì occorre supportare l’arte in quanto specchio della società. Invece, i giovani devono sgomitare anche per organizzare un piccolo live. Ho sempre sostenuto le Giornate dell’Arte proprio perché si tratta di una manifestazione giovanile che dà spazio alla musica locale. Guardandomi intorno, posso dirti che Roma non è altro che una Viterbo più grande: ci sono più spazi, ma per il resto è uguale. Invece in province più piccole si possono trovare eventi davvero belli, dove gli artisti ricevono persino un

Vogliamo citare i gruppi di cui hai fatto parte prima dei Dear Jack? «Tra le band in cui ho suonato ricordo con piacere i Brain Shock, un quintetto con il quale siamo riusciti persino a suonare a Campovolo al concerto di Ligabue davanti a 110.000 persone (nel 2011, ndr). Poi ci sono i Repsel: con loro ci siamo cimentati in un rock progressivo, eravamo tutti musicisti che volevano fare quello nella vita e riuscimmo a partecipare ad eventi molto belli come ad sempio un live a Colombo, la capitale dello Sri Lanka, in riva all’Oceano Indiano». In conclusione, c’è qualcosa di importante che vuoi aggiungere? «In questi mesi in molti ci hanno chiesto di suonare a Viterbo, a Tarquinia o a Montefiascone. Beh, i Dear Jack non aspettano altro! Esibirci in questa zona, magari in un concerto ben strutturato, è una nostra priorità che ancora non abbiamo realizzato per motivi logistici indipendenti dalla nostra volontà: ma ci teniamo molto. Qui si parla di noi, di quello che è successo, c’è positività nei nostri confronti e sarebbe fantastico poterlo fare. Inoltre vorrei ringraziare Decarta per questa possibilità».

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iamo noi decartiani a ringraziare Lorenzo per averci dedicato un po’ del suo tempo – i Dear Jack stanno proseguendo il tour nazionale che si concluderà il 21 dicembre a Padova – e per averci parlato a ruota libera delle sue idee e dei suoi progetti, senza filtri. Ci ha confermato che i talent show sono una vetrina, ma senza un progetto serio alle spalle l’obiettivo del concerto soldout rimane comunque irrealizzabile: quanti artisti hanno ottenuto visibilità nei reality show ripiombando poco dopo nell’oblio? I Dear Jack sono consapevoli di essere giunti solo alla realizzazione della prima parte del loro film, come suggerisce il titolo del loro album d’esordio: gli auguriamo di consacrarsi come una delle realtà più solide nel panorama musicale italiano. E pure di sona’ a Viterbo il prima possibile, chiaro! 11


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Balbuzie: cos’è e come intervenire I molteplici aspetti del disordine nel ritmo della parola. Gabriele Ludovici | gabriele.ludovici@decarta.it

Colin Firth e Geoffrey Rush in una scena del film “Il discorso del re” (2010) diretto da Tom Hooper.

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a ragazza di questo breve incipit soffre di ciò che l’Organizzazione Mondiale della Sanità definisce “un disordine nel ritmo della parola, nel quale il paziente sa con precisione ciò che vorrebbe dire, ma nello stesso tempo non è in grado di dirlo a causa di involontari arresti, ripetizioni o prolungamenti di un suono”. Assieme al 2% della popolazione mondiale condivide quindi i disagi annessi alla balbuzie, quell’intrico di blocchi che costituisce una fastidiosa barriera comunicazionale capace, a lungo andare, di sfiancare psicologicamente chi ne è affetto. Come vedremo nel corso dell’articolo, purtroppo la legislazione in materia presenta delle preoccupanti falle. Un elemento positivo è l’inserimento della balbuzie nei Bisogni Educativi Speciali: in base ad una circolare ministeriale del 2013, gli insegnanti sono tenuti a prestare speciale attenzione agli studenti affetti da balbuzie. La domanda sorge spontanea: come si può intervenire per combattere la bal12

La ragazza entra nel bar, affollato di persone che cercano di attirare l’attenzione dei baristi. Si mette in fila e ascolta le sbrigative ordinazioni dei clienti: un espresso, un cappuccino, un cornetto. Sente salire dentro di sé una tensione che, man mano si avvicina al bancone, cresce sempre di più. Le sudano le mani. Sa benissimo cosa vuole ma quando arriva il suo turno e il barista la fissa negli occhi con un sorriso professionale, il corpo le s’irrigidisce. L’immagine della colazione è un puntino remoto nella sua mente. Le parole che vorrebbe dire restano sospese in un movimento muto delle labbra, che si protrae per alcuni secondi. «U… un caffè e… e… u… uno di… di…» «Un cornetto signorina?» «Sì» «Quale? Crema, panna…» «Ehm, ch…» «Crema?» «Sì».

buzie? La questione è molto delicata, perché bisogna partire dal presupposto che i blocchi sono spesso la punta dell’iceberg di dinamiche psicosomatiche molto più complesse. In altre parole, nessuno soffre solo di balbuzie: è difficile pensare di poter risolvere il problema considerando solo l’incapacità di modulare fluentemente i discorsi. Sarebbe come proporre un corso di cucina a chi soffre di disturbi alimentari. Per fornirvi un quadro più chiaro sull’argomento abbiamo contattato uno psicologo esperto nel settore: il dottor Enrico Caruso, direttore scientifico del Centro Equipe Logodinamica operante a Milano ed ideatore di un sistema multidisciplinare nel trattamento della balbuzie, che valuta ad ampio spettro tutte le dinamiche che intercorrono quando ci troviamo di fronte a questo disturbo. Il dottor Caruso, che ho avuto modo di conoscere personalmente in un periodo in cui cercavo di reperire più informazioni possibili su questo tema che

mi riguarda in prima persona, è da sempre molto attivo nel mettere in guardia i balbuzienti e le loro famiglie sull’esistenza di un vero e proprio mercato della balbuzie in cui operano troppi pseudospecialisti. Dottor Caruso, iniziamo col parlare della situazione in Italia. Proliferano corsi che promettono risultati miracolosi in pochi giorni: com’è possibile? E quali sono i rischi dell’affidarsi a nonprofessionisti? «Il problema è che in Italia non c’è nessun controllo e nessuna legge: chiunque può inventare e lanciare il proprio metodo, persino se non si è psicologi né laureati nell’ambito della logopedia. In questo modo esistono trattamenti non basati su una base evolutiva scientifica, che si applicano senza prima realizzare una diagnosi. In realtà ogni balbuziente ha dentro di sé un fattore nascosto da trovare, e toccare solo balbuzie può creare danni collaterali: la tecnica che funziona per un dato paziente potrebbe DECARTA NOVEMBRE 2014


non valere per un altro! Sono state svolte ricerche sul tema, mostrando che la pratica intensa dà risultati immediati ma che durano poco, mentre il trattamento deve essere distribuito in un arco temporale maggiore. Basti considerare che i corsi non sono adatti a tutti, su alcune forme di balbuzie nemmeno si può intervenire. Inoltre sui bambini occorre svolgere un lavoro delicato, altrimenti si possono commettere errori capaci di far cadere il paziente in un vero e proprio limbo.» In cosa consiste un percorso terapeutico serio? «La guarigione non esiste, si può ridurre il problema con una batteria di tecniche. La balbuzie è una reazione psicosomatica: l’angoscia genera scompensi dell’io che causano i blocchi, per questo è necessario correggere i parametri psicologici. Basti pensare ad esempio come sotto ipnosi la balbuzie scompaia. Di conseguenza, bisogna trovare il lato nascosto, che costituisce il vero problema, e supportare la persona nella crescita strutturale dell’io, lavoro impossibile da fare in pochi giorni. La terapia va distribuita nel tempo e può essere sia di gruppo che individuale. Attraverso la psicoanalisi si tocca la strutturazione dell’io: bisogna lavorare in chiave corporea e comportamentale: imparare ad esprimersi in pubblico – cosa che spesso risulta difficile anche ai normofluenti – dominando le proprie capacità linguistiche ed ascoltando il proprio corpo mentre si parla. L’obiettivo è raggiungere un’armonia che permetta di riorganizzare il rapporto tra corpo e pensiero. Un falso mito è che i blocchi partano dalla bocca: in realtà parte tutto dalla zona addominale, per

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cui lavorare solo sull’articolazione della bocca è inutile, essa rappresenta solo la parte finale del problema.» Come abbiamo accennato la balbuzie non è solo un problema “tecnico”. Quali altri fattori entrano in gioco? «Nel balbuziente esiste un condizionamento negativo, quindi bisogna intervenire sulla fase anticipatoria lavorando sulla gestione dell’ansia: ci troviamo di fronte ad una causa conflittuale su base psicogena che genera angoscia sociale. Il paziente non è un animale da ammaestrare per farlo parlare meglio in una dicotomia stimolo-risposta: bensì una persona che, raggiunta da uno stimolo, deve poter rimodellare le tante risposte possibili. Inoltre, essendo una manifestazione psicosomatica, la balbuzie non curata può generare altri problemi come stipsi, dermatite, vitiligine o mal di testa e di stomaco: ciò avviene quando il segnale inviato dalla balbuzie viene ignorato. Si può giungere fino a fenomeni di dipendenza anche gravi, senza contare la depressione che spesso aleggia attorno a chi ne è affetto. La soluzione è permettere al balbuziente di realizzare un pensiero verso la vita, aiutandolo a far emergere la propria vitalità. Dentro al balbuziente alberga un super-io, una

specie di monarca sadico che impone una personalità negativa verso sé stessi, impedendo ad esempio di provare soddisfazione per un successo. Occorre eliminare il “monarca interno” a favore di una “democrazia interna” che elimini il pensiero depressivo ed eccessivamente autocritico, altrimenti il balbuziente rimane in balìa dei propri meccanismi mentali in una vera e propria claustrofobia. In conclusione, è necessario lavorare sulla fluenza mentale, e non solo verbale!» Cosa bisogna tenere a mente quando si decide di affidarsi ad uno specialista? «Prima di tutto valutate le persone a cui vi affidate, non vi basta sapere che sono ex-balbuzienti! Chi si occupa di questo campo deve fornire il proprio curriculum di studi e rilasciare una regolare fattura. Inoltre diffidate di chi propone, a caro prezzo, poco più che vacanze di gruppo tra balbuzienti. Inoltre occorre far notare che purtroppo esiste un vuoto istituzionale nella cura della balbuzie e di altri disturbi come la dislessia: le ASL forniscono assistenza logopedica fino a quattordici anni e poi lasciano i pazienti alla mercé di ciò che trovano.»

Per saperne di più Per ulteriori informazioni sulla balbuzie e sulle pubblicazioni del dottor Caruso, vi consigliamo di consultare la pagina www.equipelogodinamica.it Vi segnaliamo anche l’indirizzo web dell’associazione Progetto Demostene che dal 1998 informa, difende e tutela coloro che soffrono di balbuzie: www.sosbalbuzie.it

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carta stampata incontri

Fabio Stassi: il generoso svitato che scrive sul treno Viterbo-Roma Intervista allo scrittore pendolare tra la nostra città e la capitale, che presenta il suo ultimo romanzo:“Come un respiro interrotto”. Claudia Paccosi | claudia.paccosi@decarta.it

primo libro tradotto in Italia. Visionario, complesso e semplice allo stesso tempo, lirico e narrativo. L’altro Kurt Vonnegut, per i capelli spettinati e il sorriso. Ma la lista sarebbe infinita.»

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abio Stassi è uno scrittore affermato di origine italo-albanese. Vive a Viterbo e lavora a Roma, presso la Biblioteca di Studi Orientali della Sapienza. Trascorre molto tempo sugli scomodi e ritardatari treni che collegano Viterbo con la capitale, ricavandone spesso personaggi, sensazioni e scenari. Dopo aver pubblicato con Minimum Fax, nel 2012 esce per Sellerio L’ultimo ballo di Charlot, dialogo fra la Morte e Chaplin finalista del Premio Campiello 2013 e tradotto in 19 lingue. Quest’anno ha pubblicato di nuovo con Sellerio Come un respiro interrotto, lo abbiamo incontrato per parlarne. Per cominciare: tre aggettivi che descrivano Fabio Stassi e i suoi libri. «Ho sempre avuto delle difficoltà a descrivermi, ma se vuoi tre aggettivi, il primo potrebbe essere “svitato”. Ho un debole per tutti gli svitati del pianeta e sono molto distratto. Un altro “malinconario”. L’ho inventato adesso: dall’aria malinconica, ma anche simile a un inventario ambulante di nostalgie. Il terzo lo prendo in prestito da una dedica che mi scrisse Gianni Mura sul suo primo romanzo, insignendomi magnanimamente dell’aggettivo “generoso”. Naturalmente mi ha fatto piacere, ma non ne sono all’altezza, purtroppo. Ma se davvero i miei libri potessero essere letti come dei malinconari svitati e generosi, ne sarei felice.» Due modelli letterari invece? Uno dal passato, tra i classici, l’altro contemporaneo, dall’attuale vasto panorama internazionale. «José Saramago è stato uno scrittore che ho amato sin dal 14

Quest’anno è uscito il suo ultimo libro Come un respiro interrotto: cosa vuole comunicare ai suoi lettori con la storia di Sole e della sua voce che dava “a tutti la stessa sensazione: di mettere un piede nel vuoto”? «Come un respiro interrotto è un romanzo a mosaico. Ogni capitolo è la tessera di un disegno che si rivela solo alla fine. Parla della scomparsa di una cantante di nome Soledad e anche della scomparsa di molti ricordi, di molte persone, di molte parole. È un alfabeto degli affetti, per me: per questo i capitoli sono ventisei, quanti le lettere di un alfabeto occidentale. L’impianto è quasi cinematografico: di volta in volta, viene convocato un testimone diverso a raccontare una storia. Attraverso la ricostruzione della vita di Soledad, per salti temporali e voci diverse, ho cercato di ricomporre il quadro storico e sociale degli ultimi quarant’anni. È come prendere un ascensore ogni volta con un passante diverso e trovare delle date al posto del numero dei piani e ogni volta uscire in un altro luogo e in un altro tempo.» Quanto della sua personale storia è presente in questo romanzo, narrando questo la vita di una ragazza dalle origini siciliane, di lingua arbresh e spagnola – “una lingua storta e curva come i piedi di nonna Lupe” –, che si trasferisce a Roma? «Come un respiro interrotto è il mio tentativo di ritornare a casa, nella casa della mia infanzia. La famiglia di Soledad somiglia molto alla mia famiglia. È una famiglia di desterradi, come li chiama Nonna Lupe, di senza terra, di emigranti. Ma la più desterrada di tutti è proprio lei, Sole, Soledad, perché i figli degli emigranti nascono come in un trasloco, le dice Nonna Lupe. Soledad non ha mai vissuto nell’isola della sua famiglia, ma è stata allevata nella sua lingua. Ed è questo che conta. Si cresce in una lingua, non in un luogo.» Se, come e dove è presente Viterbo in questo e negli altri suoi libri? «Viterbo è nascosta in alcuni passaggi, in alcune trasfigurazioni. C’era un poco di Viterbo anche nei luoghi che attraversava Charlie Chaplin nel suo viaggio picaresco da una costa all’altra. Ma soprattutto Viterbo è presente in alcuni racconti che non ho mai pubblicato. In uno di questi l’avevo definita DECARTA NOVEMBRE 2014


“una provincia scavata nel tufo, tra pini e castagni, con un errore di mare nell’aria”.» Nel suo ultimo libro dice: “Ma davvero non lo sapevi che alle letture dei poeti ci vengono solo i parenti e gli amici dei parenti come te? No, non lo sapevo. Matteo la guardò negli occhi e pensò che la letteratura è sempre un grande equivoco.” Questa è anche la sua opinione? «Ho assistito, da ragazzo, a molte letture di poeti, e ne sono sempre uscito con una impressione triste. Con la sensazione che la poesia, come la letteratura, in Italia non fossero prese sul serio nemmeno da chi le frequentava. Attività accessorie e superflue, confinate in spazi spesso patetici e sempre innocui. Sono comunque fiducioso. La poesia, soprattutto, è adatta ai nostri tempi frenetici. Continuo a credere che le metropolitane, gli autobus e i marciapiedi prima o poi si riempiranno di gente che legge dei versi in piedi.» Come un respiro interrotto parla di musica ed è una sua dichiarazione d’amore a quest’arte. Avendo anche lavorato a stretto contatto per e con la musica, potrebbe descriverci il suo rapporto con essa? «Ho iniziato a suonare chitarra e violino giovanissimo. La musica, come la letteratura, mi ha salvato la vita, ha dato senso e misura al tempo, non potrei immaginare la vita senza. La mia aspirazione è quella di scrivere in termini musicali, in levare non in battere, in un tempo dispari, in sette ottavi, in tre quarti. È così che vorrei fossero letti i miei romanzi, intuendo la musica che li ha fatti nascere e quel poco che forse ne salta fuori.» DECARTA NOVEMBRE 2014

Nel libro è fortemente presente la rivoluzione degli anni ’70:“È arrivato il momento che tutti, anche gli artisti, si assumano la responsabilità storica di questo passaggio, disse Manuel. La rivoluzione riuscirà nella misura in cui ciascuno di noi assolverà al suo compito storico di intellettuale al servizio della classe.” Cosa di quei momenti ha voluto trasmettere al lettore del 2014? Forse la forza di ribellarsi che oggi sembra non esista più? «In tutto quello che ho scritto c’è sempre il tema della speranza perduta. La nostalgia però può diventare una prigione, un vivere dentro il passato, con la testa rivolta all’indietro, verso una terra e una stagione che non ci sono più. Ma esiste una nostalgia attiva. Dobbiamo fare esplodere il tempo, la memoria, i ricordi, con tutte le loro ferite. Dobbiamo fare agire i ricordi nel presente, come un agente chimico, e consegnarli alle nuove generazioni. Senza dimenticarsi che “la nostalgia è buona, ma la speranza è meglio”.» “Trovò un posto vicino al f inestrino. Il sedile era scomodo, l’appoggiatesta sporco e duro. Ma Sole si immerse lo stesso in quello stato di proroga che danno i treni alle cose, nel loro oscillare tra una città e un’altra.” I treni sono il centro della scrittura di Fabio Stassi e parte della

vita di Fabio Stassi. Cosa il viaggiare tanto sui treni ha dato alla sua scrittura? Perché quello stato di proroga che danno i treni, quello spazio di attesa e transito è tanto piacevole? «L’anno prossimo compio vent’anni di pendolarismo. Quattro o cinque ore al giorno, 67 mila chilometri l’anno, almeno venticinque volte il giro del mondo. Ma i treni sono stati la mia università, e la mia occasione. I treni sono stati lo studio che non ho mai avuto. Caotico, scomodo, assordante, ma con gli orari fissi che richiede la scrittura. Hai ragione, quello stato di proroga è una benedizione: è un non stare in nessun luogo e in nessun tempo, in fondo una condizione abbastanza opportuna per provare a raccontare una storia, nonostante la fatica.» Ultima domanda, a cui Matteo non ha saputo rispondere: “Perché il 6 non è 9?” «Non so rispondere neppure io. Posso solo dire che non dobbiamo stancarci nel cercare di rovesciare le cose e di guardarle sottosopra. Né di contestare la realtà, di protestare contro il tempo, di sfidare il conformismo del linguaggio. Ridiamo anche ai numeri la libertà di capovolgersi. Ed è così, con un’ultima capriola, che vorrei salutarvi. Grazie, davvero.» 15


carta stampata pillole di lettura Claudia Paccosi | claudia.paccosi@decarta.it

Tartt: Dio di illusioni

Egan: La fortezza

“È un’idea tipica dei greci, e molto profonda. Bellezza è terrore. Ciò che chiamiamo bello ci fa tremare. E cosa potrebbe essere più terrificante e più bello che perdere il controllo? ”

“Danny non era mai stato in un castello, e neppure in quella parte di mondo, ma il tutto per lui aveva un qualcosa di familiare.”

Donna Tartt, vincitrice quest’anno del premio Pulitzer per la narrativa con Il cardellino, divenne un caso editoriale americano quando pubblicò, all’età di soli ventotto anni, nel 1992, Dio di illusioni. Cinque ragazzi ricchi, raffinati e intelligenti seguono nell’università del Vermont un esclusivo e intimo corso di greco antico. Il professore accoglie solamente loro nel suo elegante studio per riempire le giovani menti di storia, arte, mitologia e misteri greci, tramite lezioni a porte chiuse, sistemi al di fuori delle regole e cene riservate ai suoi pupilli. La cerchia di ragazzi vive un universo parallelo, dove scorre l’alcol, le parole di Platone vengono applicate alla realtà e ci si sente egoisticamente superiori e diversi rispetto agli altri. Affascinati dai riti di Dioniso decidono di compiere un baccanale nella foresta che circonda il college, incanalando l’Arte e la Bellezza, gli unici interessi a cui si dedicano, in una direzione fuori da ogni controllo. Da quella notte in poi tutto cambierà, la ferocia e brutalità dell’uomo in quanto animale istintivo ha creato una frattura nelle loro vite che potranno solo seguire, cadendo in un burrone di eventi concatenati dettati dall’impulso e dalla paura, regolati dall’intelligenza e dall’eccitazione. È un romanzo paurosamente avvincente, una storia di amicizia e di crescita, che trascina chiunque in una lettura senza posa. Dio di illusioni rende consapevoli che, a volte, la bellezza, la superficiale eppur sublime bellezza, può essere terribilmente brutale e sbagliata.

Minimum Fax ha pubblicato da pochissimo La fortezza di Jennifer Egan, autrice americana di Il tempo è un bastardo (Pulitzer 2011), in una bellissima veste, come spesso solo i piccoli gruppi editoriali riescono a fare. Danny è un drogato di social network e chat (come gran parte dell’umanità abbiente allo stato attuale) e compie una scelta rivoluzionaria: parte per un misterioso castello in un misterioso luogo, sotto esplicito invito del cugino che non vede da anni. L’enorme costruzione di origine medioevale deve essere ristrutturata per farne un resort lussuoso avvolto nel silenzio e lontano dal frenetico mondo occidentale. Il romanzo narra il “gotico” incontro di Danny con la fortezza in una narrazione che procede per cornici, dove un narratore svela uno scrittore, precisamente un carcerato, che oltre alla storia di Danny racconterà anche la sua. È un romanzo di misteri e di onirici sogni, una storia di evasione, che permette anche al lettore di svicolare dalla quotidianità. Per chi cerca una storia diversa, una storia imprevedibile e totalmente inaspettata, per chi vuole scommettere sulla piccola casa editrice, che non diventerà mai milionaria, ma cercherà di pubblicare sempre, quando possibile, buone cose. Per chi vuole riscoprire la vastità di espressione che possiede la parola, le innumerevoli combinazioni di storie che un libro può raccontare, alcune delle quali, fortunatamente, al lettore non sarebbero mai venute in mente.

Donna Tartt

Jennifer Egan

Dio di illusioni

La fortezza

Titolo originale: The secret history Traduzione di Idolina Landolfi Rizzoli BUR, 2014 - pp. 622 - € 11,00 ISBN 978-8817106825

Titolo originale: The keep Traduzione di Martina Testa minimum fax, 2014 - pp. 320 - € 18,00 ISBN 978-8875215934

Oliver: Cucina smart con Jamie Oliver “Ho passato anni a ripetere che, se si guarda indietro nel tempo, sono sempre state le comunità sottoposte a un’enorme pressione finanziaria quelle che hanno prodotto cibi migliori, a patto che però fossero capaci di cucinare! ” Jamie Oliver è un giovane cuoco inglese che, paradossalmente, cucina in maniera sana e genuina ispirandosi molto alle nostre tradizioni mediterranee tra i fornelli. Divenuto famoso per i suoi programmi televisivi, dove riusciva miracolosamente, anche se non senza fatica, a far mangiare qualcosa di semplice, non fritto e pieno di salse ai ragazzi delle scuole inglesi. Con il volume Cucina Smart. Poca spesa piatti gustosi senza sprechi non solo presenta ricette low cost per questi periodi di crisi, ma anche trucchi per non sprecare cibo e sopravvivere con quel poco che abbiamo in frigo. Ogni ricetta risulta accessibile, affidabile e super economica. Con solo mezzo limone, qualche foglia di basilico e del parmigiano si può gustare in quindici minuti un piatto di pasta un po’ meno triste della tanto economica “aglio olio e peperoncino”. In periodi di crisi la società si adatta, si spende di meno, non solo si rinuncia al ristorante, ma si fa più attenzione anche nel carrello; tuttavia il piacere di cucinare, magari insieme, sfogliando con le dita sporche di farina un bel libro, le cui sole immagini ci rendono sazi e forse anche un po’ più felici, non ce lo può togliere nessuno (d’altronde Giallo Zafferano con le mani sporche d’olio non si può consultare su internet, non credete?). 16

Jamie Oliver Cucina smart con Jamie Oliver. Poca spesa, piatti gustosi e senza sprechi Titolo originale: Save with Jamie. Shop Smart, Cook Clever, Waste Less Traduzione di M. Togliani e M. Carozzi TEA, 2013 - pp. 288 - € 26,00 ISBN 978-8850233069 DECARTA NOVEMBRE 2014


ospiti

mentre cucino

Chiara Monica Angela Baiona In un piccolo paese in Toscana, in una notte di dicembre… … le gocce d’acqua scivolano lentamente sui vetri della finestra. Sembrano piccoli occhi di Angeli scesi sulla terra per vedere cosa sta accadendo. In effetti Loredana si sente osservata e ogni tanto si gira verso la finestra per controllare se ci sia qualcuno che la spia ma, al di là del buio, intravede solo il mare in lontananza e nient’altro, nessun altro. È in piedi davanti alla finestra chiusa quando l’ennesima fitta all’addome la fa piegare in due. “Siediti, ti prego!” il marito Pietro la raggiunge e le stringe le braccia delicatamente, accompagnandola verso il letto.

“Il dottore ha detto che devo camminare… che mi fa bene…” replica debolmente lei. Pietro sceglie di non contraddire la moglie così la accompagna fuori dalla stanza e i due giovani coniugi prendono a camminare lungo la corsia silenziosa e semi buia. In un’altra stanza una donna si contorce dal dolore mentre il marito la guarda con preoccupazione, stringendole la mano. “Ispira, respira, ispira, respira…” ripete il marito alla moglie, con voce stanca. Loredana e Pietro invadono per un attimo la loro intimità rivolgendo uno sguardo fugace e curioso a quella coppia, poi continuano la loro inusuale passeggiata. Pietro le accarezza delicatamente la schiena mentre lei muove passi incerti camminando lentamente. “Ho paura” confessa Loredana con un filo di voce, fermandosi all’improvviso. “Ci sono io amore mio, non sei sola” la abbraccia, con delicatezza, per timore di farle male. In quel momento Loredana sente scivolare sulla gamba un liquido caldo, si allontana di scatto

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dal marito e si alza d’istinto la camicia da notte. “Cosa succede?” chiede terrorizzato Pietro, subito dopo ricaccia indietro l’ansia e cerca di assumere un’aria sicura “Oh, ma non è niente di grave… si sono solo rotte le acque!”. “Ho paura!” ripete Loredana mentre le sue ciabatte si bagnano completamente del liquido che fuori esce dal suo corpo senza che lei possa controllarlo. “Tutto a posto cara! Si sta solo avvicinando il momento che aspettiamo da nove mesi!” dice ad alta voce. Questa volta è lui che non riesce a controllarsi e in questo caso non controlla il suo tono di voce attirando l’attenzione di un’infermiera che

esce da una stanza e li raggiunge in fretta. “Venite ragazzi vi accompagno in stanza e chiamo il ginecologo che visiterà subito la signora”. L’infermiera fa strada ai ragazzi sorridendo, poi domanda: “maschio o femmina?” “Non lo sappiamo. Abbiamo preferito aspettare che nascesse per scoprirlo” risponde Pietro. L’infermiera annuisce continuando a sorridere. Loredana si sdraia sul letto e s’impegna a respirare come le è stato insegnato al corso preparto. Corso che ha frequentato con la convinzione che avrebbe imparato dei trucchetti per non soffrire durante il parto. Mera illusione. oco dopo il ginecologo la visita e la tranquillizza dicendole che tutto procede nel migliore dei modi, poi dispone che le sia fatta un’ecografia che conferma che il bambino sta bene e il travaglio è regolare. Poco dopo Loredana è accompagnata in sala parto e fatta accomodare su un lettino speciale dove può appoggiare le gambe e divaricarle. Le infer-

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miere si muovono veloci preparando gli strumenti necessari e Pietro si sposta continuamente non sapendo dove mettersi. “Assiste al parto?” chiede il ginecologo. “Si certo!” risponde prontamente Pietro. “Si metta pure lì allora, di fianco a sua moglie”. Pietro ubbidisce e stringe forte la mano di sua moglie che è ancora impegnata nella respirazione. Le contrazioni sono sempre più ravvicinate, Loredana ispira e respira, ispira e respira, Pietro insieme a lei, come per aiutarla a tenere il ritmo. Intanto ha smesso di piovere e le gocce rimangono ferme sul vetro mentre la notte lentamente si spegne e lascia che la timida luce dell’alba dipinga il cielo di arancione. Nel momento preciso in cui il sole fa capolino dal mare, una testolina ricoperta da pochi capelli esce con prepotenza dalla sua dimora. Pochi istanti dopo il silenzio è riempito dal debole pianto infantile del neonato. “È una femmina!” dice ad alta voce il medico. Loredana rilassa il viso dopo la fatica dell’ultima spinta, apre gli occhi che sono invasi dalla luce dell’alba e dice: “Chiara! La chiameremo Chiara come quest’alba.” e gocce di pioggia tornano su in cielo per raccontare, a chi è rimasto sulle nuvole, di quell’evento meraviglioso. Dopo qualche minuto Loredana viene sistemata nel letto della stanza a lei assegnata, tiene la piccola Chiara tra le braccia mentre Pietro è accanto a lei e guarda innamorato le sue due donne. Il fornaio, che ha il negozio proprio vicino al piccolo ospedale, viene informato della nascita di Chiara; in un paese così piccolo le belle notizie viaggiano veloci; e prima di aprir bottega fa visita alla nuova nata e ai neo genitori donando loro una pagnotta di pane appena sfornato. “Il mio pane preferito!” Esclama Loredana vedendo la pagnotta fumante “e che profumo!” chiude gli occhi respirando con il naso. Il fornaio sorride soddisfatto: “ti ho portato il pane preparato con il lievito madre… il migliore pane per un giorno così speciale!” dice quasi sussurrando come se confidasse un segreto. Pochi istanti dopo un altro pianto invade la corsia. Anche il bimbo dell’altra coppia è venuto alla luce e il fornaio corre in bottega a prendere un’altra pagnotta.

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a Bacopa (Bacopa monnieri (L.) Pennell) è un’importante erba medicinale tradizionalmente impiegata come tonico neurologico e per aumentare le prestazioni cognitive. Attualmente è studiata per le sue possibili proprietà neuroprotettive. Presentiamo quindi uno studio italiano: i ricercatori dell’Ospedale di Busto Arsizio hanno studiato gli effetti di un integratore alimentare contenente tra i vari ingredienti anche un estratto di Bacopa. La somministrazione di questo integratore è avvenuta su dei soggetti anziani affetti da un lieve declino cognitivo, dimostrando delle buone potenzia-

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lità e quindi stimolando i ricercatori nel condurre uno studio più a lungo termine in ambiente controllato. La Bacopa è una pianta fondamentale per la Medicina Ayurvedica ed in questo contesto è conosciuta come “Brahmi” da Brahma, il Dio creatore del Pantheon Hindu. L’importanza delle sostanze in essa contenute è stata valutata anche in un altro studio che ha preso in analisi il deficit di attenzione e iperattività nei bambini. A questi ultimi è stato somministrato un estratto standardizzato di Bacopa riscontrando un alleviamento dei sintomi e dimostrando quindi ancora una volta la sua efficacia.

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Menù alla (De)carta Una ricetta classica: l’acquacotta. G.L.

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n tutto il mondo, Italia è sinonimo di qualità. Tutto ciò che viene prodotto nel nostro paese porta con sé un patrimonio genetico di tradizione, cultura e bontà che vengono sempre riconosciute come degne di nota ai quattro angoli del globo. La provincia viterbese offre un ampio spettro di possibilità gastronomiche da prendere in considerazione: oggi vi presentiamo una delle più classiche, ovvero l’acquacotta. Si tratta di un piatto nato al confine tra la Maremma e la Tuscia: rappresentava il pasto tipico dei tanti butteri che si attardavano lontani da casa per badare alle mandrie. I butteri il termine deriva dal greco βουτόρος, ovvero pungolatore di buoi erano dei veri e propri cowboy italiani che a bordo delle loro bardelle e sotto i loro pastrani si occupavano degli animali. La loro vita era molto dura, lavoravano dall’alba al tramonto e l’unica distrazione poteva essere proprio la ricerca di ingredienti per il pranzo e la cena, a meno di non voler fare una capatina nelle osterie. Si narra di come nel 1890 una squadra di butteri cisternesi sconfisse Buffalo Bill durante una tappa del suo Wild West Show: Augusto Imperiali, che riuscì a domare un mustang americano, è ancora una leggenda nell’Agro Pontino.

’acquacotta, come suggerisce il nome, è una zuppa costituita da ingredienti semplici, ma che tutti assieme si armonizzano e nobilitano. La ricetta può variare di località in località, ma essenzialmente si basa sui prodotti che venivano raccolti dai butteri ed immagazzinati nel tascapane: oltre a pane duro, olio e sale possiamo utilizzare anche cardini, broccoletti, cicoria, cappucci, fagiolini, borragine, denti di leone e grassi animali di vario genere. Questi ultimi venivano soffritti inizialmente nel pignatto assieme ad aglio e cipolla, dopo essere stati tagliuzzati alla bell’e meglio con un coltello: noi possiamo farlo comodamente in cucina e sbizzarrirci sui contenuti, perché in fondo la filosofia dell’acquacotta è che ci si può mettere dentro di tutto. Vi è avanzato qualche pomodorino? Buttatelo dentro e les jeux son faits. La variante viterbese include anche le patate, erbe di stagione, le uova sperse e persino il baccalà, mentre il pane dev’essere possibilmente non salato, abbrustolito oppure raffermo. Adesso che il freddo reclama il proprio dazio, vi abbiamo fornito un caldo antidoto che vi permetterà di ottenere una buona zuppa senza spentolare troppo.

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L’ALTRO CHALET (Via della Palazzina, 1/b - 0761 345780) La struttura in legno dello Chalet di Porta Fiorentina, per quanto negli anni abbia cambiato varie volte look, è stata una pietra miliare per generazioni di Viterbesi. In questo 2014 il cambiamento non è avvenuto solo nell’aspetto ma anche nella geografia. Da poco è nato L’altro Chalet e le attività del locale si sono spostate di alcuni metri, per l’esattezza alla fine di via della Palazzina (se si proviene dalla rotonda) e di fatto di fronte alla vecchia locazione. Alla gestione dietro il bancone rimane però sempre la stessa famiglia che dal 1984 gestisce il locale.

L’altro Chalet Via della Palazzina, 1/b

Dal 1998 lo Chalet, oltre ad essere un bar ed una tabaccheria, è anche una gelateria artigianale con gelato di produzione propria. Le materie utilizzate per quest’ultimo e quindi nello specifico latte e frutta, sono attentamente a km 0. Stesso discorso per il caffè che è solo Fida Miscela Bar Oro, un altro km 0 per ciò che riguarda la produzione in quanto viene ancora prodotto a Marta. Insomma, sappiatelo, le abitudini cambiano ma le origini restano, L’altro Chalet vi aspetta a via della Palazzina 1/b.

PASTICCERIA GARIBALDI (Via Garibaldi, 10 - 0761 306992) È usanza tutta viterbese quella di regalare il 30 novembre un pesce di cioccolato alle persone più care. Come spesso avviene nelle nostre terre, le origini di queste usanze non sono mai ben chiare, e ciò è giustificato dalla molteplicità di popoli che si sono succeduti sul colle del duomo. L’origine più accreditata e però quella cristiana che anche i non praticanti conoscono, ovvero la moltiplicazione dei pani e dei pesci, avvenimento del quale è proprio Sant’Andrea uno dei protagonisti. Andrea è un santo molto sentito a Viterbo e non a caso è proprio dedicata a lui una delle chiese più antiche della città. Senza andare troppo indietro nel tempo, è proprio qui che la tradizione sembra essere nata. Infatti le persone più anziane ricordano come don Pietro Schiena, che fu parroco della chiesa di Pianoscarano, mettesse dei pesci di cioccolata nell’acquasantiera per tutti i sacrestani. Pasticceria Garibaldi Via Garibaldi, 10

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A Viterbo una attività che sente molto questa tradizione è la nota Pasticceria Garibaldi, aperta da Impero e Rosaria nella via dedicata al Patriota fin dal 10 ottobre del 1973 e che da vent’anni vede dietro il banco la presenza anche dei figli Moreno e Marco. Come consuetudine anche questo novembre troverete in vetrina il già citato pesce di Sant’Andrea, oltre ovviamente alle altre specialità della pasticceria, Viterbese e non.

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Il Portico Tradizione e innovazione per una gustosa continuità. G.L.

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uando l’esperienza si perpetua con continuità nelle nuove generazioni, nasce quel connubio trapresente e passato che definiamo “tradizione”. Un esempio lampante è proprio la pizzeria-ristorante Il Portico: da dieci mesi la nuova gestione guidata da Gabriele e Giorgia Gatti ha raccolto quel testimone che affonda le radici nella storia di questo locale, che ha visto la luce nel 1959. “Il Portico” è un marchio ideato da un maestro della gastronomia come Piero Cardoni: «Verso di lui nutriamo una profonda stima – mi spiega Gabriele – ed intendiamo rinnovare il locale puntando sulla qualità, seguendo il percorso già tracciato da Piero». Piero Cardoni trasferì Il Portico da Roma a Viterbo negli anni ’80, inizialmente a Ponte di Cetti: circa quindici anni fa la sede si è spostata in via Fontanella del Suffragio, nel centro storico che contribuisce a conferirgli l’aspetto medievale tanto apprezzato dai clienti.

lizzati con pasta fatta in casa come fettuccine e ravioli. Inoltre i nostri prodotti sono scelti con cura dai fornitori locali: ad esempio citiamo la Rammer Serrano, un’azienda ortofrutticola con prodotti tracciabili e la certificazione dell’analisi biologica dell’acqua». La linea dei primi, che include piatti della tradizione viterbese e romana, varia di settimana in settimana, accompagnata dal menù alla carta. Al Portico potrete trovare coniglio alla cacciatora, spezzatino di cinghiale, acqua cotta, trippa e delle deliziose innovazioni come lo strudel d’agnello alla cacciatora con misticanza di radicchio e frutta fresca e secca.

Il locale inoltre offre molteplici soluzioni per tutte le esigenze alimentari: anzitutto la carne proviene dall’industria di salumi viterbese ISAL, che propone sul mercato prodotti senza glutine ed anche in questo caso tracciabili. Ma non solo: è presente anche un’ampia varietà di pizze gluten-free: «Molti clienti intolleranti al glutine ci hanno fatto i complimenti, perché non avevano mai mangiato una pizza così buona!». Non vi resta che provare di persona le prelibatezze de Il Portico, un locale storico pronto a proseguire la propria tradizione con la consueta qualità ed ampia scelta gastronomica.

Il Portico propone cibi tradizionali locali mediante un’ampia scelta che include cibi alla brace, pizze e da poco tempo anche una gustosa novità: «Abbiamo incluso una linea di primi, tutti reaVI

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Ararat wedding La cura e l’amore per ogni piccolo dettaglio. A cura di I giardini di Ararat - Foto di Isabelle Hesselberg

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’Agriturismo prende il nome dal Monte Ararat, il leggendario monte armeno dove si narra sia approdata l’arca di Noè e che simboleggia da sempre la nuova vita e la seconda possibilità per l’uomo. Con questo affascinante nome comincia la magica avventura de I giardini di Ararat: immerso nella collina viterbese, sorge in mezzo ad un bosco di castagni secolari e si affaccia con un panorama mozzafiato sulla città di Viterbo, dove tramonta il sole, inondando di rosso l’orizzonte. All’interno un’azienda agricola biologica produce gran parte dei prodotti che la chef Laura Belli poi metterà nei piatti: una incredibile unione di tradi-

zione e interpretazione, secondo i principi Slow Food del buono pulito e giusto. In agriturismo infine c’è Emmanuela che cura con passione ogni dettaglio e crea allestimenti ed ambientazioni fiabesche qua e là nei suggestivi angoli della location. Avrete la possibilità di ideare e progettare insieme a noi ogni dettaglio: dagli inviti scritti a mano ai cadeaux per gli ospiti, dal reportage fotografico al diario delle dediche, fino a creare un tema coordinato ed unico per il vostro grande giorno. Il sogno di un giorno unico esattamente come lo avete immaginato, scritto e riscritto mille volte vi aspetta a I giardini di Ararat.

Ararat Wedding www.igiardinidiararat.it Strada Romana, 30 (o Strada Provinciale, 57) 01100 Bagnaia (VT) Tel. +39 0761 289934 - Email: giardinidiararat@gmail.com Orari di apertura per la ristorazione da Mercoledì a Domenica: Pranzo e Cena festivi: Pranzo - prefestivi: chiamare in Agriturismo N.B.: è gradita la prenotazione.

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Responsabile: Emmanuela Tardani Particolarità: servizio Wedding Planner 130 posti interni 300 posti esterni 2 Sale Posti auto: 400 Prenotazione consigliata: 6 mesi prima

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Donatello D’Attoma, “Watchdog” tour 2014 Non occorre voler essere… e nemmeno dimostrare di essere. Conosciamo meglio un nuovo talento del jazz italiano, classe 1983, laureato in organo e composizione organistica presso il Conservatorio di Monopoli (BA) e poi la laurea in Scienze del Patrimonio Musica presso l’Università del Salento, specializzato presso la Facoltà di Musicologia di Cremona. Donatello D’Attoma, dopo l’interessante esperienza “letteraria” nel viterbese con Charles Mingus: composition versus improvisation, il libro che include le trascrizioni degli assoli di contrabbasso di Fables of Faubus, Original Fables of Faubus e di Bass-ically speaking, illustrato sul palco del JazzUp durante l’ultima recente edizione del festival, prepara ora la presentazione ufficiale del suo secondo lavoro discografico dal titolo Watchdog.

l disco, che contiene otto composizioni tutte firmate dall’autore, gode della collaborazione di diversi artisti con i quali D’Attoma ha confezionato un lavoro di grande spessore e che offre così, un ulteriore occasione d’incontro con l’anima creativa di questo giovane pianista pugliese.

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«Alla conclusione della mia prima tournée non da musicista bensì da scrittore – apre così Donatello la nostra piacevole chiacchierata – ho riflettuto su come l’esperienza vissuta al JazzUp Caffeina Festival 2014, sia stata certamente una delle più gratificanti della mia carriera. Tutto si è svolto al meglio, grazie anche al supporto professionale di Fabio Ciminiera – giornalista, critico musicale e direttore di Jazz Convention, n.d.r. – registrando interesse e partecipazione tra i presenti.» Ti sei allora trovato a tuo agio nella veste di scrittore? «Sì, il merito di Giancarlo Necciari è stato quello di aver creduto sin dall’inizio nel mio progetto e soprattutto nelle potenzialità di un festival, come pochi in Italia, che lavora nell’intento di fare rete creando nuovi collegamenti con altre realtà italiane, non necessariamente musicali, creando così nuovi spazi per tutto ciò che a volte resta inespresso.»

Parliamo del nuovo disco, come vivi la doppia anima di compositore ed interprete dei tuoi brani? «Delle due nessuna è “la migliore”, hanno semplicemente due caratteri diversi. Io compongo con lo stesso incontrollabile impulso di chi è interessato all’ascolto come conoscenza, ovvero, di chi non spende la propria vita facendo parole crociate di luoghi comuni!» All’ascolto Watchdog è davvero un gran bel disco! Una di quelle dimensioni che segnano la carriera artistica di un jazzista, un lavoro che esprime una forte spinta di contemporaneità ed il raggiungimento di una solida maturità musicale. «Sì, comporre è un’esperienza lontana dal terreno della speculazione teorica. Io compongo e non mi passano davanti le lezioni dei miei grandi maestri, della musica che mi ha preceduto; se vogliamo, nemmeno le facce o i commenti dei posteri, hanno una qualche minima importanza. Sprazzi di vita vissuta, anni di studio, momenti di vera disperazione e di grande esaltazione. Le esperienze artistiche, quelle più gratificanti e quelle a cui non avresti mai desiderato prendere parte, sono puro inchiostro per carta. Non occorre “voler essere” – manieristi, puristi, avanguardisti, jazzisti, classicisti – e nemmeno dimostrare di essere.»

Ringraziamo e congediamo con un grande in bocca al lupo Donatello D’Attoma! Siamo certi che lo sentiremo sicuramente suonare questo disco, magari dal vivo proprio sul palco del JazzUp 2015 e, come spesso accade in questo periodo, ci sentiamo soddisfatti e ancor più motivati nel nostro difficile compito di sostenere la passione e l’impegno dei nuovi giovani talenti.

WATCHDOG Donatello D’Attoma (piano), Vladimir Kostadinovic (drums), Domenico Caliri (guitar), Francesco Angiuli (bass), Lello Patruno (drums), Luca Alemanno (bass) e Alex Milella (guitar). Prodotto per l’etichetta Jazz Engine Records, il disco uscirà il 3 novembre 2014 e sarà presentato in prima assoluta il 5 dicembre all’EXVIRI - Laboratorio Urbano di Noicattaro (BA). Aspasia Communication Tel. 338 2749156 aspasiacommunication@gmail.com

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Nuove Tribù Zulu “In India esistono infinite porte per entrare, ma nessuna per uscire.”

ono passate solo poche settimane dall’incontro avuto con le Nuove Tribù Zulu, ed è ancora caldo il ricordo di quei momenti per il pubblico del JazzUp, rapito da un modo di fare musica coinvolgente e raffinato, invaso da sonorità che riflettono l’incontro con mondi e culture affascinanti. Una musicalità che si rinnova in Diario Nomade, tracce italiane, l’ultimo loro lavoro etno-world. Un disco che porta un messaggio di unità tra diverse culture, e stabilisce un ponte musicale e creativo tra due paesi dalle tradizioni millenarie. Con Andrea Camerini, la “voce” del gruppo, abbiamo voluto comprendere meglio i contenuti dell’ampio progetto NOW (Nomadic Orchestra of the World) realizzato della band romana.

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Il “viaggio” è senza dubbio la vostra fonte d’ispirazione qual è stato il luogo che più di ogni altro ha influenzato la vostra musica? «Sicuramente l’India. C’è da dire che anche l’esperienza nella metà degli anni novanta con la comunità Rom Khorachanè a Roma, dove ascoltammo per la prima volta nell’aria la musica balcanica, ha inciso nel nostro DNA musicale. Fummo così tra i primi gruppi italiani a rivalutare certe sonorità acustiche. Oggi in Italia è diventato quasi scontato fare questa fusione e parlare di musica contaminata, al tempo eravamo dei pionieri. Nel settembre del 1998, decidemmo di partire verso oriente come fecero i mitici Beatles nella metà degli anni ’60, per cercare nuove esperienze ispirazioni e stimoli, rispetto all’ambiente culturale italiano che ormai conoscevamo fin troppo bene. Avevamo iniziato a studiare e praticare tecniche di meditazione e contemplazione ed eravamo affascinati dal “conosci te stesso” della tradizione antica dei greci. Così decidemmo di partire verso il luogo dove quella tradi-

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zione è ancora tuttora viva e accesa: l’India. Girammo da Delhi a Benares passando per Agra e Khajuraho, fino a Mumbai, per poi arrivare a Bangalore e infine a Puttaparthi, nell’esperienza dell’ashram del maestro indiano Sathia Sai Baba. Fu un viaggio importantissimo per noi, cambiò il nostro modo di percepire il mondo e segnò profondamente la storia delle Nuove Tribù Zulu. L’India ci ha insegnato a trovare un contatto profondo con noi stessi e la vita. L’India è una terra che ha in sé questa capacità di porti la domanda di chi sei veramente sulla strada che stai percorrendo. C’è un proverbio indiano che ci ha sempre colpito rispetto a Madre India: “In India esistono infinite porte per entrare, ma nessuna per uscire”.» Durante i vostri incontri con culture musicali così distanti è cambiato il vostro modo di vivere la vostra professione? «Sicuramente l’esperienza che abbiamo avuto in Rajastan nell’India del Nord, con i musicisti delle tribù nomadi, ci ha regalato uno slancio verso l’incontro con altre culture che sembrano così distanti dal no-

stro stile di vita. Nell’esperienza di questi anni in cui abbiamo realizzato il progetto NOW, che ci ha portato due nuovi album e concerti indimenticabili tra India e Italia, dando vita ad una vera e propria carovana nomade, abbiamo definitivamente compreso attraverso l’incontro con l’altro, che la musica è in grado di superare ogni barriera e muro culturale, etnico e religioso.» Da dove nasce la necessità di esprimere anche in italiano i brani che compongono il nuovo CD? «Dopo l’uscita di Banjara nel 2012 per l’etichetta Materiali Sonori, avevamo la sensazione che mancasse qualcosa. Volevamo comunicare certe esperienze anche nella nostra lingua madre, che ha una meravigliosa musicalità. Tra l’altro, ci dispiaceva che alcuni brani non avevano trovato lo spazio in quel primo lavoro, canzoni come: Verso l’India (di cui abbiamo realizzato lo scorso aprile un videoclip girato tra Pondicherry e Mumbai), Caravan, Quanto Amore, canzoni nate in viaggio, frutto di momenti indimenticabili vissuti insieme. Da questa necessità è nato il nuovo album Diario Nomade, tracce italiane.» Dove possiamo acquistare il nuovo disco? «Potete acquistare Diario Nomade richiedendolo direttamente a Materiali Sonori (www.matson.it), oppure su Amazon Italia. Nei negozi è presente ed ordinabile nel circuito Feltrinelli. Per quanto riguarda il digitale invece, l’album è presente e scaricabile su iTunes.» Ci congediamo con la consapevolezza che per la Tribù sarà sempre l’alba di un nuovo giorno, sempre in cammino su una strada di suoni che non conosce meta.

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ID s.r.l. Fare le cose e farle bene.

azzUp apre una finestra su un partner che nel corso degli anni, ha sempre contribuito a mantenere alta la voce del festival: iD S.r.l., una società di intermediazione assicurativa iscritta alla sez. A) del RUI (n° iscrizione A000451877) e di partecipazione in altri soggetti del medesimo oggetto sociale. Possiamo far risalire il primo atto al 2002 quando nasce come agenzia monomandataria la tf2 , unione di 3 diversi intermediari. iD nasce nel 2009 con l’ingresso prima di Banca Cattolica e quindi del Credito Valtellinese nel capitale sociale e di altri operatori professionisti dell’assicurazione. Probabilmente proprio questa esperienza di bancassicurazione realmente innovativa e fortemente efficace ha costituito il maggior stimolo creativo e il tratto distintivo della professionalità. La crescita di questi anni ha portato allo sviluppo della

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società e alla creazione di un gruppo che riesce a dare una risposta completa al territorio di riferimento. Basiamo il nostro modello operativo sulla People Strategy, caratterizzata da comportamenti d’eccellenza. La professionalità che contraddistingue le persone che fanno parte di questo Gruppo ci consente di fornire al cliente un servizio completo, oltre che personalizzato e specifico per le sue esigenze. La Famiglia, la Cultura, la Musica, il Lavoro, lo Sport, il Cinema: iD Il collocamento del prodotto assicurativo è sicuramente la fine di un processo. Con il nostro prodotto assicurativo garantiamo la qualità della vita delle famiglie del territorio. Ma prima di questo è necessario essere “riconosciuti”. Posizionati nella mente della famiglia come un gruppo di persone che costruiscono valore. Per questo ci siamo impegnati con

l’EstFilmFestival, aiutiamo gli amici di JazzUp, abbiamo sofferto con i ragazzi della pallavolo Tuscania, formiamo risorse umane che troveranno una professionalità, entriamo all’Università per portare “cose da fare”. Oggi riusciamo a collegare tutto questo nel Family Welfare ovvero nella convinzione che i nostri clienti futuri potranno essere quelle bambine e bambini che oggi tifano Tuscania Volley (che deve giocare al palazzetto Montefiascone per motivi tecnici), hanno fatto arrabbiare i genitori frignando all’EstFilmFestival perché annoiati e poi da più grandi hanno scelto la facoltà di Economia per poter fare il Family Welfare ESPERTO… Per tutto questo riteniamo necessario che iD sia al loro fianco.E abbiamo un unico piano strategico: fare le cose e farle bene.

i numeri 3 banche partner 27 addetti iD srl 4 agenzie/subagenzie (Tuscania-Montefiascone-Caprarola-Manciano-Porto S. Stefano) 15.000 clienti attivi 4 poli universitari di riferimento stage formazione continua per l’Agenzia (commerciale e amministrazione) formazione continua per le Banche formazione per i Partner istituzionali

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iD S.r.l. Sede legale e Operativa: Via Canino, 19 - 01017 Tuscania Tel. 0761 434495 – Fax 0761 443182 www.intermediadirecta.it

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MAGO SCIAMANO PAPA LEGBA (Via Marini, 2 - 0761 347550 - 339 3003957)

Mago Sciamano Papa Legba Via Marini, 2

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Sciamanesimo, in antropologia culturale, è un termine che indica l’insieme delle credenze ed il modo di vivere e di vedere il mondo, di società animiste non alfabetizzate, imperniato intorno ad una particolare figura di guaritore-saggio ed alla sua attività magico-religiosa: lo sciamano. Lo sciamanesimo si riferisce a una vasta gamma di credenze e pratiche tradizionali che comprende la capacità di diagnosticare e curare malattie, nonché tutti i possibili problemi della comunità e del singolo, dal come procurarsi il cibo al come sbarazzarsi dei nemici. Ciò attraverso l’asserita capacità dello sciamano di “viaggiare” in stato di trance nel mondo degli spiriti e di utilizzare i loro poteri. È questa la principare caratteristica dello sciamano che lo contraddistingue da altre forme di guaritore.Secondo svariati dizionari etimologici, la parola sciamano (per la prima volta attestata nel 1698) sarebbe entrata nell’italiano dall’inglese shaman, questo (attraverso lingue slave e germaniche) dal tunguso sanab, a sua volta dal pali samana, derivano dal sanscrito sramana che significa “monaco”. Da notare la radice indoeuropea sa– legata al verbo “sapere”. Il maestro è aiutato dalla sua allieva oxum Maria Luisa che è una entità spirituale, cartomante e sensitiva.

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artigianato

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Un cocchio di riguardo Viaggio a briglia sciolta verso antichi mestieri. G.L.

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er introdurre la rubrica dedicata ai nostri partner commerciali del settore dell’artigianato, vogliamo parlarvi un po’ degli antichi mestieri che nell’epoca moderna rischiano di estinguersi. Che possa essere di buon auspicio, magari qualcuno leggendo può avere l’illuminazione e decidere di cambiare vita (o fare una ricerca su internet), e chissà che magari tra i vostri antenati non possa uscir fuori un Ermenegildo o una Zefirina che si dilettavano tra le botteghe. Questo mese rispolveriamo il facocchio. I facocchi erano artigiani specializzati nella fabbricazione e nell’assemblaggio delle componenti necessarie per realizzare un carro a trazione animale, il cosiddetto cocchio. Questo tipo di carrozza veniva trainata usualmente da cavalli ed ebbe la propria diffusione nel XV secolo: il nome deriva dall’ungherese kocsi, che richiama la città di Kocs sita nel Transdanubio Centrale nella quale ven-

nero prodotti i primi esemplari. Da questa piccola località i cocchi sono arrivati in Francia, in Germania ed anche in Italia, dove il modello originale venne modificato rispetto alla sua forma primordiale: sopra le teste dei passeggeri comparvero comode superfici di cuoio ed ai loro lati due uscite. Insomma, non avevano la forma della macchina ma almeno si poteva evitare di inzupparsi in caso di pioggia.

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l facocchio era un vero maestro, in quanto doveva lavorare con materiali molto differenti come legno, ferro e metallo: praticamente si trattava di un falegnamefabbro che non poteva lasciare nulla al caso, in quanto c’era in ballo la sicurezza dei passeggeri.

fessione ancora resiste, e nel Lazio questi artigiani nei secoli hanno mantenuto un’ottima reputazione. Se siete abili nell’artigianato potreste pensare di mettervi all’opera, ma occhio: qualora i cocchi tornassero di moda, qualcuno potrebbe accusarvi di essere saltati… sul carro del vincitore!

Oltre a costruire, il facocchio doveva pure riparare i carri ed occuparsi della loro manutenzione, quindi per certi versi era un meccanico ante litteram. La pro-

Bonucci Laboratorio Orafo

La Fonte del Legno

Fat Cat Tattoo Studio

Piazza della Rocca, 3

SS. Cassia Nord, Km 91

Viale Armando Diaz, 54/d

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Mobili e non solo All’insegna dell’eccellenza. a Fonte del Legno è un falegnameria viterbese che vanta 30 anni di esperienza nella realizzazione di mobili su misura e fa dell’eccellenza il proprio biglietto da visita, impiegando per le proprie esclusive creazioni solo legni pregiati e materiali di prima qualità. L’offerta è vastissima e comprende qualsiasi tipo di prodotto che sia ricavabile dal legno: camere da letto, cucine, mobili da bagno, armadi, scalinate, porte, finestre, infissi e serramenti. Un profondo rispetto della tradizione artigianale, frutto di una lunga esperienza nel settore, si unisce ad una costante ricerca tecnologica per mettere a disposizione della clientela soluzioni di arredo raffinate e curate nei minimi dettagli. Il personale della struttura è altamente specializzato ed impegnato nell’eseguire un controllo costante in tutte le fasi della produzione, dalla progetta-

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zione alla fabbricazione, fino al trasporto e all’installazione. Sempre guardando all’eccellenza il ciclo produttivo si avvale dell’impiego di macchinari tecnologicamente avanzati in modo di garantire precisione e affidabilità nella creazione di manufatti di ogni tipo, dalle cucine all’arredamento da esterni. Chiunque sia interessato può richiedere un preventivo a titolo gratuito. Ricordiamo poi che tutti i mobili possono usufruire della possibilità di finanziamento, anche a tasso zero.

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L’attitudine del tatuatore

Tel. 328 6835651

A metà novembre apertura del nuovo Fat Cat Tattoo Studio.

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tatuaggi sono qualcosa di più di una decorazione: ci rappresentano, parlano di noi mediante un linguaggio preso dalla simbologia tradizionale o personale. Conoscere la cultura inerente ai tattoos è basilare, soprattutto per chi esercita la professione di tatuatore. Ne parliamo con Saverio, che ha trasformato in lavoro la sua passione e a metà novembre inaugurerà la nuova sede del suo Fat Cat

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Tattoo Studio, che potrete trovare in viale Armando Diaz 54/d: «Ho iniziato a frequentare studi e a tatuare intorno ai 17 anni. Questa passione contribuisce a farti apprezzare la cultura underground, dalla musica al writing: ho sempre apprezzato i writer, artisti fantastici che pur di esprimersi sono disposti a trasgredire le regole e ad uscire con fierezza dagli schemi». La passione per i tattoos si ricollega a quella per l’arte ed il disegno in generale: «Col tempo ho iniziato a studiare la storia e la cultura dell’affascinante mondo dei tatuaggi: di certo non mi riferisco ai modelli e ai calciatori che si vedono in tv, anzi trovo che abbiano causato l’inflazione che vediamo in giro. In realtà il tatuatore deve

prima sviluppare la passione, poi semmai renderla un lavoro: non si prende un ago in mano solo per guadagnare!». Lo stile di Saverio è quello tradizionale (old school), che presenta linee nette ed affonda le sue radici – anche nel caso dell’Italia – nella simbologia che i detenuti utilizzavano per esprimere la propria condizione. Esempi classici sono le rose, i cuori sacri o le pin-up, senza contare anche l’ampio spettro della simbologia marittima come sirene, ancore e navi: ognuno di questi disegni ha il suo significato, che un vero tatuatore deve conoscere alla perfezione: «Se un cliente vuole tatuarsi ma non ha un’idea precisa devi poter aiutarlo nella scelta del disegno adatto. Ogni persona ha una storia che può essere rappresentata sulla pelle, e la conoscenza della cultura ti permette di realizzare un lavoro ben fatto, un ricordo che resterà per sempre». XIII

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Una storia a lieto fine L’importante è fare la scelta giusta. A cura di Giuliano Servizi

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a cosa che mi fece più impressione non fu tanto l’impatto quanto la luce abbagliante dei fari che improvvisamente cambiavano carreggiata. Rimasi come ipnotizzato da quella luce, schiacciai il piede sul freno, strinsi forte il volante fino a farmi male e attesi. Passò un’eternità prima che quei fari giungessero a baciare quelli della mia macchina, poi il frastuono delle lamiere che si accartocciavano, poi l’esplosione degli airbag, poi il silenzio. Vidi l’airbag al mio lato che si afflosciava e mia moglie che ne emergeva con un gemito, finì per sgonfiarsi anche il mio, quello del volante e vidi la mia mano sinistra che ciondolava in modo innaturale. Avevo un braccio rotto. I primi soccorritori aprirono gli sportelli della mia autovettura ma prudentemente, in attesa dei soccorsi, non ci fecero scendere. Dopo un tempo indeterminato durante il quale forse mi addormentai, furono le luci delle ambulanze e dei lampeggianti dei carabinieri a farmi tornare in me. Il mio collo fu immobilizzato, così come il mio braccio, poi con tutte le cautele fui trasportato sull’ambulanza, mia moglie fu prelevata con le stesse modalità e imbarcata in un altro mezzo.

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Non so raccontare come, so solo che all’improvviso mi trovai nel pronto soccorso dell’ospedale, ormai era all’incirca l’una del mattino; nonostante ciò fui accolto e sottoposto alle radiografie e alle analisi di turno. Nei giorni successivi subii un intervento abbastanza complesso per rimettere in sesto la mia ulna e il mio radio fratturati in più parti; ancora adesso porto con me – in termini di viti e stecche metalliche all’interno del mio braccio – il ricordo di quella nottata.

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ia moglie, per fortuna, fu dimessa quasi subito con alcune contusioni ed escoriazioni. Dopo venti giorni fui dimesso anche io e se non fosse stato per il suggerimento di un amico, probabilmente adesso starei qui a raccontare le mie peregrinazioni tra forze dell’ordine, carrozziere ed agenzie di assicurazioni per cercare di recuperare il danno subito. Oltre alle visite mediche, la fisioterapia e quanto altro avviene dopo un incidente stradale. Ma non fu così, mi fu consigliato di rivolgermi ad una agenzia di infortunistica stradale, cosa che feci e grazie al rapporto di piena fiducia che si instaurò con un professionista serio, tutto diventò facile. Fu lui il mio unico interlocutore

ed organizzò il post incidente e la mia convalescenza. Non dovetti confrontarmi con attese e risposte vaghe e dopo poche settimane mi fu integralmente rimborsata una cifra congrua al valore della mia auto che era andata completamente distrutta. Anche la convalescenza si protrasse con facilità: la stessa agenzia organizzo le visite mediche e le sedute di fisioterapia, anticipando tutte le spese ed affidandomi a professionisti del settore che nel tempo dovuto rimisero in sesto il mio braccio. Ci volle un po’ di tempo ma non dovetti fare nulla se non il paziente. Nessuna preoccupazione se non l’attesa che si protrasse per qualche mese finché mi fu rimborsato il danno fisico che avevo subito.

Un incidente può capitare a chiunque, l’importante è fare la scelta giusta. I nostri assistiti la nostra migliore pubblicità.

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IN CASO DI INCIDENTE RIVOLGITI A NOI TRASFORMEREMO I TUOI PROBLEMI IN UNA SEMPLICE ATTESA

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