M E N S I L E D I D I V U L G A Z I O N E C U LT U R A L E
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Chi si ferma è perduto
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UNINDUSTRIA VITERBO Via Fontanella del Suffragio, 14 www.un-industria.it 0761228101
editoriale
Per un momento di pausa
A DECARTA Scripta volant Mensile di divulgazione culturale Numero 6/7 – Dic 2013 / Gen 2014 Distribuzione gratuita Direttore responsabile Maria Ida Augeri Direttore editoriale Manuel Gabrielli Redazione Martina Giannini, Gabriele Ludovici, Claudia Paccosi, Martina Perelli Redazione web e photo editor Sabrina Manfredi Design Massimo Giacci Editore Lavalliere Società Cooperativa Via della Palazzina, 81/a - 01100 VITERBO Tel. 0761 326407 Partita Iva 02115210565 info@lavalliere.it Iscrizione al ROC Numero 23546 del 24/05/2013 Stampa Union Printing SpA Pubblicità 348 5629248 - 340 7795232 Foto di copertina Marco Sensi I contributi, redazionali o fotografici, salvo diversi accordi scritti, devono intendersi a titolo gratuito. Stampa su carta uso mano riciclata Igloo offset Chiuso in tipografia il 21/01/2014 www.decarta.it
DECARTA DIC 2013 / GEN 2014
ncora una volta vorrei utilizzare questo spazio, come ho spesso fatto, per una riflessione. Vorrei parlare di notte e percezioni, partendo dall’esempio di una persona che non riesce a prendere sonno, una situazione che conosco bene e nella quale mi sono ritrovato moltissime volte. Questa persona immersa nel silenzio e nell’oscurità, se attenta, noterà, ora dopo ora, come la sua percezione del mondo esterno si vada affinando. Appena spenta la luce i suoi occhi, adattandosi, passeranno da un’iniziale oscurità totale alla visione del contorno degli oggetti, illuminati da un lievissimo fascio di luce che filtra dalle serrande. Comincerà a percepire dettagli nascosti dal rumore delle attività diurne, come il lavandino che goccia, gli assestamenti del palazzo e dei mobili, un cane che abbaia in lontananza e, ancora più importante, il proprio cuore che batte ed il proprio respiro. Si dice che nel luogo più silenzioso del mondo, una stanza totalmente insonorizzata, non sia possibile resistere più di 45 minuti a causa di questo progressivo affinamento dei sensi. Se potessimo spostare, nell’immediatezza di un istante, questa stessa persona insonne, dalla quiete notturna al caos di una piazza del mercato a mezzogiorno o di una via trafficata, probabilmente essa diventerebbe pazza nel giro di pochi istanti, sarebbe come sottoporre un cane ad una sessione interminabile di fuochi d’artificio.
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ome ho scritto in un articolo di questo stesso numero, probabilmente il mondo di 50 anni fa era un posto molto diverso. Allo stato attuale delle cose siamo costretti a dover sopportare un frastuono mai esistito in natura con tale costanza e peggio ancora abituati dal bombardamento pubblicitario e dalle abitudini moderne a dover anche stare attenti a questo frastuono, senza perderne un dettaglio. Perché al frastuono appartiene l’essere sempre raggiungibili da un cellulare, guardare le notizie in televisione, controllare minuziosamente facebook, andare a ballare il sabato sera, sommando queste cose a tutto ciò che non dipende dalle nostre abitudini, come le macchine che passano davanti all’ufficio, la potatura di un albero di fronte a casa e il pianto del figlio del vicino di casa alle 2 di notte. Questo stato attuale delle cose, mescolato alla sovrastimolazione causata dallo stare svariate ore al giorno e magari anche di notte davanti ad uno schermo luminoso, a meno di non avere le orecchie verniciate con l’antirombo e gli occhi di gesso, è stancante, è una situazione di stress alla quale non è mai stato sottoposto nessun servo della gleba del feudalesimo, è una tortura psicologica autoindotta. Non c’è quindi da stupirsi se gli orari di svago si stiano spostando sempre di più verso i quieti orari notturni, lontano dal rumore e non c’è da stupirsi se 3 generazioni da 50 anni a questa parte abbiano sperimentato qualsiasi sistema artificiale o autoindotto per prendere una pausa da una realtà opprimente. Quindi vi auguro di poter avere ancora, a fine giornata, la fantasia di prendervi del tempo e leggere queste pagine in un momento di pausa. Manuel Gabrielli Presidente Lavalliere Società Cooperativa
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nota bene 17
incontri
Rossini, l’ultimo capitolo di una lunga storia
Spesse le corde, di spessore la musica
Manuel Gabrielli
Gabriele Ludovici
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Pietro Rossi garibaldino, l’eroe dimenticato
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inside
Hey hey, my my… Lorenzo Rutili
Antonello Ricci 24
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addetti ai lavori
Un progetto giovane e già grande Gabriele Ludovici
Gli stivali del dottore Martina Perelli
pubblicità
acido lattico
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incontri
Chi si ferma è perduto Gabriele Ludovici
Cosa è l’infortunistica
xenofilia 27
carta stampata 14
caos letterario
redazionale
incontri
Mi lindo y querido México Emiliano Gabrielli
Storie di una libreria disordinata / 4
università
Claudia Paccosi
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report
La potenza dei monti è sconvolgente Marina Salom e Francesca Salatino
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Rossini, l’ultimo capitolo di una lunga storia Un doveroso omaggio in memoria dello storico negozio di scarpe. Manuel Gabrielli | manuel.gabrielli@decarta.it
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ino ai primi giorni di Dicembre del 2013, percorrendo via Saffi e osservando i negozi ci si sarebbe imbattuti nel negozio di scarpe Rossini. Una consuetudine considerando il numero di mattine che questa attività ha visto aprire la sua saracinesca. Oggi la serranda non viene più alzata ogni mattina e del negozio sono rimaste le vetrine vuote ed il pavimento bianco. Purtroppo sembrerebbe consuetudine anche questa; la cessazione di un’attività di questi tempi non desta più l’impressione che dovrebbe. La silenziosa chiusura di Rossini, conoscendone il proprietario, mi ha
colpito in prima persona e grazie anche allo stimolo di un amico ho deciso di scrivere qualcosa a riguardo. L’attività in questione non meritava questo silenzio. Allo stesso modo non lo meritava nemmeno il suo proprietario, Francesco Morelli, memoria storica viterbese e lavoratore instancabile. Il giorno della chiusura per motivi puramente casuali mi sono ritrovato a passeggiare proprio lungo via Saffi. Ero a conoscenza di una cessazione di attività imminente ma ugualmente rimasi colto di sorpresa dalla situazione davanti ai miei occhi. Vidi il signor Morelli e la
gentile commessa del negozio all’interno del locale, già vuoto e buio intenti nelle ultime pulizie del caso prima della consegna delle chiavi. Delle scarpe esposte e dei mobili non rimaneva altro che il ricordo. Ugualmente decisi di fermarmi per un saluto e nonostante tutto venni accolto con la stessa cordialità che ci si aspetterebbe da un negozio in piena attività. L’atmosfera era giustamente dispiaciuta, non tanto per la chiusura in sé, quanto per il non essere riusciti a salvare un nome che per 107 anni era stato legato alla città di Viterbo.
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ra l’anno 1906 quando Giovanni Rossini, qualificatosi presso la scuola calzaturiera di Roma, aprì in via Matteotti il suo negozio artigiano. Della facciata del locale venne incaricato un altro illustre artigiano viterbese, Carlo Jelmoni. La firma di quest’ultimo è ancora visibile nella pietra di facciata della gioielleria Fontana e tra le sue opere sono ancora oggi ben visibili e noti i Leoncini della fontana di palazzo dei Priori e la fontana di piazzale Gramsci.
“ Furono numerosi i personaggi
della nobiltà locale e romana che vennero serviti presso il negozio. ” Il signor Rossini aveva due fratelli, Alfredo e Mario e fu con loro che fondò nel 1914 la società dei fratelli Rossini. Di conseguenza vennero aperti due laboratori, uno militare ed uno civile. Fu in questa prima metà del ’900 che le capacità artigiane del laboratorio civile portarono lustro alla città di Viterbo; furono numerosi infatti i personaggi della nobiltà locale e romana che vennero serviti presso il negozio dei fratelli Rossini. Queste visite sono testimoniate dallo stesso signor Morelli, giovane apprendista a partire dal primo Agosto del 1944, in pieno conflitto mondiale. La sua memoria di ferro a distanza di tanti anni è ancora oggi in grado di snocciolare aneddoti legati a nomi, tra cui è giusto citare il poeta Trilussa, il conte Ruspoli, il marchese Costaguti, la duchessa MutiBussi e la famiglia di Papa Pacelli. Furono clienti illustri anche altri personaggi di origini più umili, come Vittorio De Sica, sempre accompagnato dalla duchessa Muti Bussi, Alberto Sordi ed il grande pugile Primo Carnera. Fu presso il negozio di Rossini che l’imponente boxeur si vide portare con grande stupore proprio dal giovane Morelli un paio di scarpe pronte da calzare con i suoi piedi fuori misura. Nel 1951 la ditta subì una pacifica scissione e Mario, uno dei tre fratelli, seguito da Francesco Morelli decise di 6
L’ingresso dello storico negozio sul Corso Italia (anni ’50).
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aprire un altro negozio di fronte alla chiesa del Suffragio. La grande cura che i fratelli Rossini mettevano nel trasmettere agli apprendisti le conoscenze riguardo le pelli e le varie lavorazioni è testimoniato dal lavoro svolto successivamente; infatti è sicuramente diversa la valutazione che può fare un artigiano del cuoio e della pelle rispetto ai prodotti commerciali se confrontata con quella di un semplice commerciante di scarpe. Questo il motivo per il quale nonostante il negozio ad angolo di via della Sapienza con Corso Italia non svolgesse più il lavoro di artigiano, al suo interno era possibile acquistare solo prodotti di eccellenza come Testoni, Alexander e Valentino Garavani.
“ È necessario sapere
da dove si proviene per avere idea di dove si sta andando. ” Poi nel 1978 il signor Mario morì e Francesco Morelli decise di rilevare l’attività. Pochi anni dopo, nel 1981, fu costretto a trasferire il negozio nel locale di via Saffi n. 30 insieme alle due commesse. Una di queste ultime era la persona presente insieme al signor Morelli quando assistetti alla chiusura definitiva; quel giorno finiva per loro un lavoro durato 45 anni e per il nome Rossini una storia durata più di un secolo.
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a storia che sto terminando di raccontare appartiene ad un’altra epoca e insieme a tutte le altre storie ricche di dettagli raccontate da questo gentile signore mi ha permesso di far rivivere nei miei pensieri una via Cavour commerciale, i negozi di tessuti di Magoni, Rotelli e l’ancora esistente Labellarte a corso Italia, i carri di carnevale che non passano più, i numerosi veglioni del Teatro Unione ma soprattutto mi ha fatto apprezzare l’orgoglio di provenire da una gavetta che insegnava un mestiere. Oltre che ad un altro tempo questa storia sembra appartenere ad un altro mondo, apparentemente più piccolo, ricco di personaggi e rispettoso dell’individualità. DECARTA DIC 2013 / GEN 2014
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Pietro Rossi garibaldino, l’eroe dimenticato Il caffettiere di contrada San Luca unico viterbese fra i Mille di Marsala. Antonello Ricci - Illustrazioni di Alfonso Prota
Vittoria! è quindi, per via indiziaria e sentimentale, l’avventurosa e malinconica biografia di un fantasma, delle sue sconfitte e di quelle della nazione tutta. Con il Risorgimento locale riletto secondo una prospettiva identitaria di respiro nazionale. Una pagina minore e sfortunata, e forse proprio per questo assai interessante, nel libro della gloriosa e controversa impresa dei Mille che avrebbe portato in pochi mesi alla proclamazione del regno d’Italia.
Due pagine dell’albo a fumetti “Vittoria!”, Davide Ghaleb editore
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o spettacolo teatrale (datato 2010) e il fumetto che lo accompagna quale albo di sala, entrambi intitolati Vittoria!, sono un ardente omaggio alla misconosciuta figura di Pietro Rossi (Viterbo 1820 – Castel Giorgio, Orvieto 1876). Egli è in effetti il solo viterbese ufficialmente incluso fra i Mille dello sbarco di Marsala (Regia Gazzetta Ufficiale del 12 novembre 1878). Sposato con otto figli, Rossi fu caffettiere nella sua città in contrada San Luca. Ma soprattutto, nei verbali di polizia pontificia, “pregiudicato repubblicano fin dal 1849”: volontario in Veneto nella prima guerra d’indipendenza (fino all’onore delle armi nell’as8
sedio di Vicenza), partigiano per la Repubblica Romana, espatriato per motivi politici nel 1862, forse assessore nella giunta garibaldino-democratica che governò Viterbo per 9 giorni nell’autunno 1867 (prodittatore Acerbi). Proprio a Viterbo però, dove visse e operò almeno fino al fatidico maggio 1860, di questo eroe popolare si era incredibilmente persa ogni memoria civica e istituzionale. Non una lapide non una via non una scuola gli sono dedicate. Secondo l’amaro adagio dei classici (nemo propheta in patria) nella nostra comunità di lui non resta traccia. Nemmeno un rigo nelle storie dei localisti nostrani.
Riscoperta di un eroe Fui io a rispolverare dall’oblio cui era stata condannata la biografia di Pietro Rossi. Biografia tanto eroica quanto frammentaria (per non dire “fantasmatica”: mille i fili sospesi, scarsissimi i dati d’archivio certificati). E a trarne infine il racconto in Vittoria! E forse proprio per questo di tale splendida figura di italiano (tutta da riscoprire e di cui far innamorare i giovani) continuo a sentirmi in qualche modo “ostetrico”. Perché non si disturbano invano i morti nel loro giusto sonno. Un uomo non è che la sua storia, l’ardore di una sua fede, il coraggio di certe sue scelte e – magari – la fortuna propizia conseguita dalle sue gesta. Patrimonio di tutti. Un uomo non è che l’esempio saputo lasciare in dono per le future generazioni. Ancora oggi, perché no? Pietro Rossi non è un bene tutelabile con riconoscimento UNESCO, ma resta un eroe nazionale, un pezzo delle fondamenta di questo Paese, di cui prenderci cura narrandone vita e imprese ai figli ed ai nipoti nostri. Quale migliore riconoscimento allora, per il piccolo eroe garibaldino viterbese dimenticato, di una epigrafe da DECARTA DIC 2013 / GEN 2014
Vai su Decarta online per il video di Pietro Rossi, uno dei Mille eseguita dal vivo dalla Ciapica’s Yellow Mama Band.
affiancare – semplicemente affiancare – a quella che già intitola la novella (e bella e centralissima e visitatissima) piazza Unità d’Italia?
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er questa linea, si sono fin qui battuti in molti. Alfonso Prota, per esempio, che nel 2010 trasformava il mio racconto in un bell’albo a fumetti che ha fatto conoscere il nostro eroe ben al di fuori dei confini della Tuscia. Davide Ghaleb editore, il santissimo, che quell’albo stampò e diffuse quanto poté. La Banda del Racconto tutta, Pietro Benedetti in testa, che per più di un anno portò ovunque in scena la malinconica e avventurosa vita di Rossi Pietro garibaldino. Ma anche Silvio Ciapica, ufficiale della Forestale che da tanti anni nobilita il nome di Viterbo a Genova e in Liguria: dalla saturnina parabola di Pietro Rossi, Silvio, canzonettaro di razza, ha saputo cavare un inno rock che gira su youtube ch’è una bellezza. E Martin Grice, da quarantanni il flauto dei Delirium: da alcune estati, a Caffeina, Martin delizia il pubblico della Yellow Mama Band anche col suo dolcissimo a-solo per quella canzone. Devo proseguire? Proseguo. Il brusio editoriale e telematico di questa nostra ricerca artistica ha infine snidato gli introvabili pronipoti dell’eroe Pietro: la dolcissima suor Graziella (pronipote laterale) e il signor Aldo (pronipote diretto). Aldo, in particolare, è colui che ha saputo “chiudere” il nostro lungo viaggio: ci ha raccontato infatti di quando, era bambino, in visita a casa di suo nonno Garibaldi Rossi, vedeva ogni volta appeso in corridoio quel gran diploma del bisnonno Pietro, era il diploma dei Mille di Marsala… DECARTA DIC 2013 / GEN 2014
L’epigrafe che non c’è
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Gli stivali del dottore Genesi ed evoluzione dei Dr. Martens. Martina Perelli | martina.perelli@decarta.it - Foto di Alberto Scaglietta
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i sono frasi che sento e ripeto più di altre e questo accade perché sono quel che sono. In quanto me stessa parlo spesso di cibo e moda e questo mi rende perfettamente inquadrabile nella media italiana. Le ragazze di ventitré anni coltivano passioni più o meno profonde, tra le mie c’è quello che chiamo “l’osservatorio”. C’è chi i fenomeni li guarda dall’alto e chi se ne fa pioniere, chi apre le strade e chi le segue. Io per lo più osservo. Osservo fin dall’adolescenza quando ero solita sedermi con qualche amica sui gradini della fontana di piazza delle Erbe. Possiamo dire che lì ha inizio lo studio antropologico che, in
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parole povere, consisteva nel guardare i passanti e commentare questa o quella moda. Praticavamo il pettegolezzo e lo facevamo passare per grande critica, ecco. In questi giorni sono tornata a farlo, magari non seduta ad osservare i passanti con l’amica di turno, un po’ perché il tempo libero stringe, un po’ perché commentare l’abbigliamento delle coetanee riconosco denoti una certa puerilità. Però osservo e osserva qua e osserva là ho notato che le strade della città sono diventate una sorta di campo militare. Vedo i piedi delicati di giovani fanciulle calzare scarponcini che di delicato hanno ben poco. Ma sono comodi? Ma sono belli? E domanda delle domande: ma sono tornati di moda? Sì, sono tornati di moda. Quello di cui vi parlo è un modello di scarpa che ha fatto la storia, uno di quelli che se vai bene a guardare in casa ne trovi di sicuro un paio. O per-
ché la sorella di tua madre ai bei tempi aveva la velleità di dirsi punk, o perché al nonno nostalgico ricorda la fase storica in cui “si lavorava, si faticava e queste erano scarpe buone”. O, ultimo dei casi, la sorella minore le ha viste indosso alla super modella e in tv hanno detto che è questo il must have della stagione indi per cui lei deve averle. Io ho rovistato a fondo eppure non le ho trovate, anche se mia madre dice che c’erano, che aveva un paio di mitiche Dr. Martens modello 1460, color ciliegia.
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e le aveva non può averle gettate via, non si getta un mito che è parte integrante della storia del Novecento: durante la seconda guerra mondiale l’esercito tedesco indossa scarponi in pelle duri, resistenti. Sono scarpe che devono proteggere, calpestare, resistere. Scarpe sì resistenti, ma una tortura per il piede infortunato del Dr. Klaus Maertens che, a guerra ultimata, escogita una suola diversa contenente un cuscinetto d’aria. Più dinamica la suola, più morbida la pelle, le Docs sono scarpe destinate a superare i confini dello stivaletto da combattimento. Si affacciano sul mercato e già nei primi anni Cinquanta lo conquistano. Perché allora non guardare oltre? Anche al di là dei confini nazionali ci sarà qualche lungimirante imprenditore pronto a produrre “le scarpe ammortizzate”. Ed ecco l’incontro che trasforma una trovata fortunata in storia: la Gringgs & Co., azienda inglese produttrice di scarpe all’attivo già dai primi del Novecento, compra il brevetto, anglicizza il nome di Maertens in Martens e mette gli stivaletti sul mercato. E da allora indossare una Doc modello 1460 ad otto buchi e color ciliegia non significa solo essere appassionati di stivaletti rossi. Gli Skinheads ne fanno la loro scarpa simbolo, in un momento in cui testa rasata non significava “fare paura”, DECARTA DIC 2013 / GEN 2014
paio, ché scarpe del genere è sempre meglio averle. Voglio anche io il mio personalissimo pezzo di storia. Se si vuole un feticcio simile al giorno d’oggi dove si va? La risposta è chiara e semplice: su internet. Un minimo di titubanza però ce l’ho, vuoi vedere che te lo compri su internet? Ma dai, ma no. O forse sì, ma la ricerca sarà difficile. Mi preparo psicologicamente a sudarmelo il mio pezzo di storia. Google. Dr Martens. Sito trovato, in meno di due secondi. Magari sarà una specie di portale in cui se ne ripercorre la storia. Magari sono disponibili solo pochi modelli, i classici. Come a dire “tutti voi dovete avere questo pezzo di storia”. Dopo essermi persa per qualche attimo nei forse e nei magari mi decido a guardare lo schermo. Il pensiero è uno e non è neanche gradevole a esprimersi: le Dr. Martens si sono prostituite al mercato. Aprire questo sito non è diverso dall’accedere a qualsiasi altro portale di moda prêt-à-porter: una vasta selezione di modelli uomo-donna-bambino, scarponcini di ogni fantasia e modello, accessori per lui e per lei. Non sia mai che manchi l’accessorio! Venduto a caro prezzo, aggiungerei.
non significava inneggiare a un credo politico estremista. Non era nulla di tutto ciò. Significava essere giovani, per lo più proletari, amare un certo genere di musica e farlo capire anche attraverso le Docs. E se in ogni movimento, in ogni sottocultura la degenerazione è dietro l’angolo, così sarà anche per le Docs, da scarpa-icona giovanile a strumento politico. Indossare un modello piuttosto che un altro significa appartenere ad una determinata fazione: le stringate basse a tre buchi per i militanti di sinistra, i modelli a otto buchi per “chi deve riportare l’ordine” e infine i modelli più alti a dieci, dodici, quattordici buchi per gli Skins. Dopo il momento di gloria degli anni Sessanta e un breve declino, ecco riapparire le Docs nella seconda metà degli anni Settanta. La scarpa è sempre quella, chi la indossa non saprei. Sono i Punk inglesi, sono giovani, seguono la musica Punk-rock, indossano pelle borchie e Dr. Martens. Con loro le indossano anche i DECARTA DIC 2013 / GEN 2014
membri dei vari gruppi musicali, ne fanno un’icona ed ecco che, se sei Punk, non puoi non indossarle. Passa il tempo e interviene il meccanismo proprio di tutte le sottoculture: cala la popolarità dei gruppi, calano le luci su chi vi appartiene e ci si reinventa, si lasciano le Docs nell’armadio. Ogni tanto spuntano fuori e ora, negli anni Dieci del Duemila, tornano in auge. La storia è ciclica e quella della moda non ne è esente. Sarà un caso o forse no che proprio quest’anno il marchio è stato comprato dal colosso britannico Permira. Sarà un caso o forse no che ora le Docs sono ovunque, probabilmente ne faranno un modello anche per i chihuahua viziati che vediamo in giro con completini improbabili, poveri cani.
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cco, dopo questa storia avvincente magari penseremo di avere in casa un cimelio vero e proprio, un pezzo di storia. E pensare come l’abbiamo sottovalutato, bistrattato quello scarponcino. Quasi quasi corro a comprarne un
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o scarponcino della qualità e della praticità ha cambiato faccia, come dire. Snaturato nella sua essenza di scarpa pratica prima e icona delle sottoculture poi, ora è pronto ad essere indossato dalle “figlie di papà”. Quelle che sono corse in negozio quando lo scorso anno il marchio ha prodotto una linea speciale in collaborazione con Swarovski e lo stivaletto “da guerra” è stato tempestato di gemme. Per lo più nel modello a tre buchi, le mitiche 1461 prodotte a partire dal 1961. Le stringate più trendy del momento, così le hanno chiamate. Come scintillavano, come erano cool. Da non dimenticare anche il modello vegan. Proprio così. Non che io sia il male fatto persona e uccida animali per diletto, ma la Dr. Martens vegan proprio no. Lo scarponcino di pelle che ha fatto la storia non è più di pelle. E non ci sono più le mezze stagioni. E in qualche modo, secondo me, Benjamin Griggs e Klaus Maertens si rigirano nella tomba. Io alla fine il mio pezzo di storia non l’ho più comprato, voglio credere che da parte mia sia stato rispettoso. 11
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Chi si ferma è perduto Intervista a Michele Sensi, pilota di motocross montefiasconese. Due pagine dedicate al sacrificio necessario per girare la manopola del gas. Gabriele Ludovici | gabriele.ludovici@decarta.it - Foto di Manuel Gabrielli
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a prima cosa che viene in mente quando si pensa al motocross è indubbiamente il fango, tra percorsi sterrati attraversati da dislivelli su cui si danno battaglia degli spericolati motociclisti. Questo sport nasce negli anni Venti dalla diffusione delle gare trial, in cui veicoli di vario genere si contendono la vittoria su piste disseminate di ostacoli, naturali o artificiali. Il motocross, inizialmente noto come scramble, diventa ben presto popolare nel Regno Unito grazie alla spettacolarità delle gare, facendo nascere in seguito un lungo filone di innovazione tecnologiche e la costituzione di campionati internazionali. Attualmente guardare una gara di motocross è senza dubbio emozionante, senza contare i numerosi show dove i crossisti più tecnici si esibiscono in evoluzioni mozzafiato. Per scoprire la realtà che si cela dietro questo sport motoristico abbiamo intervistato Michele Sensi, crossista venticinquenne che quest’anno disputerà per la seconda volta il Campionato italiano. 12
Per riuscire nello sport occorrono grandi sacrifici ed in alcuni casi, quando ancora si vive lontani dalle luci dei riflettori, la necessità di affiancare all’attività agonistica pure un lavoro, perché in qualche modo a fine mese bisogna arrivare. Per Michele affiancare gli impegni sportivi alla vita professionale non è una passeggiata: «Lavoro come agente di commercio per una nota azienda di prodotti caseari: mi occupo della vendita e del trasporto dei prodotti presso le attività commerciali alimentari come ad esempio i supermercati. Ho degli orari piuttosto particolari perché il mio lavoro si svolge quando le attività sono ancora chiuse, quindi devo svegliarmi verso le tre e mezza di mattina e finire solo per l’ora di pranzo. Si tratta di un lavoro impegnativo, sia a livello di testa che di fisico, ed impone una grande organizzazione dei tempi, eliminando qualsiasi stravizio. Se di notte sono occupato, ho però il pomeriggio libero per gli allenamenti... bisogna essere metodici, ma sono contento di aver trovato questo impiego».
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ensi ha iniziato da piccolo ad amare il mondo delle moto: «Questo è il mio decimo anno di attività agonistica, ed ho iniziato in quanto avevo una pista vicino casa e mi ci recavo tutti i giorni per assistere alle corse. La mia prima moto è stata una Yamaha 125 del ’92 che mi permise di realizzare il sogno di buttarmi in pista. In seguito ho carpito con gli occhi i segreti degli altri piloti e dopo il primo anno di allenamenti in pista decisi, quasi per gioco, di disputare una gara. Anche se non andò benissimo, mi spinse a proseguire, fino al salto verso le gare regionali». Inizialmente Michele non ha un vero e proprio mentore che gli insegna i trucchi del mestiere, ma può contare sul supporto della famiglia ed in particolare del padre, che ha un passato nel mondo delle corse. A dirla tutta si tratta di corse equine, ma il brivido della velocità è sempre quello no? Tornando alla carriera di Sensi, i primi riconoscimenti arrivano con i successi regionali, vincendo un titolo con la Yamaha ed in seguito con la Suzuki. Gli impegni di lavoro non gli impediscono, DECARTA DIC 2013 / GEN 2014
nel giro di pochi anni, di avvicinarsi sempre di più al mondo delle gare nazionali: «A livello agonistico, questo anno è iniziato con un quarto posto in una gara di categoria over 21 di livello nazionale disputata a Montevarchi, ma in seguito a causa di infortunio ho concluso il torneo al decimo posto. In questo periodo però ho trovato una persona con una grande esperienza nel campo del motocross e delle moto da squadra, ovvero Pietro Lagni: mi aiuta psicologicamente e tecnicamente, oltre a darmi una mano per quanto riguarda la parte della meccanica. Oltre ha lui, posso contare anche sulla sponsorizzazione della Cantina Leonardi».
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li allenamenti dei crossisti sono più duri di quanto si potrebbe pensare: per Michele significano non solo il contatto con la moto sulla pista, ma anche un lavoro a livello fisico per padroneggiare al meglio il mezzo. La schiena deve essere solida, la stretta di gambe salda e le braccia forti; per questo, oltre alla tecnica è necessario affinare il corpo attraverso la palestra, la corsa e l’aerobica, allo scopo di avere i muscoli belli tonici. I risultati si vedranno poi durante le gare: «Questo sport può dare emozioni indescrivibili, rispecchia la vita di una persona perché bisogna allenarsi per raggiungere un obiettivo. Inoltre, nel motocross il pilota conta molto di più rispetto ad altri sport motoristici. Quando sono in sella io mi sento libero, è come uno sfogo: se non mi allenassi per una settimana, avvertirei la mancanza della moto». Gli chiedo se ha un modello a cui si ispira e risponde senza esitazione che si tratta del crossista statunitense Ryan Villopoto, pluricampione in varie categorie del Campionato AMA (il principale campionato americano), di cui apprezza il grande impegno che mette negli allenamenti. Secondo Sensi inoltre il motocross è uno sport sicuro: «Vedendolo in televisione sembra pericolosissimo, ma con le attuali protezioni si può stare tranquilli. Sì, mi è capitato di infortunarmi, ma bisogna considerare che si corre a velocità non elevate».
tutto l’impegno possibile». Dopo aver corso nel team Petriglia nel 2013, Sensi prepara la nuova stagione alle porte che prevede a febbraio la prima gara Internazionale d’Italia presso Montevarchi, che a detta sua sarà un test molto pesante e duro per valutare le sue potenzialità al cospetto di piloti provenienti da altri paesi. In attesa di ultimare la propria pista di allenamento personale, Michele si reca spesso presso la pista di Castiglione del Lago e mi rivela che per un crossista il percorso rimane sempre un’incognita: «Le piste normali rimangono sempre uguali, al massimo le condizioni del tempo determinano qualche cambiamento, ma nel motocross ogni volta il terreno cambia aspetto e per questo non si può dire che ognuno di noi possa avere un circuito preferito». Mentre mi racconta la sua giornata tipo – che prevede un tour de force con
poche varianti sul tema – penso che ci debba essere davvero una motivazione forte per andare avanti: «A spingermi a proseguire a correre sono i miglioramenti che vedo dopo ogni allenamento… ed è sempre come se salissi sulla moto per la prima volta, dopo dieci anni di fatiche ancora oggi rimango stupito dai molteplici aspetti di questo sport. Ci sono così tante cose da imparare che non si finisce mai». Michele lascia la nostra redazione – e visti i suoi tanti impegni, quasi mi dispiace di averlo scomodato! – e torna verso casa; per lui la sveglia suonerà prestissimo, e segnerà l’inizio di una giornata molto dura ma che rappresenterà un altro tassello in un percorso che potrebbe lanciarlo ai vertici del motocross. Ma quando si riesce ad uscire intatti da un inferno di fango, di cosa si può avere paura?
Le aspettative per questa stagione, che si prospetta fondamentale, non sono basse: «Cercherò di vincere il Campionato italiano della mia categoria mettendoci DECARTA DIC 2013 / GEN 2014
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Storie di una libreria disordinata / 4 “L’orologio” di Carlo Levi: la Roma del 1950, tra nuove forze politiche, lunghe passeggiate notturne e il fastidioso ticchettio di un orologio da taschino. Claudia Paccosi | claudia.paccosi@decarta.it
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ra polvere e disordine, fra pagine ingiallite e copertine consumate un distinto, fastidioso e meccanico ticchettio batte i secondi, è un cronografo Omega, da taschino, senza catena d’oro che abita dentro un libro, un libro austero, lineare, bianco. È L’orologio di Carlo Levi, un librettino in brossura, dalla copertina morbida e fin troppo seriosa, Einaudi, pagine sottili e caratteri classici, in copertina l’immagine (ovviamente) di un grande orologio di legno, slanciato e malinconico, posato su una grigia spiaggia di sabbia ondulata dal vento. Da alcune settimane ha trovato spazio fra gli altri, è stato spinto a forza fra un vanitoso libro di cucina austriaca e Il gigante, il grande atlante geografico, imperante a lato della libreria, tronfio delle sue pagine preziose in cui fiumi, monti e capitali si intrecciano in un caos cosmopolita, le carte sono magnifiche, enormi, ma sono state aperte solo poche volte e per ricevere uno sguardo distratto. L’orologio è un romanzo infastidito, le sue pagine sono state sottolineate, rigorosamente da una matita Staedtler blu appuntita, ma questo oltraggio, questo atto di vandalismo lo disturba, le sue pagine non sono più immacolate, molte frasi sono state segnalate, con forza, sulla carta. Forse serviva per qualche esame di letteratura, forse la padrona ci ha studiato. Lei non sottolinea mai i suoi romanzi, sono tutti impeccabili. Strano a dirsi, visto il suo disordine. I romanzi sono bianchi, le perfette file di caratteri non hanno alcun segno esterno alla grafica iniziale. I libri di studio, quelli invece 14
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sono distrutti, colorati con evidenziatori, scritti con penne di ogni colore, un disastro. L’orologio è un libro particolare, è sottolineato, ma non evidenziato, forse lo ha studiato, ma lo ha anche rispettato, senza mettergli un variopinto abito di colori iridescenti, ma solo poggiandoci sopra una veste grigiastra. L’orologio forse, oltre ad essere stato studiato, è stato amato.
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uesto mese quindi da robusta libreria disordinata, un po’ vivente, ho scelto dalle mie braccia di pino questo piccolo libro sottolineato, morbido e bianco, un po’ come la neve, che in questo dicembre natalizio potrebbe scendere, di certo non in questa grigia Viterbo, forse però in qualche lontano paese nordico coronerà di candido gli al-
beri del parco e coprirà con la sua fredda coperta le casette dai tetti spioventi delle quali, nel buio della notte, si può vedere solo la calda luce di una finestrella, come l’occhio luminoso di una civetta nell’oscuro bosco. L’orologio è un romanzo-testimonianza scritto da Carlo Levi – il famoso scrittore di Cristo si è fermato a Eboli – e pubblicato nel 1950. È il lungo racconto, o meglio la lunga passeggiata di un italiano nella Roma del dopoguerra. Carlo Levi è un giornalista, che nella sua arrangiata redazione, incontra intellettuali e politici dell’epoca della rinascita. È costretto a scrivere i suoi appunti su vecchi fogli del partito fascista e a passare la notte nella sala della stampa dove la luce salta spesso e con tutta la compagnia DECARTA DIC 2013 / GEN 2014
sono costretti a trascorrere ore in una piccola osteria. Il romanzo, racconto, scritto o testimonianza di Carlo Levi è una stupenda ed efficace descrizione della Roma meravigliosa, della Roma degli anni ’50 che noi non possiamo conoscere, della Roma che si racchiudeva attorno alla barcaccia di piazza di Spagna, della Roma che attraversava il traforo di via Nazionale solo per chiacchierare, a braccetto, con due amici.
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arlo Levi ha un orologio, dono del padre per la laurea, è quell’Omega senza catena d’oro che ticchetta nella mia libreria, è insistente e soprattutto prepotente, il protagonista, secondo la passata usanza, lo teneva riposto, con cura, nel taschino della giacca, proprio sopra al cuore. Due tempi quindi, quello umano e quello meccanico battono senza mai sincronizzarsi, lento il primo, rapido e cieco il secondo, in una continua corsa alla vittoria, uno contro l’altro, per raggiungere il traguardo, un traguardo irraggiungibile per lo strumento meccanico che inesorabile sembra non avere mai fine e triste per il cuore umano, pulsante sangue e creante cellule che raggiunge la vittoria solo quando stanco deve ormai spegnersi. L’orologio è anche il racconto di una politica diversa, della politica della ricrescita dopo il totalitarismo, del Partito d’Azione e del governo Parri, durato pochi mesi. È lo specchio di un’epoca vitale e carica di cambiamento, forse anche troppo per riuscire sempre a realizzarsi. È lo specchio di giornate passate per le strade, a camminare, fino a raggiungere
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esausti la propria casa e scontrarsi terribilmente con la morte, un vicino caduto per le scale, e la paura della morte, un cane che abbaia e si dispera, protegge il suo padrone fino a proteggere sè stesso. È la storia di un uomo che, come diceva Stendhal, porta con sè uno specchio a tracolla che rispecchia il mondo. Con questo specchio rispecchia uomini, donne, ricchezza e povertà, rispecchia una vita fuori dalla storia, che giunge agli eventi solo quando sono già finiti, rispecchia la storia di un uomo che rompe il suo prezioso orologio, la storia di un sogno e della realtà che diventano profeticamente quasi identiche.
Il resoconto di Carlo Levi è lo straordinario specchio di Roma, di una Roma che oggi non riusciamo a conoscere o meglio a riconoscere, è la descrizione di tutte quelle meraviglie che oggi ci sembrano invisibili perché parte di una città troppo disordinata, caotica e aggrovigliata. È il dipinto della Roma magica, mistica e bellissima dove “La grande luna cittadina, altissima in cielo, si chinava come una madre sopra le architetture… e si sente venire di lontano… l’arcano rumore della notte, il ruggito dei leoni, come l’eco del mare in una conchiglia abbandonata.”
Carlo Levi L’orologio Einaudi, Tascabili, 2006 pp. 324 - euro 11,50 ISBN 9788806181635
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incontri
Spesse le corde, di spessore la musica Il rapporto con lo strumento, il percorso come artista e i progetti di Enrico Mianulli in un’intervista a cura di Gabriele Ludovici. Gabriele Ludovici | gabriele.ludovici@decarta.it
“ La musica è una legge morale. Essa dà un’anima all’universo, le ali al pensiero, uno slancio all’immaginazione, un fascino alla tristezza, un impulso alla gaiezza, e la vita a tutte le cose. ” (Platone)
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sempre bello scoprire che il panorama musicale non è così spento come si è portati a pensare, bensì pregno di progetti, novità ed artisti che riescono a vivere dell’arte delle sette note partendo da realtà locali ed arrivando a livelli notevoli. Questo è il pensiero che ho elaborato dopo aver intervistato Enrico Mianulli, musicista jazz viterbese attivissimo su numerosi fronti, tra cui l’insegnamento; i suoi strumenti sono il basso elettrico e il contrabbasso. «La musica è qualcosa che hai dentro, nasci così. Ha un potere trascendente simile ad una magia, alcune persone ne sono letteralmente stregate… a me fa questo effetto ed è così fin da quando ero piccolo». Gli esordi musicali di Enrico sono legati ad un progetto liceale in cui suona la batteria: inizia a studiarla presso la Staff ed insieme a Claudio Gioannini, ma non potendo possederne una in casa e quindi essendo impossibilitato ad esercitarsi per bene decide di volgere il suo interesse al basso elettrico sotto la guida di Stefano Cesare: «A me interessava la sezione ritmica, essere il motore del gruppo. Mi avvicinai in seguito al contrabbasso perché ha maggiori potenzialità soliste rispetto al basso elettrico. Ha dei colori più belli e mi emoziona di più, si tratta proprio di un rapporto diverso.
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Enrico Mianulli in concerto (foto di Antonio Patara Corradini)
Quando lo suono, riesco a fare tutto ciò che mi viene in mente senza meccanicismi, e questo nell’improvvisazione è fondamentale. È un discorso simile al parlare: se uno ha dimestichezza con la lingua, trova più facile passare dal pensiero alla parola». Tra gli artisti che ammira di più Mianulli cita Eddie Gomez, contrabbassista portoricano che in carriera ha collaborato con artisti del calibro di Bill Evans e Chick Corea: «Ho avuto la fortuna di conoscerlo durante il mio percorso di studi, ed ora siamo rimasti amici. Ero rimasto molto colpito da un paio di suoi album
usciti alla fine degli anni Settanta, sono partito da lì e poi ho scoperto a ritroso tutte le sue composizioni. Di persona è addirittura migliore di come appare, sul piano umano è adorabile». Altri jazzisti apprezzati da Enrico sono Ron Carter, Paul Chambers, Buster Williams e Benny Golson: di quest’ultimo, ricorda una bella esperienza: «Quando venne a Ronciglione per tenere un seminario decise di creare delle composizioni con l’organico che aveva a disposizione. Per me è uno dei migliori compositori viventi e di sempre». Non gli si può dare torto: a 17
incontri 84 anni Golson vanta ancora un impegnativo calendario di esibizioni, tra gli Stati Uniti e l’Europa.
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ianulli studia due anni al Conservatorio Briccialdi di Terni e parallelamente inizia ad esibirsi sul territorio con il contrabbasso ed il basso elettrico, anche in un gruppo ska. Frequenta in seguito oltre quaranta seminari di Tuscia in Jazz prima come alunno, poi come assistente ed interprete dei numerosi artisti americani che intervengono: gran parte della sua formazione musicale arriva da questo cammino: «Con questi musicisti americani ho stretto dei rapporti umani e di collaborazione nelle vesti di free-lance, visto che alcuni di loro venivano in Italia senza sezione ritmica». Nel 2006 ad esempio funge da assistente alle masterclass italiane della cantante americana Shawnn Monteiro, registrando in seguito un disco assieme a lei.
serata trionfale perché il verdetto a nostro favore risultò unanime. Ricordo con ancora più piacere la serata al Teatro Tenda di Viterbo, in cui mi sono esibito in un nonetto composto da miei amici, davanti al pubblico della mia città, tra cui tante persone a cui voglio bene. Ho suonato ovunque in Italia, ma la soddisfazione di aver fatto registrare il tutto esaurito a Viterbo è stata grande. Era la prima volta che un progetto simile, peraltro partito da me, otteneva tale risultato». Il nonetto citato è il corpo della Enrico Mianulli Cool Jazz Orchestra, il collettivo di cui fa parte oltre alla Roma Big Band. Mianulli cita anche l’esibizione al Narni Black Festival, dove ha avuto l’occasione di suonare assieme a Karl Potter ed alla cantante Amana Melomè, con cui tutt’ora collabora ed ha persino recitato insieme a lei, nella parte di se stesso in qualità di contrabbassista, in una puntata di Un medico in famiglia.
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ttualmente Enrico sta portando avanti l'Orchestra Jazz della Tuscia, che organizza laboratori di jazz orchestrale aperti a tutti. «Lavoro affinché il progetto possa diventare una presenza stabile sul nostro territorio e fuori. Nel frattempo sto completando un triennio di studi al Conservatorio di Frosinone focalizzato sull’arrangiamento e collaborando in numerosi progetti musicali assieme agli amici di sempre, come Massimo D’Avola (sassofonista con cui ha dato vita ad un trio esibitosi al JazzIt Fest di Collescipoli), Stefano Angeli, Dario Panza, Federico Lacerna, Andrea Araceli, Michi Villetti e Domenico Sanna, con cui tornerò a suonare in Repubblica Ceca». Assieme al pianista Sanna, a febbraio ha partecipato ad un tour di cinque date in terra ceca, suonando a fianco della cantante Marie Puttenerova e del batterista Vladimir Trebicky, entrambi artisti locali. Tornando ai laboratori di
© Antonio Patara Corradini
La possibilità di esibirsi a fianco di grandi interpeti dà i suoi frutti ed arrivano degli importanti riconoscimenti, tra cui quattro premi internazionali: «Nel 2009 ho vinto il premio Tiberio Nicola al Festival Internazionale Jazz di La Spezia. Il gruppo era iscritto a nome mio ed ho suonato assieme a due amici olandesi che sostituirono altri due miei amici che non poterono venire in Liguria… nonostante questo, risultammo la migliore band ed io il miglior contrabbasista. Erano presenti numerosi artisti di caratura internazionale e tantissimo pubblico, fu davvero una
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© Antonio Patara Corradini
Con Aldo Bassi e Gegè Telesforo
jazz, essi sono aperti tutto l’anno e si tengono presso la sede della compagnia teatrale Tetraedro di Francesco Cerra (per saperne di più conttatate info@ orchestrajazz.com, ndr).
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a buona riuscita del progetto si basa su alcuni assiomi positivi: «Molti a Viterbo si lamentano della situazione della scena musicale per partito preso, come se fosse un aspetto della no-
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stra cultura. In realtà in giro sento cose belle e stimolanti, ci sono tanti artisti validi. Tuttavia bisogna considerare che se per anni l’Italia è stata una nazione che ha esportato arte, diventando meta degli studenti di tutto il mondo, ora sembra quasi che la cultura rappresenti un costo, mentre invece dovrebbe essere il punto di forza del nostro PIL. Ad esempio, nonostante i nostri Conservatori non abbiano le strutture di quelli esteri, sono frequen-
tati persino dagli studenti asiatici. Il motivo? Le opere che studiano sono state scritte qui in Italia…». Almeno possiamo stare tranquilli che continueremo a sentire “nessun dorma” invece che “nobody sleeps”. In mezzo a questo scenario, chiedo ad Enrico di spendere delle parole per tutti coloro che si avvicinano alla musica: «Bisogna considerare che i musicisti migliori sono quelli che amano di più la musica, riuscendone a cogliere al volo le sfumature senza aspettare qualcuno che gliele mostri. Il mestiere del musicista consiste nell’ascoltare la musica: non si può suonare senza ascoltare, ed ora è più facile avvicinarsi ai grandi maestri per sciogliere ogni nostro dubbio. Rispetto al passato, possiamo ascoltare tutta la musica che vogliamo in qualsiasi momento, compresi i musicisti del passato». Mianulli inoltre si sofferma su come il duro lavoro porti sempre delle soddisfazioni: «Se sei bravo, lavori. Faccio l’esempio di quando Kurt Rosenwinkel e Rosario Giuliani vennero ad esibirsi al Festival di Bagnoregio: serviva un contrabbassista che imparasse presto a suonare la loro musica e contattarono me. Insomma, se uno sa fare le cose per bene ha buone possibilità di essere cercato: per questo motivo saper leggere la musica è importante». Per concludere, torniamo a parlare delle emozioni delle sette note: «La musica agisce su una sfera enorme del cervello rispetto alle altre arti, è più facile svegliarsi con in testa una canzone invece che con un quadro o un verso di Dante. Inoltre la musica non ha la barriera della lingua: un pianista russo può suonare un’opera italiana insieme ad un jazzista americano, senza alcun ostacolo».
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Organizzato da
Grazie al sostegno di
In collaborazione con
Con il patrocinio di
ADI-SD Associazione degli Italianisti Sezione Didattica
Liceo Ginnasio Mariano Buratti Istituto Tecnico Leonardo da Vinci Liceo Scientifico Paolo Ruffini Istituto Istruzione Superiore Francesco Orioli Istituto Comprensivo Carmine
POETICA
Gli studenti delle scuole superiori recensiscono i poeti di oggi e i loro testi inediti.
VITERBO SALA GATTI
25 gennaio
8 febbraio
22 febbraio
PAOLO FEBBRARO
JOLANDA INSANA
ELIO PECORA
I tre incontri sono gratuiti e aperti al pubblico, si terranno alle ore 11 – nei giorni indicati – presso la Sala Gatti in via Macel Gattesco, 9.
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Hey hey, my my… Il nostro corrispondente dall’Inghilterra ci racconta i gusti musicali in terra britannica e le differenze con l’Italia. Lorenzo Rutili
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titoli d’articolo non sono la mia specialità, quindi eccoci ad aprire con un’altra citazione. Neil Young cantava anni fa questo ritornello, a cui seguiva l’immarcescibile motto, “rock’n’roll will never die”. Sono passati svariati decenni da quando questo refrain scalava le classifiche e fondeva i transistors delle radio, ma oggi si può ancora dire la stessa cosa? Guardandomi (e ascoltandomi) intorno nell’algida Albione, che pure è stata tempio di tante leggende del rock e non solo, la risposta è: il rock’n’roll è vivissimo, sta piuttosto bene, ma vive in libertà vigilata. Se come giornalista sono un novellino, come critico musicale lo sono ancor di più, ma cercherò di improvvisarmi un Bertoncelli di sottomarca della situazione: ecco alcuni aspetti che ho notato nella forma mentis musicale del grosso pubblico britannico.
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La differenza tra l’approccio dei giovani italiani e di quelli britannici in proposito è impressionante: per questi ultimi già la parola “rock” da sola privata del suo suffisso “’n’roll” è considerata obsoleta. Ciò perché così facendo si va a descrivere una tipologia ben specifica di rock, ossia quello degli anni ’60 e ’70, che in Italia va ancora fortissimo. Nello Stivale di adolescenti e ventenni che ancora ascoltano pezzi dei Queen, dei Pink Floyd, dei Led Zeppelin, e chi più ne ha più ne metta (ho fatto i tre esempi più scontati) ce ne sono e ce ne saranno ancora a bizzeffe. In Gran Bretagna, sarà forse perché certa musica all’epoca è entrata a far parte della cultura locale molto più di quanto non lo abbia fatto nel Belpaese, ma gran parte di tutto ciò è diventato assai più di nicchia. Ho usato il termine “di nicchia” per
dare un’opinione personale ed ottimista, la definizione vera del giovane britannico medio è: roba da vecchi barbogi. In molti casi, addirittura, esiste un termine apposito, “dad-rock”, rock da papà, inteso in senso fortemente dispregiativo. Deprimente, vero, cari amici rockettari? Un discorso che, tuttavia, è ricco di contraddizioni: c’è chi considera sorpassati artisti che ancora fanno dischi e tournée, ma al contempo ne osanna altri morti, ritirati, sciolti (se erano band o se faceva molto caldo) e così via. A volte si arriva a disprezzare un artista, ma non il gruppo di cui faceva parte: si amano i Beatles (e ci mancherebbe altro!) ma si deride la produzione solistica di Paul McCartney, si considera Eric Clapton roba da nonni ma lo stesso non accade per i Cream, eccetera. 21
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d andare contro i dettami del classic rock, c’è l’indie, genere diffuso anche in altri paesi ma che in Gran Bretagna trova un centro nevralgico. “Indie” è un termine che vuol dire tutto e non vuol dire niente.
Jeff Beck al Ronnie Scott’s Jazz Club
Abbreviazione di “independent”, è assurto a descrizione di un genere musicale, ma nasce per descrivere soltanto le etichette discografiche per le quali i suoi artisti incidono, etichette, appunto, indipendenti (contrariamente alle majors). Alla domanda “come suona un disco indie” perfino un musicista risponderebbe “boh!”. È un genere che non ha un suono univoco, anche se delle costanti ci sono, su tutte un certo rimando al punk, genere di cui l’indie è una propaggine. Il punk è un genere che apprezzo, ne ho ascoltato molto, ma secondo me oggi è il genere musicale più morto che ci sia: nel ’77 colse tutti di sorpresa, già due anni dopo aveva perso l’effetto novità e i suoi artisti di punta si orientarono su altri lidi stilistici. Il punk era in tanti casi (ma non tutti) la musica di chi non sa suonare, ed ecco che entra in causa un 22
aspetto dell’indie britannico di più larga fruizione, che mi riguarda più da vicino: il ruolo del chitarrista solista. Ricordate la leggenda dei muri di Londra con scritto “Clapton is God”? Dimenticatevela, oggi lo stra-snobbano, ai più i chitarristi come lui si suonano addosso e nient’altro. Non sono pienamente d’accordo con tutto ciò, mi piange il cuore a vedere il riff e il solismo come specie in via d’estinzione. La ragione vera di questa convinzione è questa: la maggior parte di chi la sostiene sono musicisti di capacità tecniche mediocri, che si crogiolano nella loro mediocrità, mentre perfino i punkettoni della prima ora dopo un po’ hanno iniziato a sperimentare di più in quel senso, per non parlare di tanti altri esempi proprio in ambito indie e altrock. Cito di nuovo gli Smiths, Johnny Marr non era mai banale e aveva uno stile piuttosto unico e personale. Oppure, spostandoci oltreoceano, l’ottimo Billy Corgan, o un Jack White che dà largo spazio a un uso dello strumento nuovo eppur antico, che parte dal blues (è la radice di tutto, non si discute) tingendolo di aggressività tutte attuali. Stiamo parlando di una percentuale, comunque sia, assai ristretta, in un genere che ha tante sfaccettature da non entrare in poche parole.
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n’altra componente che si incontra spesso nell’ascoltatore “alternativo” britannico è il cambiamento repentino di gusti e giudizi verso un nuovo artista: esce il suo pezzo d’esordio e merita molto, i suoi pezzi cominciano a passare con più frequenza in radio ed ecco che merita sempre meno finché si arriva anche a gridare al venduto. Sorte toccata a molti, dagli Oasis ai Darkness, dai Muse ai Coldplay; a volte a ragione, in virtù di un successo che di fatto può dare alla testa, o della “sindrome del nuovo album” con la quale le etichette mettono pressione sull’artista a scrivere nuovi pezzi in fretta e furia. Altre volte soltanto una cosa detta per fare figo. Ancora non riesco ad afferrare a pieno certe convinzioni: se un disco non ricevesse passaggi in radio, non ci sarebbe notorietà per nessuno, senza con-
© Ba-mi | Dreamstime.com
O ancora c’è chi adotta una visione talmente di facciata e, ancora una volta, contraddittoria, da discriminare un Freddie Mercury perché gay, ma non l’altrettanto omosessuale Morrissey e i suoi Smiths. Abbastanza assurdo che la sessualità di un musicista oscuri la qualità della sua musica agli occhi di tanti, peraltro selettivamente.
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tare che si suona anche per condividere la propria musica con il pubblico. E se il pubblico non diventa sempre più grande, che gusto c’è? Già, le radio: e quando passa il pop? Beh, quello, ahimé, è risaputo che versa in condizioni che lasciano a desiderare. In ambito specificatamente britannico, a farla da padrone tra un rapper placcato oro ed un’ex-star Disney che lecca un martello sculettando, è indubbiamente la gallina dalle uova d’oro di Simon Cowell e del suo X-Factor, una sagra del prefabbricato su cui meno diciamo meglio è. Il primo canale radio della BBC (mal sopportato da chi ama la buona musica in favore degli altri canali del gruppo radiofonico) racchiude tutto questo, programmando più o meno dieci canzoni di questo tipo ripetute a rotazione mentre i deejay si parlano addosso; commercialità alla massima potenza. Un po’ di volte che a qualche mio amico è scappato un ruttino e si scusava, gli ho detto di non scusarsi, che quello che ha fatto suonava molto meglio del palinsesto di Radio 1. È tanto difficile creare un genere musicale nuovo al giorno d’oggi, poi ciò che si poteva dire con la chitarra elettrica è stato ormai detto; è ironico quindi che, nonostante tutto, si torni spesso alle influenze del passato. È così che nel programma televisivo condotto sulla BBC dal pianista Jools Holland, passerella di mostri sacri e trampolino di lancio di nuovi talenti, passano spesso e volentieri artisti che ripropongono antiche ricette. Ci sono band quali gli irlandesi Strypes, che hanno reso di nuovo popolare il suono blues-rock degli anni ’60. Ricompaiono sound e look anni ’50 per voce di Imelda May, che si è esibita anche affiancata da un mito delle sei corde come Jeff Beck.
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’è il ritorno all’acustico, che curiosamente fornisce spunti ancor più originali: dall’uso della cassa della chitarra per creare accompagnamenti ritmici percussivi (Newton Faulkner) al pedale loop che descrissi in un numero precedente, usato abilmente da KT Tunstall, Ed Sheeran e altri. O ancora, chi, come quel geniaccio di Seasick Steve, si presenta con chitarre a tre, due, o anche DECARTA DIC 2013 / GEN 2014
incredibilmente una corda sola fabbricate con qualsiasi materiale di scarto, nel più puro spirito di MacGyver: scatole di sigari, taniche, coprimozzi di vecchie auto e così via. E ci suona dei blues pazzeschi. E quando è finita la puntata, nelle pause pubblicitarie senti un sacco di vecchi successi riarrangiati in versione soft per voce e strumento acustico, specialmente piano o chitarra. È la terza volta che cito gli Smiths in questo articolo (non sono così depresso come potreste pensare, eh) ma la loro Please Please Please nell’interpretazione di Slow Moving Millie fu usata come
KT Tunstall in concerto
colonna sonora in un recente spot natalizio. Risultato, da inno per aspiranti suicidi è diventata un dolce brano d’amore tornando in classifica dopo più di vent’anni. E la stessa sorte toccò a The Power Of Love dei Frankie Goes To Hollywood, eseguita a quasi-cappella da Gabrielle Aplin e scelta dalla stessa azienda per gli spot del Natale successivo. E così via, gira e rigira, corsi e ricorsi storici: in conclusione è un po’ un cerchio che si chiude. Che lo si voglia o no, non si può fuggire dal passato anche se si tenta di farlo, neanche in musica, tutto torna più o meno ciclicamente e perfino Eraclito e Neil Young si incontrano, dopotutto la musica non è così in pericolo come sembra. Panta rei… rock and roll is here to stay.
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adetti ai lavori
Un progetto giovane e già grande Un filo conduttore tra musicisti ed appassionati. Gabriele Ludovici | gabriele.ludovici@decarta.it
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ell’intento di promuovere la cultura in tutti i suoi aspetti, siamo sempre lieti di presentare ai nostri lettori anche coloro che lavorano affinché sia possibile diffondere e promuovere il più possibile le diverse realtà artistiche viterbesi. Mvm Concerti, in quest’ambito, si sta affermando come una delle novità più interessanti da un anno a questa parte. Nata da un’idea di un gruppo di amici appassionati di musica, Mvm Concerti rappresenta il settore musicale dell’associazione Media Viterbium di Luca Tofani e dal 2012 ha iniziato una fervida attività di organizzazione di eventi musicali, con un approccio innovativo. Abbiamo intervistato il “quintetto base” del team, formato da Matteo Cosentino, Valerio Ceccarelli, Cristiano Politini, Davide La Vecchia e Giulia Vincenti: gli ultimi due si occupano rispettivamente del booking e dell’ufficio stampa, ma tutti e cinque lavorano in sinergia, con la collaborazione del webmaster Mario Santello che si occupa del sito (mvmproduzioni.com). Alla base del progetto c’è la volontà di creare un filo conduttore tra musicisti ed appassionati, includendo tutti i generi musicali pur rivolgendosi in particolare all’underground italiano nelle sfera indie rock e new wave. La parola chiave è aggregazione, come mi spiegano all’unisono: «Noi puntiamo molto sulla componente umana quando si tratta di scegliere gli artisti con cui lavorare. Il nostro è un progetto giovane e siamo aperti a collaborare con chiunque condivida la nostra visione: ci piace avere un rapporto 24
di amicizia con le band e magari riunirci davanti ad una birra, ma senza pregiudicare l’aspetto professionale. Qualcuno ha avuto nei nostri confronti un approccio del tipo “o ci fate suonare, o niente…” invece noi vogliamo creare una cultura musicale e rendere il nostro marchio sinonimo di qualità, senza legare il tutto al singolo evento. Ci piacerebbe che il pubblico, che fino ad ora ha risposto positivamente, assistesse ai nostri eventi a prescindere dalle band che si esibiscono sul palco».
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nizialmente la Mvm Concerti si è occupata sia di eventi di piazza (come Emozioni sotto le stelle) che di concerti acustici, focalizzando il seguito l’attenzione sulle serate nei club viterbesi. Tra i loro eventi da ricordare ci sono le due edizione del Rock This Party, in cui si sono esibite band viterbesi come i Too Much Ado e i Narciso oltre agli svizzeri Those Furious Flame. La loro formula, che cerca di dare visibilità agli artisti locali affiancandoli ad artisti provenienti da fuori, permette di creare quell’unione DECARTA DIC 2013 / GEN 2014
di intenti che rende Mvm Concerti qualcosa di più di un’agenzia di booking. In molti casi, sono le stesse band locali che hanno fornito supporto logistico alla buona riuscita della serata. Tornando alle loro esperienze, dopo un’estate in cui hanno lavorato alla realizzazione dell’Unitus Summer Party ed assieme alla Backstage Academy alla buona riuscita del festival musicale di Caffeina, portando ad esibirsi a Porta Fiorita L’orso, Diaframma e Giorgio Canali (quest’ultimo in collaborazione con Culture Club Underground), Mvm Concerti ha festeggiato un anno di attività organizzando una serata con i Nimby, rock band catanzarese. Ad ottobre la stagione dei concerti si è riaperta con l’opening party di presentazione del nuovo roster che include, oltre ai già citati Too Much Ado, anche The Catchers, Easter Before Christmas ed i Movimento. Il 13 novembre si è svolta una serata da loro organizzata al
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Glitter Café, con una nota band di Manchester reduce da un tour in Italia – The Underground Youth – e sempre nello stesso mese è iniziato un grande contest che si terrà sempre al Glitter e si protrarrà anche nel mese di febbraio. In questo concorso le band vengono valutate da una giuria, ma i premi saranno vòlti a promuovere le band stesse attraverso la possibilità, ad esempio, di realizzare una demo presso lo studio Alternative Factory e con la diffusione delle loro interviste, grazie alla collaborazione con Radio Verde e Radio Freedom Live. Insomma, niente cash ma una buona iniezione di visibilità.
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ecentemente, Mvm Concerti ha portato a Viterbo anche i Phinx (da Bassano del Grappa) ed i romani Io Non Sono Bogte. Per l’immediato futuro, oltre al finale del contest, segnaliamo anche l’esibizione dei Management del Dolore Post Operatorio del 25 gennaio al Class Club. Riguardo alla loro location prediletta, i ragazzi aggiun-
gono che l’accoglienza del locale nell’arco del sodalizio tra Mvm Concerti ed il Glitter Café è stata positiva: «La nostra collaborazione con lo staff del locale è ottima: sono flessibili e non fanno discorsi legati ai ricavi. Vogliamo renderlo il fulcro del movimento della live music, una casa del rock dove non si vada soltanto per bere». Il quintetto chiude con un appello: «A Viterbo ci sono molte realtà che si limitano alla sala prove, mentre si dovrebbe mettere da parte l’invidia e collaborare tutti insieme… cosa che avviene tra le band del nostro roster, dove il successo di uno non pregiudica quello degli altri. Lo si è visto nell nostro opening party, dove tutte e cinque le band hanno condiviso il palco in un clima di grande amicizia, concludendo l’evento con una jam session». Non resta che augurare alla Mvm Concerti di riuscire nel suo intento di rinnovare la cultura musicale di Viterbo e dintorni.
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redazionale
Cosa è l’infortunistica Una nuova porta aperta a Viterbo. Informazione pubblicitaria a cura della Redazione
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n incidente stradale, così come un infortunio, può capitare a chiunque. L’importante è affrontarlo nel modo giusto e far sì che le sue conseguenze, dal punto di vista del risarcimento assicurativo del danno, non diventino un percorso lungo, pieno di ostacoli, talvolta di insidie, difficili da superare da soli con le proprie forze. Con il termine infortunistica si definisce, oggi, un’attività professionale, relativamente recente – pur se in Italia se ne parla fin dai primi anni ’50 – esercitata da imprese che, per formazione ed esperienza del personale in esse operanti, sono in grado di affiancare e guidare chi ha subito un infortunio nell’iter assicurativo, per giungere ad ottenere un indennizzo giusto e in tempi rapidi. È importante per questo affidarsi a strutture attive nel campo dell’infortunistica da più tempo, gestite da persone competenti, con esperienza pluriennale,
testimoniata dalle centinaia di casi trattati con successo. Giuliano Servizi è una società che può vantare già dieci anni di esperienza nel settore dell’infortunistica e può contare su una ramificazione nel centro Italia con più sedi operative. Gli esperti di Giuliano Servizi garantiscono un’assistenza specializzata per il recupero delle somme dovute dalle assicurazioni per i danni causati da incidenti stradali, da errori sanitari e in qualsiasi situazione in cui è previsto un risarcimento assicurativo. I particolari servizi assistenziali prestati da Giuliano Servizi prevedono l’anticipazione delle spese sostenute presso le strutture convenzionate, consentendo all’assistito, nel tempo che intercorre dal momento del sinistro alla liquidazione da parte dell’assicurazione, di poter usufruire dei migliori servizi medici, diagnostici e fisioterapici.
I servizi offerti • Assistenza legale civile e penale • Consulenze e perizie mediche specialistiche e di medicina legale • Ricostruzione della dinamica dei sinistri da parte di periti iscritti all’IVASS • Valutazione perizie e collaudi post riparazione da parte di periti iscritti all’IVASS • Convenzioni con officine e carrozzerie • Assistenza stradale con recupero e traino 24h • Trattazione di sinistri assistiti da Fondo di garanzia • Trattazione di sinistri avvenuti all’estero • Trattazione di sinistri con autovetture assicurate all’estero
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xenofilia
report
Mi lindo y querido México Una attrazione lunga trent’anni e finalmente coronata. Emiliano Gabrielli - Foto di Armando Gabrielli
Città del Messico, Plaza de las Tres Culturas
M
i chiamo Emiliano. Un nome che è destino. I miei genitori, infatti mi hanno attribuito questo nome in onore al capo rivoluzionario, politico e guerrigliero messicano Emiliano Zapata. Ho viaggiato molto, fin da bambino in Europa e Paesi dell’America Latina. Viaggiare significa conoscere nuovi popoli, nuove abitudini, nuove emozioni. Il primo viaggio “importante” è stato in Messico nel 1983, giusto 30 anni fa. Nonostante avessi all’epoca 8 anni, avevo già capito che quel Paese così lontano dall’Italia, mi aveva colpito, attirato. Non so bene qual è il motivo che più di altro mi ha fatto innamorare del Messico. Ero stato con i miei genitori ospiti di un ragazzo messicano che avevamo conosciuto l’anno precedente a Viterbo per frequentare il primo anno al Ce.F.A.S. promosso dalla Camera di Commercio,
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in cui all’epoca lavorava mio padre. In quel viaggio, scoprimmo molte città del Messico. Torreon e Gomez Palacio nel nord del Paese, città natale del mio fratello messicano. Andammo in quella che fino al XX secolo era la miniera di Ojuela. Si estraeva argento e oro. Per giungere dal paese alla miniera si passa su un ponte sospeso lungo 318 metri, largo meno di 2 e ad un’altezza di 100 metri. Proseguimmo quel viaggio in altre città: Taxco, Acapulco, Cuernavaca, Puebla, oltre ovviamente a Città del Messico. Non poteva mancare una visita alle piramidi Azteca del Sole e della Luna, lungo la Via dei Morti di Teotihuacan, il più grande sito precolombiano del Nord America. Ma al di là dei luoghi, sono quelle emozioni, quelle avventure che si portano sempre dentro di ognuno di noi,
come quando, giunti all’aeroporto di Città del Messico, prendemmo la macchina, eravamo in 6, con i finestrini che non si abbassavano e senza aria condizionata, per giungere fino a Torreon, un viaggio durato tutto il pomeriggio e notte inoltrata fino a giungere a casa verso le 5 di mattina, stanchi morti e a mio padre viene offerta una birra come benvenuto a casa. Dopo molti anni di silenzio, mio fratello messicano, si rifà vivo con una telefonata in piena notte, solo per sapere come stavamo. Mi invita a tornare in Messico. Ovviamente, senza pensarci su due volte nel luglio 1996 torno per la seconda volta, a 21, è il primo viaggio completamente solo. All’aeroporto di Città del Messico, ci ritroviamo dopo 13 lunghi anni. In pullman arriviamo fino ad Aguascalientes, 27
report città a 500 chilometri a nord della capitale, dove si è trasferito. Oltre a visitare la città, sono stato a Zacatecas, Guadalajara e Guanajuato. Durante questa vacanza i vicini di casa e gli amici mi parlano della Feria de San Marcos, come della festa più grande ed importante del Messico. Non mi sono lasciato perdere dal conoscere e vivere in prima persona la Feria. Si svolge nei mesi di aprile e maggio. La prima volta è stata nel novembre 1828, solo vent’anni più tardi, cambia periodo. C’è di tutto: dalla corrida e charreada, concerti, teatro, casinò e tanto di più.
H
o detto più volte che in Messico ci sono stato sempre molto bene. Durante questa ultima vacanza della primavera del ’97, decido, di tentare a vivere per un periodo più lungo in questo luogo così speciale. La mia famiglia quando gliel’ho detto, mi ha risposto che era il momento buono per un’esperienza all’estero, gli amici ad Aguascalientes erano un po’ dubbiosi, perché in Italia c’erano parenti, amici era più facile lavorare, guadagnare di più. Quando volevo potevo tornare. Ma ormai avevo preso la decisione, visto che ero convinto, hanno accettato questa scelta. Ed ecco per un altro viaggio in Messico. Ad inizio di settembre parto
Charreada
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per la terza volta in pochi mesi per Aguascalientes. Dopo qualche giorno per riprendermi dal jet-leg inizio a cercare lavoro, con annunci sui giornali, contattando varie persone in negozi, ristoranti. Un giorno provo addirittura ad andare alla Casa della Cultura per chiedere di poter insegnare italiano. Mi dicono che sono alcuni anni che non tengono corsi di lingue, ma mi forniscono il nome di un’insegnante italiana che insegna all’Università. La chiamo, mi dice che non mi poteva aiutare molto, ma di provare a sentire all’Instituto de Lenguas Internacionales. Giovedì 18 settembre, mattina, ho telefonato a questa scuola, la segretaria mi invita a richiamare nel pomeriggio quando avrei trovato la direttrice, alla fine della telefonata, dice che è meglio passare all’Istituto per l’indomani per parlarci di persona. Infine il venerdì stesso mi invita a tornare il giorno successivo per firmare il contratto! Mi chiede quanto tempo mi potevo fermare in Messico, le rispondo che ho il biglietto aereo aperto per 6 mesi. Firmo quindi il contratto fino a marzo del ’98.
L
unedì 22 settembre inizio ad insegnare. La segretaria mi presenta alla classe. Ed ora da dove inizio? Ovviamente mai e poi mai avrei pensato di
Le statue degli Atlanti sul tempio piramide di Tula
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insegnare italiano all’estero e quindi con me non ho portato libri per poter insegnare. Mi procuro delle fotocopie ed altri libri di supporto. Bene o male, riesco a superare i primi problemi che ho avuto, tra cui quello non indifferente della lingua. Sapevo un po’ di spagnolo, sia per leggere, che capire ma non ancora per lavorare, inizialmente le mie lezioni erano un misto fra italiano, spagnolo qualche parola in inglese e qualcosa a gesti e con uso del dizionario, fino ad imparare bene la lingua da autodidatta. Evidentemente ho imparato anche ad insegnare, infatti la direttrice dell’istituto mi rinnova il contratto inizialmente fino alla fine del 1998 e poi per tutto l’anno successivo, ma non solo, mi propone addirittura di scrivere un libro di grammatica per gli studenti! Accetto questa sfida, incoscienza? Coraggio? Poi mi dico, ed ora? Inizio a scrivere il libro come se fossi in classe con i miei studenti. È stato usato per alcuni anni. Negli anni successivi sono tornato altre volte in Messico, in una delle zone più turistiche per vari motivi dai siti maya alle spiagge, lo Yucatan. A luglio, pochi mesi fa, con la mia compagna (messicana, ovviamente) insieme a nostra figlia decidiamo di tornare in Messico a vivere. In tutti questi viaggi (undici
per la precisione), oltre alla bellezza dei paesaggi, ho scoperto l’allegria, la simpatia, la disponibilità del popolo messicano.
U
n episodio simpatico mi è capitato durante le prime settimane da quando ero arrivato. Ero in bicicletta e stavo cercando delle scuole per insegnare italiano, mi sono un po’ perso, chiedo a un vigile, inizia a darmi indicazioni, al semaforo, gira a sinistra… mi dice di aspettare che va a parlare con un collega, torna dopo poco e mi dice che mi avrebbero accompagnato sulla camionetta della polizia, mi aiutano a caricare la bici a bordo. Non avevo le parole per ringraziarli, anche se era sufficiente ovviamente darmi solo indicazioni. Ma i poliziotti mi hanno spiegato che lo fanno per aiutare normalmente le persone. Questo solo un aneddoto semplice ma ci possono essere molti altri esempi su una vita messicana che giorno dopo giorno sto conoscendo sempre di più. Andando in giro per uffici per sistemare i documenti, beh, la burocrazia è veramente più semplice. In pochi minuti ti danno quello che hai chiesto, se manca qualcosa, gentilmente ti spiegano come risolvere, tutto semplicemente. Anche per queste cose mi viene da dire “Mi lindo y querido México!”
Celebrazioni di Indios a Città del Messico
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università
report
La potenza dei monti è sconvolgente Cronaca ed emozioni di un’escursione nel Parco Nazionale dell’Abruzzo. Marina Salom e Francesca Salatino | Associazione Universitaria Studenti Forestali di Viterbo
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ccoci di nuovo a raccontarvi un’altra avventura AUSF. Anche avvicinandosi all’inverno le attività degli ausfini non si fermano. A novembre infatti è stato organizzato un gemellaggio da parte dei ragazzi di AUSF Napoli nel Parco Nazionale dell’Abruzzo, alloggiando presso Barrea, un piccolo comune di 700 abitanti con un passato che ha visto Sanniti, Perti e Saraceni passare sul suo territorio. Distrutta più volte durante le guerre e poi ricostruita, oggi Barrea si affaccia con tutto il suo fascino sull’omonimo lago, immersa nella natura del Parco Nazionale di Lazio Abruzzo e Molise. I tre giorni di escursioni hanno visto la partecipazione anche dei giovani studenti di AUSF Viterbo che così ci raccontano della loro esperienza… Il primo incontro tra tutti è avvenuto il venerdì a ora di pranzo appena giunti all’ostello Dagli Elfi, nella frenesia di preparare i panini per la fame e l’adrenalina in vista della prima uscita. Carichi gli zaini e allacciate le scarpe siamo partiti per una prima breve escursione nella 30
valle del fiume Sangro. La valle, area centrale del Parco, è stata nel tempo modellata dall’attività antropica alla ricerca di un’integrazione con l’ambiente naturale: testimonianza diretta di questo rapporto uomo-natura è la presenza di prati, terre lavorate e terrazzamenti. I sentieri intrapresi ci hanno permesso di dare un primo piacevole sguardo alla natura del Parco, e panoramiche soste hanno consentito sia di riprendere fiato che di iniziare a conoscerci.
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amminando, abbiamo attraversato una zona di vegetazione mista, caratterizzata dalla presenza di aceri, cerri, pini neri e alcuni salici. L’entusiasmo di questa prima uscita è stato tale che il sole ha cominciato a tramontare prima del nostro rientro facendoci così affrettare il passo! Questo primo giorno si è concluso alla sera cucinando tutti insieme un nutriente pasto al ritmo di tamburelli e risate. La sveglia del secondo giorno è stata all’alba delle 7, ma gli sbadigli sono stati ricompensati da un caffè gustato alla DECARTA DIC 2013 / GEN 2014
splendida vista verso cui affacciava l’ostello. Armati di tutto il necessario abbiamo iniziato questa seconda escursione partendo da Civitella Alfedena, e subito il cammino più che arduo ci ha messo alla prova: che salita! Ma ogni animo era silenzioso nel sentirsi immerso nella quiete e nella perfetta sincronia dell’ambiente faggeta che ricopre quasi il 60% del territorio del Parco. Così giunti al rifugio Forca Resuni quasi in vetta al monte Petroso (2.247 m s.l.m.), eravamo più scossi dalle sensazioni che il bosco aveva suscitato in ognuno di noi che dalla fatica. Qui la nebbia che avvolgeva tutte le montagne sembrava volerle mangiare, ma le cime sbucavano dall’alto dandoci conferma di essere imbattibili. Dopo aver mangiato, col vento nelle orecchie abbiamo cominciato la lunga discesa. Presso le vallate assolate al limite del bosco, abbiamo avuto la fortuna di ammirare l’eleganza e l’agilità del camoscio d’Abruzzo, presente all’interno del Parco con centinaia di esemplari. Entusiasmo? Passioni?
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Scoperte? Meraviglia? Freddo? Risate? Sintonie? Sì. Tutto questo è stato condiviso. La seconda sera si è ripetuta in gioviali scambi di cibo e canti accompagnandoci a letto stanchi e felici.
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’ultima escursione di domenica mattina ci ha visti passeggiare nella Val Fondillo, area fiancheggiata dal monte Amaro e monte Dubbio e caratterizzata prevalentemente da faggi, abeti, larici e salice bianco lungo i corsi d’acqua. Partendo dal Centro Foresta abbiamo percorso un breve sentiero ricco di verde e di riposanti fresche radure dove abbiamo potuto svagarci. Come sempre succede avvicinandosi ai saluti, eravamo malinconici ma con la certezza e la gioia non solo di aver visto nuovi orizzonti, ma anche di aver stretto nuovi importanti legami tra ausfini di diverse sedi universitarie che ci faranno ritrovare ancora in nuovi luoghi da scoprire insieme.
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