Studi e Ricerche su don Carlo De Cardona 1

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Studi e Ricerche

su don Carlo De Cardona • Un passato sempre vivo di Nicola Paldino • Gesù Cristo fondamento della sua spiritualità di mons. Francesco Savino • Sempre dalla parte dei contadini di Demetrio Guzzardi • La grafologia ci aiuta a capire la sua personalità di Carmensita Furlano • San Pietro in Guarano e gli impianti indroelettrici • Elettricità sul fiume Arente

Don Carlo De Cardona

e l’associazionismo contadino in Calabria (1898-1927) di Romilio Iusi editoriale progetto 2000

• Le pubblicazioni decardoniane di Luigi Intrieri

Centro Studi Calabrese Cattolici Socialità Politica

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Studi e ricerche su don Carlo De Cardona a cura di Demetrio Guzzardi

Carlo De Cardona e l’associazionismo contadino in Calabria (1898-1927)

editoriale progetto 2000

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DATI EDITORIALI

CARLO De Cardona e l’associazionismo contadino in Calabria (1898-1927) / a cura di Demetrio Guzzardi. - Cosenza : Progetto 2000, 2018. 80 p. : ill. ; 24 cm. - (Studi e ricerche su don Carlo De Cardona ; 1) ISBN 978-88-8276-526-2 1. De Cardona, Carlo. I. Guzzardi, Demetrio. 261.7 (Scheda catalografica a cura dell’Universitas Vivariensis)

© editoriale progetto 2000 Prima edizione, Cosenza, agosto 2018 ISBN 978-88-8276-526-2 In copertina: don Carlo De Cardona, illustrazione di Franco Andreoni Direttore editoriale: dott. Demetrio Guzzardi Direttore artistico: arch. Albamaria Frontino Per informazioni sulle opere pubblicate ed in programma e per proposte di nuove pubblicazioni, ci si può rivolgere a:

editoriale progetto 2000 Via degli Stadi, 27 - 87100 Cosenza

telefono 0984.34700 - e-mail: deguzza@tin.it - www.editorialeprogetto2000.it

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PRESENTAZIONE

UN PASSATO SEMPRE VIVO di N icola P aldino Presidente Banca di Credito Cooperativo «Mediocrati»

Da sempre ho sentito parlare di don Carlo De Cardona, che fu un autentico apostolo del Vangelo, alla luce dell’enciclica Rerurm novarum di papa Leone XIII. Don Carlo De Cardona (Morano Calabro, 4 maggio 1871-10 marzo 1958) è l’emblema dei preti sociali calabresi a cavallo fra XIX e XX secolo; ha fondato leghe contadine ed operaie e istituzioni economiche, quali le Casse rurali, volte allo sradicamento dell’usura, che colpiva maggiormente i ceti più umili. Nel 1898 l’arcivescovo di Cosenza, mons. Camillo Sorgente, lo chiamò come suo segretario: da allora De Cardona cominciò ad interessarsi alle problematiche sociali, che affliggevano il territorio calabrese, quali l’asservimento delle fasce deboli del proletariato ai ricchi possidenti e la lotta contro lo strozzinaggio che ne derivava. Nel 1898 fondò il giornale La Voce cattolica, nel 1901 l’organizzazione della Lega del lavoro, e nel 1902 diede vita alla Cassa rurale cattolica di Cosenza. Nel 1906, dopo un comizio a Bisignano, 16 audaci operai costituirono la locale Cassa rurale, di cui don Carlo divenne presidente del Collegio sindacale nel 1919. Durante il regime fascista la stragrande maggioranza delle sue istituzioni furono azzerate, ma il seme, se è stato ben piantato, appena può, trova la strada giusta per rinascere. E così è stato. Nomi, situazioni, avvenimenti che riguardano De Cardona fanno parte indelebile del mio vissuto; per questo ho chiesto al Consiglio di amministrazione della BCC «Mediocrati» di aderire al progetto proposto dal Centro studi calabrese Cattolici socialità politica, di patrocinare questi nuovi quaderni decardoniani, per rinverdire la memoria di noi tutti e per stimolare i più giovani nella conoscenza del fondatore del movimento delle Casse rurali calabresi. I quaderni avranno una periodicità semestrale con il compito di pubblicare nuovi studi, ma anche di riproporre saggi – ormai introvabili nelle librerie, se non in qualche biblioteca – che hanno già scandagliato in lungo ed in largo il personaggio De Cardona e il periodo storico in cui ha operato. Una particolarità sarà lo spazio dedicato alle tesi di laurea su don Carlo, sono tante e tutte meritevoli di essere conosciute e di entrare a pieno titolo, nella già consistente bibliografia decardoniana. Da qualche anno, dopo l’apertura della causa di beatificazione e canonizzazione di De Cardona (5 novembre 2010), si sta catalogando tutta l’at5


NICOLA PALDINO

tività che il prete di Morano portò avanti nelle sue tante battaglie. Un solo cruccio: che il prof. Luigi Intrieri, il maggior studioso di don Carlo De Cardona, sia tornato lo scorso anno alla Casa del Padre. La BCC «Mediocrati» nel 2013 gli aveva assegnato il premio Melagrana d’argento, riconoscimento destinato a chi opera a vantaggio della crescita collettiva; alla sua memoria viene dedicato questo primo quaderno, che esce durante la nona edizione della Settimana della cultura calabrese, che vuole ricordare i 60 anni dalla morte di don Carlo De Cardona e di don Luigi Nicoletti, l’altro grande sacerdote sociale cosentino, che con il loro entusiasmo e la loro fede, hanno illuminato la Chiesa calabrese. Far crescere e potenziare l’economia del cosentino, per un istituto bancario come il nostro, fondato da un sacerdote in procinto di essere beatificato – e ci auguriamo presto canonizzato – è una grande responsabilità, che tutti i giorni ci sollecita a guardare ad «un passato sempre vivo», come abbiamo intitolato qualche anno fa, il fumetto dedicato a don Carlo, voluto dal Club giovani soci della nostra BCC Mediocrati.

UN GRATO PENSIERO AL PROF. LUIGI INTRIERI «Il prof. Intrieri è lo storico di riferimento per chiunque abbia interesse a studiare la cooperazione di credito a Cosenza e in Calabria. È sua la più dettagliata e scrupolosa biografia di don Carlo De Cardona; suoi numerosi testi di approfondimento sull’opera decardoniana e sugli articoli scritti dal sacerdote relativi all’impegno cooperativo, con particolare riferimento alla vicenda delle Casse rurali. Autore, nel 2006, della storia dei primi cento anni della Banca, che ha inquadrato nella più ampia storia del movimento delle Casse rurali, commentandone i momentichiave alla luce della cronaca del tempo. La sua vita è stata dedicata all’insegnamento pedagogico, che ha esercitato nella scuola e nella società. È stato sindaco di San Pietro in Guarano; per molti anni presidente dell’Azione Cattolica cosentina. Studioso attento e documentato, scrittore prolifico, ha scritto molto sulle vicende e i protagonisti della Diocesi di Cosenza. La BCC «Mediocrati» assegna la Melagrana d’argento 2013 al prof. Luigi Intrieri, evidenziandone la passione, l’energia, la competenza di cui, generosamente, offre i frutti alla nostra comunità». Nella foto: 26 maggio 2013, il presidente della BCC «Mediocrati» Nicola Paldino mentre consegna la Melagrana d’argento al prof. Luigi Intrieri. 6


STUDI E RICERCHE SU DON CARLO DE CARDONA

TUTTO INIZIÒ DALL’ENCICLICA RERUM NOVARUM

Archivio Segreto Vaticano, testi preparatori per la redazione dell’enciclica di Leone XIII. 7


TUTTO INIZIÒ DALLA RERUM NOVARUM

Schemi preparatori per l’enciclica di Leone XIII Rerum novarum

Vaticano, gennaio-aprile 1891 Vol. cart., mm 342x235, ff. 487, rilegato in mezzo cartone con dorso in pergamena; sul dorso: ENCICLICHE VOL. VIII. Ep. ad Pritic., Positiones et minutae, 131, f. 350r Fra gli atti del lungo pontificato di Leone XIII (1878-1903) quello che forse maggiormente ne caratterizza il magistero e le coraggiose aperture al mondo culturale e sociale di fine Ottocento, è l’enciclica Rerum novarum, promulgata il 15 maggio 1891. Di quali e quanti positivi sviluppi quel documento fosse portatore è a tutti noto, al punto che sull’enciclica, definita la magna charta del lavoro cristiano, si continua a scrivere ancora ai nostri giorni con immutato interesse. L’elaborazione del testo del magistero leoniano fu opera faticosa e lunga; ad un primo schema furono chiamati a lavorare uomini particolarmente versati negli studi di filosofia e di sociologia, molto apprezzati dal pontefice: il gesuita Matteo Liberatore e il cardinale Tommaso Zigliara, che finirono per proporre ciascuno un proprio progetto. Leone XIII, giunto ad una particolare attenzione della questione sociale pochi anni prima di divenire papa e quindi sempre più preoccupato della grave condizione operaia e delle dottrine socialiste, seguì costantemente i lavori preparatori dell’enciclica, sia personalmente, sia tramite due uomini di sua fiducia, il segretario personale mons. Gabriele Boccali e l’apprezzato latinista mons. Alessandro Volpini (che costrinse ad un lavoro di revisione e correzione estenuante, qualche volta al limite della resistenza fisica). Fra luglio 1890 (primo schema italiano di Matteo Liberatore) e maggio 1891 (promulgazione dell’enciclica) si può ben dire che la vigile attenzione del papa fosse concentrata sugli schemi preparatori del documento, cui annetteva molta importanza. Degli scritti preparatori della Rerum novarum, purtroppo, ben poco ci resta; ma quel poco è sufficiente a dimostrare il faticoso procedere del lavoro, il mutare degli schemi, le molte correzioni continuamente apportate, insomma il labor limae condotto fino all’ultimo, attorno ad un testo arduo per sua natura, perché impegnava il magistero pontificio su un argomento delicato e per tanti aspetti nuovo, in situazioni storiche dense di sollecitazioni estranee alla tradizionale dottrina della Chiesa. Alla tav. CXL (nella foto della pagina precedente) alcune parti dei lavori preparatori dell’enciclica, a noi pervenute fra il materiale della Segreteria delle lettere latine, in cui lavorava mons. Volpini. Si osserva, in particolare (parte destra, f. 350r), il lavoro di continua revisione attorno al paragrafo sul capitalismo. La scrittura è quella del latinista Alessandro Volpini: il testo base, già più volte mutato, è posto nella colonna destra del foglio; nella sinistra, con segni di rinvio, vi sono le correzioni o le aggiunte. Dal volume Archivio Segreto Vaticano, a cura di T. Natalini, S. Pagano, A. Martini, Firenze, Nardini, 1991, pp. 242-243

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STUDI E RICERCHE SU DON CARLO DE CARDONA

CINQUANT’ANNI DALLA RERUM NOVARUM di don Carlo De Cardona articolo pubblicato sul mensile, religioso diocesano di Todi Il Risveglio, anno XX (1941), n. 7-8.

La ricorrenza cinquantenaria dalla pubblicazione dell’enciclica pontificia sulla questione operaia, ha dato luogo, in tutto il mondo cattolico, a manifestazioni di risveglio delle dottrine annunziate in quel documento, indubbiamente, storico. Mirabile e pieno di evangelico fervore, è il Radiomessaggio che il Santo Padre Pio XII, nel giorno di Pentecoste, ha lanciato ai suoi figli sparsi nel mondo intero, in occasione di quel cinquantenario. Notevolissima, nella chiusura del messaggio, la dichiarazione dell’intento che ha mosso il cuore del papa a parlare direttamente, non ai suoi figli soltanto, ma a tutti i popoli della terra. Ha detto Pio XII: «…Noi vorremmo cooperare fin da ora alla futura organizzazione di quell’ordine nuovo, che dall’immane fermento della presente lotta il mondo si attende e si augura che nasca, e nella pace e nella giustizia tranquilli i popoli».

Dichiarato così, il suo apostolico intento, il Santo Padre si degna di rivolgere un caloroso appello ai cattolici, per «esortarli a proseguire e promuovere l’opera che la precedente generazione dei vostri fratelli e delle sorelle vostre hanno con si ardimentoso animo fondata».

L’opera, alla quale si riferisce il Santo Padre, è indicata da lui medesimo con le parole che seguono: «…dall’ispirato messaggio del pontefice della Rerum novarum scaturì, vivida e limpida, una sorgente di spirito sociale forte, sincero, disinteressato; una sorgente, la quale, se oggi potrà venire in parte coperta da una valanga di eventi diversi e più forti, domani, rimosse le rovine di questo uragano mondiale, all’iniziarsi il lavoro di costruzione di un nuovo ordine sociale, implorato, degno di Dio e dell’uomo, infonderà nuovo gagliardo impulso e nuova onda di rigoglio e crescimento in tutta la fioritura della cultura umana».

E qui il papa, con frasi smaglianti di pensiero e di amor generoso, soggiunge: «Custodite la nobile fiamma di spirito sociale fraterno, che, or è mezzo secolo, riaccese nei cuori dei vostri padri la face luminosa e illuminante di Leone XIII. […] Nutritela, ravvivatela, elevatela, dilatatela, questa fiamma; portatela dovunque viene a voi un gemito di affanno, un lamento di miseria, un grido di dolore; rinfocatela sempre nuovamente con l’ardenza di amore attinta al cuore del Redentore…».

Or sia lecito chiedere: quali sono i caratteri di quest’opera che – al termi9


CARLO DE CARDONA

ne dell’Ottocento e nei primordi del Novecento – scaturì, vivida e limpida, ricca di «spirito sociale, forte, sincero, disinteressato», dall’insigne documento storico della Rerum novarum? Sembra potersi rispondere: che essa è soprattutto, un’opera organizzativa ed insieme educativa, destinata ad eliminare dal consorzio umano lo sconcio (parole della Rerum novarum) della lotta di classe, aperta o latente; a difendere le ragioni e gli interessi dei proletari, e in generale degli umili, di fronte ai detentori della ricchezza; a far prevalere, nella vita pubblica, gradualmente e per quanto si può, le regole dell’Evangelo, e le esperienze sociali della Chiesa; a trasfondere nel corpo sociale, uno spirito nuovo di giustizia e di fraterna benevolenza, svegliando ed educando in tutti il senso di solidarietà e di unità morale e civile, pur nelle più spiccate e vivaci differenze di cultura, di attitudini, d’iniziative, in tutti i campi del vivere umano. Questa, in termini brevi, è l’opera in favore della quale, il Santo Padre eleva nel suo messaggio l’affettuoso grido, perché non perisca; perché, anzi, sia custodita, come germe divino, nella bufera infernale di oggi, e in attesa del domani che si spera imminente. La Rerum novarum, come ogni opera storica, scaturita dal cuore del Redentore a salvezza del genere umano, ha avuto i suoi precursori e i suoi araldi. Fra i primi, il vescovo tedesco Ketteler; fra i secondi, l’italiano Giuseppe Toniolo. Guglielmo Emanuele Ketteler (1811-1877), consacrato sacerdote nel maggio 1844, nel maggio 1850 da Pio IX, del quale era amicissimo per aver difeso con ardore la libertà della Chie10

sa, fu eletto vescovo di Magonza. Era il tempo nel quale il socialismo scientifico ed umanitario; sorto in Francia ad opera, specialmente, del SaintSimon e di Pierre Joseph Proudon; in Germania, prendeva forme concrete di movimento sovvertitore del vigente ordine sociale. Carlo Marx e Ferdinando Lasalle, ugualmente ebrei l’uno e l’altro, stabilito (anch’essi scientificamente): che la ricchezza è la sola realtà che importa… e che la ricchezza è esclusivamente frutto del lavoro; avevano lanciato la parola d’ordine Operai di tutto il mondo unitevi: la ricchezza è vostra; voi ne sarete i padroni e gli amministratori mediante la forza della vostra organizzazione. Dante fa dire a un demonio: «… tu non sapevi che io loico fossi…», Marx fu ebraicamente logico di fronte ai liberali della Rivoluzione francese; i quali in nome della «libertà di fare e lasciar fare a piacimento…», si erano impadroniti dei mezzi atti a produrre la ricchezza: del danaro e delle macchine; riducendo, così, l’importanza del lavoro umano, a quello di una merce sostituibile e, in ogni modo, acquistabile a prezzi ben ridotti; dato il crescente numero di operai disponibili sul mercato internazionale della mano d’opera. Ritornava, così, lo schiavismo della povera gente, costretta ad offrire il proprio lavoro, a qualunque prezzo, per non morir di fame. Schiavismo, che più tardi, nella Rerum novarum, sarà denunziato con le precise parole: «Un piccolissimo numero di straricchi hanno imposto all’infinita moltitudine dei proletari un giogo poco men che servile».


CINQUANT’ANNI DALLA RERUM NOVARUM

I tre grandi protagonisti della «rivoluzione sociale» della Chiesa Cattolica: papa Leone XIII, il vescovo di Magonza mons. Guglielmo Ketteler e Giuseppe Toniolo.

Nello spirito illuminato del vescovo Ketteler, la manovra, la grande decisiva manovra del principe delle tenebre, era evidente. Egli la denunziò apertamente, e con risolutezza apostolica entrò nel campo dell’azione, per mostrare: che i presupposti di Marx e di Lasalle coincidevano con i presupposti scientifici del liberalismo politico ed economico; e che la quistione operaia doveva essere esaminata e risoluta in armonia con i principi dell’Evangelo. Ketteler, in uno dei suoi numerosi opuscoli, afferma: «Gesù Cristo non è soltanto il Salvatore del mondo per aver redento le anime nostre; egli ci ha pure recato il rimedio a tutti i nostri mali nell’ordine civile, politico, sociale. Egli è soprattutto la salute delle classi operaie: la loro redenzione, la loro rovina è nelle sue mani; egli le tolse dal servaggio… Tutti gli sforzi umanitari dei pretesi amici dell’operaio non impediranno a questo, di ripiombare nella sua antica abbiezione, se esso abbandona Gesù Cristo».

E aggiungeva; che nella sua qualità di vescovo, egli aveva il diritto e il dovere di prendere un vivo interesse ai bisogni della classe operaia, di formarsi un’opinione sulle quistioni che la riguardavano, e di manifestarla pubblicamente. Sarebbe sommamente istruttivo conoscere, nella sua pienezza, il pensiero e l’azione del grande vescovo Ketteler. Quel pensiero e quell’azione, estesi rapidamente per tutta la Germania, suscitarono ovunque ammirazione e rispetto perfino nello stesso campo marxista. Ketteler, il precursore; ma l’araldo, Giuseppe Toniolo, non è da meno. Di lui e della sua opera di studioso e di cattolico militante, si dovrà parlare a suo tempo. Ora, in queste brevi note, basti accennare al fatto: che sulla vita del grande professore dell’Università pisana, è in corso lo studio intorno alle virtù eroiche e agli altri doni soprannaturali, che caratterizzano l’insigne personaggio, il Servo di Dio, che per un trentennio (18911918), fu assertore geniale e ardente della Rerum novarum. 11


CAMILLO SORGENTE IL VESCOVO CHE VOLLE DE CARDONA A COSENZA

Mons. Camillo Sorgente nato a Salerno il 13 dicembre 1823. A 51 anni eletto arcivescovo di Cosenza. Il 17 luglio 1874 fece il suo ingresso in città. Resse l’arcidiocesi cosentina per ben 37 anni, fino al 2 ottobre 1911, giorno della sua morte, all’età di 88 anni. 12


STUDI E RICERCHE SU DON CARLO DE CARDONA

GESÙ CRISTO, FONDAMENTO DELLA SPIRITUALITÀ DEL SERVO DI DIO DON CARLO DE CARDONA DA MORANO di Francesco Savino vescovo di Cassano all’Jonio

Parlare della spiritualità del Servo di Dio don Carlo De Cardona non può prescindere dall’humus in cui essa germoglia e dal quale trae forza e vigore sotto l’azione costante dello Spirito. Don Carlo, nato a Morano Calabro (Cs) il 4 maggio 1871 da Rocco e da Giovannina Ferraro, donna di spirito profondamente cristiano, si nutre di forti sentimenti religiosi che sua madre seppe inculcare nell’animo dei suoi sei figli: Nicola, Carlo, Ulisse, Teresina, Carolina e Amalia. Lo zio Antonino, avvocato, aveva scritto diversi articoli concernenti «Il bene degli umili ed il progresso morale delle moltitudini sotto l’Azione cattolica» sulla rivista Calabria cattolica, che veniva pubblicata a Cassano Jonio dal canonico Bloise. Si respirava in casa De Cardona una sincera atmosfera religiosa: un altro zio, don Cesare, era parroco a Morano nella Chiesa di San Pietro, e permeava ogni giorno della Parola del Signore, letta e meditata, la vita dei suoi cari. In questo clima e in quello respirato nel Liceo “Bernardino Telesio” a Cosenza, dove superò la maturità classica, avverrà che l’azione dello Spirito porterà don Carlo ad essere ordinato sacerdote il 7 luglio 18951 nella Cattedrale di Cassano Jonio dal vescovo cappuccino mons. Evangelista Di Milia. Qui si verificheranno il miracolo e il calvario della sua vita. Terminata la cerimonia di ordinazione sacerdotale, Di Milia comunicò a don Carlo che l’arcivescovo di Cosenza, mons. Camillo Sorgente, lo desiderava quale suo segretario particolare. Don Carlo, che non era attratto da un’attività burocratica e che a Roma aveva maturato il desiderio di entrare nella Compagnia di Gesù, rimase senza parola ma, dopo qualche incertezza e pensando di fermarsi a Cosenza per poco, accettò e si trasferì nella diocesi cosentina, «nel cuore di una delle regioni più dissestate del Mezzogiorno» dove «la situazione religiosa sembrava piuttosto semplice e deprimente, essendo caratterizzata da due fatti: l’inesistenza di ogni organizzazione cattolica efficiente e il dominio della massoneria nella vita civile», come 1 Per i Cameroni l’ordinazione sacerdotale avvenne il 27 settembre di quell’anno; cfr. S. Antonioli Cameroni, G. Cameroni, Movimento cattolico e contadino. Indagine su Carlo De Cardona, Milano, Jaca book, 1976, p. 24.

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FRANCESCO SAVINO

Don Carlo De Cardona, rispondendo all’appello di Leone XIII di contrastare «i nemici della Chiesa», con l’approvazione del vescovo mons. Sorgente, fa nascere «La Voce cattolica».

aveva osservato nel 1891 mons. Gottardo Scotton, vicentino, inviato nel Mezzogiorno d’Italia da Giovambattista Paganuzzi, presidente generale dell’Opera dei congressi. La fede in Dio, l’amore per Gesù Crocifisso e per il prossimo, saranno il viatico di tutta la vita di don Carlo, quella spirituale e quella sociale. Non ci sarà azione o momento della sua esistenza senza che avvertisse l’azione dello Spirito. Già ai primi del 1899 don Carlo sul numero 2 del quindicinale La Voce cattolica, da lui fondato a Cosenza nel 1898, in prima pagina espone il suo programma con precisione e chiarezza, un programma al quale resterà per sempre fedele e senza alcuna incertezza. «Noi vogliamo la difesa dei principi eterni della fede cattolica e del papato che ne è […] il fulcro e l’incarnazione […]. La ricostruzione dell’ordine sociale sulle basi del cristianesimo».

Nel n. 3 del 15 gennaio don Carlo dà vita a una rubrica, La Domenica del popolo, «fatta per istruire e incoraggiare al bene i figli del popolo»; in quella rubrica si soffermava sui «principi fondamentali dell’impegno sociale e notizie sullo sviluppo del Movimento cattolico in Italia e in altri Paesi europei». Tre sono le linee-guida della spiritualità di don Carlo. 1. La Chiesa e il popolo Scrive don Carlo: «Nessuna istituzione è stata mai nel mondo che avesse amato il popolo come lo ha amato la Chiesa Cattolica […]. Solo Gesù Cristo col suo Vangelo e con la sua grazia vi rende fratelli sinceri ed amantissi14


LA SPIRITUALITÀ DI DON CARLO DE CARDONA

mi; e però accorrete in quelle società in cui lo spirito del nostro Divin Redentore aleggia ed impera. In queste troverete la pace, la concordia, la schiettezza, l’amore, perché dove è Gesù ivi è ogni bene […] il vincolo dell’amore e della fratellanza cristiana deve unire in lega compatta il popolo per potere elevarsi all’altezza a cui l’ha designato il cristianesimo. […] Il popolo – e specialmente il popolo più disprezzato e sofferente – è stato sempre l’oggetto su cui si è rivolta, a preferenza, l’azione redentrice della Chiesa».

Quando alcuni membri del Comitato diocesano di Cosenza s’erano rifiutati di firmare la petizione contro la legge del divorzio, come aveva segnalato qualche anno prima mons. Gottardo Scotton, don Carlo non esita a scrivere un articolo molto significativo dal titolo L’obbedienza al papa rivolto «ai cattolici di mezza coscienza […] quei signori che si fan paladini di un cattolicesimo così detto liberale, la cui caratteristica più spiccata è la disobbedienza al papa», affermando con forza che: «Ogni vero figlio della Chiesa deve al pontefice romano, come a supremo maestro, l’ossequio docile e intero della sua mente e del suo cuore. Chi si ribella al papa, si stacca dal gregge di Cristo, […] è uno sterpo e non un ramo verdeggiante di questo albero grandioso che coi suoi frutti allieta la famiglia umana […]. La stella è la parola del papa, che non si stanca di richiamare i popoli all’unità della fede e d’incitare le anime ad unirsi a colui che è via, verità e vita […]. L’operaio che lavora […] non è il bue che trascina [...] l’aratro [...] non è lo schiavo, strumento cieco nelle mani del padrone che ne sfrutta i sudori e le vigorose energie. L’operaio cristiano è il divino falegname di Nazareth, che il lavoro santifica con la preghiera, e nel segreto del cuore offre i suoi stenti ad onore del Padre Celeste. È oggi la festa del lavoro, perché con la Rerum novarum, al lavoro fu solennemente, innanzi alla storia, rivendicata la dignità e l’importanza del fattore umano nel progresso della civiltà […]. È festa oggi! È la festa dei deboli e degli oppressi cui è annunziato il verbo della redenzione. È la festa del lavoro che da basse morte gore, assurge al fastigio della sua dignità, per avvicinarsi a Cristo Redentore degli umili».

2. Il prete e la sua missione Don Carlo, evitando di polemizzare con i suoi confratelli, manifestò tuttavia, sempre con fermezza il suo pensiero sulla missione del sacerdote scrivendo su La Voce cattolica: «Come pretendere che il popolo si avvicini al prete, se la missione del prete non gli si mostra nella sua vera luce, se non gli si fa intendere che la Chiesa non è e non può essere indifferente alle distrette dolorose e alle ingiustizie di cui è vittima la classe operaia?» 15


FRANCESCO SAVINO

«La Voce cattolica» dedica un numero speciale per l’ordinazione di don Luigi Nicoletti.

e ricorrendo a una citazione di Leone XIII al vescovo di Liegi nel maggio 1893, sempre su La Voce cattolica, scrive: «Bisogna esortare soprattutto i preti ad andare al popolo; essi non possono rimanere circoscritti nelle loro chiese e nei loro presbiteri; bisogna animarli dello spirito apostolico, dello spirito di San Francesco Saverio, che in ogni luogo penetrava dove fosse a predicare la verità cristiana, [perché] il cristianesimo è fatto dal suo divino istitutore per salvare l’uomo, l’uomo intero con la sua intelligenza, col suo sentimento, coi suoi bisogni, col suo provvidenziale istinto alla socialità, al progresso».

Rivolgendosi a un amico sull’importanza della costituzione intima e la funzione sociale di una di quelle originarie cellule che sono le cooperative scrive: «Non vede quale e quanta influenza nella società odierna acquisterebbe lo spirito di Gesù, se quelle primitive cellule si ravvivassero e crescessero, feconde e robuste, nel calore vitale del cristianesimo?». Don Carlo sa quale deve essere la missione del sacerdote: alla luce del Vangelo e sotto la vigile protezione della Chiesa madre e maestra, vivere per gli altri, per gli emarginati, per gli oppressi, per gli ultimi. L’altissimo valore che don Carlo attribuiva al sacerdozio emerge in tutta la sua chiarezza in una lettera che scrisse all’amico e discepolo, Luigi Nicoletti, in occasione della sua ordinazione sacerdotale: «Potevi seguire gli impulsi affascinanti della natura e della giovinezza, e hai invece voluto il sacrificio, l’immolazione nell’amore di Cristo e del mondo […]. San Gregorio ti ammonisce che con ogni cura devi vigilare, per essere puro nel pensiero, il primo e il più ardente nell’azione, prudente nel tacere, vicinissimo a ciascuno per amorevole compassione, per umiltà compagno con tutti […]. Si vuole forse incoronare di rose e di frasche la vittima che deve portarsi sul Calvario? Io piuttosto ti prego con 16


LA SPIRITUALITÀ DI DON CARLO DE CARDONA

lo stesso San Gregorio: nella faticosa e sdrucciolevole salita, teniamoci stretti per le mani, sostenendoci l’un con l’altro, in modo che chi è più giovane e fresco, come te e i tuoi compagni, sorregga fraternamente la stanchezza e un po’ la fiacchezza dei più anziani»2.

Un incoraggiamento, quella lettera, in nome di Gesù Crocifisso, per «affrontare con serenità quella vita di lotta e di sacrificio che sola poteva garantire la continuazione del discorso che don Carlo aveva iniziato». 3. Fede, carità, perdono La profonda e sentita spiritualità di don Carlo era la pietra angolare su cui poggiava la sua azione, che era servizio per il prossimo e, soprattutto, per chi soffriva la fame o i soprusi degli arroganti e dei potenti. Ma tutto in lui nasceva unicamente dalla fede indefettibile in Gesù Cristo, nello Spirito Santo e nell’aiuto della Madonna. Così scrive sul n. 42 del 1899 de La Voce cattolica: «Il pensiero della presenza di Gesù Cristo deve essere il più efficace conforto per i cattolici, che intendono la necessità del momento che attraversiamo e non rifuggono dalla lotta […] in mezzo agli uomini […] di stabile e d’immortale non vi è che la fede in Gesù Cristo, sempre viva, sempre verde, nel continuo mutarsi delle cose».

Sul n. 21 dello stesso anno: «Lo Spirito Santo è spirito di verità, di giustizie, di libertà, di amore. Egli risiede nella Chiesa Cattolica, e per mezzo dei successori degli apostoli continua ad operare per la salvezza del mondo… Come gli apostoli, così noi – senza armi, senza congiure – animati soltanto dallo spirito di Dio, resisteremo a tutti gli attentati… In noi vincerà la Chiesa; e la nostra vittoria segnerà il trionfo degli umili e degli oppressi».

Parlando del Corpus Domini, sul n. 23 scrive: «L’Eucaristia è il fermento divino che riempie le anime di virtù cristiane; è il germe immortale da cui nascono e hanno rigoglioso sviluppo grandi idee, vigorosi affetti, eroici sacrifici. Se vogliamo che il nostro popolo... risorga dall’avvilente deiezione in cui si trova, dobbiamo aver fede nell’onnipotenza e nell’amore di Cristo: dobbiamo fissare lo sguardo nell’Ostia immacolata, simbolo d’immolazione, pegno di amore, fonte inesauribile dei fulgori della fede». C. De Cardona, All’amico Luigi Nicoletti, in «La Voce cattolica», numero unico, 9 giugno 1906. 2

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FRANCESCO SAVINO

Sul n. 14 del 1900 de La Voce cattolica, parlando del mese di maggio si sofferma sulla figura della Madonna e tra l’altro scrive: «[…] la preghiera confidente e affettuosa alla Madonna è per i cattolici una necessità sociale. Siamo pochi e fiacchi, il cammino che dobbiamo fare per giungere alla meta è faticoso e lungo».

Per don Carlo ciò che deve muovere i cattolici ad adoperarsi umilmente per aiutare la plebe a sollevarsi dalle angustie è la carità di Cristo e non la politica o l’opportunismo dei partiti o, ancora, la febbre della novità e l’istinto a ribellarsi tanto che sulla scia di Sant’Ignazio di Loyola scrive: «In alto, in alto i cuori, o generosi lottatori dell’ora presente. Non vi prenda alcun pensiero della vittoria: a voi tocca solo combattere sotto gli occhi di Dio». Parlando poi delle istituzioni sociali don Carlo afferma che esse hanno bisogno di un grande ideale che deve animarle e questo non può che essere il cristianesimo: «[…] il cristianesimo è una forza. Una forza che non si vede, ma si sente nell’anima… il cristianesimo è l’anima grande e divina delle cose: è anima di verità perché è luce; è anima di giustizia, perché la giustizia esso vuole come base del suo regno; è anima di fraternità universale, è anima di liberazione e di redenzione».

Tutta la vita di don Carlo fu un atto di amore che lui consacrava al Sacro Cuore di Gesù; stupenda è la preghiera datata Todi, 30 giugno 1937: «O Sacro Cuore! […] è nostro dovere: primo chiederti perdono e invocare la Tua divina pazienza sulla nostra miseria, che forse è rimasta tale e quale, per l’incorreggibile durezza del nostro cuore; ciò nonostante dobbiamo e vogliamo, in secondo luogo, ringraziarTi del dono di farci venire puntualmente, tutte le sere, qui, innanzi al Tuo altare, a conversare con Te sul mistero altissimo e profondissimo del Tuo amore per noi creature, infette di peccato, e sempre pronte a dimenticare Te e i tuoi doni. Questa sera, aiutati dalla Tua grazia, rivolgiamo (a Te) il nostro pensiero».

Spinto dall’amore verso il prossimo, don Carlo non portava rancori, non sapeva odiare. Egli era pronto a dimenticare a perdonare tutti, compresi quelli che avversavano le sue idee, i politici che talvolta per la loro acredine e per la loro ostilità s’inimicavano con lui. Così scrive sul n. 51 del 1899 de La Voce cattolica: «Nei tempi tristissimi in cui ci troviamo, nelle distrette dolorose in cui oggi è posta la Chiesa, teniamo sempre nella memoria la bella e radiosa figura del martire che muore perdonando e amando coloro cui aveva rimproverata la durezza del cuore». 18


LA SPIRITUALITÀ DI DON CARLO DE CARDONA

Una panoramica della cittadina di Todi, dove don Carlo abitò con il fratello Ulisse.

Molte furono le occasioni in cui col suo comportamento mostrò inequivocabilmente il senso del suo perdono e del suo amore. Basta ricordare la sua presenza, il 7 agosto 1942, ai funerali del suo maggiore antagonista, il giornalista e letterato Antonio Chiappetta. Anche durante l’esilio di Todi, tra sconforto e povertà, emerge la radiosa spiritualità di don Carlo. Ingiustamente perseguitato, la fede, luce che non conosce il tramonto, lo sorregge. Nella totale amarezza dell’animo, per don Carlo fu di grande sollievo e conforto l’amicizia di Federico Sorbaro, allontanato da Cosenza anche lui nel 1922 ed emigrato al Nord; con lui tenne un regolare contatto epistolare. Le lettere di don Carlo e le pagine del suo Diario intimo sono la più immediata testimonianza del durissimo travaglio interiore che lo tormentava, per veder crollare tutta la sua opera e per l’impossibilità di combattere la manovra di distruzione morale condotta ai suoi danni a Cosenza. Un animo sensibile e immacolato quello di don Carlo, doti che si evincono dalla lettera che il 30 agosto 1935 scrive all’amico Federico: «Non si muove foglia che Dio non voglia: è dunque il Signore che qui a Todi, nell’esilio, mi ha fatto pervenire la parola affettuosa di uno della mia stessa terra […] dopo 40 anni di lavoro, senza riposo […] sono all’elemosina del mio caro fratello, a cui non ho dato mai un soldo, e che invece tante volte mi ha fornito di biancheria, indumenti ed altro […]. Se fossi stato un banchiere (e avrei potuto esserlo […]), almeno le briciole di quelle centinaia di milioni che circolavano nella Federazione delle Casse della Calabria Citeriore […] una particella di quelle briciole sarebbe ora 19


FRANCESCO SAVINO

meco in sostegno e in difesa del mio corpo logoro dagli anni e assai più dai combattimenti, dagli sforzi, dalle emozioni, ecc. […] In verità, tutta quella struttura economica era per me lo strumento, l’espediente per avvicinare anime calabresi ed educarle a Cristo, in Cristo […]. Ora, nell’umiliazione e nel dolore, è necessario ancora pregare, soffrire, tacere. E se ho fatto con te questo sfogo, gli è stato per evitare lo scandalo che tu potresti sentire nel vedermi fallito; e per affermare la vitalità intensa del mio sacerdozio».

Nel suo Diario intimo annotava: «Signore! Tu lo sai! Sono stato, per decenni, tra i milioni: ne ho avuto sempre paura: credevo di poter fare il bene con essi; ma, infine, sono stati il mio tormento; e per non averli amati, come si fa da tutti, si sono, selvaggiamente, vendicati: son fuggiti da me, con l’intento di vedermi un uomo finito, coperto di vergogna, e distrutto anche come prete. Ma Gesù vegliava sul suo povero peccatore: lo ha liberato da quella ricchezza, che uccide; e ora gli promette, gli fa intravedere un’altra ben diversa ricchezza: la ricchezza della presenza di lui, nel mondo, nella Chiesa, negli avvenimenti, negli spiriti, nei cuori umani, e, prima e più di tutto, nel pane consacrato».

Lo sfogo di questa amarezza non era fine a se stesso, non si cristallizzava in ira o ribellione. Le sue riflessioni sulle sventure erano per don Carlo motivo di ricerca di equilibrio interiore che poteva venirgli solo dalla consapevolezza della purezza del suo rapporto con l’essere supremo, un equilibrio che avrebbe potuto dargli la forza di affrontare le dure battaglie future. Il sacerdozio di don Carlo continuava, e prevaleva sull’animo ribelle di De Cardona uomo. Nel giugno 1936 don Carlo torna all’esilio di Todi, lontano da Cosenza ancora per circa cinque anni, vive quasi isolato presso suo fratello Ulisse; persino gli altri sacerdoti non lo avvicinavano, perché le sue colpe nei confronti del regime erano considerate troppo gravi. Poverissimo, senza neppure una sovvenzione che gli consentisse di mantenersi, doveva contare esclusivamente sull’ospitalità del fratello. Lo sconforto di don Carlo si aggrava sempre più, anche per le sue precarie condizioni di salute, tuttavia lui non si perde d’animo e attende con coraggio nuove possibilità d’azione. Don Carlo si ripiega sulla sua fede incrollabile, nel suo ascetismo spirituale, e «lentamente ricostruiva il suo animo macerato dalle brucianti delusioni e dalle persecuzioni subite». Il 12 agosto 1930 scrive nel suo Diario intimo: «Le condizioni in cui mi ha condotto la Provvidenza del Sacro Cuore sono queste: l’assedio delle forze nemiche mi stringe da vicino da ogni parte; bisogna finalmente che io mi decida a uscire dal mondo, intera20


LA SPIRITUALITÀ DI DON CARLO DE CARDONA

Federico Sorbaro, l’amico più caro di De Cardona. A lui dall’esilio di Todi don Carlo scriverà alcune lettere, pubblicate sul numero di aprile-ottobre 1971 (anno II, n. 2) dei Quaderni decardoniani. Molte delle citazioni di questo saggio di mons. Savino sono tratte da questo quaderno. mente: dallo spirito del mondo e, a suo tempo, anche dai luoghi e dalle cose del mondo. In tale condizione esteriore, io non posso non sentire l’urgenza di essere munito, agguerrito e preparato alle supreme decisive battaglie». 21


FRANCESCO SAVINO

A Todi l’amarezza veniva in qualche modo lenita da nuovi eventi, fu nominato curato nella parrocchia rurale detta della Canonica. Così scrive il 22 agosto 1937 nel Diario intimo: «Sono di nuovo in mezzo ai rurali […] ma, questa volta, in modo preciso e completo, ricco di un’esperienza lunga e dolorosa, la quale, oggi, mi è apparsa come una preparazione fatta da Dio […] in ordine al compimento della mia vocazione, e come ultima tappa di viatore in vista della patria. Già stamani, alla Messa, ho visto fortemente aumentato il numero dei presenti, ed era impressionante il loro silenzio e la loro attenzione. Stavano silenziosi e immoti come presi dal senso di Dio».

Incoraggiato dalla fiducia dei rurali, don Carlo riprendeva la sua azione sociale, in una delle parrocchie più povere di tutta l’Umbria, come nei primi anni della Democrazia cristiana. Da Todi l’8 marzo 1938 scrive in una lettera all’amico fraterno Federico Sorbaro: «[…] mi sono messo a servire i poveri con tutte le forze e con l’intento di evangelizzarli… Non posso pretendere il dono dei miracoli per imitare il Signore […]; ma è anch’esso un miracolo della grazia, sacrificarsi nella povertà, nelle umiliazioni, nelle infermità, nelle fatiche […] per servire i poveri. Questa è stata – ed ora è, anche più – la mia azione sociale. Stamane sono andato e tornato a piedi – in tre ore – per servire una povera donna che voleva onorato il suo marito defunto, col rito della Santa Messa. Sono già amico di un giovane muratore, perché curo l’istruzione di un suo figlio; così di un calzolaio, mediante la scuoletta a un figlio storpio in una mano».

Nel luglio 1939 don Carlo viene nominato parroco a Collepepe, un piccolo paese in provincia di Perugia; presto entra nelle simpatie dei parrocchiani ed ecco rispunta, anche in un paesino stonato, la sua vitalità sociale tanto che promuove la nascita di una Cassa parrocchiale che avrebbe dovuto trasformarsi presto in una vera e propria Cassa rurale. Ma proprio quando la Cassa cominciava a dare i suoi frutti, intervennero i gerarchi fascisti locali che stroncarono sul nascere la sua opera, tanto che don Carlo fu cacciato anche da Collepepe. Così lo ricorda la signora Lina Solini: «Lo conobbi a Collepepe di Collazzone (Perugia) negli anni 1938-39. Di questo sacerdote mi è rimasto impresso nella memoria l’aspetto ascetico, ieratico, e al tempo stesso umile e mite. Si proponeva agli altri in modo molto delicato e sensibile e quasi preoccupato di imporre la sua presenza. […] Posso testimoniare la profondità morale e spirituale di don Carlo De Cardona».

E il sacerdote mons. Cesare Checcobelli che conobbe don Carlo negli stessi anni e che fu suo alunno quando insegnava latino nel Seminario 22


LA SPIRITUALITÀ DI DON CARLO DE CARDONA

Don Carlo De Cardona a Todi, nel 1941, pubblicò per i tipi della tipografia Tuderte, un saggio su San Tommaso d’Aquino. L’opuscolo di 18 pagine ricevette l’imprimatur del vescovo di Todi, mons. Alfonso Maria De Sanctis.

di Todi, scrive: «Appariva come sacerdote buono ma sofferente, mesto e silenzioso. Celebrava la Santa Messa con tanto raccoglimento e osservanza liturgica». Torna a Todi presso il fratello Ulisse nel settembre 1940, e qui, nominato canonico del Capitolo Cattedrale, insegna Latino e Storia nel ginnasio del Seminario; riprende i suoi studi di filosofia e di teologia, pubblica un breve saggio su San Tommaso d’Aquino, Thomas d’Aquino, lucerna viva di sapienza redentrice, porta avanti uno studio impegnativo e teologico sull’Apocalisse mai dato alle stampe. Era bravissimo come docente tanto da far esclamare a uno dei suoi studenti, Nello Gentile, «Com’era bello farsi insegnare da lui!»3. Tuttavia don Carlo si sentiva solo, a causa «dell’incomprensione che lo circondava, anche tra lo stesso clero di Todi, che quasi lo rifuggiva»; forse per questo lui «pur essendo canonico della Cattedrale, era solito celebrare la Messa nella chiesetta della Madonna del Campione, poco distante dall’abitazione del fratello... Quella chiesetta, nel suo intimo e silenzioso raccoglimento, gli consentiva di sublimare il suo sacerdozio nel gesto liturgico, lontano dalla solitudine che poteva derivargli dal sentirsi circondato da persone che non potevano comprenderlo». N. Gentile, Ricordo di don Carlo in «Quaderni decardoniani», gennaio-marzo 1971, pp. 27-29. 3

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FRANCESCO SAVINO

Cosenza, stadio San Vito, 6 ottobre 1984, la visita di Giovanni Paolo II alla Calabria. Nel riquadro le parole pronunciate dal pontefice polacco sugli «operai della vigna del Signore».

La figura di don Carlo De Cardona, sacerdote, prete-missionario, uomo, politico, giornalista, docente, l’innamorato del Sacro cuore di Gesù, ieri come oggi, si presenta quanto mai attuale. Il suo pensiero, le sue idee, la sua azione, la sua fede, fresche e cariche di vitalità e di pregnante valore spirituale, morale e sociale, hanno toccato la mente e il cuore di tutti, valicando i confini della nostra regione per approdare in terra lombarda e al di là delle Alpi. Il suo vivere cristiano, nell’umiltà, nella semplicità e soprattutto nella povertà, oggi più che mai, costituisce, non solo per ogni buon cristiano, un fulgido modello da seguire, un sentiero di speranza e di certezza da percorrere per la nostra conversione e la nostra rinascita spirituale, morale e sociale. In un momento in cui il mondo, ieri come oggi, è «tutto pervaso e dominato dallo spirito di distruzione, …distruzione di tutto: distruzione di istituti sociali…, di vite umane…, di edifici…, distruzione della scienza…, essere e rimanere cristiano con assoluta fedeltà al Signore, non è e non può essere fragile sentimentalismo, e nemmeno una speculazione, come purtroppo spesso accade, …non può essere altro che vivere seriamente in Cristo… non può essere altro che Cristo medesimo, il Verbo di Dio fatto uomo, il quale si degna dei suoi amici, anche in questa fase della storia dell’uomo sulla terra»4.

Vivere cristianamente in questa nostra società significa, come scrive don Carlo, che «Cristo deve avere, ed avrà, la testimonianza sicura dei suoi 4

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C. De Cardona, Diario intimo, documento n. 3.


LA SPIRITUALITÀ DI DON CARLO DE CARDONA

amici»; risolvere radicalmente il problema del vivere cristianamente, non solo per se stessi, ma soprattutto per il prossimo e per la società, vuol dire, per lui, «Amare veramente Gesù Cristo, la persona di lui, la passione di lui: udire la voce di lui, assentire alle chiamate e ai richiami suoi, desiderare la sua amicizia, la sua dolcissima conversazione, e infine raggiungere l’altezza della di lui presenza nello spirito, nella mente, nel corpo, nelle parole e in tutto l’operare».

Senza tali sorgenti del nostro essere, sarebbe un assurdo morale, scrive don Carlo, «pretendere di vivere cristianamente, peggio ancora, pretendere di agire socialmente in nome di Cristo». Quando Giovanni Paolo II visitò la Calabria, il 6 ottobre 1984, nello stadio San Vito a Cosenza, invitando la comunità ecclesiale ad essere «fermento e forza morale per il rinnovamento e la rinascita religiosa, sociale, morale e civile di tutta la regione», il papa polacco gridò alto e sonante come modello da seguire il nome di don Carlo De Cardona, gigante del cattolicesimo calabrese. La Sequela Christi, la devozione a Maria, il messaggio evangelico della salvezza attraverso la croce e della purificazione mediante il sacrificio, in una visione cristocentrica, consentirono al Servo di Dio don Carlo De Cardona, l’esercizio in forma eroica delle virtù teologali della fede, della speranza, della carità. A proposito della fede è sorprendente e nello stesso tempo è meraviglioso quanto don Carlo scrive dell’infedeltà degli uomini: «O San Francesco di Paola, soccorrete le vostre popolazioni che hanno poca fede, o non sempre ne hanno. Proprio come i discepoli di Gesù nell’episodio della tempesta sedata: egli se ne stava a poppa, sul cuscino, e dormiva… “Maestro, non t’importa che moriamo?”… E Gesù disse loro: “Perché avete paura? Non avete ancora fede?”»5.

Le virtù teologali unitamente alle virtù cardinali, prudenza, giustizia, fortezza e temperanza, ai consigli evangelici, allo stile di vita di assoluta povertà evangelica e di adamantina castità, furono il dono più bello consegnato da Gesù al Servo di Dio don Carlo De Cardona, che seppe mettere a frutto i talenti a lui affidati. «Bisognerebbe rileggere i suoi Diari – scrive mons. Serafino Sprovieri, arcivescovo emerito di Benevento – per seguire l’itinerario luminoso, che condusse don Carlo fino al Calvario, facendo sua la passione gloriosa del Signore».

C. De Cardona, Diario intimo, 2 febbraio 1936.

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FRANCESCO SAVINO

CAUSA DI BEATIFICAZIONE DI DON CARLO DE CARDONA

La causa di beatificazione e canonizzazione del Servo di Dio, don Carlo De Cardona, morto in fama di santità il 10 marzo 1958 a Morano Calabro, Diocesi di Cassano Jonio (Cs), avviata nell’anno 2010, quando era vescovo di Cassano, mons. Vincenzo Bertolone, è stata ripresa e fortemente voluta dal vescovo, mons. Francesco Savino. Don Massimo Romano, postulatore legittimamente costituito, ha chiesto la prosecuzione della causa di beatificazione e canonizzazione del Servo di Dio; al fine di interrogare i testimoni viventi è stato istituito un nuovo Tribunale che ha prestato giuramento, il 22 ottobre 2017, dopo la solenne celebrazione, presieduta dal vescovo mons. Savino, nella Chiesa parrocchiale di Santa Maria Maddalena a Morano Calabro. Al termine si è tenuto l’insediamento e il giuramento da parte dei membri del nuovo Tribunale, che sono: don Pierfrancesco Diego, delegato episcopale, don Annunziato Laitano, promotore di Giustizia e il dott. Marco Leone, notaio attuario. È già attiva la Commissione storica per la raccolta di tutti i documenti inerenti la causa del Servo di Dio, don Carlo De Cardona che sta esaminando tutte le carte, sia quelli editi che quelli inediti. I componenti sono: prof. Biagio Giuseppe Faillace, presidente, dott. Antonio Acri, prof. Enio Apollaro, dott. Romilio Lorenzo Iusi e il dott. Leone Viola. 26


STUDI E RICERCHE SU DON CARLO DE CARDONA

LA GRAFOLOGIA CI AIUTA A CAPIRE LA PERSONALITÀ DI DON CARLO DE CARDONA di Carmensita Furlano Scuola Forense di Grafologia - Napoli

Considerando l’epoca in cui è vissuto don Carlo (1871-1958), siamo di fronte ad un modello calligrafico di scrittura del tempo tenendo conto anche della penna usata che potrebbe essere una piuma d’oca. Si osserva un movimento tensivo, un’energia ben canalizzata: notare i margini, l’ordine di rigo e di spazio, il movimento verso destra con continuità e discontinuità dal quale si evince la catena di un progetto, la visione del totale e del particolare. La scrittura attaccata e staccata in un diseguale metodico: visione di una persona sintetica e analitica all’occorrenza, con critica riflessiva, votata al ragionamento per evitare l’errore limitando se stesso anche al rapporto con gli altri se ritenuti non costruttivi per l’ideale da raggiungere (LTP SM). Scrittura ascendente e angolosa lievemente sopra la M anche se l’angolosità è dovuta più alla forma che al contenuto con riferimento al modello calligrafico del tempo. Scrittura decisamente pendente come oscillazione e parallela come direzione assiale: precisione, ordine e adattabilità. La pressione forte e fortemente differenziata: irascibile e capacità di fare, come la intozzata 1° modo intensa tenendo conto della penna usata. Scrittura fluida, accurata, fine, volta a controllare l’aspetto estetico del testo verso l’altra persona, gusto estetico verso l’ambiente e le persone ma soprattutto interiore, gusto della bellezza del cuore. Un MIR M che dimostra una scioltezza di controllo delle situazioni, come la velocità media e controllata anche se potrebbe scrivere più velocemente (notare il 3 rigo: impaziente andante). Troviamo delle ampollosità calligrafiche soprattutto 27


CARMENSITA FURLANO

nelle maiuscole dovute alla forma grafica del tempo. Ciò che attira l’attenzione è la presenza del riccio della mitomania nella lettera d molto pronunciato, in questa scrittura è elemento positivo di stimolo che spinge il soggetto a lottare per realizzare una visione sociale di bene nella realtà, capacità di concretizzare, forza di personalità, capace di adottare cambiamenti opportuni per motivi di strategia. Leggiamo equilibrio tra Es e Super Io anche se c’è più spinta dal basso (vedi allunghi inferiori) che tende a dominare, ma l’io forte e preciso non lascia tempo. Si nota omogeneità grafica tra firma e testo, indice diretto di corrispondenza tra ciò che il soggetto sente vive è, e il proprio comportamento sociale (triplice omogenea): unità e unicità della persona. La realtà individuale corrisponde alla sociale. Il soggetto vive coerentemente il rapporto con gli altri come con sè stesso (omogeneità tra calibro e LDL: considerazione di se e capacità di esprimere se stesso e l’io individuale). Testo chiaro, leggibile, volontà di chiarezza comunicativa, persona attiva, ottimista, libido in progressione, estroversione e fiducia in se stesso e verso l’esterno ma controllata. Un temperamento sanguigno ma al tempo stesso recettivo capace di musicare il sé della vita e degli altri e soprattutto il sé rifiutato con semplicità come si nota dal ritmo cadenzato, una scrittura che sembra essere una musica di bolero che si espande verso il futuro con superba fluidità. L’ASPETTO FISICO DI DON CARLO DE CARDONA «Di Carlo De Cardona restano pochissime fotografie, perché, come ricordava spesso Federico Sorbaro, egli non voleva farsi ritrarre. Non si fissano le anime, diceva. Una delle poche immagini, forse l’unica, di don Carlo ragazzo, si trova nella casa della famiglia De Cardona a Morano Calabro. La fotografia ritrae Carlo diciottenne, in piedi, accanto allo zio parroco. La sua immagine è già fedele alle descrizioni che di lui furono fatte successivamente: alto, magro, con lo sguardo fiero e le mani incredibilmente lunghe e nervose». Così recita la nota 26 di pagina 41 del libro dei Cameroni. Ma esiste un’altra foto, quella da sempre utilizzata da i Quaderni decardoniani e per altre pubblicazioni. Nel 1985, per curare il volume di Luigi Intrieri, Don Carlo De Cardona e il movimento delle Casse rurali in Calabria, chiesi ad un illustratore genovese, Franco Andreoni, di ricavarne un ritratto a colori. E così da quel giorno molti libri ed anche le immaginette dedicate al Servo di Dio, utilizzano riproduzioni di questo esemplare. Nel 2013 il Club giovani soci della BCC «Mediocrati», ha promosso un fumetto su don Carlo De Cardona, con i disegni realizzati da Vincenzo Raimondi. (Demetrio Guzzardi)

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L’ASPETTO FISICO DI DON CARLO DE CARDONA

UN RITRATTO SU DON CARLO DE CARDONA DEL 1908 Nel luglio 2018, durante un mio studio sui giornali cosentini, conservati nella Biblioteca Civica di Cosenza, mi sono imbattuto con il periodico illustrato Cronaca dei dibattimenti, diretto dall’avv. Mario Vigliaturo, che nel numero del 30 dicembre 1908 pubblica una vignetta su don Carlo De Cardona. Il disegno è firmato Turlupin; questo il testo riprodotto:

«Carlo De Cardona. È uno spilungone adusto e severo, senza l’oppressione della materia vile ed inerte del grasso e della carne, subissati nel tenace sforzo di una fatica imbroba o nella lunga tensione di un’idea fissa. Formidabile organizzatore di Leghe, ne ha piantato da per tutto, come le sentinelle avanzate dalla sua dominazione, a lui obbedienti devote. Con l’aiuto delle Leghe diè la scalata, e con fortuna, al Comune, ed alla Provincia, ove parla sovente ascoltatissimo ed opera, perchè alla soda cultura accoppia il senso pratico del più equilibrato uomo d’affari. Ha il suo quartier generale nella Cassa rurale, ove convengono ogni sera i leghisti, e da cui muovono, con fragore di musiche e spiegamento di bandiere, in contingenze di festa. Popolarissimo in tutta la Provincia è l’occhio destro di monsignor Camillo, comunque, perchè prete d’ingegno e d’avvenire, non abbia seco le simpatie del clericume astioso della Cattedrale». (DG) 29


DEMETRIO GUZZARDI

Nella metà degli anni Settanta del Novecento, il movimento di Comunione e Liberazione, fondato da don Luigi Giussani, nel tentativo di proporre una nuova presenza cattolica in tutti i settori della vita sociale, si imbattè con la figura e l’opera di don Carlo De Cardona. Il tramite fu Federico Sorbaro, che propose ai coniugi Cameroni di Milano di conoscere quanto aveva fatto il prete di Morano nei primi anni del Novecento per promuovere le classi più umili che vivevano in Calabria. A don Carlo fu dedicato il Centro culturale di Roma, a cui partecipavano studenti ciellini di Morano e Castrovillari.

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STUDI E RICERCHE SU DON CARLO DE CARDONA

IL SACERDOTE CHE SPESE TUTTA LA SUA VITA PER LA REDENZIONE DEI CONTADINI E DEGLI OPERAI di Demetrio Guzzardi editore e promotore del Centro studi calabresi «Cattolici socialità politica»

A Cosenza, in piazza Parrasio – che tutti chiamano largo Arcivescovado – sul palazzetto dell’ex Seminario sono posizionati su lastre di marmo due medaglioni, opere dello scultore Cesare Baccelli: il primo è dedicato a Leone XIII – il papa della Rerum novarum, l’enciclica che aprì la strada ai cattolici nel sociale – il secondo a don Carlo De Cardona, il prete nato a Morano Calabro, ma che ha svolto il suo intenso apostolato sacerdotale a Cosenza tra gli operai e i contadini, Cosenza, piazza Parrasio. Medaglione dedifondando le Casse rurali e le leghe cato nel 1971 a don Carlo De Cardona, opera di Cesare Baccelli. bianche. De Cardona, che ha vissuto con grande partecipazione gli avvenimenti più importanti del primo Novecento, fu contrario all’entrata dell’Italia nella prima guerra mondiale; scriveva in un suo articolo: «È una seria minaccia per gli interessi della classe proletaria. La guerra è strage di vite umane, è la negazione più terribile della fratellanza; chi ama la guerra è figlio di Caino, perché la guerra elimina il lavoro e lo spirito del lavoro. I più colpiti sono gli umili lavoratori dei campi e delle industrie. I cittadini italiani hanno qualcosa di più serio da fare per la vita e per la patria. Hanno un infinito bisogno di pace».

Fu strenuo oppositore del fascismo; nel 1926 con uno scatto d’ira scaraventò in strada il ritratto del duce, che una mano ignota aveva appeso nel suo ufficio alla direzione della Cassa rurale federativa. Da consigliere provinciale (1905-1923) la sua azione fu tutta protesa a «combattere il clientelismo a tutti i livelli, le camorre e le camarille». Il paese del cosentino che ha maggiormente ricevuto i benefici dall’opera decardoniana è certamente San Pietro in Guarano: oltre alla centrale idroelettrica sul fiume Arente, con un moderno impianto per l’illuminazione nel 1907 (la città di Cosenza avrà la luce pubblica nel 1914), fu realizzato un mulino elettrificato che 31


DEMETRIO GUZZARDI

Un momento della lavorazione dei fichi secchi. La stragrande maggioranza della manodopera era femminile. Don Carlo si recò personalmente a Marsiglia per contrattare un prezzo all’ingrosso più favorevole per i produttori di fichi che si erano associati in cooperativa.

liberò i contadini dal monopolio del barone Collice, unico proprietario dei 5 mulini ad acqua allora esistenti. Nell’occasione dell’inaugurazione della centrale idroelettrica don Carlo ebbe a dire: «Voi contadini dovete prendere nelle vostre mani, la causa del Risorgimento civile della Calabria. Ricordate che il cristianesimo non solo salva l’anima dell’uomo, ma gli fa riacquistare il dominio sulle cose, sulle forze della natura, sugli animali, su tutto».

Sempre a San Pietro in Guarano si verificò l’episodio di un gruppo di donne licenziate dalle filande del barone Collice, perché i fratelli o i mariti non avevano votato il signorotto locale, facendo risultare eletto alla Provincia don Carlo De Cardona. Una di esse, sfidando le ire padronali, manifestò per le vie del centro con la bandiera bianca, ed invitò le altre a costituire la sezione femminile della Lega del lavoro. Don Carlo, per valorizzare un prodotto tipico dell’economia contadina cosentina, si recò personalmente in Francia a Marsiglia per sostenere la commercializzazione dei fichi secchi ed avere un prezzo all’ingrosso favorevole ai produttori associati nelle cooperative. De Cardona era riusciuto 32


SPESE TUTTA LA SUA VITA PER LA REDENZIONE DEI CONTADINI

a creare una forza di «coesione che legava tra di loro operai e contadini, suggellando quel patto di classe che avrebbe dovuto essere la premessa naturale al più grande e concreto moto di riscossa…». Dopo la morte del prete di Morano, uno dei pochi che continuò a tener desta l’attenzione sulla figura di don Carlo, fu il suo allievo Federico Sorbaro, un ebanista cosentino che si trasferì a Milano, nei primi anni del Novecento, che fece conoscere ad alcuni aderenti a Comunione e Liberazione la storia e l’opera del fondatore del movimento cooperativistico calabrese. Sorbaro convinse i coniugi Giovanni Cameroni e Silvana Antonioli a venire a Cosenza per uno studio su De Cardona e la sua opera. La sua grande determinazione ed il libro Movimento cattolico e contadino. Indagine su Carlo De Cardona, edito dalla milanese Jaca book, suscitarono grande interesse tra i giovani ciellini, tanto che nel convegno al Palalido di Milano sul tema Movimento cattolico un compito da proseguire (29 giugno 1975) furono esposte 4 gigantografie di altrettanti personaggi scelti tra i più significativi esponenti dell’idealità cristiano sociale: Giuseppe Sacchetti, don Giovanni Minzoni, Giuseppe Donati e don Carlo De Cardona. Alcuni cattolici cosentini si accorsero di questo interessamento al loro prete quando il settimanale Gente, in un numero di luglio 1975 pubblicò con grande evidenza alcune foto di quell’incontro. A Roma, sempre sotto l’egida di CL, venne fondato il Centro culturale “Carlo De Cardona” impegnato a favore degli universitari fuori sede, più volte oggetto di attentati dinamitardi di gruppi extraparlamentari a cui dava fastidio la sola presenza di cattolici nell’ateneo. A Cosenza, nei primi anni Ottanta operava il Centro culturale “Il frammento”, di cui facevo parte; con alcuni amici pensammo di organizzare una piccola mostra su don Carlo e la sua opera. Per conoscere più da vicino questo grande personaggio andai con mia madre dalle Suore Minime della Passione di via dei Martiri, perché don Carlo negli ultimi anni era stato ospite dell’Istituto della Monaca santa. L’allora madre generale suor Celina Bevivino, per aiutarmi nella ricerca, chiamò una suora molto anziana che si ricordava di De Cardona e con grande spontaneità mi raccontò: «Quando venne da noi qui a Casale era molto vecchio, e tutte le sere usciva per andare con i contadini e gli operai che abitavano alla Massa…, qualche volta, quando alzavano il gomito, venivano anche a cantare sotto le finestre dell’istituto…»; suor Celina, un po’ imbarazzata, fermò il racconto di suor Angelica, ma a me che avevo iniziato ad amare il bolscevico bianco – come veniva apostrofato De Cardona dai suoi avversari – l’episodio me lo ingigantì. Don Carlo, fino alla fine della sua vita era rimasto fedele, accanto ai suoi amati operai e contadini. Erano passate due guerre, ma il suo modo di vivere l’appartenenza alla Chiesa era immutato. Negli anni Novanta del Novecento la comunità ecclesiale italiana ha fatto la scelta preferenziale per gli ultimi, proprio come aveva profettizzato De Cardona: 33


DEMETRIO GUZZARDI

Disegno di Roberta Fortino, a corredo del “Domenicale” de “il Quotidiano del Sud”, su don Carlo De Cardona, 1° ottobre 2017, pp. 42-43. «Noi condanniamo i ricchi e specialmente gli arricchiti dalla guerra; perché essi tenendo le ricchezze sono nemici dell’amore, sono uccisori del povero, coartatori dell’esistenza della povera gente. Noi organizziamo i contadini e gli operai perché si innalzino alla difesa, alla pacifica difesa dei diritti di classe e così imparino a salire il primo gradino dell’elevazione umana, acquistino cioè il sentimento di solidarietà di classe, che è un primo grado di amore fra gli uomini».

Chissà se papa Bergoglio ha letto queste parole pronunciate a Cosenza agli inizi del Novecento e che ancora oggi sono da monito per tanti. 34


STUDI E RICERCHE SU DON CARLO DE CARDONA

A SAN PIETRO IN GUARANO AI PRIMI DEL NOVECENTO LE MAGGIORI ISTITUZIONI DECARDONIANE di Igino Iuliano articolo pubblicato su Presila Ottanta aprile 2017 - anno XXXIII, n. 332

Il primo Novecento, a San Pietro in Guarano, fu caratterizzato dall’istituzione di molti servizi e dalla dotazione di importanti infrastrutture pubbliche: servizio medico gratuito, rete fognante, rete viaria, acquedotto, cimitero. Le rimesse degli emigrati, la donazione del terreno da parte dei Collice, uniti alla laboriosità delle donne e alla particolare perizia degli artigiani sampietresi, consentirono l’edificazione della nuova chiesa di Santa Maria in Gerusalemme, un’imponente costruzione recentemente ultimata con il campanile, che sovrasta il centro storico. Anche l’avvento della ferrovia, con l’apertura della tratta Cosenza San Pietro, nel 1922 e della successiva fino a Camigliatello, nel 1931, contribuì allo sviluppo economico, commerciale e culturale dei sampietresi. Nel 1904 venne istituita la Lega del lavoro, per opera di don Carlo De Cardona, con l’intento di stimolare la promozione umana, economica, sociale e politica dei contadini e degli artigiani locali. Suo primo atto fu la costituzione di una Cassa rurale. Nel 1905 venne costituita una Cooperativa di produzione, consumo e lavoro che costruì un forno per la panificazione, una centrale idroelettrica sul fiume Arente ed un mulino elettrico. Il paese si poneva così, nel conte-

sto dei tempi, all’avanguardia nello sviluppo industriale della provincia. Nello stesso anno a San Pietro si tenne uno dei primi comizi per sollecitare la costruzione della ferrovia. La centrale venne raddoppiata, con un secondo salto idrico nel 1909; fu inaugurata nel 1913 e fornì energia elettrica, per azionare cinque mulini e illuminare, con una linea elettrica lunga 18 km, anche i comuni di Lappano, Rovito, Celico, Spezzano Grande, (ora Spezzano della Sila) e Spezzano Piccolo. L’attività della Lega determinò anche una presa di coscienza delle donne, che costituirono una sezione femminile e promossero la rivendicazione delle pari dignità: concetti inusuali e prorompenti per la mentalità del tempo, soprattutto in un’estrema regione meridionale come la nostra martoriata Calabria. L’organizzazione delle donne era stata tentata a Cosenza nel 1902, ma non ebbe successo; a San Pietro, trovò un humus più congeniale nel 1905, quando la Lega favorì e determinò l’elezione di don Carlo De Cardona nel Consiglio provinciale, attraverso il mandamento di Rose, comprendente anche Luzzi, San Pietro e Castiglione. Ciò provocò molti risentimenti fra i notabili e determinò il licenziamento di 15 donne dalla locale filanda della seta. La filanda era di proprietà dei 35


IGINO IULIANO

A sinistra: iscrizione della Lega del lavoro, organizzazione voluta da don Carlo De Cardona. A destra: etichetta per i sacchetti di farina macinati dal mulino decardoniano.

baroni Colice, almeno dal 1835, anche se l’allevamento dei bachi da seta, in paese, pare che risalga addirittura al Seicento. San Pietro e San Benedetto, un tempo, costituivano due casali autonomi della bagliva di Guarano e fra le due comunità ci fu sempre un’accesa rivalità. Poi Gioacchino Murat, nel XIX secolo, unificò i due casali associando San Benedetto a San Pietro come sua frazione. L’antica rivalità portò a separare le sezioni della Lega nei due centri e alla nascita, anche a San Benedetto, di un’altra Cassa rurale che durò fino al 1962. Quella di San Pietro – anche per l’opposizione del regime fascista – cessò definitivamente la sua attività nel 1937, cambiando ragione sociale in S.I.E.C. Società Imprese Elettriche e Commerciali di San Pietro in Guarano. In seguito, lo spirito industriale, ma non più cooperativistico, spinse gli imprenditori locali a tentare imprese similari a San Giovanni in Fiore e Crotone, ma i risultati non furono positivi. La Società elettrica perdurò 36

fino al 1965, anno in cui fu nazionalizzata e assorbita dall’Enel e poi, nel trentennio successivo, venne definitivamente liquidata. Le due guerre mondiali ebbero effetti devastanti nei giovani, nelle famiglie, nella popolazione e sull’economia del paese. A quella del 1915-16 parteciparono numerosi sampietresi; molti di essi immolarono la loro giovane vita in nome della Patria: fra tutti Luigi Settino, unica medaglia d’oro, fra i militari di truppa, della provincia di Cosenza. Il secondo conflitto fu caratterizzato da sofferenze e privazioni, scarsità di mezzi, viveri e lavoro. Molti giovani sampietresi vi parteciparono e tanti vi perirono, altri furono dispersi, la maggior parte in Russia, uno in Grecia, uno non si sa dove e un altro morì in Libia durante un combattimento. Il tenente Aldo Carrieri fu fucilato dai tedeschi nell’isola di Coo, allora Peloponneso ad influenza italiana; altri presero parte alla guerra di liberazione e perirono nelle lotte partigiane contro i tedeschi, nel Nord


A SAN PIETRO IN GUARANO LE MAGGIORI ISTITUZIONI DECARDONIANE

Vignetta pubblicata l’11 giugno 1908 dal periodico illustrato cosentino «Cronaca dei dibattimenti» diretto dall’avv. Mario Vigliaturo (anno II, n. 1), che ricorda l’inaugurazione della luce elettrica a San Pietro in Guarano a cura della Lega del lavoro. 37


IGINO IULIANO

Mentre San Pietro in Guarano già nel 1907 aveva la luce pubblica, la città di Cosenza l’avrà solo nel 1914. Vignetta su «Cronaca dei bibattimenti del 1° novembre 1907.

Italia: fra questi il tenente, Stefano Maria Nicoletti, che da repubblichino passò fra le file partigiane e dopo soli tre giorni vi perì da eroe, durante un’azione di combattimento contro i tedeschi. Finita la guerra, dovendo fare i conti con la miseria e la carenza di lavoro, molti sampietresi ripresero ad emigrare verso gli Stati Uniti d’America, nel Nord Italia, in Germania, Belgio, Francia e Svizzera. L’emigrazione operaia degli anni ’50 e ’60, l’esigua Riforma agraria silana, la costruzione di opere pubbliche 38

(scuole, strade, elettrificazione), una rilevante espansione edilizia, l’istituzione e il potenziamento di servizi di pubblico interesse, le qualificate attività artigianali di sarti, fabbri, falegnami, muratori, carpentieri e calzolai, costituiscono la cronistoria fino alla seconda metà del Novecento. L’istruzione obbligatoria, un’integrazione delle zone di montagna con i centri di San Pietro e Redipiano per la costruzione di infrastrutture viarie e una maggiore gravitazione su Cosenza, l’avvento della televisione, come nel resto d’Italia, hanno contribuito ad elevare il livello d’istruzione della popolazione. Oggi la ferrovia, da Pedace a San Giovanni, è chiusa, il mulino elettrico pure, le Casse rurali non ci sono più, il lavoro si trova solo presso i cinesi o nei call center. L’attuale società sampietrese è caratterizzata da un elevato numero di pensionati, che mantengono anche i giovani, da un ceto impiegatizio, più moderato rispetto ad un recente passato, da piccoli imprenditori edili e da commercianti, le cui attività, salvo pochissime eccezioni, sono rivolte a soddisfare le esigenze primarie interne del paese stesso. La maggior parte dei giovani studia fino al conseguimento di un diploma di scuola secondaria superiore e molti conseguono la laurea, prima triennale e poi quinquennale: ma ciò non fa che prolungare un illusorio parcheggio, che subito si spegne perché resta, per tutti, il persistente e grave problema della disoccupazione. Nessuna prospettiva si intravede all’orizzonte, ed è in atto una nuova ondata di emigrazione giovanile, ma questa volta, rispetto al passato, è di natura prevalentemente intellettuale.


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LA SOLENNE INAUGURAZIONE DELL’IMPIANTO ELETTRICO articolo pubblicato su Il Lavoro, 23 novembre 1907

I primi ad arrivare, ed era già poco dopo l’alba, furono i soci delle Leghe di Pedace e Serrapedace, venuti, a piedi, su per gli scorciatoi delle montagnole. Prima ancora, in sull’alba, una carrozza chiusa avea portato la rappresentanza di Aprigliano. Alle otto giunsero, in landau e in un quadrato, i rappresentanti delle organizzazioni operaie di Cosenza. Più tardi, la rappresentanza di Spezzano Grande e di Castiglione; una Commissione della Banca cattolica, composta dai signori Ciaccio, Sensi, Atella; e infine, solo e a piedi, da Cerisano, il valoroso podista Giovanni Ruffolo, direttore di quella fiorente Cassa rurale. Dopo il bicchierino, offerto generosamente dai compagni sampietresi, nei locali della Lega; in corteo a bandiere spiegate, al suono della musica, si andò nella Chiesa nuova ad ascoltare la Messa. Ascoltata religiosamente la Messa, quell’esercito di lavoratori muove alla volta del molino, che sorge, semplice ed elegante, quasi a mezzo chilometro dal paese. Il parroco, don Francesco Pizzuti, impartisce la benedizione di rito; quindi, a un cenno comunicato attraverso il telefono, la corrente elettrica, invisibile come un soffio di vita nel mistero dei fili, pervade, anima i poderosi ingranaggi, erompe fragorosa, gloriosa in movimento di cinghie, di ruote di cilindri; e dal vibrante macchinario pare trapassi nei cuori degli astanti, nell’a-

nimo di quella folla, davvero elettrizzata dall’entusiasmo, innanzi al fatto di una conquista, di un trionfo verace del lavoro, della tenacia, dell’ingegno, della forza organizzata. E non c’era bisogno di musica, quantunque essa suonasse egregiamente sotto la direzione del maestro Spina; e non c’era neppure bisogno di discorsi. Solo si volle che parlasse, che almeno si facesse vedere il sig. Luigi Codagnoni, l’intelligente e paziente direttore dei lavori dell’impianto. E l’applauso sincero venne non solo alla sua persona e alla sua opera, ma anche alle parole che disse: parole semplici e felici, che invitavano i cittadini sampietresi alla concordia e al pensiero di più alte conquiste nel campo della civiltà. Ma purtroppo… i discorsi d’occasione non mancarono. E parlò un prete, il quale, nel parlare ebbe l’intenzione di dire delle buone idee, e d’incoraggiare i contadini a prendere essi, nelle loro mani adusate al lavoro, la causa del risorgimento civile della Calabria. Guardino al loro compagno, Zaccaro Pasquale, alla cui pazienza, alla cui fede, si deve l’impianto delle macchine, laggiù nelle profondità dell’Arente; la costruzione dell’acquedotto, e la soluzione di una serie interminata di difficoltà, che giorno per giorno, quasi ora ad ora, si opponevano all’iniziativa oggi felicemente attuata. E ricordino i contadini che il 39


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San Pietro in Guarano, 17 novembre 1907, inaugurazione del mulino elettrico.

cristianesimo non solo salva l’anima dell’uomo, ma fa riacquistare all’uomo il dominio sulle cose, sulle forze della natura, sugli animali, su tutto. Nel cristianesimo, sinceramente professato, nello spirito di concordia fraterna, di pazienza, di amore, di coraggio, che deriva dal Vangelo di Cristo, si compiono le opere più grandi, si trasportano le montagne… All’una dopo mezzogiorno, nelle sale della Lega e della Cooperativa, a tutti gl’intervenuti alla festa, fu distribuita una seria colazione con vino generoso, dopo la quale molti se ne partirono per raggiungere i loro paesi prima della notte. A sera, inappuntabilmente, senza il più piccolo ostacolo, si accesero le lampade ad incandescenza e le lampade ad arco, collocate finora nelle vie e nella piazza del paese. La luce è bellissima, nitida, uguale, continua. Di lontano, nella notte immensa, la vetta su cui sta San Pietro appare 40

circonfusa da un chiarore, avvolta in una leggera e tersa nuvola di luce. Ed è luce di alba. * * * O amici sampietresi, la festa è durata un giorno solo, ma il lavoro che rimane da fare è ancora grande e difficile. Bisognerà vedere se saprete utilizzare e mettere a frutto i capitali impiegati nell’opera vostra, in modo che essa resti, nella provincia, la migliore iniziativa di movimento industriale. Ricordate che la vostra è opera di democrazia e di cristianesimo: essa è del popolo, anzi dei contadini e degli artieri organizzati; ed nata per essere lievito di rinnovamento nel senso e nello spirito del cristianesimo. E perciò vigilate contro coloro che vorrebbero impadronirsene, o solo anche profanarla con la loro vanità e facendovi regnare lo spirito del lucro. Vigilate e perseverate intorno al vostro Pasquale.


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INAUGURAZIONE DI UN IMPIANTO IDROELETTRICO articolo pubblicato su Il Lavoro, 28 giugno 1913

Parliamo naturalmente dell’impianto elettrico di San Pietro in Guarano, e dell’inaugurazione, o meglio, della solenne benedizione che di esso venne fatta, domenica scorsa. E intorno ad essa vi dirò tre cose: la prima è l’onore sommo che Sua Eccellenza il nostro amato arcivescovo ha voluto concedere alle opere nostre, recandosi non solo a San Pietro (dove celebrò Messa nella Chiesa nuova, splendida opera di religione dovuta all’iniziativa del parroco Pizzuti), ma all’Arente, sul fiume profondo, con un viaggio a cavallo, per oltre un’ora, attraverso monti e burroni e sotto il non discreto sole del corrente giugno. Sulla sponda destra del fiume, dove sorge l’officina, monsignore, col suo numeroso seguito, si fermò un bel pezzo – quanto ce ne volle per benedire le macchine, per ascoltare benignamente i discorsi d’occasione, per parlare egli stesso sul significato e sul valore religioso e morale della cerimonia. Per i discorsi d’occasione, parlò nobilmente l’egregio sindaco di San Pietro, il notar Pietro Bruno; dopo di lui parlò l’ottimo amico nostro, avv. Federico Gullo, a nome della Cassa rurale federativa. Rispose monsignore, ammaestrando che il progresso materiale i cattolici devono volerlo in armonia al progresso morale; e non devono fare come i famosi costruttori della torre di Babele, che, per non riconoscere e amare Dio, non fecero neanche la torre, e finirono miseramente

nella confusione delle lingue. Monsignore parlò da una specie di trono di erbe e rami d’albero verdi, improvvissato su uno degli enormi massi erratici che sono su letto del fiume, e che proteggono l’officina dagli… scherzi imprevisti dell’Arente. C’era molta gente alla bella cerimonia, nonostante la distanza dell’abitato. C’erano i rev. mi canonici Buccieri e De Filippis, il sac. Nicoletti, consigliere provinciale di San Giovanni in Fiore, altri sacerdoti, le rappresentanze di Cosenza, Castiglione, Spezzano, Aprigliano, la rappresentanza della ditta fornitrice, Casa Ganz di Budapest. L’arcivescovo ritornò a San Pietro verso Mezzogiorno, donde – dopo il pranzo in casa Buccieri – partì per Cosenza, acclamato, come la mattina, quando giunse, da quasi tutti i sampietresi, che non dimenticheranno soprattutto la primizia di una visita al loro paese. * * * La seconda cosa che vi devo dire è una semplice notizia, ed è questa: l’impianto idroelettrico di cui sto parlando è completo da un pezzo, cioè fin dallo scorso aprile, ed è costituito: a. da un robusto acquedotto di quasi un chilometro, con diga di sbarramento e condotta forzata di oltre quaranta metri; b. da una Centrale, ossia da un fabbricato in cui sono fissate le macchine turbina con regolatore automatico; alternatore, da cui si sviluppa una forza di 200 cavalli; c. linea 41


CARLO DE CARDONA

Ditta fornitrice: Casa Ganz di Budapest. Le macchine pesavano più di 100 quintali, l’alternatore ben 18; la carcassa della turbina era larga 4 metri; furono trasportate per un sentiero «buono solo per le capre»; per montare la turbina e la dinamo, dall’Ungheria venne un meccanico e da Napoli l’ing. Vacalopulos.

ad alta tensione di oltre 18 chilometri, con rete interne e relativi trasformatori nei seguenti comuni: San Pietro, Lappano, Rovito, Celico, Spezzano Grande; d. finora, oltre la luce, sono azionati cinque mulini industriali, di cui uno, quello di San Pietro, di proprietà della Ditta. Tutti questi organi dell’impianto, ad eccezione del mulino e della rete interna di San Pietro, sono sorti e messi in funzione in meno di un anno. La spesa effettiva bisogna calcolarla a 250 mila lire. Però il valore di tutto l’impianto sorpassa di parecchio le 300 mila lire, e ciò se si tien conto non solo dell’entità delle opere, ma anche della rendita che fra un anno se ne potrà ricavare. E ora osservate. Pochi uomini del popolo, animati da un coraggio straordinario, a furia di sacrifizii, sono riusciti a compiere in meno di un anno un’opera che poteva costare anni di lavoro e di spese. Hanno creato un’impresa industriale, moderna, utile al popolo, rimunerativa. 42

Hanno utilizzato a beneficio dei nostri paesi buona parte di quelle grandiose forze naturali che, oggi ancora, aspettano di essere sfruttate dai forestieri. Il loro è un esempio caratteristico di quello che i nostri lavoratori e i nostri capitali possono dare, operando nella stessa nostra Provincia. È un indizio di spirito industriale, sano, fecondo quello che si rivela in San Pietro. È lo spirito industriale che manca in mezzo a noi, e che deve suscitarsi, se non vogliamo rimanere una Provincia di oziosi, di parassiti, di debitori insolventi, di miserabili, di sfruttatori e di sfruttati. Agli amici di San Pietro però raccomandiamo di essere molto cauti, e di mettere oggi tutto il loro sforzo a sistemare unicamente l’azienda avviata, e oramai solennemente consacrata dalla benedizione del ministro di Dio. E d’impianti elettrici non si parli più. Ad un’altra opera più grande dobbiamo pensare: l’Agricoltura razionale. Intanto si badi alle Casse e alla loro esattezza.


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ELETTRICITÀ SUL FIUME ARENTE di Valentino Siciliano pubblicato sul sito www.storieumane.altervista.org

Un secolo fa, il paese di San Pietro in Guarano era molto attivo: venivano costruiti acquedotti, chiese, strade; c’era una banca, mobilieri, calzolai, l’industria della seta, artigiani e società di ogni tipo, il frantoio e il mulino elettrico. Fu uno dei primi comuni italiani ad avere l’energia elettrica, divenendo un vero e proprio centro industriale. Nel 1905 la Lega del lavoro di don Carlo De Cardona, un’organizzazione che si occupava di sviluppo sociale, costituì una cooperativa che aveva l’obiettivo di creare delle possibilità di lavoro diverse da quelle allora presenti, con la realizzazione di una centrale idroelettrica sul fiume Arente, la costruzione di un forno e di un mulino elettrico. Presidente venne nominato Eduardo Carrieri, vicepresidente Vincenzo Settino, cassiere Michele Intrieri e segretario Giacomo Sicilia. Vincenzo Settino divenne anche presidente della Cassa rurale, che doveva finanziare l’impresa, mentre Pasquale Zaccaro e Luigi Antonio Intrieri assunsero il ruolo di vicepresidente e cassiere. Il 7 luglio 1906 venne aperto il forno; il 17 novembre 1907, dopo due anni di lavori, diretti dall’ing. Luigi Codagnoni, furoro inaugurati la centrale idroelettrica e il mulino, gestito poi da Pietro Carricato. Quel giorno, tante persone giunsero da ogni parte a piedi a San Pietro in Guarano. Il parroco Pizzuti celebrò la Messa e benedì il mulino; quando tutto si mise in funzione sembrò quasi un miracolo. Un anno dopo ci furono dei problemi finanziari; ma venne progettata una centrale più grande, per far giungere la corrente ai paesi più vicini. L’opera fu realizzata dalla Ganz di Budapest e inaugurata il 22 giugno 1913; tutti si recarono al fiume, compreso l’arcivescovo Tommaso Trussoni di Cosenza e altre personalità. Nel 1937 si forma la Società Imprese Elettriche e Commerciali di San Pietro in Guarano. A San Benedetto in Guarano la corrente arrivava con una tensione minore; a Redipiano arrivò nel 1949; Cerasito, Terratelle, Santa Lucia e Padula dovettero aspettare fino al 1963. Grazie ai moderni trasformatori fu migliorata anche la tensione di San Benedetto. Nel 1965 l’Enel diventò proprietaria dell’energia elettrica e chiuse la centrale, perché vennero costruiti impianti più grossi in Sila e altrove. Mentre a San Pietro in Guarano succedeva tutto questo, dall’altra parte del fiume altre persone costruivano il futuro…; nel 1911, vicino alla confluenza col Crati, la ditta Gentili, Capuano & C. costruì una centrale che 43


VALENTINO SICILIANO

San Pietro in Guarano, 22 giugno 1913, l’arcivescovo di Cosenza, Tommaso Trussoni durante la benedizione della nuova Centrale idroelettrica sul fiume Arente. Si riconoscono i sacerdoti: Angelo Sironi, Alessandro Buccieri, Luigi De Filippis e Luigi Nicoletti.

fornì energia elettrica prima solo a Rose, poi, a partire dal 1919, anche a Cosenza. Entrarono in funzione due turbine, sempre della Ganz di Budapest, abbinate a due alternatori della Westinghouse. Nel 1929 l’impresa passò alla Società Elettrica Bruzia e, qualche tempo dopo, alla ditta Luigi Federeci, che l’utilizzò per alimentare alcune fabbriche di Carolei. Nel 1946, a causa di alcune frane e dei macchinari ormai vecchi, la centrale fu chiusa. Nel 1953 riprese vita grazie ai fratelli Morelli che fornirono energia alla Società Elettrica della Calabria fino al 1965; sembra che le turbine abbiano funzionato, senza mai essere sostituite, per oltre 40 anni. 44


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CARLO DE CARDONA E L’ASSOCIAZIONISMO CONTADINO IN CALABRIA (1898-1927) di Romilio Iusi

tesi di laurea - anno accademico 1983-84 - relatore prof. Piero Fantozzi

Capitolo I LA CALABRIA POST-UNITARIA E LE CONDIZIONI SOCIO-ECONOMICHE La crisi socio-economica post-unitaria del Mezzogiorno e della Calabria in particolare, è un tema acquisito dalla storiografia italiana. Su questo argomento ormai c’è una vasta e aggiornata bibliografia critica, anche se non mancano lacune e sconcertanti dimenticanze, che attendono di essere colmate e portate alla luce da parte di studiosi e di ricercatori, capaci di continuare, con metodi e mezzi adeguati, l’opera di reperimento di fonti ancora inesplorate e di revisione critica di quelle che già sono entrate nel patrimonio storiografico comune della scuola e delle persone colte. Dagli studi recenti, che quasi tutti si collegano nella scelta dei temi di fondo alla problematica delle inchieste agrarie della fine del secolo passato e dell’inizio del nuovo, e, soprattutto da quelle del Franchetti e del Sonnino sulla Sicilia, del Jacini-Branca, e del Nitti insieme con quelle regionali e particolari per zona e per settori, risultano accertate e storicamente documentate le misere condizioni socio-economiche di tutto il Mezzogiorno e particolarmente della Calabria. Sul piano etico-politico, non c’è alcun dubbio che queste condizioni di arretratezza dell’Italia meridionale sono la dirette conseguenza della politica post-unitaria gestita dalla classe dirigente italiana, che puntò quasi esclusivamente sullo sviluppo industriale del Nord, a discapito del Sud, che assunse la fisionomia di una colonia, all’insegna di un sistema centralistico, nato con la Destra storica e cresciuto all’ombra del trasformismo depretisiano e del favoritismo giolittiano elevati a metodo politico. E così i mali ereditati dal governo borbonico, anziché essere curati, furono aggravati. È un dato storico acquisito, che la situazione finanziaria del Regno delle Due Sicilie, nel 1860, era più florida di quella degli altri staterelli della penisola: c’erano imposte molto basse, c’era l’enorme ricchezza rappresentata dai beni demaniali ed ecclesiastici, il debito pubblico era quattro volte inferiore a quello del Piemonte, e la moneta circolante era in cifra assoluta due volte superiore a quella di tutti gli altri stati della penisola messi insieme. 45


ROMILIO IUSI

Il Sud, pur essendo povero, aveva accumulato molti risparmi, disponeva di notevoli beni collettivi e presentava tutte le componenti necessarie per una valida trasformazione. Ma il Centro-Nord era la parte del paese che aveva partecipato più attivamente alle lotte risorgimentali e sembrò naturale che il Mezzogiorno dovesse sacrificare almeno le sue più cospicue finanze a compenso del minore impegno politico. I debiti furono fusi e nel 1862 fu unificato il sistema tributario, da cui il Sud ricevette un oneroso aggravio fiscale. La dinastia borbonica aveva fatto costruire brevi tratti ferroviari e introdotto qualche sia pur modesta industria nel proprio regno. Ma queste attività furono fatte fuori o indotte a condurre una vita asfittica per la concorrenza dell’Italia settentrionale, favorita anche dalla maggiore facilità di approvvigionamento delle materie prime e da un più sviluppato sistema viario; a tutto danno del Mezzogiorno si rivolse anche l’atteggiamento della borghesia meridionale, sempre pronta a servire qualsiasi interesse pur di ricavarne vantaggi personali: e «le vittime dell’accordo tra industrie del Nord e galantuomini del Sud furono i contadini»1. L’emigrazione Il netto prevalere del lavoro agricolo salariato su quello in partecipazione al profitto nell’agricoltura calabrese, ancora di tipo quasi primitivo, era una tra le cause principali del grave dissesto economico della regione2, e questo determinò un inarrestabile, e sempre crescente, esodo in massa oltre Oceano. «Si trattava soprattutto di un’emigrazione di tipo permanente, che passò da 500 individui circa nel 1878 a oltre 17mila nel 1893-95, il 10% in più della quota media dell’emigrazione italiana. Gli emigrati temporanei da 372 nel 1876 diventarono 5.061 nel 1895. Partivano in massima parte contadini o braccianti, 8mila circa nel 1895. Per il resto si trattava prevalentemente di muratori e operai»3.

Cosenza la più isolata tra le province calabresi per le gravi carenze stradali e ferroviarie, era anche quella che si trovava nelle condizioni peggiori, con una grande emigrazione, con il massimo indice di analfabetismo e con una proprietà terriera maggiormente aggregata. Gli emigrati con le loro rimesse non davano alcun consistente contributo al miglioramento di questo stato di cose. I pochi che tornavano al A. Guarasci, Giolitti e la questione meridionale, in «Calabria contemporanea», n. 1, 1972, p. 82. 2 Cfr. D. Taruffi, L. De Nobili, C. Lori, La questione agraria e l’emigrazione in Calabria, Firenze, Barbera, 1908, p. 115. 3 C. Lombroso, In Calabria (1862-1897), Catania, Giannotta, 1898, p. 125 s. 1

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paese d’origine, se pur riuscivano ad acquistare qualche fazzoletto di terra e a farsi una casetta, in realtà il paesaggio agrario rimaneva quello di prima. Le colture erano riprese con i vecchi sistemi irrazionali e «nel 90% dei casi i terreni dovevano essere rivenduti, e i nuovi ricchi erano costretti a riprendere la via delle Americhe»4. Le condizioni di vita erano pessime; il vitto era solitamente costituito di pane di granone o di castagne, di pochi legumi, di molta verdura selvatica e di patate. Soltanto nelle ricorrenze festive i contadini mangiavano la carne; ed il vino si «beveva molto raramente»5. Alle gravi condizioni dell’agricoltura corrispondevano le condizioni egualmente precarie della scarsa industria: «Le poche aziende che assicuravano lavoro a gruppi abbastanza numerosi, come quelle seriche, in cui si lavorava con personale femminile, erano soggette a frequenti cri si, per cui la richiesta di manodopera avveniva solo in determinati periodi dell’anno»6.

A stroncare ogni eventuale tentativo di miglioramento la piaga dell’usura interveniva con la sua presenza vampiresca, alla quale spesso erano costretti a ricorrere gli stessi emigranti per racimolare il danaro occorrente per tentare la fortuna oltre Oceano. Ecco com’è descritta in una delle inchieste sul Mezzogiorno questa piaga sociale: «Questa escrescenza malefica rivela lo stato patologico in cui si dibatte la regione; è la piovra che si abbarbica ad ogni tentativo individuale di miglioramento, che paralizza le iniziative, che centuplica gli effetti dell’insuccesso, accascia l’animo e toglie il coraggio di perseverare. Dai morsi dell’usura non v’ha classe di persone in Calabria che vada esente, eccetto i latifondisti e i grandi proprietari. Sono nelle mani dell’usuraio spesso i medi proprietari: quasi per regola i piccoli commercianti ed infine, favorita dalle forme di patto agrario, essa si aggrava intollerabilmente sul contadino… A questo il sistema, ivi molto diffuso, dell’affitto, addossa le spese tutte della coltivazione e principalmente l’onere delle sementi. Per questo egli è costretto a ricorrere all’usuraio che, di solito, gli anticipa, per esempio, 60 litri di granone e se ne prende 90 alla raccolta»7.

La situazione calabrese era di quasi disperata miseria e di totale abbandono. In questo stato di disgregazione sociale e di depressione economica, D. Taruffi, L. De Nobili, C. Lori, La questione agraria…, cit., p. 121. Cfr. D. De Marco, Proprietà e classi rurali (1860-1880), in Atti del II Congresso storico calabrese, Napoli, Fiorentino, 1961. 6 P. Borzomati, Aspetti religiosi e storia del Movimento cattolico in Calabria (1860-1919), Roma, Cinque Lune, 1970, p. 145. 7 D. Taruffi, L. De Nobili, C. Lori, La questione agraria…, cit., pp. 334-335. 4 5

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ROMILIO IUSI

al cui risollevamento non veniva alcun serio contributo dal governo liberale post-unitario, anche il clero calabrese, tranne poche eccezioni, era contro il popolo: un sacerdote calabrese era quasi sempre estraneo alla realtà che lo circondava. Le istanze religiose nel Sud Nella maggior parte dei casi la scelta della via sacerdotale significava una specie di assicurazione per la vita, cioè garantirsi un avvenire senza responsabilità gravose e godere quel rispetto che dalla società era attribuito per inveterata tradizione alla casta degli ecclesiastici. In Calabria, come in tutto il Mezzogiorno, la religione era confusa con pratiche di carattere magico, sino al punto che nelle ricorrenze festive e nei pellegrinaggi che avevano per meta i santuari sparsi nei paeselli e nelle montagne, sopravvivevano liturgie prettamente pagane. «L’azione pastorale dei vescovi, nell’Italia post-unitaria, fu seriamente ostacolata dalle autorità civili, mediante l’opera della massoneria, la quale, dopo il 1870, in Calabria ebbe un sensibile successo, così da creare nel giro di pochi anni logge anche nei piccoli centri. A tutti i nuovi vescovi della regione venne negato l’exequatur e quindi la possibilità di abitare nell’episcopio, di usufruire delle modeste rendite della mensa vescovile, di intrattenere rapporti ufficiali con le autorità»8.

La situazione veniva aggravata dalla progressiva sostituzione dei vescovi calabresi, o meridionali, con presuli che provenivano da altre parti d’Italia, dove il Movimento cattolico e il clero in genere avevano già assunto una loro propria fisionomia sociale e politica. Osservazioni molto penetranti al riguardo, ha fatto Maria Mariotti, secondo la quale la copiosa letteratura sul Movimento cattolico in Italia «d’impostazione univoca unitaria in senso nazionale degli studi ad esso dedicati, data la profonda diversità di situazioni esistenti tra le regioni meridionali e settentrionali, giustifica, anzi richiede, una prospettiva specificamente meridionale del significato e della storia del Movimento cattolico. Nel Nord, infatti, il Movimento cattolico fin dalle origini opera in un mondo laico già culturalmente evoluto, e di fronte ad esso la sua azione si caratterizza come impegno di preservazione e di recupero cristiano da parte di un resto cattolico che, se numericamente e talora minoranza sia negli strati intellettuali, sia in quelli operai, ha tuttavia una sua progredi P. Borzomati, Aspetti religiosi…, cit., p. 77.

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ta consistenza ed autonomia che gli consente di misurarsi alla pari con, gli orientamenti avversari. Nel Sud questa solidità e chiarezza di posizione dell’ambiente cattolico rispetto al non cattolico non è ancora raggiunta; fino a tutto il secolo scorso solo piccoli gruppi intellettuali più o meno isolati si distaccano dalla tradizione cristiana cui resta tenacemente ancorata la maggior parte della popolazione dei vari ceti. E se questo è vero per tutto il Sud, lo è particolarmente per le zone più remote e depresse di esso, come la Calabria»9.

A questa puntualizzazione della Mariotti ci sembra opportuno aggiungere che, specialmente in Calabria, la maggioranza degli ecclesiastici intendeva, come afferma Pietro Borzomati, «persistere in quello stato di apatia e di indifferenza, limitandosi alla normale amministrazione, o per timore di persecuzioni da parte degli anticlericali o perché considerava la vita sacerdotale come una delle tante professioni che assicurava una vita economicamente agiata ed un posto dignitoso nella società»10.

Quest’ultima motivazione si può dire che aveva apportato una vera e propria inflazione di sacerdoti; s’è vero che nel 1871, la diocesi di Cosenza ne contava ben 650, cioè uno ogni 160 abitanti11. In una tale situazione non si sarebbe potuto sviluppare nessun Movimento cattolico, capace sia pure di avviare un discorso di rinnovamento morale, politico, religioso in una Calabria post-unitaria, che, a parte ogni documentazione archivistica, appare in tutta la sua dolorosa realtà nelle due satire dell’abate galatrese Antonio Martino (1818-1884): il Pater noster dei liberali calabresi sotto la pressione degli ingenti tributi in Dicembre 1866 e Panem nostrum, ambedue scritte in dialetto, che dovrebbero essere meglio conosciute, se non come poesie, almeno come documenti di politica e di storia. Ecco la prima: «O Patri nostru ch’in Firenzi stati lodatu sempri sia lu nomi vostru; però li mali nostri rimirati, sentiti cu pietà lu dolu nostru ca si cu carità, vui ndi sentiti certu, non fati cchiù, ciò chi faciti. Patri Vittoriu re d’Italia tutta 9 M. Mariotti, Movimento cattolico e mondo religioso calabrese, in «Civitas», n.s., a. VII, n. 9-10, settembre-ottobre, 1956, pp. 107-108. 10 P. Borzomati, Aspetti religiosi…, cit. pp. 82-83. 11 Cfr. G. Sprovieri, Un vescovo energico per un popolo addormentato, in «Quaderni decardoniani», a. I, n. 1, 1970, p. 16.

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apriti s’occhi, s’aricchi annettati lu regnu vostru è tuttu suprasutta e vui patri e patruni l’ignurati, li sudditi su tutti ammiseriti vui jti a caccia, fumati e durmiti. Ministri, senatori e deputati, fannu camurra e sugnu ntisi uniti; prefetti, cummissari e magistrati, sucandi a nui lu sangu su arricchiti e vui patri Vittorio non guardati vui jti a caccia, dormiti e fumati. Cummessi e cancellieri di Pretura prubbica sicurezza ed abbocati e specialmente li ricivituri. a tutti ndi spogghiaru e su ngrassati e vui patri Vittoriu non criditi vui jti a caccia fumati e dormiti. Notaru, oj dinota latru finu tariffa loru è sulu lu capricciu patri pacenzia, ca mo vi lu spiciu posati su dhubbotti e rifrettiti iettati chissu sicaru e sputati, e canusciti tutti l’impiegati. Certu si vui guardati aviti a diri “Mannaia lu fumari e lu dormiri” e vi accorgiti ca regnati in guerra, odiatu di lu celu e di la terra»12. In questa satira il quadro storico delle condizioni socio-economiche della Calabria appare in tutta la sua crudezza, ma, nonostante questa situazione depressiva, dopo il primo ventennio dell’Unità nazionale, anche in Calabria e, particolarmente a Cosenza, sorge un modesto giornalismo provinciale, sorretto dalla borghesia laica e rappresentato da due settimanali: La Sinistra (1882-1902) e La lotta (1889-1905), che dopo un lungo intervallo, riprendono la tradizione culturale locale interrotta dalla cessazione (28 luglio 1865) del periodico Il Bruzio di Vincenzo Padula, «il primo giornale della regione che affronta i problemi della gente dei campi e delle U. Zanotti-Bianco, Due poesie dell’abate Antonio Martino, in «Archivio storico per la Calabria e la Lucania», a. XIX, 1950, fase I, pp. 237-238. 12

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officine»13, durato soltanto 11 mesi (il primo numero uscì il 17 agosto 1864). Afferma Ferdinando Cassiani: «Le contrapposizioni politiche, quali appaiono da questi giornali, non sono sempre nette: cioè clericali e anticlericali, guelfi e ghibellini; ma si possono cogliere complessi stati d’animo ed anche motivazioni d’ordine religioso in uomini come Olivetti, De Chiara, Bertelli, che nell’insegnamento di Vincenzo Padula sanno vedere non soltanto il patriota, ma anche il sacerdote. Gli stessi organi della stampa laica – è anche da ricordare L’Avanguardia, pubblicata dal 1877 al 1909 – non valgono a varcare i confini fra uno schieramento democratico e un blocco conservatore, echeggiando suggestioni liberali, radicali, repubblicane e perfino socialiste»14.

Carlo De Cardona Nel periodo del secondo ventennio post-unitario anche in seno alla società religiosa incominciano a maturare importanti novità con la personalità dell’arcivescovo salernitano Camillo Sorgente (Salerno 13 dicembre 1823 Cosenza 2 ottobre 1911), definito uomo di preghiere, che, come afferma Pietro Borzomati, volle «l’azione sociale prima di tutti gli altri vescovi calabresi» e che scelse il giovane sacerdote Carlo De Cardona come segretario particolare, il fondatore de La Voce cattolica (17 maggio 1898) «primo settimanale cattolico di Cosenza, organo curiale influenzato dai murriani»15. Soffermarci sulla formazione di questo «pioniere apostolo della redenzione dei lavoratori in Calabria», com’è stato definito non solo dagli studiosi, ma anche dalla voce pubblica. Carlo De Cardona era nato a Morano Calabro il 4 maggio 1871, «da una famiglia della piccola aristocrazia terriera, che vantava tradizioni culturali e patriottiche di un certo rilievo. Il nonno Nicola si era distinto nella lotta antifrancese durante la parentesi murattiana, lo zio Antonino aveva composto alcuni lavori di carattere storico-sociale, come I nobili e i sanculotti e le Leggi Positive, e un’opera teatrale che fu rappresentata al San Carlo di Napoli, un altro zio, don Cesare, era parroco di Morano, nella Chiesa di San Pietro»16. 13 F. Cassiani, I contadini calabresi di Carlo De Cardona (1898-1906), Roma, Cinque Lune, 1976, p. 13. 14 Ibidem, pp. 16-17. Cassiani fornisce utili informazioni sui più importanti collaboratori di questi giornali, frutto di ben documentate ricerche personali. 15 Ibidem, p. 21 (nota). 16 G. Intrieri, Carlo De Cardona, pioniere e apostolo della redenzione dei lavoratori in Calabria, in «Quaderni decardoniani», a. III, n. 1, 30 dicembre 1972, p. 16.

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Cosenza, piazza Parrasio. Il palazzo arcivescovile e gli uffici della curia diocesana.

Secondogenito di sei figli, Carlo conseguì la licenza ginnasiale nella vicina Castrovillari, trasferitosi a Cosenza presso il Seminario arcivescovile diocesano, conseguì con esito brillante la maturità nel Liceo Classico «Bernardino Telesio». Influenzato dalla madre, donna di spirito profondamente cristiano, Carlo scelse la via sacerdotale «e nel luglio 1890 si trasferì a Roma per completare gli studi di filosofia e teologia presso la Pontificia Università Gregoriana»17. Erano quelli anni di profondi rivolgimenti sociali, politici ed economici, determinati dalla rivoluzione industriale, a cui con la progressiva espansione della civiltà capitalistica corrispondeva l’aggravarsi delle condizioni sociali nelle città e nelle campagne, insieme con la crescita del malcontento tra le masse operaie e contadine sottoposte allo sfruttamento, spesso inumano, dalla classe imprenditoriale, mentre andavano diffondendosi largamente le idee di ispirazione socialista. «In questo clima sempre più caldo, negli ambienti cattolici e nell’ambito stesso della Chiesa erano attivi alcuni movimenti che sotto la spinta delle istanze popolari, rivendicavano un loro proprio ruolo nel risollevamento sociale, economico e morale delle popolazioni. Occorreva porgere un argine da una parte ai mali profondi dell’imperante capitalismo liberale, S. Antonioli Cameroni, G. Cameroni, Movimento cattolico e contadino. Indagine su Carlo De Cardona, Milano, Jaca book, 1976, p. 22. 17

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dall’altra al collettivismo ateo marxista che, per il suo estremo materialismo era giudicato incompatibile con i principi di ispirazione cristiana»18.

In questo clima che si arroventava con il tempo, penetra anche tra le «riposte mura» dell’Università Gregoriana, tra i giovani universitari, Carlo De Cardona «probabilmente ebbe modo di incontrare Romolo Murri, suo coetaneo, che in quegli stessi anni frequentava quell’Università, al quale sarebbe stato, negli anni successivi, legato da una sincera amicizia»19.

È questo il periodo in cui si avvicina al pensiero sociale cristiano moderno; ma il fatto determinante della sua formazione fu la promulgazione dell’enciclica di Leone XIII Rerum novarum del 15 maggio 1891, «alla cui stesura aveva partecipato attivamente Matteo Liberatore che nell’Università Gregoriana aveva introdotto il giovane Carlo nella vasta problematica economico-sociale»20.

Alla data della promulgazione dell’enciclica leoniana De Cardona era studente alla Gregoriana, da cui esce nel 1895, l’anno del processo al fratello socialista Nicola, ed il 7 luglio dello stesso anno, il ventiquattrenne Carlo riceve la consacrazione a sacerdote nella cappella dell’episcopio di Cassano Jonio, dal vescovo del tempo, mons. Di Milia, che dopo la funzione gli comunica il desiderio dell’arcivescovo di Cosenza, Camillo Sorgente, «di nominarlo segretario particolare»21. Questa nomina gli giungeva inaspettata e proprio nel momento in cui il neo sacerdote meditava di entrare tra i gesuiti, vocazione maturata nella Pontificia Università Gregoriana, retta dai padri della Compagnia di Gesù fondata da Sant’Ignazio. Il neo-sacerdote rinunzia alla sua vocazione di gesuita e, sebbene a malincuore ritorna a Cosenza, dove aveva condotto gli studi liceali, come alunno insofferente, se non ribelle, dei professori in gran parte massoni. Nella città dei bruzi incominciò quella sua lotta, «che darà al magistero episcopale di mons. Sorgente una dimensione sociale, popolare e leoniana», rimanendo, come sacerdote secolare, vicino al vecchio pastore dal 1895 al 1911 e fondando il settimanale La Voce cattolica, il cui programma, pubblicato nel primo numero del 17 maggio 1898, annunzia l’idea e la volontà di contribuire all’educazione delle famiglie con particolare riguardo a quelle della classe operaia, secondo lo spirito della Rerum novarum. Ibidem, pp. 22-23. A. Guarasci, Il Movimento cattolico in Italia (1874-1915), in Scritti Storici, Cosenza, tip. Barbieri, 1960, p. 37. 20 S. Antonioli Cameroni, G. Cameroni, Movimento cattolico e contadino…, cit., p. 24. 21 F. Cassiani, I contadini calabresi…, cit., p. 25. 18 19

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Capitolo II LE PRIME INIZIATIVE DECARDONIANE: LA VOCE CATTOLICA (1898) E LA LEGA DEL LAVORO (1901)

A Cosenza, nella primavera del 1898, apparve il primo numero de La Voce cattolica con il suo programma d’ispirazione democratico cristiana; il momento storico italiano era caratterizzato da una profonda crisi, da poco c’era stato lo scandalo della Banca romana, e i moti dei Fasci siciliani avevano rivelato uno stato di grave miseria delle popolazioni operaie e contadine, aggravato dal disastro della guerra d’Africa con la disfatta di Adua. In tutto il Paese c’era aria di tempesta. Il governo liberale, dopo la caduta di Crispi, era stato affidato a Di Rudinì, che si rivelò incapace di superare la grave situazione, che non poteva essere risolta adottando unicamente misure repressive contro i movimenti popolari, accusati di sovvertire l’ordine pubblico, cioè contro i socialisti, repubblicani, anarchici e cattolici intransigenti. «In quest’atmosfera intimidatoria scoppiarono i gravi tumulti milanesi nel maggio 1898, culminati nel sanguinoso attacco armato condotto dal generale Bava Beccaris contro la popolazione inerme. Della rivolta furono accusati gli esponenti più in vista dei diversi partiti e movimenti sovversivi, che furono arrestati e processati, tra di essi Filippo Turati, Anna Kuliscioff e don Davide Albertario, direttore dell’Osservatorio cattolico»1.

In tutta Italia c’era una pesante atmosfera di repressione poliziesca: molti comitati cattolici diocesani furono sciolti. L’Opera dei congressi non prese una posizione di difesa di don Albertario, anzi finì per acuire al suo interno i contrasti fra i giovani democratici cristiani e la vecchia direzione. 1898: esce il primo numero de La Voce cattolica A Cosenza, don Carlo De Cardona, amico di don Albertario reagì, appoggiato dall’arcivescovo Sorgente, scese in campo pubblicando il suo primo giornale, La Voce cattolica, che nell’articolo di fondo, firmato dalla direzione, intitolato Il nostro programma, così esponeva i punti salienti dell’azione sociale che intendeva svolgere: «Da anni si desiderava nella nostra diocesi un giornale che rispecchiasse i puri sentimenti cristiani, curasse l’educazione religiosa delle famiglie, S. Antonioli Cameroni, G. Cameroni, Movimento cattolico e contadino…, cit.,

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specialmente nella classe operaia, secondasse le idee del Santo Padre, incoraggiando e promovendo il Movimento cattolico, dal quale la Patria nostra deve aspettarsi la sua rigenerazione morale, sociale e materiale. Confortati dall’autorità ecclesiastica, ci mettiamo ora all’opera, col fermo proposito di non venir mai meno a questo scopo. Esso è uno scopo santo, è la nostra missione è una missione di pace. Lungi da noi, perciò, ogni ombra di sfida e di provocazione. Inflessibili nella difesa dei principi e delle idee, saremo sempre rispettosi delle persone che professano principi contrari ai nostri, non perdendo mai di vista essere obbligo di un giornale cattolico persuadere ed attirare l’animo degli avversari con la bontà delle ragioni che sostengono la sua santa causa, non già esacerbarli con le villane invettive e le contumelie. Non provocheremo sterili polemiche. Che, se alle polemiche fossimo noi provocati o trascinati, speriamo non dimenticar ma di essere cristiani e galantuomini»2.

E se pur non manca in questo primo numero una ferma dichiarazione circa le necessità inderogabili dell’impegno dei cattolici cosentini in campo sociale, i suoi redattori, primo fra tutti il giovane don Carlo, mostrano la ferma volontà di assumere tra lo schieramento dei partiti politici una posizione di netta opposizione, sia al sistema liberale che a quello socialista: «È tempo ormai che ogni cattolico sincero e vero italiano non si tenga in disparte dal nuovo movimento popolare della Chiesa iniziato e caldeggiato. Nel cozzo di tanti svariati sistemi che mettono a soqquadro le menti, e mentre lo spirito della rivoluzione aleggia minaccioso sulle contrade dell’infelice nostra Patria, è necessario, è urgente che l’ideale cristiano, compendiato meravigliosamente nell’enciclica Rerum novarum, assorga in alto, al di sopra delle tempestose agitazioni, e divenga la forza viva che porterà gli uomini a Cristo, mediante una completa restaurazione dell’ordine sociale. Nonostante i crescenti presidii economici, giuridici, politici, la questione sociale prevale, irrompe, travolge»3.

In queste proposizioni si avverte il tono caldo di una chiamata a raccolta dei cattolici, ma per il momento rimane un appello puramente ideale, senza una precisa azione pratica. Questo appello giunge opportuno a Cosenza, in cui le circolari di Di Rudinì avevano avuto l’effetto voluto, e i cattolici, per non aver noie con la giustizia, si erano appartati in una quasi totale inattività. Ma con la caduta del governo Di Rudinì, De Cardona ripetè il suo appello, aggiungendo al suo franco discorso politico, note vivacemente polemiche nei riguardi del decaduto gabinetto ministeriale: Il nostro programma, in «La Voce cattolica», 17 maggio 1898. Ibidem.

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«I circoli sovversivi, cioè i comitati parrocchiali e diocesani, sono stati sciolti; le associazioni... a delinquere, cioè le società cattoliche di mutuo soccorso, sono state distrutte; i giornali nemici della Patria, cioè quelli devoti alla Santa Sede Apostolica, sono stati soppressi; i clericali capi e promotori delle rivolte, cioè… don Albertario, sono ormai assicurati nelle mani della giustizia, e condannati: l’Italia è salva… Il primo a guadagnarvi avrebbe dovuto essere il marchese Di Rudinì, il salvatore della Patria e delle istituzioni. Ma, cosa strana! Mentre forse si aspettava per queste sue prodezze il plauso dei contemporanei, l’ammirazione dei posteri e la riconoscenza del Paese intero, ecco che egli, il quale pur era rimasto in piedi in mezzo a mille contrasti, cade ora definitivamente, accompagnato nella sua caduta dalla compassione di alcuni, dallo sdegno di molti, dal disprezzo di tutti. Oh ingratitudine umana!… Chi non vede oggi ancora, quanto abbia giovato alla causa cattolica questa bufera che si è scatenata su di noi? Essa ha servito a purificarci, spazzando via da noi i falsi fratelli, gli ipocriti, i traditori; essa ci ha fortificato, mettendo a dura prova il coraggio di tutti. Coraggio dunque, o fratelli, e avanti! La bufera è passata: ricomponiamo le nostre file, meno numerose, sì, ma più forti e continuiamo nella lotta; lotta legale, fatta esclusivamente coi mezzi consentiti dalle leggi, ma costante, assidua, efficace»4.

Da questo momento La Voce diventa sempre più intransigente nei confronti dei cattolici alla don Abbondio, di manzoniana memoria, cioè i tiepidi, che sono incitati ad occuparsi attivamente delle questioni pubbliche e sociali, ad uscire all’aperto. A questi si rivolge con immagini di sapore squisitamente evangelico, ma di un Vangelo, per così dire, popolare e missionario: «Mentre Cristo nella sua Chiesa risale il Calvario, il contentarsi di snocciolar rosari in un cantuccio di casa o di deplorare con sospiri la tristizia dei tempi, è tradimento. Purtroppo vi sono dei cattolici che detestano cordialmente l’azione bandita dal papa, e grazie alle cannonate dello scorso maggio e agli scioglimenti su tutta la linea, credono di essersi sbarazzati da un incubo terribile; ma costoro, diciamolo francamente, professano la religione non perché imposta dal dovere, si bene perchè soddisfa alle innate esigenze del cuore umano e talvolta perchè serve di coperchio alle scelleraggini o di passaporto presso gli ingenui. Or di questa gente non bisogna curarsi né punto né poco. All’opera dunque e con coraggio! Non temiano i signorotti di spadroneggiare sulle coscienze. Noi siamo nella legge e rispettiamo le istituzioni meglio di tutti i framassoni, sì che mangiano alla greppia dello Stato»5.

Tiriamo le somme, in «La Voce cattolica», 9 luglio 1898. Sorgiamo, in «La Voce cattolica», 21 agosto 1898.

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Dall’appello per infondere coraggio ai tiepidi, La Voce cattolica e per essa don Carlo De Cardona, ricollegandosi alle idee dei democratici cristiani capeggiati da Romolo Murri, passa al monito ai veri cattolici, invitati anch’essi a prendere una posizione decisa sul piano pratico e politico, per respingere e vanificare le accuse che i liberali rivolgevano specialmente ai sacerdoti di abbandonare la cura delle anime per darsi alla politica. A questi La Voce dice: «Finché i cattolici non si persuaderanno del dovere sacro della lotta aperta e senza quartiere, il liberalismo continuerà nel brutto gioco e in nome della politica distruggerà ogni avanzo di fede che resta nelle nostre contrade»6.

Ma, a parte la vis polemica nei confronti delle forze avversarie, in questi ripetuti inviti all’impegno per combattere l’apatia e l’assenteismo che pesavano sulle popolazini e sul clero cosentini, si trattava, «in ogni caso, di problemi di carattere generale, (che) erano di per se lontani dalla quotidiana realtà del popolo cosentino»7. Per trovare una più spiccata impronta di carattere popolare e sociale occorre sfogliare La Voce cattolica del 1899, quando don Carlo De Cardona ne assunse la direzione. Sono di quest’anno i primi articoli che trattano più direttamente i gravi problemi della vita che si vive in Calabria e, particolarmente, nella Calabria Citeriore, testi che sono sempre inseriti nella realtà della situazione nazionale. Con il numero del 22 gennaio apparve una nuova rubrica, intitolata La domenica del popolo, nella quale De Cardona, firmandosi con lo pseudonimo Demofilo, lanciava questo appello: «Operai, unitevi! È questo il grido che mezzo secolo dietro, il patriarca del socialismo, l’ebreo Carlo Marx lanciava al mondo. Fu questo il grido o meglio la parola d’ordine che parte dal campo cattolico... Nei tempi nostri, l’unione salda e compatta è per gli operai un bisogno, una necessità urgentissima. Contro i tanti mali presenti, tra cui grandeggia la miseria e la corruzione, voi, operai, non avete altra difesa, altro campo, che tenervi uniti in forte compagine, affratellarvi nell’intento di sostenere i comuni interessi»8.

Da questo momento don Carlo De Cardona, insieme con un gruppo di collaboratori (Bernardino Lupi, Roberto Cardamone, don Francesco Sarubbi di Mormanno, Giovanni Sensi e mons. Orazio Mazzella9, in quel tempo La politica, in «La Voce cattolica», 5 settembre 1898. S. Antonioli Cameroni, G. Cameroni, Movimento cattolico e contadino…, cit.,

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p. 50.

Operai, unitevi, in «La Voce cattolica», 22 gennaio 1899. «Era stato vescovo titolare di Cuma ed ausiliare dello zio cardinale a Bari,

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arcivescovo di Rossano e il seminarista Luigi Nicoletti10 incomincia con particolare e più insistita attenzione ad esporre con linguaggio più semplice il messaggio sociale cristiano democratico, mettendo da parte il tono erudito dei primi numeri del battagliero settimanale domenicale, che alla fine del 1899 aveva già raggiunto i mille abbonati. Gli articoli diventano di settimana in settimana più mordenti nei confronti dei socialisti e dei massoni, entrambi chiusi nel loro acido anticlericalismo i quali, localmente impegnati in una massiccia opera di proselitismo, non mancano di avvertire il pericolo dell’associazionismo decardoniano. La ventata di novità impensieriva non poco anche il liberalismo, che nella predicazione popolare di Demofilo vedeva l’avversario più pericoloso. L’arco della polemica decardoniana ha frecce per gli uni e per gli altri, ma con maggiore intransigenza contro la locale massoneria, arroccata nella difesa dei privilegi e dell’ingordigia personale. Contro questa setta che aveva ottenuto buoni successi soprattutto presso la classe dirigente di formazione liberale, don Carlo De Cardona spingeva i suoi attacchi più aspri e coraggiosi, anche perché questa, «legata agli interessi del governo liberale, faceva di tutto per stroncare sul nascere ogni tentativo di azione da parte dei cattolici»11. L’intransigenza antimassonica di De Cardona, che spesso additava ai cattolici i successi socialisti in campo sociale, pur rimanendo in posizione di forte antagonismo ideologico con essi, era nettissima, come appare con evidenza nel dilemmatico aut aut di questo articolo vociano: «È innegabile che lo stato laico, la legislazione atea, le scuole senza religione, il matrimonio civile, le persecuzioni contro il clero, quanto altro è elemento della cosiddetta terza civiltà, sono emanazioni di quelle fucine del diavolo che si chiamano logge. Anzi, se ci si permette la franchezza, lo spirito massonico è penetrato nelle chiese, nelle sacrestie, nelle pratiche religiose, nelle cose più sante… Chi guarda attorno deve constatare che tutto è massonico o massarà arcivescovo di Taranto, si schierò con l’ala democratica cristiana murriana, della quale condivise l’ansia di rinnovamento ecclesiale e sociale, mantenne viva la polemica antisocialista anche dalle colonne de La Voce cattolica, mentre gli articoli di De Cardona erano antiborghesi e la critica ai socialisti riguardava quasi sempre la loro integrazione nel sistema liberalmassonico» (M. Mariotti, Vescovi e laici in Calabria, Padova, Antenore, 1969, p. 104). 10 Nacque a San Giovanni in Fiore il 6 dicembre 1883 e morì a Cosenza il 3 settembre 1958. «Si era formato nella Badia benedettina di Cava de’ Tirreni, dove, entrato nel 1897 per frequentare il quarto ginnasio, rimarrà fino al 1902 quando conseguirà la licenza liceale classica senza esami, con medaglia d’oro» (F. Cassiani, I contadini calabresi…, cit., p. 26 nota 6). 11 S. Antonioli Cameroni, G. Cameroni, Movimento cattolico e contadino…, cit., p. 53. 58


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sonegalante (in corsivo nel testo)… Da parte nostra, risoluti a propagare il già iniziato risorgimento cristiano del popolo, non temiamo le sfide e disprezziamo i vituperi. Il nostro programma si compendia in questo dilemma: o Cristo o la frammassoneria»12.

Ma questo De Cardona polemista brillante non faceva paura, perchè ben poco fastidio, per il momento, poteva dare uno che operava solo con le belle parole. Ma se non impensieriva gli avversari, tuttavia il polemista usava parole nuove che esprimevano chiarezza di idee e, soprattutto, in esse c’era la determinazione, più che palese, di mettere in pratica tali idee, che sotto l’apparenza di un semplice discorso, fatto alla buona, avevano il sapore di un vero e proprio programma politico, come si può leggere di seguito: «Amandoci, soccorreremo prontamente i più bisognosi, presteremo le cure più assidue agli infermi, metteremo insieme parte dei nostri sudati risparmi e colle nostre piccole banche a responsabilità limitata, noi mano mano potremo avere a nostra disposizione un forte capitale da impiegare a tutto vantaggio della nostra classe, a impiantare scuole pei nostri giovani, a diffondere le nostre idee per mezzo di una vigorosa propaganda, a difenderci contro l’usura, a rialzare e sostenere la piccola industria. Crescendo il numero delle nostre associazioni, nelle città come nelle campagne, ci federeremo tutti intorno ai nostri vescovi che sono i capisaldi della Chiesa, i centri viventi del cristianesimo. Se allora la nostra azione si allargherà penetrando più dentro la vita pubblica, e mirerà a dare alle amministrazioni dei Comuni e delle Province un’impronta schiettamente popolare e profondamente cristiana. Intanto tutti gli operai d’Italia organizzati nell’amore evangelico, si daranno la mano, e affretteranno il giorno in cui per la Patria comincerà una vita nuova»13.

Si sente nel tono del discorso la calma dell’uomo di azione che non si balocca nel gioco innocuo delle idee, dell’uomo che non si stanca di battere e ribattere come martello sul chiodo, per chiamare a raccolta e per spronare sia il mondo dei cattolici laici, che quello dello stesso clero. Egli si domanda: «Ma chi preparerà il terreno e chi getterà il seme nel Mezzogiorno d’Italia i laici cattolici? Io non so se esistano laici veramente cattolici d’un pezzo: fra noi chi confonde il cattolicesimo col legittimismo, chi lo vuole legato alla monarchia, chi alla repubblica, chi non lo brama disgiunto dai suoi materiali interessi, chi lo considera degno solo della sua coscienza privata, chi lo fa consistere nella sola fede senza le opere, chi solo nelle 12 13

O Cristo o la frammassoneria, in «La Voce cattolica», 12 febbraio 1899. Il nostro programma, in «La Voce cattolica», 23 novembre 1900. 59


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opere del culto e non in quelle morali; il vero laico cattolico apostolico papale, o meglio cattolico senza epiteti, credo che sia un caso molto peculiare del Mezzogiorno, dunque dal laico non si può sperare questa opera di risanamento; da prete dunque? Dal prete attualmente neppure. Il prete meridionale adesso sarà piuttosto colto in teologia e in letteratura, esatto nell’adempimento delle funzioni ecclesiastiche e degli ecclesiastici precetti, capace di destare entusiasmo ed ammirazione per i suoi brillanti discorsi: ma è troppo legato agli interessi domestici o a quelli del campanile, troppo amante della quiete, troppo sprovvisto di studi e di esperienza in materia sociale per poter essere l’arringo del popolo»14.

E questo rimprovero al clero non è poco: De Cardona non sopporta le chiusure della vecchia mentalità dei sacerdoti, ma, d’altra parte, l’azione sociale egli vede che può e deve svolgersi proprio per opera dei sacerdoti, che, perciò, occorreva formare in maniera nuova. Ma anche se questa nuova classe sacerdotale non poteva venir fuori dalla sera alla mattina, tuttavia, la voce decisa e le idee chiare di don Carlo, smossero le acque della palude. Nella diocesi di Cosenza incomincia un fermento del tutto sconosciuto nel resto della Calabria. E nel Congresso nazionale cattolico convocato a Taranto nel settembre 1901, si farà «interprete autorevole dei democratici cristiani di Cosenza mons. Orazio Mazzella, arcivescovo di Rossano e molto amico di Sorgente e De Cardona»15. La verifica di questo nuovo fermento, esistente nel cosentino, si ha in occasione delle elezioni politiche del 1900, «durante le quali don Carlo invitò le forze cattoliche ad astenersi dal voto, nel pieno rispetto del non expedit… I tempi erano ormai maturi per l’effettivo inizio del pratico operato sociale. La rispondenza elettorale, intesa non come assenteismo, ma come preparazione nell’astensione, era il più chiaro indice di una raggiunta maggiore coscienza civile e politica»16.

Nella primavera 1901, con sede provvisoria nel Palazzo arcivescovile di Cosenza, nasceva la prima Cooperativa cattolica di credito, «che si proponeva la moralizzazione e la diffusione del piccolo credito tra i lavoratori. Lo statuto della cooperativa era basato su tre concetti fondamentali: 1. i soci devono costituire il capitale collettivo per mezzo di una piccola tassa annua, con risparmi versati anche per importi minimi, senza determinazioni di scadenze, con azioni fissate a lire 25 ciascuna; 2. per essere ammessi come soci erano sufficienti l’accettazione dello statuto e l’impegno al versamento della tassa annua; 3. il capitale collettiL’Azione cattolica nel Mezzogiorno, in «La Voce cattolica», 28 ottobre 1900. F. Cassiani, I contadini calabresi…, cit., p. 44. 16 S. Antonioli Cameroni, G. Cameroni, Movimento cattolico e contadino…, cit., 14 15

p. 57. 60


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vo era amministrato dai soci mediante un consiglio eletto dall’assemblea generale, ed era destinato principalmente al credito fra i soci stessi e ad altri fini, quali acquisti collettivi e scuole serali, di cui già iniziavano a sorgere i primi nuclei»17.

Questa iniziativa, squisitamente sociale, fa da «preludio a un ben più deciso inserimento dell’azione decardoniana nella società cosentina»18. 1901: nasce la Lega del lavoro Tre mesi dopo, il 23 giugno 1901, La Voce, nell’annunciare la costituzione della prima Lega del lavoro, pubblica un appello agli operai cosentini, che si può considerare il manifesto di questa coraggiosa fondazione. Eccolo quasi nella sua interezza: «Operai! Una parola nuova risuona oggi nel mondo, fra le turbinose agitazioni sociali, una parola che vibra più rapida e più forte delle voci incomposte e assordanti del vecchio egoismo mascherato di scienza e di civiltà. È una parola di redenzione per gli oppressi, di vita per le coscienze, di pace per quanti sono devoti alla causa della verità e della giustizia. È la parola sempre antica e sempre nuova sprigionatasi dal petto di Cristo e rimasta in mezzo agli uomini, lievito di perenne giovinezza, semente di salutari speranze. È la parola dell’amore… In nome e in virtù di questa santa parola, che altra volta spezzò le catene degli schiavi e che oggi infiamma il cuore di tanti compagni nostri che hanno aperto gli occhi alla luce dei nuovi ideali in nome e in virtù dell’amore evangelico, noi operai del Fascio Democratico Cristiano di Cosenza, invitiamo tutti i nostri fratelli lavoranti e sofferenti a volere adoperarsi insieme con noi perché nella nostra provincia, come in tante parti d’Italia, sorga vigorosa e robusta la Lega del lavoro. Lega cioè di operai che, amandosi in Cristo, uniscono le loro forze per una generosa e legale difesa degli interessi morali ed economici del loro ceto. Operai! Noi siamo divisi l’uno dall’altro e perciò non contiamo niente nella società presente – siamo ignoranti e perciò incapaci di far valere i nostri diritti di uomini liberi e di cittadini onesti, di fronte alle classi che hanno in mano i capitali e le pubbliche amministrazioni. Operai! Il lavoro delle nostre braccia è, da una parte, il consumo lento dei nostri muscoli, e dall’altra, la fonte precipua della pubblica ricchezza. Nei campi dove biondeggia la messe, nei palazzi signorili, nelle sfarzose eleganze del mondo borghese, nelle gigantesche costruzioni, nelle potenti macchine, nelle grandiose industrie, nello splendore materiale della 17 18

Ibidem, pp. 57-58. Ibidem. 61


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civiltà, vi sono purtroppo i nostri sudori, vi è parte del sangue nostro: è il nostro lavoro che dà vita alla multiforme e non lussureggiante produzione moderna. Non vogliamo essere invidiosi di nessuno e tanto meno aspiriamo al possesso di ricchezze che non sono nostre e che dall’Evangelo abbiamo imparato a disprezzare. Ma non vogliamo essere tenuti come bestie, vogliamo che il lavoro nostro ci frutti la sufficienza alla vita, a una vita regolare, indipendente, onesta e lieta: vogliamo il tempo e i mezzi necessari per l’adempimento dei nostri doveri e per il nostro miglioramento intellettuale e morale. Chi può contestarci il diritto a tali modeste esigenze? Operai! È un fatto doloroso che la miseria, l’incessante fatica, l’ignoranza sono giunte ad attutire nelle nostre coscienze financo il senso dell’onore e della dignità umana. Non è forse impunemente insidiata e spesso a vil prezzo comprata l’onestà delle donne lavoratrici. E non vi sono forse fra noi degli operai che sanno essere solidali nel delitto con certi mostri di padroni? E non abbrutisce nell’ubriachezza e nella mala vita, gran parte dei nostri fratelli? E non sentiamo pietà per tanti poveri fanciulli e fanciulle, costretti a sciupare nelle botteghe o nelle campagne le fresche energie e l’innocenza del cuore per tanti fecondare la terra, a rendere così più comoda e prospera l’esistenza dei padroni e che ora si aggirano per le vie, mezzi sciancati e tremolanti in cerca di un tozzo di pane? La società moderna, imbevuta di egoismo fino al midollo delle ossa, tiene l’operaio come un essere che serve e che frutta: lo adopera a suo talento finche è in forza; lo getta via come un cencio vecchio, come un ingombro qualunque, quando non serve più ai suoi interessi materiali. Operai! Voi lo vedete: la nostra classe è nell’abbandono, nell’ignoranza, nel silenzio dell’oppressione. […] Ma ora è tempo di destarsi. La Lega del lavoro sia il primo e solenne atto del nostro risveglio»19.

L’appello decardoniano non è assolutamente viziato dalla retorica di occasione, ma traspaiono, in piena e solare evidenza, quei principi del programma sui quali don Carlo aveva meditato da tempo e, com’è stato sottolineato dal sacerdote cosentino don Angelo Chiatto20, quelli dei cattolici sociali tedeschi, sui quali già ne La Voce cattolica (10 marzo 1900) aveva scritto: «Noi diremo con il deputato Hitz del Centro tedesco, facciamo capo alla grande politica sociale cattolica, inaugurata dall’illustre vescovo di Magonza, mons. Ketteler, come colui a cui dobbiamo il nostro programma sociale ed edificheremo sulle fondamenta da lui innalzate».

La Lega del lavoro, in «La Voce cattolica», 23 giugno 1901. A. Chiatto, Il sacerdote ed il sociologo, in Sezione Studi «Carlo De Cardona» Cosenza (a cura di), Carlo De Cardona. Sacerdote, pensatore, sociologo, politico. Atti della tavola rotonda (Cosenza 3 aprile 1976), Cosenza, tip. Fasano, 1977, pp. 17-30. 19 20

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Stampa litografica in ricordo del restauro della bandiera della Lega del lavoro di Lappano.

Don Angelo Chiatto aggiunge il seguente opportuno commento: «Il programma sociale di De Cardona si ispirava al programma del vescovo di Magonza Ketteler, passando attraverso la puntualizzazione della Rerum novarum di Leone XIII. Anzi molti suoi articoli durante le battaglie giornalistiche ripetevano i concetti fondamentali del pensiero del grande precursore dell’enciclica leoniana: da lui mutuava l’ispirazione ideologica, sulla cui base portava avanti la continua aggressiva polemica nei riguardi del liberalismo e del socialismo, dimostrando, come aveva fatto il suo maestro Ketteler, che i presupposti di Marx e di Lassall coincidevano con i presupposti scientifici del liberalismo politico ed economico»21.

Con la costituzione della Lega del lavoro nasce a Cosenza il primo sindacato contadino operaio. L’appello ai lavoratori della provincia cosentina, 21

Ibidem, p. 23. 63


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firmato nel manifesto degli operai del Fascio Democratico Cristiano, è nello stesso tempo un documento delle condizioni della società calabrese, costituita prevalentemente da una plebe oppressa dal baronato latifondista e dall’analfabetismo. Tra le righe del coraggioso manifesto decardoniano si sente il tono fermo e la vis polemica di Vincenzo Padula22, che, immediatamente dopo l’Unità nazionale, dalle colonne del suo giornale aveva messo sotto accusa lo sfruttamento a cui erano sottoposte le persone in Calabria, da parte dei notabili locali. Per li rami il movimento leghista cosentino aveva un retroterra culturale quello rappresentato da Padula per cui si può parlare, rispetto all’associazionismo nazionale cattolico, più di un filone autoctono e non anormale, come invece sostiene Ferdinando Cassiani. L’iniziativa sociale decardoniana pur suscitando un vespaio di polemiche e di attacchi dal fronte liberalmassonico, in combutta con i galantuomini, in poco tempo ebbe un gran successo. Un mese dopo la fondazione della Lega di Cosenza, altre ne sorsero in tutta la provincia: «A San Giovanni in Fiore, a Trenta, e nel territorio della Presila, nel castrovillarese, nel cassanese, a Mendicino, a Bisignano, a Rose, a Luzzi, a Castiglione, a Dipignano, a Rogliano, a San Benedetto Ullano e ad Aprigliano»23.

Alla costituzione della Lega del lavoro, un anno dopo (19 gennaio 1902) seguì anche a Cosenza, la prima Cassa rurale, società cooperativa in nome collettivo a responsabilità limitata, senza fini di lucro, costituita da 24 lavoratori leghisti con atto del notaro Antonio Fancelli. L’azione sociale e popolare di De Cardona e dei suoi collaboratori, anche se incontra molti ostacoli nel suo cammino, procede con la forza delle idee, che la sorreggono. 22 Ferdinando Cassiani, pur ammettendo che De Cardona «recepisce la rivoluzione sociale contadina, iniziata dal Padula», asserisce che don Carlo però «le dà lo spirito religioso e la motivazione politica che erano mancati al poeta sacerdote di Acri» (ibidem p. 24). Chi ha letto Lo stato delle persone in Calabria, sa che è la prima inchiesta sulla povertà delle popolazioni calabresi, condotta da un privato, che è anche un sacerdote e missionario, non solo nei confronti dei lavoratori, ma anche nella corrispondenza epistolare con i briganti, come appare nella sua risposta, pubblicata nel n. 48, 17 agosto 1864 su Il Bruzio: «Caro Pietro, ho ricevuto la tua lettera, che mi ha mosso le lacrime… Tu non eri nato per fare il brigante. Tu sei nato buono, perché Dio ti ha dato un’anima battezzata, come l’ha data a me, come l’ha data a Garibaldi… Ora senti, Pietro, quello che ti dico. Io non ho avuto altri oggetti sacri che Dio, e mio padre, ch’è morto; ed io ti giuro solennemente, ed alzando le mani, sul nome santo di Dio, e sull’adorata memoria di mio padre, che io non solo ti salverò la pelle, ma ti salverò anche l’anima…». 23 S. Antonioli Cameroni, G. Cameroni, Movimento cattolico e contadino…, cit., p. 62.

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Capitolo III DALLA PRIMA CASSA RURALE (1902) AL FASCISMO AL POTERE Nell’ambito del movimento decardoniano, il 19 gennaio 1902, 19 contadini, 2 coltivatori diretti, un operaio ed un artigiano costituiscono la prima Cassa rurale di Cosenza1; seguono le altre della diocesi cosentina, perchè a questa appartenevano i pionieri del movimento leghista. Questo nuovo organismo finanziario della Lega del lavoro si propone, com’è scritto nello Statuto «il miglioramento religioso e morale, sociale ed economico dei propri soci, mediante atti commerciali, e soprattutto con l’estendere i benefici del credito ai lavoratori di campagna».

Le condizioni per aderivi erano in senso classista; potevano far parte della società i lavoratori giuridicamente capaci, di buona condotta morale e civile, e le società cooperative composte di lavoratori giuridicamente costituiti. Con l’istituzione delle Casse rurali, De Cardona ed i suoi più stretti collaboratori intendevano svolgere un’opera capillare nei singoli comuni, per riscattare la classe contadina ed operaia dall’usura e dal servilismo, imposti per secolare tradizione dai signorotti locali. Dalla diocesi cosentina lo sviluppo delle Casse si estende all’intera provincia ed in tutta la regione, come già era avvenuto per la Sicilia, dove don Luigi Sturzo «nel 1897 aveva fondato a Caltagirone la prima Cassa rurale intitolata a San Giacomo ed il suo primo giornale La croce di Costantino»2. Studiando le condizioni socio-economiche della Calabria, caratterizzate da una realtà pesante, aggravata, per quanto riguardi il Movimento cattolico, dall’assenteismo di un clero che non sente il valore dell’azione sociale, sacerdoti che il regalismo borbonico ha abituato all’ossequio verso il notabile, don Carlo De Cardona colse queste realtà e ricorse ai ripari, anche perchè la borghesia agraria locale voltava le spalle alla Chiesa e alle masse, specialmente nelle campagne, aderendo alla propaganda socialista che si andavano lentamente scristianizzando, e le parrocchie cominciavano a perdere il suo carattere di centro e fulcro della comunità, non solo religiosa, ma anche civile.

F. Cassiani, I contadini calabresi…, cit., p. 95. F. Malgeri, I cattolici dall’Unità al Fascismo. Momenti e figure, Reggio Calabria, Parallelo 38, 1983, p. 89. 1 2

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L’acquisto delle sementi Contro questa situazione oltremodo inquietante, De Cardona affila la sua polemica antiborghese estendendola al campo economico. Egli dice: «Denaro ce n’è nella provincia. Le Casse postali e la Cassa di Risparmio sono piene di denaro che arriva dall’America, denaro sudato, chi sa con quanti sacrifici. Ora tutto questo denaro, e si tratta di milioni, è nelle mani dei ricchi, dei capitalisti… Ed ecco il popolo asino. Non solo il tuo lavoro, ma il tuo denaro porti nelle banche dove regnano i tuoi padroni»3.

Questa iniziativa delle Casse rurali, unica alternativa offerta ai contadini per procurarsi il denaro necessario all’acquisto delle sementi e dei mezzi di lavoro, si può considerare come il primo tentativo per superare gli inconvenienti creatisi con l’inattività dei Monti frumentari, creando una struttura che potesse essere fonte di credito per la classe contadina ed artigiana, tramite i risparmi dei soci. Alle Casse rurali si appoggeranno altre iniziative collaterali quali cooperative di consumo, edilizie, agricole ed artigiane. Da queste strutture don Carlo De Cardona non si aspettava vantaggi soltanto economici, ma soprattutto la nascita di un forte senso di solidarietà sociale, che dal piano economico avrebbe allargato la sua influenza a quello morale, religioso ed intellettuale. Scriveva con ferma fiducia: «La funzione del credito per le nostre cooperative, deve essere una funzione cristiana, e quindi tale da procurare il sollievo economico degli umili, lo sviluppo ordinato delle industrie, specialmente agricole, l’educazione dello spirito di solidarietà civile e delle virtù religiose. Ogni nostra banca vuole essere una cellula del futuro organismo sociale cristiano»4.

Dall’opera di educazione promossa nelle leghe e nelle Casse rurali si passò «all’impegno diretto dei cattolici nella vita pubblica, nella sola forma allora ad essi consentita, cioè con la partecipazione alle elezioni amministrative. Il non expedit, ancora in vigore, negava la partecipazione dei cattolici alle elezioni politiche, ma non comportava divieti per le amministrative. Il primo tentativo di inserimento nella vita pubblica avvenne nel 1903, con l’inclusione di un operaio cattolico, Eugenio Ciaccio, nella lista della quale facevano parte anche liberali e massoni»5. «Il Lavoro», 24 febbraio 1906. Per le cooperative cattoliche di credito, in «La Voce cattolica», 29 marzo 1904. 5 S. Antonioli Cameroni, G. Cameroni, Movimento cattolico e contadino…, cit., pp. 77-78. 3 4

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L’insuccesso elettorale di Ciaccio non va considerato una sconfitta dei cattolici, perché come prima esperienza in campo elettorale, anche se negativa, rivelò deficienze organizzative e inadeguatezza dei mezzi adoperati per la campagna elettorale. E queste carenze non sfuggirono a De Cardona, che per meglio organizzare il movimento, lasciò la direzione de La Voce cattolica, affidandola a Giovanni Sensi e così potè affrontare le elezioni dell’anno successivo (la precedente amministrazione liberal-massonica resse solo pochi mesi) con un più valido intervento presentando una lista di dieci candidati e organizzando il giovane partito «in conformità allo spirito murriano per mezzo della stampa locale e tramite discorsi e assemblee presso leghe e presso le cooperative»6. Il non expedit e le elezioni amministrative I dieci candidati cattolici risultano tutti eletti con in testa Carlo De Cardona, che ebbe 784 voti di preferenza7 e, poiché i socialisti non si erano presentati alle elezioni, i dieci eletti di parte cattolica furono l’unico gruppo di opposizione e «soprattutto per merito di De Cardona e di uno dei suoi più fidati collaboratori, Antonio Cundari, riuscirono a imporre al gruppo liberal-massonico il rispetto della democrazia»8. Questa situazione amministrativa era allora un fenomeno isolato, perché nel resto della Calabria i cattolici disperdevano le loro forze in futili conflitti interdiocesani, per cui l’Azione cattolica, tranne che a Cosenza rimaneva lettera morta, anche perché i comitati dell’Opera dei congressi, creati dall’alto, per obbedire alla Santa Sede, erano quasi inattivi. L’affermazione dei cattolici murriani nelle comunali del 1904 fece decidere De Cardona a presentarsi alle elezioni provinciali dell’anno successivo; e poiché ufficialmente, non si presentarono né i liberali né i socialisti, la lotta si svolse in un clima arroventato principalmente nel collegio di Cosenza, roccaforte della massoneria. «Nel mandamento di Rose, dove il candidato cattolico era proprio don Carlo De Cardona»9, la cui candidatura «era stata voluta dai contadini della Lega di San Pietro in Guarano, uno dei paesi del mandamento»10. Da parte degli avversari la lotta fu condotta in un clima di intimidazione politica inaudita, ma il giovane sacerdote vinse. A Cosenza invece prevalse l’avvocato Corigliano, sia pure per pochi voti, sul candidato cattolico Ibidem. Ibidem, p. 79. 8 Ibidem. 9 Ibidem, p. 81. 10 Ibidem. 6 7

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Innocenzo Zumbini. Questo il commento decardoniano pubblicato sulle pagine de La Voce cattolica: «Se gli interessi personali, camuffati da un vago e negativo liberalismo, hanno vinto essi hanno vinto con un numero troppo esiguo e troppo eloquente! Su 1.561 votanti, ben 750 elettori hanno affermato la loro fede negli ideali cristiani, superando difficoltà enormi, con costanza e disciplina veramente mirabili […]. Nessuno degli operai appartenenti alla Lega del lavoro – nonostante la seduzione e il cattivo esempio di taluno – è venuto meno al proprio dovere di dare il voto e di lavorare per il candidato del partito. Crediamo anzi che non solo il nostro partito, ma Cosenza intera, può andare orgogliosa di aver finalmente non pochi artigiani e molti contadini, che rifuggono dalla pastetta cui la massoneria li aveva abituati ed accettano tutte le conseguenze di una lotta fierissima, sacrificando il sonno, le giornate di lavoro, le amicizie personali, per amore del partito e dell’ideale di cui cominciano a sentire la luce e la forza rinnovatrice. […] Ancora un’altra lotta elettorale alla data del 23 luglio e la putredine del liberalismo, massonico-bancario sarà al completo»11.

In seno al Consiglio comunale cosentino il gruppo cattolico agisce con molto senso di responsabilità, portando avanti seduta dopo seduta un’opposizione costruttiva e fermamente democratica, dopo tanti anni di giunte difficili e di commisariati. Fu affrontato per primo il problema delle scuole e dell’analfabetismo, dell’acquedotto, della luce, delle imposte e la Giunta fu costretta a discutere e a provvedere. E così «la borghesia intellettuale cosentina, ancora legata come polipo allo scoglio, alle tradizioni galantomistiche di estrazione risorgimentale, non molto diversa dalla casta nobiliare, ed assolutamente restia se non addirittura snobisticamente incapace di aprirsi alle esigenze della gente contadina»

si trovò per la prima volta bersagliata a viso aperto dalla polemica di don Carlo De Cardona, prete impulsivo e da Antonio Cundari, giovane professore dalla dialettica tagliente. Il Movimento cattolico, che continua a seguire la linea murriana, cammina per la sua strada con coerenza e con chiarezza, nonostante la crisi dell’Opera dei congressi, anzi si rafforza. Ormai anche nel logoro apparato dell’organizzazione dei cattolici conservatori, di cui l’Opera dei congressi si serviva, c’era aria irrespirabile per i cattolici della nuova generazione intransigente di De Cardona e dei suoi più fedeli seguaci. Afferma don Carlo: «Noi, siamo seguaci del murrismo, della sinistra cattolica»12. E per promuovere un’azione più apertamente popolare, all’i11 12

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La nostra sconfitta, in «La Voce cattolica», 7 giugno 1905. «La Voce cattolica», 15 maggio 1905.


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nizio del 1905 De Cardona fonda un secondo giornale Il Lavoro, la cui direzione viene affidata a don Francesco Pizzuti, secondo segretario dell’arcivescovo Sorgente. Era un giornale riservato alle sole classi lavoratrici e trattava dei problemi del lavoro, del risparmio, dell’istruzione e della solidarietà tra i lavoratori, senza trascurare cronaca cittadina e della provincia cosentina. Quando a settembre 1905 una forte scossa sismica sconvolse tutta la provincia di Cosenza, don Carlo fu tra i primi a giungere nei paesi in cui c’era più bisogno di aiuti. Ma, nonostante le calamità naturali, il movimento cooperativo procedeva con alacrità irresistibile. «Alla fine del 1905 le Casse rurali di Cosenza, di San Pietro in Guarano, di Rende, di Luzzi e di Rose rilevavano un movimento di capitali di oltre 100mila lire, e la sola Cassa rurale di Cosenza poteva disporre di quasi 500 lire per opera di beneficenza»13.

In un suo studio lo storico Antonio Guarasci riporta che: «Ormai il movimento ha un suo impianto solido e sicuro… Esso rappresenta l’organizzazione più compatta e più omogenea di tutta la provincia cosentina anche se il clerico-moderatismo incomincia a farsi sentire nel suo seno e a creare contraddizioni, polemiche, risentimenti che amareggeranno il buon De Cardona, ma non riusciranno a scalfire la serietà della sua azione e serviranno piuttosto a chiarire meglio le finalità e i limiti del movimento che egli aveva fondato»14.

Murri e il modernismo Si profilavano però prove più gravi per don Carlo, fatto bersaglio al fuoco incrociato del fronte anticlericale e di quello clerico-vaticano. La fedeltà al programma democratico cristiano e alle idee di Romolo Murri, e l’adesione delle organizzazioni cattoliche cosentine alla Lega Democratica Nazionale, ostracizzata dall’enciclica Pieno l’animo di Pio X dell’agosto 1906, che mirava a porre un freno all’attivismo politico dei sacerdoti, diedero occasione alla destra per mettere sotto accusa di modernismo Carlo De Cardona. Il murrismo decardoniano fu fatto oggetto di una serie di inchieste, disposte dalla Curia romana, che ebbero come conseguenza immediata la chiusura de La Voce cattolica, diretta da Giovanni Sensi, mentre gli avversari di De Cardona sollevarono un’ondata di anticlericalismo bilioso, fatto 13

p. 91.

S. Antonioli Cameroni, G. Cameroni, Movimento cattolico e contadino…, cit.,

A. Guarasci, Carlo De Cardona e il Movimento cattolico a Cosenza (1898-1906), in Scritti storici…, cit., p. 17. 14

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di pungenti insinuazioni e di calunniose ingiurie scatenando un vespaio di polemiche, culminate con la pubblicazione, sul giornale satirico e umoristico locale, Fra Nicola, di alcune strofette rimate all’indirizzo di don Carlo, alle quali si aggiungevano gli articoli sempre più polemici di Parola socialista, che ammoniva ai suoi lettori il pruriginoso combustibile della diffamazione e della calunnia. Questa penosa situazione venne risolta energicamente da mons. Camillo Sorgente, che mal sopportava tutta la trama di accuse ordita ai danni del suo primo segretario, autore di un’opera sociale da lui personalmente caldeggiata e promossa. Si recò personalmente dal papa e gli consegnò, con una coraggiosa presa di posizione, la sua croce pettorale, simbolo dell’autorità arcivescovile. Il pontefice, impressionato dal gesto e valutata l’importanza delle realizzazioni decardoniane, restituì al presule la croce, lo abbracciò calorosamente e impartì la sua benedizione a tutto il popolo cosentino, «gemma del popolo calabro»15. Superata la crisi, il movimento decardoniano, deludendo le aspettative degli avversari, che avevano giocato il tutto per tutto pur di eliminare il pericoloso contendente, ebbe una nuova e clamorosa riconferma della sua forza e della sua compattezza dall’esito delle elezioni municipali del maggio 1908, nelle quali «i cattolici non solo ottennero una buona rappresentanza nel Consiglio, ma formarono l’intera Giunta comunale, composta di sei persone più il sindaco Antonio Cundari, la cui nomina rappresentava uno strepitoso successo per il movimento decardoniano»16.

In questa Giunta don Carlo De Cardona, «il cervello economico della struttura creditizia cattolica»17, divenne assessore alle finanze e si assunse il difficile incarico di rimediare agli squilibri finanziari delle precedenti amministrazioni liberal-massoniche. Ma il successo del movimento decardoniano era ancora circoscritto nell’ambito provinciale cosentino e solo dopo il Congresso cattolico regionale tenutosi a Gerace dal 5 al 18 ottobre 1908, e la soluzione del caso Murri, nei confronti del quale don Carlo dovette assumere «una posizione di dolorosa condanna»18, il movimento cosentino, pur rimanendo isolato nella realtà regionale calabrese, ricercò una dimensione di confronto con la restante realtà italiana; e questa ricerca appare già attraverso il nuovo giornale cattolico cosentino, L’Unione nel quale appariva più Cfr. S. Sprovieri, Mezzo secolo di lotte e consensi, in «Parola di vita», 13 novembre 1971. 16 S. Antonioli Cameroni, G. Cameroni, Movimento cattolico e contadino…, cit., p. 17. 17 Ibidem. 18 Ibidem, pp. 123-124. 15

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evidente, sin dall’emblematica testata, la volontà di aprire le proprie posizioni in un ambito politico non esclusivamente calabrese e meridionale, ma in quello più generale italiano. In questo periodo anche nelle inchieste condotte sul Mezzogiorno il movimento decardoniano è fatto oggetto di particolare attenzione da parte delle varie commissioni inquirenti, lo segnalano come unico esempio di efficienza organizzativa popolare, che offre una buona possibilità di intervenire in una regione sempre considerata emarginata dalla realtà politica italiana. Il giornale L’Unione, fondato nel 1910, ha, rispetto a Il Lavoro, un carattere più chiaramente politico e polemico nei confronti del governo, additato come potere a tutto vantaggio degli industriali del settentrione in combutta con i deputati e i senatori calabresi; accusati di clientelismo politico e di totale disinteresse per la regione, da loro indegnamente rappresentata. Era questa una critica non volgarmente denigratoria e sterile, ma costruttiva, perché denunciando gli errori elettorali del passato, si faceva opera educativa per non ripeterli nel futuro. In occasione dell’impresa coloniale di Libia i giornali cattolici cosentini assunsero una posizione favorevole, in pieno contrasto con il programma del movimento decardoniano. Questo errore fu commesso perché anche a Cosenza, come in tutto il Paese, fu male interpretato il provvedimento, con cui il Ministero della guerra aveva stabilito che partissero per la Libia anche alcuni sacerdoti come cappellani militari: «La nostra letizia per i trionfi del nostro esercito è cristiana, perché sappiamo che la civiltà che si porta a quei popoli è quella che ha civilizzato tutta l’Europa e il nuovo mondo, è cioè la civiltà portata da Gesù Cristo»19.

Ma il tono trionfalistico di queste proposizioni, in cui l’impresa coloniale africana è interpretata «come la nuova crociata contro l’infedele»20, non può riuscire a nascondere l’evidente incoerenza con i principi solennemente professati dal corpo redazionale e dai collaboratori de L’Unione. Più coerente dimostra di essere lo stesso giornale in occasione delle elezioni politiche del 1913, quando il governo Giolitti introdusse il suffragio universale. Questo poneva il problema dell’individuazione «della fisionomia di un partito che, attenendosi al terreno della democrazia, fosse in grado di corrispondere, in una qualche forma sintetica, alle esigenze cosiddette sociali delle masse cattoliche, e all’esigenza della Chiesa di vedere salvaguardate presso il mondo laico le sue particolari libertà»21. 19 20

p. 130.

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L’Unione, nella Rubrica degli operai del 7 marzo 1912. S. Antonioli Cameroni, G. Cameroni, Movimento cattolico e contadino…, cit., L. De Rosa, Il movimento cattolico in Italia, Bari, Laterza, 1974, p. 338. 71


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In questa nuova situazione politica si giunse a quell’accordo tra cattolici e liberali, noto come Patto Gentiloni, accordo che seminò un certo malcelato disagio nei cattolici calabresi più attivi. E tale disagio apparve manifestamente in occasione del Congresso cattolico di Reggio Calabria, svoltosi dal 19 al 22 gennaio 1913, indetto per organizzare l’elettorato cattolico in Calabria, dove, tranne nella provincia cosentina, l’avanzata del socialismo nelle campagne era motivo di viva preoccupazione per la Santa Sede. Nell’occasione l’intervento, coraggioso e interessante di don Carlo De Cardona fu approvato dall’assemblea e così il congresso, come scrive Pietro Borzomati, «fornì un decisivo chiarimento sia al clero che che al laicato, segnando l’inizio delle attività del Movimento cattolico in Calabria e ancora una volta Cosenza rimaneva l’unico centro veramente attivo con le sue organizzazioni professionali agrarie di carattere misto, cioè di operai e datori di lavoro, centro attivo posto come esempio da seguire e non più osteggiato come covo di modernisti e bolscevichi bianchi»22.

L’espansione del movimento decardoniano continuò e la prova dell’organizzazione creditizia delle Casse rurali si ebbe con la realizzazione dell’impianto idroelettrico di San Pietro in Guarano, inaugurato il 22 giugno 1913 con l’intervento del nuovo arcivescovo di Cosenza monsignor Tommaso Trussoni; l’arcivescovo Sorgente era morto nel 1911. Su questa realizzazione così scrive Il lavoro: «Pochi uomini del popolo, animati da un coraggio straordinario, a furia di sacrifizi, sono riusciti a compiere in meno di un anno un’opera che poteva costare anni di lavoro e di spese. Hanno creato un’impresa industriale, moderna, utile al popolo, remunerativa… È un indizio di spirito industriale sano, fecondo quello che si rileva in San Pietro. È lo spirito industriale che manca in mezzo a noi e che deve suscitarsi se non vogliamo rimanere una provincia di oziosi, di parassiti, di debitori insolventi, di miserabili, di sfruttatori e di sfruttati»23.

Ma ai risultati positivi del movimento finanziario decardoniano non corrispondono i voti sul piano politico delle elezioni del 1913, anche perchè molti sacerdoti e cattolici, contrari a De Cardona si affiancarono ai radicali, massoni e socialisti procurando la vittoria all’avvocato Nicola Serra e la sconfitta del penalista liberale Bernardino Alimena, appoggiato da De Cardona e dal suo movimento. La battuta d’arresto nelle elezioni politiche fu contro bilanciata, nell’anno successilo (1914) dall’affermazione a livello provinciale e comunale: nel Consiglio provinciale; oltre a De Cardona, en22 23

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Cfr. P. Borzomati, Aspetti religiosi…, cit., p. 322 e s. Inaugurazione di un impianto idroelettrico, in «Il Lavoro», 28 giugno 1913.


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trò anche Antonio Cundari e in molti comuni del cosentino, tranne la sconfitta di San Giovanni in Fiore del consigliere uscente, don Luigi Nicoletti, il movimento decardoniano ottenne la maggioranza. Il conflitto mondiale, la nascita del Partito Popolare Ma sull’Europa incominciava a profilarsi la minaccia della guerra: don Carlo si dichiara pacifista e proclama dalle colonne del nuovo organo di stampa delle organizzazioni cattoliche, L’Unione-Lavoro, che unificava le precedenti testate: «La guerra è spargimento di sangue umano, è strage di vite umane… Contro la guerra, in nome del Vangelo, e per la salvezza d’Italia ecco la nostra bandiera»24.

Riformato il Consiglio direttivo dell’Unione Popolare, sotto il nuovo pontificato Benedetto XV, don Carlo De Cardona partecipa a Genova nel novembre 1914 come membro della direzione dell’Unione Popolare e in qualità di relatore sul tema dell’Azione cattolica nel Mezzogiorno d’Italia. Al termine dei lavori, su proposta di don Luigi Sturzo, si nominò una Commissione-Segretariato per il Mezzogiorno con sede in Roma; in questa ristretta Commissione c’è anche don Carlo, insieme a Mario Chisi, Mario Cingolani, Luigi Sturzo e Bosco Lucarelli25. Intanto la guerra incalzava e i primi contraccolpi del grande conflitto non tardarono a farsi sentire anche nell’Italia meridionale. Il movimento decardoniano minacciava di essere colpito dagli effetti negativi della guerra, ma questa, con tutti i mali che essa comportava, non rallentò l’impegno in campo sociale. Le Casse rurali, che erano in pieno rigoglio, mantennero la fiducia dei leghisti, che continuavano ad affidare ad esse i loro risparmi. L’adesione alle Casse rurali era presentata come un fascio di anime che dovevano aiutarsi fraternamente nella sincerità della fede, «come un dovere, come una dovuta testimonianza di amore in quel dilagare di odii e di stragi»26. Ma, al contrario, l’azione cooperativa, durante il conflitto, non fu soddisfacente, anche perché originariamente erano state promosse per garantire il posto di lavoro ai disoccupati, e nel loro interno non vi era stata una crescita cooperativa, una presa di coscienza da parte dei soci, e i risultati erano stati realmente modesti»27. 24 25

1914.

26 27

p. 155.

Contro la guerra, in «L’Unione-Lavoro», 26 settembre 1914. Azione cattolica nel Mezzogiorno d’Italia, in «L’Unione-Lavoro», 8 dicembre «Il Lavoro», 15 aprile 1916. S. Antonioli Cameroni, G. Cameroni, Movimento cattolico e contadino…, cit., 73


ROMILIO IUSI

Oltre a dedicarsi intensamente e con discreti risultati allo sviluppo e all’organizzazione del movimento creditizio cosentino, durante il periodo bellico, don Carlo continuò a mantenersi attivo in seno alle organizzazioni cattoliche nazionali. Nel settembre 1918 partecipò, in rappresentanza della Federazione di Cosenza, al primo Congresso nazionale delle Casse rurali, indetto a Roma dalla Federazione italiana delle Casse rurali; presieduto dal conte Dalla Torre. Nei suoi interventi, fedele alla sua linea, don Carlo sottolineò più volte la necessità di conferire agli istituti creditizi una finalità di carattere educativo e una fisionomia schiettamente popolare, facendo di essi un reale centro di progresso etico-sociale, poiché i problemi del dopoguerra non dovevano essere interpretati esclusivamente come questioni di natura economica, ma soprattutto morale, che si presentavano di estrema gravità particolarmente nel Mezzogiorno d’Italia»28. Importante, in quest’occasione, fu l’intervento di De Cardona sulla questione meridionale: «Non vorrei che la nostra trattazione del problema meridionale assumesse un aspetto regionale e un significato di antagonismo tra Nord e Sud; antagonismo che non esiste […]. Si può dire invece che la questione meridionale ha due aspetti: economico e morale. Sulla questione economica, tutti d’accordo: è necessario un largo campo di azione e di mutuo aiuto […] ma quello su cui è necessario fermarsi da noi, è la parte morale. Il Mezzogiorno è diviso in due grandi classi: la borghesia e quelli che diciamo lavoratori, i quali sono i veri proletari, perché in alcune stagioni fanno gli artigiani e nell’estate lavorano la terra. Tra le due classi c’è una grande divisione, e la borghesia fruendo dell’istruzione, ha accentrato a sé tutti i poteri, tanto che la società borghese è divenuta il feudo indisturbato della vita politica. La maggior parte dei deputati appartengono alla borghesia. Ecco perché parlo di una questione morale, perché questa borghesia è talmente lontana da noi, da essere irregimentata quasi tutta nella massoneria militante. Nel ceto dei lavoratori si verifica il fenomeno storico dell’ascesa verso una condizione economica migliore, la formazione di piccole proprietà per mezzo dei pecunii risparmiati all’estero. Come devono vivere le nostre Casse rurali? Non nell’ambiente borghese: quindi dovranno svilupparsi nel campo del lavoro, e si dovranno fornire loro le potenzialità e le attitudini necessarie per corrispondere alla profonda trasformazione del loro stato economico, in maniera che questa trasformazione si vada attuando secondo le linee e con l’impulso del nostro movimento sociale cristiano. Questa la funzione intima della Cassa rurale nel Mezzogiorno»29. Ibidem, pp. 157-158. Atti del primo Congresso nazionale delle Casse rurali, p. 19. Cfr. F. Sorbaro, La mia piccioletta barca. Nota autobiografica di un operaio giornalista cattolico, Cosenza, Ecm, 1971, p. 64. 28 29

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In queste proposizioni don Carlo dimostra di aver fatto tesoro del pensiero di Vincenzo Padula divulgate su Il Bruzio, accentuandone la carica evangelica, che non si può dire che non fosse presente nelle coraggiose colonne vergate dal prete di Acri. Al termine del conflitto mondiale si ripresentarono, più rincruditi, tutti i gravi problemi, che erano stati messi da parte. In Calabria c’era un clima di generica contestazione, che non poteva essere incanalato in una precisa linea politica. Da una parte c’erano i socialisti massimalisti, dall’altra il nuovo Partito Popolare Italiano, fondato da don Luigi Sturzo nel gennaio 1919, con il quale i cattolici potevano finalmente trovare spazio nella politica ufficiale, che pur dichiarandosi aconfessionale, accoglieva le istanze popolari già presenti nel vecchio Movimento cattolico italiano. Il partito di don Sturzo si sviluppò rapidamente in tutta Italia; e a Cosenza, il movimento di De Cardona si schierò a fianco del nuovo soggetto politico. La sezione cosentina fu costituita da don Carlo, don Luigi Nicoletti, dagli avvocati Giovanni e Francesco Sensi, dall’avvocato Luigi Caputo e da Federico Sorbaro; segretario politico fu eletto Luigi Nicoletti30. Anche in Calabria, come in tutta l’Italia, si erano formate, sin dal 1919, le prime squadre fasciste d’azione. La Rerum novarum e la Carta del lavoro Dopo la marcia su Roma e il discorso del bivacco, L’Unione proclamava: «Se dicessimo di essere rimasti entusiasti del modo come la crisi si è risolta, cioè dei mezzi usati dal fascismo per impadronirsi del potere, mentiremmo, perchè noi avevamo alto rispetto delle norme costituzionali ed abbiamo un’istintiva ed indissimulabile ripugnanza a tutto ciò che è violenza e prepotenza. Diciamo subito che il colpo di stato, a cui tutti oggi battono le mani, costituisce un pericoloso precedente per deprecabili eventuali riscosse. Il suo (di Mussolini) linguaggio brutale e scortese ha schiaffeggiato a sangue la dignità parlamentare; le sue parole sono state il necrologio della 26ª legislatura e la minaccia di una dittatura senza scrupoli»31.

Anche dopo la presa di potere del fascismo, don Carlo rimase sempre aperto e coraggioso oppositore del nuovo regime e se, dopo la Marcia su Roma, la sua opposizione fu meno decisa, «fu soltanto per avere la possibilità di mantenere in vita e sviluppare il movimento delle Casse rurali, che restavano l’unica difesa degli interessi economici e finanziari del mondo contadino»32. «L’Unione», 3 marzo 1919. Nemesi, in «L’Unione», 24 novembre 1922. 32 S. Antonioli Cameroni, G. Cameroni, Movimento cattolico e contadino…, cit., pp. 189-190. 30 31

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Quando la coscienza nazionale rioscurò e si venne a creare intorno al fascismo quel consenso di massa, che l’ha fatto definito da parte degli storici un «regime reazionario di massa», anche don Carlo oscillò esprimendo la sua simpatia per la Carta del lavoro (aprile 1927) come appare da un suo articolo, pubblicato nel bimensile dell’Azione cattolica, Parola di vita. Scrive don Carlo: «Alla gentile direzione di questo periodico abbiamo chiesto di pubblicare le nostre impressioni sulla Carta del lavoro: era un bisogno ed insieme un dovere il dire apertamente il nostro pensiero su tale documento, la cui importanza fa veramente stupire. Si aspettava da molti che la Carta del lavoro, promessa agli operai organizzati nei sindacati fascisti, fosse una giusta e definitiva rivendicazione dei diritti del lavoro di fronte al capitale. Ma essa oggi appare ben altro. Nelle sue linee maestre c’è tutto un ordinamento nuovo delle forze, dei rapporti che formano la produzione, la quale è tanta parte nella vita economica, politica e morale della nazione. In quel codice nuovo che può bene intitolarsi al nome di Benito Mussolini, gli ideali di giustizia sono felicemente avvicinati alle fonti stesse della natura umana, alle tradizioni migliori e più profonde della Patria…»33.

Da questo articolo – che occupa ben tre colonne della prima pagina – la figura di don Carlo è apparsa appannata a molti cultori di storia locale, perché letta molto superficialmente. La laudatio al fascismo senza dubbio c’è, e c’è anche il granellino d’incenzo bruciato «verso l’uomo che regge i destini del popolo italiano», ma don Carlo fa tutto questo perché nel documento vede un’eclatante derivazione dalla Rerum novarum nella quale Leone XIII «ammoniva che il risolvere, secondo giustizia, la questione sociale, era soprattutto nella giusta protezione degli operai, e che tale protezione, per essere efficace, duratura, risolutiva, doveva derivare, non solo dalla libera organizzazione degli stessi operai, ma precipuamente dall’intervento dello Stato»34.

Per don Carlo la Carta del lavoro fascista traeva la sua più profonda ispirazione dall’enciclica leoniana. Ma questo sotto la dittatura fascista, lo poteva dire solo passando sotto le forche caudine della retorica elogiativa del regime. De Cardona continuò ad essere un sorvegliato speciale perché pericoloso sino alla caduta del fascismo, per riprendere il suo posto di sempre nella lotta sino alla morte, che lo colse ad 87 anni, a Morano Calabro, presso la famiglia del fratello Nicola, il 10 marzo 1958.

33 34

76

«Parola di vita», 4 maggio 1927. Ibidem.


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Istituti di credito nel Cosentino (18831950), in «Rivista storica calabrese», n.s., XXI (2000), n. 1-2, pp. 129-141. ARTICOLI IN RIVISTE Il cristianesimo sociale di don Carlo De Cardona, in «Fondazione Guarasci», 1988, n. 5, pp. 4-5. Mons. Nogara e la crisi della casse rurali, in «L’Unione», 1989, n. 2, p. 3. Mons. Nogara e don Carlo De Cardona, in «L’Unione», 1989, n. 3, p. 3. Lasciamo parlare De Cardona: ma ascoltiamo tutto quello che dice, in «L’Unione», 1989, n. 5, 22.5, p. 3. Don Carlo De Cardona: la ricerca dello strumento operativo, in «Calabria cooperativa», 1997, n. 1, p. 6. Don Carlo e le Casse rurali: una lezione, in «L’Unione», 1999, n. 1, p. 6. La testimonianza di don Carlo De Cardona, in «Le due città», 2007, n. 38-39, pp. 8-9. Il periodico rinasce nel 50° della morte di De Cardona, in «Parola di vita», 2008, n. 0, p. 12. Don Carlo e la visione sociale della donna, in «Parola di vita», 2010, n. 9, p. 19. QUADERNI Esperienze di cooperazione nello sviluppo economico e sociale della Calabria, in «Quaderno n. 3», a cura dell’Università della terza età di Cosenza, 1987, pp. 83-91. PREFAZIONI Prefazione, in V. BERTOLONE, Carlo De Cardona: prete, soltanto prete, Cassano Jonio, 2010, pp. 5-7. 79


INDICE - COLOPHON

SOMMARIO

Un passato sempre vivo

presentazione di Nicola Paldino 5

Un grato pensiero al prof. Luigi Intrieri 6 Tutto iniziò dall’enciclica Rerum novarum 7 Cinquant’anni dalla Rerum novarum

articolo di don Carlo De Cardona 9

Gesù Cristo, fondamento della spiritualità del Servo di Dio don Carlo De Cardona da Morano di mons. Francesco Savino

13

Causa di beatificazione di don Carlo De Cardona 26 La grafologia ci aiuta a capire la personalità di De Cardona di Carmensita Furlano 27 L’aspetto fisico di don Carlo De Cardona 28 Spese tutta la sua vita per la redenzione dei contadini di Demetrio Guzzardi 30 A San Pietro in Guarano le maggiori istituzioni decardoniane articolo di Igino Iuliano 35 La solenne inaugurazione dell’impianto elettrico (1907) articolo di don Carlo De Cardona 39 Inaugurazione di un impianto idroelettrico (1913) articolo di don Carlo De Cardona 41 Elettricità sul fiume Arente di Valentino Siciliano 43 Carlo De Cardona e l’associazionismo contadino in Calabria (1898-1927) tesi di laurea di Romilio Iusi 45 Studi, ricerche e pubblicazioni del prof. Luigi Intrieri 78

Finito di stampare nel mese di agosto 2018 dalla tipografia Mele - Serra San Bruno (Vv) 80



Al “Centro” dello sviluppo nel cuore del territorio per crescere insieme

Filiale di Rende

Filiale di San Giovanni in Fiore

Filiale di Castrovillari

Filiali: Acri › Albidona › Amendolara › Bisignano › Castrovillari Cosenza › Frascineto › Lattarico › Lauropoli › Luzzi › Mirto Crosia › Montalto Uffugo › Paola › Rende › Rende 2 › Rocca Imperiale › Rose › San Giovanni in Fiore › Spezzano Albanese

ISBN 978-88-8276-526-2

82 8.00 euro

9 788882 765262


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