Left - avvenimenti - n.ro 43

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ESCLUSIVA Parla Agnese Borsellino

intervista D’Alema: il liberismo ha fallito

inchiesta Le zampe legate dell’Eni

avvenimenti

settimanale left avvenimenti poste italiane spa - SPED. abb. Post. - D.L. 353/2003 (conv. in l. 27/02/2004 n. 46) ART. 1, COMMA 1 DCB roma - ann0 XXIII - ISSN 1594-123X

N. 43 | 4 novembre 2011 | supplemento gratuito al numero odierno de l’Unità non cedibile separatamente da l’Unità

avanti a sinistra

Le idee per fare uscire l’Europa dalla crisi



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la settimanaccia

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left Direttore editoriale Ilaria Bonaccorsi Gardini ilaria.bonaccorsi@left.it Direttore responsabile Donatella Coccoli donatella.coccoli@left.it condirettore Giommaria Monti giommaria.monti@left.it caposervizio cultura e scienza Simona Maggiorelli simona.maggiorelli@left.it Redazione Via Portuense 104, 00153 - Roma Sofia Basso sofia.basso@left.it, Manuele Bonaccorsi manuele.bonaccorsi@left.it, Marcantonio Lucidi (servizi speciali) marcantonio.lucidi@left.it, Paola Mirenda paola.mirenda@left.it, Cecilia Tosi cecilia.tosi@left.it, Rocco Vazzana rocco.vazzana@left.it progetto grafico Lorenzo Tamaro tamaro@newton21.it GrAFICA Gianluca Rivolta Marcella Spitalieri leftgrafici@gmail.com photoeditor Arianna Catania leftgrafici@gmail.com Editrice DElL’altritalia Via Portuense 104, 00153 - Roma Tel. 06 57289406 - Fax 06 44267008 www.left-avvenimenti.it segreteria@avvenimentionline.it pubblicità pubblicita@avvenimentionline.it stampa Centro Rotoweb Via Tazio Nuvolari 3 00011 - Tivoli Terme (Rm) Distribuzione SO.DI.P. “Angelo Patuzzi” S.p.A. Via Bettola 18, 20092 Cinisello Balsamo (MI) Registrazione al Tribunale di Roma n. 357/88 del 13/6/88 LA TESTATA FRUISCE DEI CONTRIBUTI DI CUI LA LEGGE AGOSTO 1990, N. 250

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la nota di Ilaria Bonaccorsi Gardini

Avanti a sinistra. Sono le idee che cambiano il mondo

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erché oggi siamo qui, insieme a l’Unità, dobbiamo spiegarvelo. E perché abbiamo deciso di cambiare radicalmente il nostro giornale, anche questo ve lo dobbiamo spiegare. Ci sono idee che hanno una forza irresistibile. Irresistibile è l’idea di Gramsci, quella di unire gli operai del Nord con i contadini del Sud. Di unire l’intero popolo italiano “nella lotta contro il fascismo”. Tanto irresistibile da dare un nome alla cosa: l’Unità. Come irresistibile è stato per noi fondatori di left, ripartire dalle tre parole della Rivoluzione francese intuendo, sin dal principio, quanto sarebbe stata lunga e difficile la strada. Ma irresistibile era l’idea di partecipare, rivoluzionare l’informazione e il dibattito a sinistra. Ci sono idee che arrivano ovunque. La libertà è l’obbligo di essere esseri umani. Tutti gli esseri umani nascono uguali. Non tutti nascono liberi. Ma uguali sì. La realizzazione di quell’idea di uguaglianza che non parla soltanto di “uguale” soddisfazione dei bisogni, battaglia storica della sinistra, ma di “uguale” nascita per ogni essere umano porterebbe al superamento di ogni forma di intolleranza e razzismo. Perché scrive bene Prosperi: «Non esiste il sangue blu della nobiltà. Non esiste la puzza dell’ebreo. è esistita una classe di persone che si faceva vanto di non dover esercitare nessuna attività manuale per vivere: e l’assenza di lavoro manuale si rivelava in una epidermide delicata che lasciava trasparire una rete venosa azzurrina, invisibile sotto la pelle callosa di contadini, marinai, commercianti...». Accoppiata storicamente perden-

te quella di libertà e di uguaglianza. La libertà ha generato disuguaglianze e l’uguaglianza ha ucciso la libertà. Oggi, nel nostro Paese, si è raggiunto il livello più basso: la libertà è stata sostituita dal peggiore dei neoliberismi, l’unità dal più becero dei federalismi e l’uguaglianza ridotta a parola vuota dagli attuali fascismi. Il segreto allora può essere quello di avvicinare due idee: l’uguaglianza con l’unità. Non solo uguali, perché nati uguali. Bianchi, neri, rossi, gialli. Ma uniti. Uniti da: rivolta, ricerca, coerenza, coraggio. «Una nuova sinistra deve camminare su due gambe: su ciò che non sappiamo dell’uomo e della donna e su ciò che già sappiamo dello sfruttamento e dell’oppressione nella società». Lo scriveva qualche anno fa una collega. È una buona idea, sulla quale lavorare alacremente. left rilancia. E cerca l’unità. “Fatti le tue opinioni” è stata la nostra prima campagna pubblicitaria, sulla quale campeggiava lo sguardo di una bambina di pochi mesi. “Concepito a sinistra” recitava la seconda, con l’ironica immagine di Che Guevara incinta. Oggi, con voi, vogliamo dire che “sono le idee che cambiano il mondo”. Idee dalla forza irresistibile, che arrivano ovunque: quelle di unità ed uguaglianza, nel cui abbraccio sta una nuova idea di libertà. Nel nostro giornale troverete il racconto di quelle idee, dalla politica estera alla musica, dalla cronaca alla cultura. Grazie a tutti i lettori de l’Unità che oggi ci scoprono e ai nostri che da anni ci seguono attenti. 4 novembre 2011

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sommario ianno XXIII, nuova serie n. 43 / 4 novembre 2011

primo piano

copertina

cile

Agnese Borsellino, vedova di Paolo, per la prima volta in una intervista esclusiva al nostro giornale racconta la sua ansia: «Via D’Amelio ha distrutto la mia vita. Cossiga un mese prima di morire mi disse: la storia della strage di suo marito è da colpo di Stato».

L’Europa al bivio, tra crollo e rinascita. Gli errori del duo MerkelSarkozy. Le controproposte dei socialisti, che si candidano a governare in Francia, Germania e Italia. Le critiche dei sindacati. L’analisi dell’economista Emiliano Brancaccio.

Il 13 maggio cominciava in Cile, il Paese del miracolo economico e dei Chicago Boys, la stagione dell’indignazione. A guidarla Camila Vallejo Dowling, 23enne leader degli studenti cileni. Che chiedono istruzione gratuita, pubblica e di qualità.

golpe a via d’amelio

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la settimana

società

03 la settimanaccia 04 La nota 06 lettere 07 anteprima 08 immagini

primo piano

12 Agnese Borsellino: Cossiga parlò di colpo di Stato di Giommaria Monti

copertina

14 Ultimo tango a Bruxelles di Manuele Bonaccorsi 16 Tedeschi per la stabilità di c.t. 17 Brancaccio: far crescere i salari è l’unica via per la Ue di m.b. 18 La gauche al bivio di Sarah Di Nella 19 C’eravamo tanto amati di Paola Mirenda 20 Più Labour, meno Blair di Ivana Bartoletti 22 D’Alema: La politica abbia “l’animo grande e l’intenzione alta” di Giommaria Monti

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camila, volto della rivolta

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28 L’ottobre nero di Scopelliti di Rocco Vazzana 31 All’ombra di Malagrotta di Sofia Basso 34 Mamme al tempo della crisi di Chiara Paolin 36 Croce rotta di Debora Aru e Alberto Puliafito

IDEE

di Adriano Prosperi

mondo

39 la scuola che non c’è

42 Camila, il volto della rivolta di Angelo D’Addesio 44 Eni, zampe legate di Cecilia Tosi 47 L’appetito francese di p.m. 48 reportage Inferno d’argilla di Jeung Keun Park

62 TRASFORMAZIONE

di Massimo Fagioli

RUBRICHE

di Giuseppe Benedetti

40 CALCIO MANCINO

di Emanuele Santi

52 news global

a cura della redazione Esteri

59 LIBRI

di Filippo La Porta

67 arte

cultura e scienza

56 I pionieri della prevenzione di Federico Tulli 60 Cantarella racconta la vita a Pompei di Simona Maggiorelli 64 Fossati: la decadenza è andar via di Giommaria Monti 66 L’intelligenza poetica di Bobo di Donatella Coccoli 68 Mercan Dede, il derviscio punk di Don Pasta

10 TACCUINO DI UN LETTORE

di Simona Maggiorelli

70 teatro di Marcantonio Lucidi 71 cinema di Alessia Mazzenga 72 BAZAR

junior, scienza, blues

di P. De Lauro e P. Tosatti

74 appuntamenti

Chiuso in tipografia il 30 ottobre 2011 Foto di copertina: Istockphoto

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lettere@left.it reportage

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lottavarima di Francesco Burroni

Facilità di licenziamento

Non è solo l’incertezza del domani ma è proprio un cambiamento epocale: saremo più “cinesi” che italiani, fare straordinari sarà normale, diventeremo tutti più ruffiani, la solidarietà sarà opzionale e smetteremo di dormire sugli allori dello Statuto dei lavoratori.

Salvate le tv locali Come se già le cose non andassero abbastanza male per la stampa scritta, con pochi gruppi editoriali che detengono il monopolio dell’informazione locale e vanno avanti con una redazione di quattro gatti con contratto degno di questo nome, per lo più persone che hanno iniziato questo mestiere quando ancora era riconosciuto come tale, e con pensionati o impiegati delle poste che scrivono in cambio di due caramelle, adesso arriva pure la mazzata per le televisioni locali. Il piano del governo, era molto chiaro: dimezzare il numero delle emittenti per favorire pochi colossi, che poi significa accaparramento delle entrate pubblicitarie e spegnimento di voci che parlano lingue diverse; se poi al progetto del principale imprenditore televisivo del nostro Paese ci si aggiungono gli appetiti dei monopolisti regionali e la scarsa vigilanza da parte degli enti locali, ecco che la frittata è fatta. Dalle prime graduatorie uscite in Toscana per l’assegnazione delle frequenze emergono alcuni dati: sono state favorite le televisioni che negli anni hanno investito sui mezzi e sull’espansione ter6

ritoriale, senza considerare che in molti casi lo hanno fatto senza investire sul personale e magari, nel peggiore dei casi, limitandosi a trasmettere a ruota televendite e accattivanti signorine, nelle ore più tarde della notte ci mancherebbe, e nel migliore dei casi arruolando corrispondenti sul territorio senza qualifica precisa, magari un aspirante giornalista che si improvvisa anche operatore oppure un aspirante operatore che pur di mantenere l’incarico si improvvisa anche giornalista. E tutto questo, ovviamente, dietro compensi vergognosi, speculando sul fenomeno del voler apparire in tv a tutti i costi. Le emittenti che hanno invece investito sul personale, che hanno puntato su figure qualificate garantendogli tra mille difficoltà un contratto degno di questo nome verranno penalizzate. Non solo. Le televisioni che negli anni si sono prese la briga di coprire piccoli centri per senso di responsabilità, credendo che l’informazione locale sia un servizio per i cittadini, pur rimettendoci in termini di bacino pubblicitario, oggi vengono punite. Oltre ai dipendenti ci rimetteranno anche i comuni più piccoli e le frazioni, insom-

Fly left di Alessandro Ferraro

ma territori già di per sé penalizzati, che perderanno anche il servizio dell’informazione. Una tv locale dovrebbe svolgere una funzione di servizio: dall’appello del sindaco quando c’è una calamità naturale al nuovo orario della farmacia. E la scusa non può essere che tanto c’è internet perché i centri minori, è noto, sono abitati per lo più da persone anziane che hanno poca confidenza con le nuove tecnologie. Ma c’è anche una terza categoria di vittime: sono i negozianti di paese, i piccoli imprenditori che non hanno certo né i sol-

di né l’interesse per farsi pubblicità su scala regionale o nazionale. Il progetto del governo era chiaro, speriamo che gli amministratori e i politici toscani facciano qualcosa per arginarlo; che non dimostrino di interessarsi delle tv locali solo quando c’è da fare campagna elettorale o al taglio del nastro del nuovo marciapiede. La sinistra, che già si è opposta alla proposta di legge per la depoliticizzazione della Rai, adesso ha un’altra chance per riacquistare un po’ di credibilità sul tema dell’informazione. Francesca Campanelli 4 novembre 2011

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brevi

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© Badolato/lapresse

Il massacro dei giornali d’idee

maurizio sacconi

terrorismo sul lavoro «Ho paura che la violenza politica si trasformi in omicidio». Maurizio Sacconi, l’uomo al quale Marco Biagi scrisse invano una lettera chiedendogli un aiuto per avere una scorta adeguata, evoca il rischio terrorismo di fronte all’alzata di scudi dei sindacati sui licenziamenti facili. «Tutte le simulazioni relative a una maggiore flessibilità danno più occupazione», ha dichiarato, in polemica con le stime della Cgia di Mestre, il ministro approdato a Forza Italia dal Psi di De Michelis e del debito pubblico. Per ora, comunque, quello accusato di violenza privata e intimidazioni è proprio lui, denunciato dai radicali per il caso Englaro: aveva minacciato di escludere dal sistema di accreditamento le cliniche che avessero interrotto l’idratazione e l’alimentazione forzate. Nel 2009 la Procura di Roma lo ha iscritto nel registro degli indagati. Da allora il dicastero di Sacconi ha perso le competenze sulla Sanità. Gli rimangono Lavoro e Politiche sociali. Quals.b. cuno dovrebbe ricordarglielo.

Continua la mobilitazione contro i tagli del governo ai giornali di idee (no profit, di partito e di cooperative). A rischio un centinaio di testate con circa 4mila dipendenti. Gli ultimi “tagli lineari” voluti dal governo Berlusconi devastano la già ridotta cifra di 184 milioni del Fondo per l’editoria stanziati per il 2011 e il 2012. Si calcola che ne rimarrebbero poche decine. Dopo l’appello al Presidente della Repubblica sottoscritto da oltre sessanta testate, a cui left aderisce, Giorgio Napolitano ha risposto dicendo di condividere «la preoccupazione per i rischi che ne potrebbero derivare di mortificazione del pluralismo dell’informazione», aggiungendo la volontà «di manifestare questo mio punto di vista al governo». Fnsi, Mediacoop, Cgil e tutti gli altri soggetti coinvolti continueranno la battaglia affinché le richieste di questo settore vitale per l’informazione vengano recepite in Parlamento.

DOSSIER

Prigioni malate

In Italia 67.428 persone sono rinchiuse all’interno di 206 istituti penitenziari. Ci sono quasi 22mila detenuti in più rispetto alla capienza regolamentare delle prigioni. Sono solo alcuni dati diffusi da Prigioni malate, l’ottavo rapporto sulle condizioni della detenzione nel nostro Paese, presentato il 28 ottobre a Roma da Antigone. Un terzo degli internati, 24.401 persone, è costituito da cittadini stranieri, provenienti soprattutto da Marocco (20,2 per cento) e Romania (14,8). Ma tra le anomalie del sistema italiano c’è senz’altro l’altissimo numero di cittadini rinchiusi in attesa di giudizio: 14.639. Condanna definitiva solo per 37.213 persone. r.v.

© Monaldo/lapresse

matrimoni fugaci

pd in piazza

L’appuntamento per la manifestazione del Pd, “Ricostruzione in nome del popolo italiano”, è alle 14,30 del 5 novembre in piazza San Giovanni a Roma. «Una grande festa di piazza - ha spiegato Pier Luigi Bersani - per lanciare le proposte del Pd e per la ricostruzione democrati-

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ca, sociale ed economica del Paese». Sul palco, anche il candidato alle presidenziali francesi Francois Hollande e il segretario dell’Spd tedesco, Sigmar Gabriel. Dopo le conclusioni del segretario nazionale, il concerto di Roberto Vecchioni. Non a caso il motto lanciato su Facebook è «finirà la notte».

Luna di miele già finita tra Domenico Scilipoti e Gaetano Saya. Dopo essere stati sullo stesso palco in occasione del congresso dei Responsabili, il salvatore di Berlusconi e il neo fascista sono già ai ferri corti. Per uno come Scilipoti, che alla moralità ci tiene, essere accostato al nome di un nostalgico del Ventennio non è una bella cosa. Soprattutto se al leader di estrema destra sfuggono parole pesanti sul conto del presidente della Camera. E Saya, sul suo sito (gaetanosaya.org) ha risposto a modo suo: «Sei un povero giullare, una scimmia ammaestrata, Scilipoti sei un bugiardo, abbiamo attaccato Fini su tuo suggerimento». r.v. 7


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fotonotizia

Avere cinque anni a Kabul Una bambina afgana impara a leggere il libro sacro in una scuola coranica, uno dei pochi luoghi di tranquillità per chi è nato con la guerra in casa. Anche questa settimana un attentato ha scosso le strade di Kabul: il 29 ottobre un’autobomba si è scagliata contro un convoglio della Nato e ha fatto 17 vittime, di cui 4 afgani e 13 occidentali. E anche stavolta il presidente Karzai si è limitato a inviare le sue condoglianze alle famiglie delle vittime, distribuite tra America, Gran Bretagna, Canada e Kosovo. La capitale dell’Afghanistan non è mai stata un luogo sicuro, ma negli ultimi mesi il numero degli attentati è aumentato, come a lanciare il messaggio che nessun gruppo tra gli insorti è autorizzato a negoziare col governo Karzai. Sono mesi, infatti, che gli americani sponsorizzano i tentativi di dialogo tra l’esecutivo di Kabul e alcuni esponenti dei Talebani, ma per ora non si intravede nessun risultato. E la scadenza del 2014 - quando tutte le truppe Usa dovranno ritirarsi - si avvicina pericolosamente. (Muheisen/Ap/Lapresse)

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taccuino di un lettore

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Molti si sganciano da Berlusconi. La realtà bussa alle porte di tutti e di ciascuno

I pentiti e l’Italia nel fango

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l pentimento va in scena nell’Italia di oggi: prima voci isolate, lamenti e perplessità al chiuso di palazzi e di chiese, poi un coro generale che si leva dalle prime pagine dei giornali, dalle “conventions” di industriali e finanzieri, dalle voci di piazza di dirigenti sindacali. Chi oggi si pente ieri aveva salutato con applausi l’avvento di una forte maggioranza di centrodestra al governo del Paese sotto la guida dell’“uomo nuovo” Berlusconi. Oggi si disdicono tutti, cardinali, finanzieri e industriali, segretari generali di sindacati, grande stampa d’opinione. Sembra di essere tornati ai giorni della Liberazione, quando tutti i vecchi arnesi del regime si scoprirono antifascisti. Anche nell’Italia di oggi è una corsa a rifarsi la perduta verginità. La Chiesa cattolica che in tutte le sue voci istituzionali aveva salutato entusiasticamente l’avvento al potere di Berlusconi - l’uomo, come sembra abbia detto ancora di recente, sospirando, un cardinale alle assise del clero della sua regione, che «ci ha salvato dai comunisti» - ha avviato uno sganciamento felpato, pieno di parole così alate e di intemerate morali così generiche da non sfiorare mai il terreno dei nudi fatti e delle responsabilità con nome e cognome.

di Adriano Prosperi storico

so augurio, simile a quello di chi ai funerali prega per il cadavere che la terra gli sia lieve. O forse è la coscienza del fatto che il giudizio dei futuri storici colpirà non solo l’uomo Berlusconi ma anche un intero sistema di potere che ha voluto al posto di comando un uomo che tutti sapevano inadatto a quel ruolo («unfit», scrisse l’Economist), ma dal quale si aspettavano la libertà di fare i loro comodi: libertà di svincolarsi dalle leggi, speculare, licenziare, evadere le tasse, saccheggiare e spartirsi i beni comuni - acqua, terra, aria incluse. La Chiesa, cioè l’apparato di potere che regna sul popolo dei sempre più indocili credenti, ha pagato in benedizioni i trattamenti fiscali di favore, le provvidenze per le scuole private, le barriere alzate contro la libertà di religione e di coscienza e contro i diritti civili, si tratti di scelte all’inizio e alla fine della vita o di matrimonio, con l’effetto non solo di aprire anche qui tra l’Italia e le democrazie del mondo un abisso sempre più grande ma anche di sconcertare, allontanare, disgustare clero e credenti e di forzare perfino quell’idea di Chiesa che fa riferimento all’unità nella comunione eucaristica (perché, come ha notato l’attentissimo Gian Antonio Stella, al divorziato Berlusconi è stato consentito di fare la comunione pubblicamente). Perfino i commercianti che dalla “liberalizzazione” delle licenze e dalla mancata sorveglianza statale sui prezzi dopo l’ingresso nell’euro avevano ricavato motivi per ovazioni a scena aperta all’“unto del Signore”, si stanno fortemente raggelando nei suoi confronti da quando la gelata della povertà e l’avidità del fisco hanno lambito anche i loro affari. Non parliamo dei sindacati Cisl e Uil che avevano rotto l’unità con la Cgil per marciare al seguito del ministro del Lavoro, il catto-socialista Sacconi (l’uomo che sarà ricordato per aver capeggiato campagne sanfediste e scatenato sopraffazioni legali con-

Cardinali, finanzieri e industriali, segretari generali di sindacati, grande stampa: è una corsa a rifarsi la perduta verginità

La voce della Confindustria è stata più chiara e perfino brutale. E si può capire: gli affari vanno malissimo, non c’è tempo da perdere. Più lento il movimento delle macchine dell’opinione moderata. Ma anche qui lo sganciamento di editorialisti di fama è in atto. I direttori del quotidiano della Confindustria e del Corrierone milanese di recente hanno accordato nello stesso giorno i loro tromboni con l’editoriale di Repubblica e hanno intonato la preghiera corale della nuova liturgia, l’implorazione all’ “unto del Signore” perché faccia il famoso “passo indietro”: anche se, in un rigurgito di passate debolezze e compromissioni, il direttore del Corriere ha garantito a Berlusconi che la storia sarà con lui più benevola della cronaca. Curio10

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tro Beppino Englaro). Da dove è venuto il ripensamento? Forse si è ascoltata la voce del mondo intero, ci si è vergognati per le buffonesche prove internazionali del nostro primo ministro, per le sue amicizie impresentabili, da Putin a Gheddafi, per lo sfacciato spettacolo di corruzione che non ha risparmiato nessuno, dai giudici alle donne dell’harem imposte in politica e premiate con poltrone pubbliche per servizietti privati? No. Non è per questo che i “poteri forti” si stanno desolidarizzando. Il fatto è che oggi la realtà bussa alle porte di tutti e di ciascuno in questo nostro disgraziato e irresponsabile Paese. Povero Paese che dopo centocinquant’anni dalla sua liberazione dagli stranieri - scrive l’Economist - deve sperare l’arrivo da fuori di qualcuno che la governi e la protegga da se stessa. Dopo la “macchina del fango” attivata dal regime berlusconiano contro i critici e gli avversari, si è mosso il fango della natura offesa che ha cancellato vite umane e paesaggi. La speculazione selvaggia, la serie di condoni e di dissennate cancellazioni di regole si ritorcono contro di noi e colpiscono tutti senza distinzione. L’infinita quantità di case e appartamenti costruiti senza regole resta invenduta. Il Paese è a pezzi. Davanti a una minoranza di straricchi, a una massa di evasori fiscali e a un ceto politico abbarbicato a privilegi assurdi, c’è la stragrande maggioranza di un Paese che lotta per sopravvivere. Siamo tutti più poveri, ma alcuni sono poverissimi. I giovani soprattutto: senza lavoro e senza speranza, condannati all’emigrazione o alla sopravvivenza alle spalle dei nonni, inutilmente blanditi da un sistema che ha abbassato la qualità degli studi per regalare a tutti titoli inservibili. Dopo anni di guerra contro gli immigrati, oggi diventa sempre più difficile distinguere un disoccupato italiano da un lavoratore clandestino: sono tutt’e due dei fuori casta, degli “extra-comunitari”. Ma gli effetti del sisma che scuote l’assetto stesso dell’Unione europea e vanifica gli sforzi fatti dal governo Prodi e dalla presidenza Ciampi per collocarci sotto l’ombrello dell’euro perdono efficacia e si smarriscono nel disordine litigioso di una folla di ministri, sottosegretari e deputati impegnati a pensare solo a se stessi. E il discredito non risparmia certo una opposizione inerte e divisa. La maggioranza della popolazione non ha idea di chi votare o è decisa a non votare se e quando qualcuno le restituirà questo diritto. è un record che in Italia non era stato mai raggiunto: avevamo in Europa il primato della partecipazione politica, adesso siamo finiti anche su questo nelle ultime posizioni. Dal disprezzo per la casta dei politici si salva per fortuna la Presidenza della Repubblica, per merito dell’attenta, appassionata e luci-

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Il Paese è a pezzi. Davanti a una minoranza di straricchi e a un ceto politico abbarbicato a privilegi assurdi, c’è una stragrande maggioranza che lotta per sopravvivere da vigilanza di Giorgio Napolitano. Ma se la scena pubblica è ancora oggi ingombra dagli sproloqui e dai trucchi fallimentari di un personaggio squalificato, se ancora non ci è possibile guardare in faccia seriamente i terribili problemi che ci incombono è perché questo Paese non ha un’opposizione degna di tale nome. Bisognerebbe chiederci chi ha affossato il governo Prodi, chi ha voluto lasciare aperta la strada a Berlusconi evitando di approvare la legge sul conflitto di interessi: chiederci perché dallo sfascio materiale e morale del Paese non si salvino nemmeno le regioni amministrate dal centrosinistra. Senza un esame rigoroso degli errori che sono stati compiuti, senza una rinnovata capacità di amministrare la cosa pubblica e di difendere i diritti di tutti e di ciascuno, senza insomma una vigorosa ripresa della vita politica collettiva che ci dia una classe di governo veramente al servizio del Paese e non delle proprie immunità e privilegi, sarà difficile sgombrare le istituzioni e le vie del Paese dal fango e dall’immondizia morale e materiale che le coprono. Qualcosa abbiamo, non partiamo da zero: i principi e i diritti sanciti nella nostra Costituzione. Ma l’urgenza è estrema: come ha rilevato Alain Touraine, l’opinione pubblica europea pone per aiutare l’Italia la condizione che la voce del paese «non sia più quella dell’attuale presidente del Consiglio dei ministri». Ed è notizia di sabato 29 ottobre che nel rapporto sul traffico di esseri umani nel mondo presentato da Hillary Clinton compare il nome di Berlusconi come imputato di sfruttamento sessuale di minorenne. Dobbiamo aspettarci dunque che il presidente del Consiglio dei ministri del governo italiano, dopo le risatine di disprezzo dei suoi pari grado europei, regali a tutti gli italiani l’ulteriore immensa vergogna collettiva di un mandato d’arresto internazionale. Si deve proprio arrivare a tanto perché chi può gli imponga di rimettere immediatamente la sua carica come colpevole del reato di lesa maestà della nazione tutta? 11


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Cossiga mi disse:

via D’Amelio come un colpo di Stato di Giommaria Monti

Sta male, Agnese Borsellino. è appena uscita dall’ospedale dove le curano una gravissima malattia, una di quelle che spesso purtroppo non perdona. Giorni interi in un ambiente asettico, senza poter comunicare se non con i figli, e uno per volta. L’avevamo incontrata ad aprile nella casa dove ha vissuto con Paolo Borsellino. Lì tutto è rimasto com’era: la targa alla porta, il salotto buono, lo studio del magistrato in ordine. In mezzo c’è passato un ciclone che ha distrutto tutto, a cominciare dalle certezze che sembravano acquisite sulla strage di via D’Amelio. Oggi che il pentito Gaspare Spatuzza, prove alla mano, distrugge il teorema di un 12

altro pentito, Vincenzo Scarantino. Oggi che vengono scarcerati quelli che un’inchiesta sbagliata (“eclatante forzatura investigativa”, la definiscono i pm di Caltanissetta) aveva indicato come i responsabili della strage. Oggi che viene fuori che in un appunto del Sisde, il Servizio segreto civile di allora, di fatto preannuncia di due mesi la versione di Scarantino e che l’ex questore di Palermo Arnaldo La Barbera, che in quei giorni del ’92 guidava la squadra mobile della città, un ruolo l’ha avuto in questa falsa pista costruita per chiudere in fretta un tremendo affare di Stato. E occultare la verità. Oggi Agnese Borsellino è una donna che 4 novembre 2011

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spetti che ora sono certezze. Cioè? Che vuole che le dica. Quello che scrivete sui giornali è già parecchio. Qual è il sospetto che lei ha? No, guardi, di sospetti non se ne può parlare. La nostra posizione è delicatissima. La storia di via D’Amelio mi ha distrutto la vita e io sono tra la vita e la morte. Questo è bene che sappiano le persone. Perché non sono una vedova come le altre, che si sono ricostruite bene o male una vita. Io ci soffro da venti anni e in silenzio. Io e tutta la mia famiglia. Non posso dire nient’altro se non il grido di dolore per questo che mi ha distrutto la vita letteralmente. La mia vita è finita e lo sanno molte persone. Non devo avere emozioni e non posso piangere perché sono ammalata grave. E invece piango perché tutte queste notizie mi fanno piangere. E piango come il primo giorno. Questa è la storia. E via D’Amelio non solo ha distrutto l’immagine dell’Italia. Ha distrutto la mia vita. E questo per me è molto più importante. Non mi interessa più niente. Letteralmente. Verità, non verità. Sì, va bene, per voi cittadini italiani è giusto che si sappia la verità. Io non ho vendetta. Non voglio la verità per questo. Vorrei che si scoprisse la verità per gli italiani. C’è qualcuno che la può raccontare questa verità, qualcuno che la sa? Di certo non la so io. Io devo credere a quello che scrivono i giornali. Perché sarebbe la fine del mondo, altrimenti. Ci devono credere tutti, non solo io. Io e la mia famiglia non vogliamo fare commenti. Noi vogliamo solo dare un esempio alla nazione intera. Perché solo così qualcuno si può redimere. A me hanno distrutto la vita e non ho niente da sperare. Se non che si sappia la verità. Sarò viva o sarò morta, non lo so. Noi siamo stati sempre silenziosi, non abbiamo inveito contro nessuno. Anzi abbiamo preso con le buone tutti, cristianamente. Perché abbiamo bisogno di pace e non di guerra. Lo diciamo noi che la guerra l’abbiamo subita. Siamo stati un esempio per tutta la nazione. Io sono orgogliosa che la famiglia Borsellino sia un esempio per la nazione intera. Malavitosa e non. Se scriverà questo mi farà un regalo.

© CARINO/ imagoeconomica

quella verità invece la vuole. L’aspetta in silenzio da vent’anni insieme alla sua famiglia: i figli Manfredi, Fiammetta, Lucia. Quando la incontrammo mesi fa ci salutammo con la promessa che avrebbe scritto per il ventennale della strage una lettera a Paolo. Adesso il tempo forse non c’è più. In questa conversazione telefonica di pochi giorni fa ci dice tutta la sua amarezza, ci racconta le parole di Cossiga nell’ultima telefonata, il bisogno di verità, che oggi più che mai è necessaria. «La storia di via D’Amelio mi ha distrutto la vita. è una situazione apocalittica, mio figlio non vuole più che legga i giornali, che senta queste cose perché giustamente mi dice mamma, gli ultimi giorni che ti restano ti avveleni la vita più di quanto te la sia avvelenata. A me resta solo piangere, anche dopo vent’anni. Perché per me è come fosse stato ieri». Ma perché hanno raccontato un’altra versione? Perché sono venduti e comprati tutti. Quando succedono queste cose sono coinvolti tutti. C’è il segreto di Stato, cose atipiche per cui trovare la verità non è facile. Ad aprile mi ha detto che per il ventennale della strage voleva scrivere una lettera aperta a suo marito... Sì, ma non so se ci arriverò, non so cosa succederà da qui al prossimo anno. E comunque alla fine l’ho stracciata via dalla testa perché io sono morta due volte. Sono resuscitata da poco. La prima dopo quel 19 luglio di quasi vent’anni fa... è una brutta pagina della storia italiana. Le dico solo che mi chiamò l’ex presidente Cossiga un mese prima di morire. In quella telefonata mi disse «la storia di via d’Amelio è da colpo di Stato». Poi ha chiuso il telefono senza dirmi nient’altro. Adesso il telefono lo voglio dimenticare. Non rispondo più, mi chiamano migliaia di persone e io non ho voglia di parlare, non sto bene. Sono uno straccio. Così come è volato come uno straccio mio marito, sto volando come uno straccio io. Via D’Amelio mi ha distrutto la vita. Che parole vuole che ci siano? Piango anche se di lacrime ne ho versate tante. Mi vergogno di essere cittadina italiana. Spero che queste notizie facciano il giro del mondo. Signora Borsellino, si è fatta un’idea di cosa possa essere accaduto? Non nell’imminenza, poi avevamo avuto dei so-

Parla Agnese Borsellino. La mia vita è distrutta. Mi vergogno di essere cittadina italiana

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Sul sito left.it i documenti del Partito socialista europeo copertina

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Austerity, tagli, disoccupazione. Il duo Merkozy non ci salva dalla crisi. Ma il prossimo anno si vota in molti Paesi e l’Europa potrebbe cambiare di segno. I socialisti post Blair cercano una nuova unità

Ultimo tango a

bruxelles di Manuele Bonaccorsi

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È un po’ come curare un malato di diabete a cucchiaiate di zucchero. L’Unione dell’asse franco-tedesco-conservatore, il Giano bifronte chiamato Merkozy, ci porta dritti verso la fine dell’Europa, il default. A colpi di austerity, scelte impopolari, riforme strutturali. Non ferma le mire degli speculatori e soffoca nella culla la ripresa economica dopo il tonfo del 2009. Eppure, direbbe Bersani-Crozza, «se piove piove per tutti». Basta leggere lo studio della banca svizzera Ubs: la fine della moneta unica costerebbe 10mila euro a ogni cittadino europeo. Molto più di quei mille pro capite sufficienti a salvare la valuta unica. Senza contare, sostiene l’Ubs, che nessuna unione monetaria, nella storia, si è conclusa senza «forme di governo autoritario o militare o guerre civili». Ma non c’è alcun bisogno di ricorrere a scenari catastrofisti: già oggi la Germania sta rivedendo al ribasso le stime di crescita e la Francia teme che anche il suo debito venga declassato. Le banche sono in fibrillazione. La Grecia è in ginocchio, gli interessi sui Btp salgono, la Spagna conta un disoccupato su cinque. Persino l’America di Obama ha paura per noi. Una crisi dell’Europa trascinerebbe il mondo intero in uno scenario peggiore di quello del 2008, quando fallì la Lehman Brother. Eppure l’asse franco-tedesco continua a emanare i suoi diktat. Merkozy mira, è vero, a un’Unione più forte. Ma con le fattezze del poliziotto, armato per intervenire sui conti pubblici dei Paesi spendaccioni. Ed è un’Europa non democratica, nella quale Commissione e Parlamento sono semplici esecutori delle decisioni dei governi. Finanzieri come Soros, economisti liberal come il nobel Krugman o liberisti come Tabellini, sono concordi nel chiedere un cambio di passo. Ma l’unico vero contraltare politico dei governi conservatori è il Partito socialista europeo. In Parlamento

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ha portato avanti una critica dura alle decisioni del Consiglio, chiedendo la tassazione delle rendite finanziarie, l’esclusione delle spese per investimenti dal patto di stabilità, un nuovo patto per il lavoro e la crescita. E pretende gli Eurobond, l’unico strumento che, unificando il debito europeo, metterebbe a bada gli speculatori. Nei prossimi 12 mesi i cittadini saranno chiamati al voto in Germania, Spagna, Francia, forse anche in Italia. L’Europa, oggi governata dalle destre, potrebbe cambiare segno. Anche perché la sinistra sta cambiando faccia. È finita l’era nella quale il new Labour di Blair rinunciava a controllare gli spiriti animali del mercato, limitandosi a interventi residuali sul welfare delle “pari opportunità”. L’era nella quale il centrosinistra italiano introduceva la precarietà del lavoro e persino la Francia di Jospin privatizzava. Per un ventennio l’Europa di Maastricht - libera circolazione di merci e capitali, meno welfare e lavoro flessibile - è stata anche socialista. La crisi ha determinato la fine di quella fase, adesso si attende un cambio di passo, una svolta a sinistra. I documenti del Partito socialista europeo lo dicono a chiare lettere. Vedi la dichiarazione di Varsavia dello scorso dicembre: «In conseguenza della crisi finanziaria, la realtà economica, sociale e politica dell’Europa sta cambiando. Le idee neoliberiste hanno portato a una crisi globale senza precedenti. Disoccupazione e povertà crescono in tutta l’Ue. I conservatori hanno fatto le loro proposte chiare: tagli e distruzione dello Stato sociale. Ma drastiche misure di austerità da sole non sono sufficienti a rafforzare la crescita e creare lavoro». I socialisti propongono «un ordine del giorno alternativo basato su equità, occupazione e crescita economica». Durante la discussione in Parlamento, questa estate, sul nuovo programma 15


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Stabilità über alles Ci vuole più Europa. I tedeschi non vogliono sbarazzarsi della Ue, la vogliono cambiare. Cdu e Spd sono allineati nel chiedere riforme, ma se le intenzioni della Cancelliera appaiono abbastanza chiare, quelle dell’opposizione sono meno definite. La Cdu lavora per un’unione fiscale, un governo economico che punisca i grandi debitori. Obiettivo da realizzare cambiando i trattati. L’Spd non si discosta di molto. La sua battaglia in Parlamento è finalizzata a garantire un “controllo de-

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la concorrenza tra i Paesi». «Ovviamente tra i partiti socialisti europei persistono ancora differenze. Ma sulle questioni essenziali siamo d’accordo», spiega Stefano Fassina, responsabile economia del Pd, che durante l’ultimo vertice di Bruxelles ha partecipato a una conference call con tutti i leader europei socialisti, molto dura sul risultato del summit. «Nei recinti nazionali abbiamo armi spuntate. Certamente è finita l’era Blair, siamo consapevoli che il ruolo della politica non è solo rimuovere lacci e laccioli, che non è cancellando la contrattazione sul lavoro che si promuove lo sviluppo. Lo sostengono persino il Financial times e il Pontificio consiglio di Giustizia e pace». Certo, sulle tesi di Fassina il Pd non è esattamente compatto, e c’è chi crede che la lettera della Bce e le sue proposte di “misure impopolari” siano la strada da seguire: «Le differenze sono superabili. E mi pare che ci sia una maggioranza solida nel partito», chiosa Fassina. La strada, però, è ancora lunga, come spiega Giuseppe Berta, autore di un recente fortunato libretto, dal titolo emblematico: L’eclissi della socialdemocrazia. «Una rinascita del centrosinistra è ancora lontana, cova nelle riflessioni interne, ma non è chiaramente emersa. Neppure nelle primarie francesi». Su che basi va ricostruita la socialdemocrazia europea? «Keynes sta tornando di moda: ci dice che l’economia non è autosufficiente, che il vero obiettivo è la piena occupazione». D’altronde se questa è la peggiore crisi dopo quella del ’29 a oggi, a essa potrebbe seguire una nuova età dell’oro.

mocratico” dei trasferimenti diretti al Fondo salva Stati. A differenza della Merkel i socialdemocratici sono favorevoli agli Eurobond, ma solo se «se non accumuliamo debiti senza controllo», come afferma il deputato Spd Thomas Oppermann. Mentre il leader Sigmar Gabriel (nella foto) propone «un piano Marshall per il sud Europa». «È un momento “creativo” per la politica tedesca», ironizza Ulrike Guerot, a capo dell’ufficio di Berlino dell’European council on foreign relations. «Tra tante idee sul piatto l’Spd ha individuato due linee: la stabilizzazione dell’euro tramite la soluzione “assicurativa”». Tesi secondo la quale il Fondo salva Stati

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di governance europea - il cosiddetto 6-pack - il Pse si è opposto duramente e ha presentato cinque controproposte: un patto europeo per la crescita e il lavoro; un più forte e democratico processo decisionale europeo; l’introduzione degli eurobond, per stabilizzare i mercati e i tassi di interesse; la tassa sulle transazioni finanziarie; un più ampio budget europeo». Un programma esattamente opposto a quello di Merkozy. Resta da vedere se dalle dichiarazioni di principio si passerà ai fatti. Qualcosa lascia ben sperare, a partire dalla scelta del segretario del Pd Bersani di far salire sul suo palco, il 5 novembre a Roma, i segretari del Ps francese Francois Hollande e della Spd tedesca Sigmar Gabriel. D’altronde, senza un cambiamento dell’Europa, un nuovo governo di centrosinistra avrebbe spazi strettissimi, dettati dalla lettera della Bce e dalle pressioni di Bruxelles. Il 25 e 26 novembre i leader socialisti europei si rivedranno in una conferenza per redigere una “dichiarazione di principio”, di cui abbiamo letto una bozza preparatoria: «Persone, denaro, beni, informazioni e idee di viaggio senza sosta. Ma la realtà della globalizzazione deregolamentata è un senso più frammentato della vita. Le forze di mercato, guidate dalla finanza, servono solo gli interessi di pochi privilegiati». Le proposte: un maggior peso delle autorità pubbliche, la continuità del lavoro, la sostenibilità ambientale, la solidarietà. E ancora, un’equa distribuzione della ricchezza, un’idea diversa di Europa: «Il nostro impegno per l’integrazione trascende dal-

Eurobond, tassa sulla finanza, investimenti per crescita e lavoro. Le parole d’ordine dei socialisti

rimborsa la perdita di valore dei bond più rischiosi fino al 20 per cento, per convincere i mercati ad acquistare titoli di stato anche a interessi bassi. La seconda è il “cambiamento di linguaggio”: «Non

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Sul sito left.it l’intervista integrale copertina

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Parla l’economista Emiliano Brancaccio: il futuro dell’Europa dipende dagli interessi che prevaranno in Germania. Ma solo la domanda interna può far ripartire la crescita

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iamo a un passo dal baratro: la recessione, la fine dell’euro e forse persino il default dell’Italia. Eppure in Europa prevale la posizione di chi, alla vista del burrone, ha deciso di accelerare l’andatura. Secondo Emiliano Brancaccio, docente di Economia politica all’università del Sannio, tra i più noti esponenti del pensiero economico “critico”, bisognerà capire se in Germania i favorevoli all’euro prevarranno su chi vorrebbe sbarazzarsi della moneta unica. E bisogna pure valutare il ruolo dei partiti socialisti europei, i quali hanno avanzato proposte che vanno nella giusta direzione. Ma il rischio è che si stiano muovendo in ritardo. Berlusconi risponde alle sollecitazioni dell’Ue sostenendo che la libertà di licenziamento è una via per la crescita. È vero? No. Le ricerche dell’ultimo decennio ci dicono che la precarizzazione del lavoro non riduce la disoccupazione e non fa crescere la produttività. Inoltre, agevolando i licenziamenti nei periodi di crisi, tende ad aggravare le recessioni. È vero peraltro che rendere i contratti ancora più flessibili indebolisce i lavoratori e può favorire la riduzione dei

vogliono che la Germania appaia come Paese dominante e chiedono istituzioni europee in grado di fare da cane da guardia». Un’Europa che faccia la parte del cattivo al posto loro, questo vogliono i tedeschi. Il problema è come riuscirsi. La Cdu vuole rafforzare il potere degli esecutivi nazionali rispetto alle istituzioni comunitarie. La Merkel propone addirittura l’«elezione diretta della Commissione», che vorrebbe dire candidati di maggioranza che vanno a Bruxelles per fare le veci della propria nazione, e non per tutelare gli interessi generali. Anche nel campo cristianodemocratico imperversa la confusione, perché

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salari. Secondo alcuni economisti questo potrebbe accrescere la competitività dell’Italia. Il problema è che questa strada l’abbiamo già praticata, dagli anni ’90, provocando una compressione salariale senza precedenti. Nonostante ciò la nostra posizione competitiva non è migliorata, anzi il disavanzo commerciale si è accentuato. È una politica fallimentare. Che non risolve le contraddizioni alla base della crisi, ma le amplia. Per quale motivo? Perché lo stesso fenomeno è avvenuto in tutta Europa. In particolare in Germania, dove nell’ultimo decennio i salari reali non sono cresciuti, nonostante un aumento della produttività molto alta. Se il Paese leader dell’Ue insiste con una politica restrittiva e di competizione salariale, gli squilibri strutturali della zona euro sono destinati ad accentuarsi. In questo modo, infatti, la Germania accresce le esportazioni e aumenta il suo surplus verso l’estero. Di conseguenza, l’Italia, la Grecia, la Spagna, il Portogallo e la stessa Francia aumentano i loro deficit verso l’estero. La politica restrittiva e

l’unione fiscale chiesta a gran voce si può fare solo tra i Paesi dell’Eurozona, perché non tutti i 27 membri della Ue fanno la spesa con l’Euro. E i 17 che pagano con la stessa valuta hanno a disposizione solo l’Eurogruppo, un’organizzazione informale presieduta da un capo di Stato, Junker, che non ha niente a che fare con i leader della Ue - Van Rompuy e Barroso -. L’architettura da ridisegnare a Bruxelles è un labirinto nel quale Spd e Cdu si sono persi insieme. Forse i socialdemocratici si esporranno di più quando avranno deciso l’alleanza per le prossime politiche. Dopo le elezioni di Berlino, ad

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Aumentare i salari è questa l’unica via

esempio, si è parlato di coalizione “del pepe” tra Spd (rossi), Grune (verdi) e Pirati (arancioni). Questi ultimi, “grillini” alla tedesca, hanno raccolto il 9 per cento nella capitale ereditando il ruolo di alfieri dell’antipolitica dai Verdi. «Ma anche gli ambientalisti crescono e non solo sull’onda del post Fukushima», spiega Guerot, «i Verdi rappresentano la nuova socialdemocrazia progressista, sono i più favorevoli alla soluzione federale. Ma non hanno un interlocutore a Parigi». Sarà per questo che nessuno si oppone realmente a Merkozy. Cecilia Tosi

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La Gauche e Moody’s Nella Francia della crisi, si aggira lo spettro dell’agenzia di rating Moody’s che potrebbe levare a Parigi la famigerata tripla A. Un invitato imbarazzante che spariglia le carte nella corsa all’Eliseo appena iniziata. Il duello tra il presidente Nicolas Sarkozy e François Hollande (nella foto), il vincitore delle primarie del partito socialista, è già cominciato. Sullo sfondo, il futuro dell’Europa. Per il deputato del Partito socialista (Ps) Michel Sapin responsabile nazionale all’economia del

Ps, «non siamo alla crisi dell’euro ma alla crisi dell’Europa. Abbiamo una moneta unica ma le politiche monetarie, fiscali e industriali sono spesso contrastanti. Reggeva quando tutto andava bene. Oggi l’Eurozona deve camminare su due gambe. Quella monetaria - che funziona - e quella del governo economico - che non funziona -. Era previsto dal Trattato di Maastricht ed è stato dimenticato, credendo che se ne potesse fare a meno. Bisogna fare un deciso passo in avanti, un “salto federale”, e per questo servono nuovi trattati», afferma Michel Sapin. La proposta del Fronte di sinistra, che riunisce i

competitiva del Paese leader genera dunque uno squilibrio insostenibile. È questo il tallone d’Achille dell’Europa, ben più dei debiti pubblici. Si dice anche che la crescita economica in Italia potrebbe derivare dalla privatizzazione di aziende pubbliche. Che ne pensa? Ricordiamoci che negli anni 90 l’Italia ha realizzato il record mondiale delle privatizzazioni, dopo il Regno Unito. Oggi sappiamo che le privatizzazioni non sempre determinano un incremento di efficienza, e spesso producono un aumento dei prezzi. L’azienda privatizzata licenzia per aumentare la produttività, ma tiene alti i prezzi per garantire il profitto agli azionisti. Inoltre, immaginare di privatizzare oggi, con valori del capitale così bassi, significa soltanto fare un favore a una cricca di speculatori. Insomma, le cosiddette riforme strutturali, le scelte impopolari richieste dell’Europa, non aiuteranno la crescita. La lettera di Berlusconi è conforme all’indirizzo restrittivo che si è imposto in Europa e che ci fa piombare in una tipica “deflazione da debiti”: cioè, i Paesi debitori sono indotti a ridurre le spese per tentare di rimborsare i loro debiti, ma così facendo riducono la domanda complessiva, la produzione, l’occupazione e i redditi. Quindi le entrate fiscali scendono, e diventa ancor più difficile rimborsare i debiti. Ciò alimenta a sua volta la speculazione. Il caso greco è emblematico e noi ci stiamo incamminando nella stessa direzione. Il Fondo salva Stati, strutturato nel recente vertice di Bruxelles, può rappresentare una riposta? Il Fondo salva Stati è macchinoso e ha poche munizioni. Non è in grado di contrastare la speculazione. La salvezza per ora può giungere solo dalla Bce, la quale può creare la massa monetaria che vuole e fermare la speculazione. Chi si oppone a interventi più forti della Bce?

Più si prova a ridurre i debiti, più crescono a causa della recessione prodotta dall’austerity

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comunisti e i socialisti usciti da sinistra dal Ps, è più drastica. «Hollande pensa che sia importante mantenere la tripla A della Francia, accettando di piegarsi alle esigenze dei mercati finanziari. Inve-

La Germania in Europa ha l’ultima parola sulla Bce. Ma Berlino non ha ancora deciso se difendere la zona euro o farla deflagrare. Da un lato, i default e le svalutazioni che seguirebbero alla fine dell’euro procurerebbero problemi alle banche e alle imprese tedesche. Dall’altro lato, la conseguente svalutazione delle monete nei Paesi periferici ridurrebbe anche il valore dei capitali di quei Paesi. Ciò consentirebbe alle imprese tedesche di acquisire a buon mercato aziende private e pezzi di patrimonio pubblico in Grecia, Italia, Spagna, Portogallo. Come già accaduto nel 1992, dopo la svalutazione della lira. Forse, per convincere i tedeschi, bisognerebbe chiarire che se salta in aria la moneta unica, salterà pure il mercato unico: i Paesi periferici potrebbero limitare la libera circolazione di capitali e merci. Questa in effetti sarebbe una grave minaccia per la Germania e potrebbe smuoverla dal suo dilemma. La Germania dice di essere disposta a fare la sua parte. A conto però che gli altri, l’Italia in primis, riducano il loro debito pubblico. È uno scaricabarile. Dobbiamo metterci in testa che l’unico modo per uscire dalla crisi dell’euro è attivare un “motore interno”. Serve una politica economica coordinata a livello europeo per sviluppare la domanda. Inoltre abbiamo bisogno di meccanismi di riequilibrio, che impongano ai Paesi in surplus verso l’estero di aumentare la spesa e le importazioni. Le soluzioni sono numerose. Personalmente ho suggerito uno “standard retributivo europeo”, che impedirebbe alla Germania di insistere con la competizione salariale al ribasso. La proposta è stata inserita nel programma di riforme del Pd, pubblicato ad aprile. È già qualcosa. Come giudica le controproposte dei socialisti europei sulla crisi? Dopo anni di ubriacatura neoliberista, stanno facendosi spazio posizioni molto diverse. Sia pure con estrema lentezza, i partiti eredi del movimento operaio stanno rivedendo in chiave critica le posizioni del passato. In Italia, l’attuale segre4 novembre 2011

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Bce ha scritto il programma economico dell’Italia. E questo è molto inquietante. Una posizione troppo netta per i socialisti, che non intendono disobbedire alle disposizioni dei Trattati europei. Secondo il Ps, nel contesto attuale il margine di manovra c’è, quello che manca è la volontà politica. Nel mirino, c’è la politica sarkozysta. «La legge finanziaria in esame al parlamento francese prevede un deficit di 80 miliardi di euro per il 2012 - spiega Michel Sapin - oltre la metà è dovuta alle scelte di Sarkozy, a partire dalla diminuzione ingiusta delle tasse negli ultimi anni. Se la Francia non fosse così de-

teria del Pd è impegnata nel tentativo di costruire una nuova piattaforma, condivisa tra i socialisti europei. È la strada giusta. Purtroppo i tedeschi della Spd non hanno ancora espresso una posizione netta sul futuro dell’Europa. Anche se la base di consenso della Spd potrebbe avere più di un motivo per sostenere uno “standard retributivo” che rilanci i salari tedeschi. La salvezza dell’euro e la tutela del lavoro sono obiettivi non contrastanti ma coincidenti. Intorno a questa consapevolezza è possibile creare un blocco sociale ampio, che spinga nella direzione Manuele Bonaccorsi delle buone riforme.

bole, potrebbe pesare di più in Europa. La socialdemocrazia consiste nella volontà di costruire dei poteri pubblici, strumenti di intervento. I disordini che abbiamo davanti sono dovuti all’assenza di volontà politica nella costruzione dell’Europa». Se tutti applaudono alla riduzione del debito greco, i socialisti francesi chiedono a gran voce gli Eurobond. Mentre il Fronte di sinistra si spinge oltre e invita i governi a disobbedire ai diktat della Banca centrale europea. Nel frattempo, e con il benestare dei governi, Moody’s continua a fungere da ministro dell’economia dell’eurozona. Sarah Di Nella

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ce i grandi Paesi come la Germania, la Francia o l’Italia hanno i mezzi per finanziarsi, senza dipendere dai mercati mondiali», sottolinea Jacques Généreux, responsabile nazionale economia del Partito di sinistra, che candiderà Jean-Luc Mélenchon alle presidenziali. «Bisogna emettere i nostri titoli di debito pubblico soltanto sul mercato europeo, in euro. Obbligando le banche, i fondi di investimento e le grandi imprese a detenerne una parte. Inoltre la Bce e le Banche nazionali devono poter prestare agli Stati, a tassi bassi». Secondo Généreux, «senza avere alcuna autorità per dare istruzioni politiche a governi nazionali, la

Bruxelles, la sede del Gruppo socialista

C’eravamo tanto amati «Perché i socialisti, quando sono al governo, fanno politiche di destra?». L’allarme dei sindacati europei: «Serve una di Paola Mirenda svolta a sinistra» «Progressisti nel sociale, conservatori in economia». È il centrosinistra visto da Javier Doz, sindacalista delle Comisiones Obreras spagnole - uno dei più potenti sindacati iberici - e non è soltanto un’opinione personale. A meno di un mese dalle elezioni in Spagna, il Psoe non promette più miracoli in economia per vincere, e ci mancherebbe altro. «Gli effetti della politica finanziaria del premier uscente li sconteremo ancora per molto», dice Doz. «Zapatero si illudeva di risolvere i problemi sopprimendo la tassa patrimoniale e diminuendo la pressione fiscale, due misure che hanno mostrato la mancanza di un obiettivo strategico del Partito socialista. Non si affida il ministero dell’Economia a un neoliberista convinto come Pedro Solves, non era questa la strada per uscire dalla crisi. Ma in Spagna come negli altri Paesi europei dove

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governa, la sinistra ha mostrato che in economia, le sue sono politiche di destra». Che pochi giorni fa la patrimoniale sia stata reintrodotta, in un ultimo disperato tentativo di non annegare nei debiti, non basterà a ricomporre l’idillio tra il Psoe e il sindacato. «Prima della crisi potevamo condividere con il centrosinistra le politiche di ampliamento delle libertà, dei diritti individuali, l’attenzione al sociale. Ma già nei primi quattro anni di governo socialista una cosa era chiara: l’inconsistenza delle politiche economiche. Zapatero va bene quando si deve opporre alla Chiesa, non al mercato». Il Partito socialista spagnolo deve sperare di trovarne altri come Doz, che nonostante tutto, ammette, tornerà a votare il partito, 20 novembre. Al centrosinistra portoghese, per esempio, non ha portato bene aver dato ascolto più ai palazzi di Bruxelles che alle strade di Lisbona: 19


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Socrates ha perso, e al governo lusitano adesso c’è il conservatore Pedro Passos Coelho . «Ma il pericolo che vinca la destra non può essere un ricatto», dice Jacques Delallé, responsabile Europa della francese Confédération générale du travail (Cgt). «Il problema è un altro: ci sono governi che sono votati al suicidio, come quello di Socrates. Perché la gente dovrebbe votare una sinistra che fa le stesse politiche della destra?». Può succedere anche che al voto alla fine non ci si vada più. «C’è bisogno di sapere che tra i due schieramenti c’è una differenza politica», spiega Elena Crasta, dirigente europea del Trade Union Congress (Tuc), il sindacato inglese che nell’Ottocento ha dato vita al Labour party. «Blair fu eletto perché promise alle imprese di non tornare al clima di relazioni industriali che dominava negli anni Settanta, quando i sindacati erano molto forti. Per conquistare i moderati ha dovuto mitigare molto le sue politiche di sinistra. Si può condividere o meno la scelta, ma per arrivare al centro ci si aliena la base. Non c’è la somma di due elementi, quello che si guadagna da una parte lo si perde dall’altra. Così c’è sempre meno gente che partecipa, un sintomo che pervade tutta l’Europa». Si vota di meno, ci si iscrive di meno ai partiti e ai sindacati. Il tasso di sindacalizzazione in Europa va dal 74 per cento della Finlandia al 7,7 per cento della Francia. Però nei Paesi

Più Labour che Blair Il Partito Laburista inglese è stato per molti anni una fonte di ispirazione per il centrosinistra europeo. La sua icona era Tony Blair, un leader capace di vincere tre mandati, con un programma semplice: un capitalismo “dolce” che lasciava fare ai mercati e alla concorrenza, mitigato da iniziative statali per garantire la pari opportunità di accesso, a partire dalla formazione. Poi la scelta di partecipare guerra irachena ha alienato molti elettori del partito laburista; infine l’ampia fiducia di Blair nei mercati finanziari

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scandinavi la tessera del sindacato la danno insieme al contratto, in nome della cogestione del rapporto di lavoro. Il legame privilegiato tra partiti di sinistra e rappresentanze dei lavoratori è decisamente incrinato. «Il sindacato è strutturalmente di sinistra perché difende i salariati», dice Doz. Ma nella crisi le soluzioni proposte dai sindacati, sia a livello nazionale che europeo, non sono state prese troppo in considerazione dai partiti. Piccole modifiche, ma non grandi riforme. L’esempio del sindacato spagnolo non è unico. «Noi siamo indipendenti, al contrario degli inglesi», spiega la francese Delallè, «ma vogliamo lavorare insieme alla sinistra. I nostri iscritti votano tutti a sinistra, lo sappiamo. Non scegliamo questo o quell’altro partito politico, ricordiamo semplicemente quali sono le nostre esigenze di salariati. Non accettiamo una politica che risponde solo “austerità, austerità, austerità” alla crisi. Noi dei punti li abbiamo messi nero su bianco, vediamo che ne faranno». Si vota l’anno prossimo, Sarkozy è travolto dagli scandali e Hollande ancora non convince. Però, da parte del sindacato, «nessun giudizio preventivo, vediamo quello che farà se arriva al governo». Nel programma del Partito socialista qualcosa c’è delle richieste del sindacato. «Bisogna riconoscere», dice Luca Visentini, segretario confederale della Ces, la Confederazione europea dei sindacati, «che dove i partiti di centro sinistra sono all’opposizione, in particolare in Germania e in Francia, sono sta-

ha esposto la Gran Bretagna alla bolla speculativa americana. I risultati sono stati drammatici. Le elezioni del 2010 hanno visto l’affermarsi di una coalizione tra LibDem e i Conservatori, e i laburisti, dopo la sconfitta, hanno scelto il quarantenne Ed Miliband (nella foto) come nuovo leader. Le politiche di tagli del governo conservatore hanno aumentato il deficit di 46 miliardi di sterline: conseguenza prevedibile dei licenziamenti in massa, che fanno lievitare la spesa per i sussidi di disoccupazione. Il ministro ombra per l’Economia Ed Balls, parlando a Liverpool alla conferenza dei Labour, ha indicato le mosse più urgenti: prorogare la tassazione ag-

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La Trade Union: «C’è bisogno di sapere che tra gli schieramenti c’è differenza»

giuntiva dei bonus ai super manager, investendo il ricavato nella costruzione di 25mila case di edilizia popolare, e creando posti di lavoro per 100mila giovani; anticipare gli investimenti di lungo termine

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ti capaci di sviluppare un’analisi diversa e di proporre buone cose, come il documento congiunto firmato quest’estate da Spd tedesca e Partito socialista francese. Un documento che delinea una strategia economica e una alternativa molto simili a quella che anche il sindacato europeo sta proponendo. È quando i socialisti governano che non ci si intende più». Beata opposizione, che può permettersi di sognare? «Certo, resistere alle pressioni della Bce quando si è al governo è più difficile», ammette Visentini. «Ma ora anche da Bruxelles si comincia a dire che la politica dell’austerità non paga, non favorisce la crescita di cui abbiamo bisogno adesso. Noi proponiamo di agire su due versanti. Semplificando: debito in comune presso la Banca centrale, da finanziare con gli eurobond; utilizzo delle risorse risparmiate per gli investimenti e una politica fiscale coordinata che concorra al finanziamento della crescita. Non ci si salva senza una strategia su scuole, strade e trasporti; sospendere l’aumento dell’Iva decisa lo scorso gennaio; introdurre un anno di esenzioni fiscali per le piccole imprese. E poi investimenti pubblici sul manifatturiero, incluse le imprese ecologicamente sostenibili. Sul piano delle idee, il Labour party è molto cambiato dai tempi di Blair. È in corso un grosso dibattito sul ruolo dello Stato, soprattutto nei think tank (da quello storico socialista, come la Fabian Society, fino a Progress, più liberal). Ci si interroga sul perché gli investimenti nel welfare non abbiano permesso il raggiungimento dell’uguaglianza di accesso alle opportunità. Un movimento del partito, guidato da

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europea di ristrutturazione del debito». Misure da prendere a livello dell’Unione, ma un Partito socialista europeo forte, che possa farne un pilastro della propria politica ancora non c’è. Esiste, ma non è ancora in grado di esprimere una politica davvero comune, di fare pesare sulle scelte. I tre premier europei socialisti, Socrates, Zapatero e Papandreu non hanno saputo fare fronte comune a Bruxelles. E l’Italia? «Da soli si fa poco, serve l’intervento di una politica europea reale», sostiene Visentini. «Bersani ha detto cose molto interessanti sul fronte degli investimenti, ma non si vede ancora una strategia organica per uscire dall’indebitamento. Se il centro sinistra fosse chiamato a governare, non so se saprebbe mettere sul tavolo una strategia economica alternativa veramente solida. Anche perché purtroppo devo dire che in passato, quando il centrosinistra ha governato, si è affidato quasi sempre ad economisti di destra. Come Padoa Schioppa». Che non era esattamente un keynesiano.

Lord Glasman, si propone di recuperare lo spirito originario del Laburismo, legato al lavoro e alla forza propulsiva delle relazioni che permettono di resistere alle derive del capitalismo. Attraverso il dibattito avviene la metamorfosi di un partito che per molti anni ha avuto un rapporto molto stretti con la finanza e che adesso è convinto della necessità di dare valore etico al capitalismo. Il Labour vuole un nuovo patto tra i cittadini e lo Stato, fondato sulla responsabilità individuale nella costruzione di un comune destino. Questo fecondo dibattito politico si traduce nella necessità di una nuova forma organizzativa del

In alto, manifestazione dei sindacati a Budapest

partito, più aperta e popolare, e nella ricerca di nuovi leader. Come dice lo stesso Ed Miliband, arriva un momento in cui una generazione sa che è l’ora di cambiare «the way we do things». Nella sua squadra, accanto a figure storiche come Ed Balls, ministro ombra per l’Economia, e Harriet Harman, leader indiscussa sui temi dell’uguaglianza, ci sono trentaduenni come Rachel Reeves e Chuka Umunna. E Miliband ha lanciato la selezione di futuri candidati tra chi ha avuto ruoli di leadership sul territorio. È in arrivo il New new Labour. Ivana Bartoletti-Fabian society

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La politica abbia “l’animo grande e l’intenzione alta”

di Giommaria Monti

© MISTRULLI/imagoeconomica

Il populismo di Berlusconi ha responsabilità immense. L’Unione si è sviluppata solo nel nome del neoliberismo. C’è troppa poca Europa, e troppo spazio ai nazionalismi. L’antipolitica nasce quando i partiti sono deboli e incapaci di decidere. Parla Massimo D’Alema

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Nel cuore della crisi che sta attraversando l’Italia e le altre Nazioni dell’euro, la politica in Europa deve avere un peso più autorevole e guidare l’economia con scelte forti e condivise. L’Italia deve riprendere il ruolo che ha perduto per responsabilità di Berlusconi, che anche per questo deve dimettersi. In questa intervista al nostro giornale, Massimo D’Alema ragiona sugli scenari che si stanno aprendo nel vecchio continente. Dopo il successo della coalizione rosso-verde in Danimarca, infatti, si voterà in Francia e in Germania, dove i sondaggi danno vincenti le coalizioni progressiste. Anche l’Italia potrebbe andare alle urne la prossima primavera. E si preannuncia l’apertura di una nuova stagione politica. Presidente, Berlusconi è messo sotto la lente dell’Ue per quello che non fa e che perentoriamente gli chiedono di fare: una riforma delle pensioni, un pacchetto di proposte credibili, un piano per lo sviluppo. Trattati come scolari svogliati… Il governo ha responsabilità immense, prima tra tutte quella di aver fatto finta che non ci fosse la crisi. Il populismo e la demagogia hanno toccato, con Berlusconi, livelli mai raggiunti. Basti pensare all’ostinazione con cui, unico al mondo, ha nascosto l’evidenza della crisi economica e sociale, che, alla fine, è piombata addosso al Paese costringendo il governo a una drammatica rincorsa affannosa e confusa. Ma l’Italia è ancor più penalizzata, perché, con un premier senza alcuna credibilità internazionale, la rincorsa diventa ancora più difficile. Ci hanno detto non solo cosa fare, ma anche come farlo. Non è un po’ eccessivo? È esattamente il prezzo che paghiamo alla mancanza di credibilità a cui ho appena accennato. Tanto è vero che l’Europa non si comporta con gli altri come fa con noi. Nessun Paese è stato oggetto di precetti, neppure la Grecia, nonostante la situazione drammatica in cui versa. E questo perché Papandreu gode di credibilità. È evidente, quindi, che la precettistica europea nasce da una sfiducia verso il governo italiano. Per questo siamo diventati un sorvegliato speciale. All’Europa erano stati promessi un decreto per lo sviluppo e una nuova riforma delle pensioni. Hanno dovuto accontentarsi di una lettera nella quale c’è un lungo elenco in parte di cose già fatte, in parte di impegni di improbabile

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realizzazione, in parte di misure ingiuste e inaccettabili contro i lavoratori. Non crede che questa durezza dell’Europa nasca anche dalla predominanza dell’asse franco-tedesco? Anche in altri momenti della nostra storia l’Italia è stata in difficoltà. Ma quelle situazioni trovavano rimedio in una sorta di vincolo europeo, una specie di armatura esterna che ci aiutava in qualche modo a riparare le fratture interne al Paese. È stato così negli anni 90, quando il rapporto con l’Europa ha rappresentato senza dubbio uno stimolo per salvare l’Italia e rimetterla in cammino. Quello che oggi aggrava ancora di più la situazione è che la crisi italiana si sviluppa nel contesto di una crisi europea più ampia. Soffriamo la mancanza di una Ue forte e autorevole, e la debolezza della governance europea rende l’Italia ancora più debole. Insomma, c’è troppa poca Europa, che paga il prezzo di scelte nazionalistiche da parte dei governi di centrodestra, a cominciare da Francia e Germania. Ma l’Europa oggi è la Bce, non la politica. La costruzione europea, negli ultimi vent’anni, ha pagato un prezzo alto al dominio ideologico neoliberista, che ha caratterizzato il mondo globalizzato. Intanto non dobbiamo scordare la lunga fase in cui dicevano che mercato unico e moneta unica sarebbero stati sufficienti a definire l’Europa. Ma era evidente che proprio l’esistenza di un mercato unico e di una moneta unica avrebbero richiesto un governo politico dell’Unione, un salto di qualità delle istituzioni politiche europee. Inoltre, la globalizzazione si è sviluppata nel segno del neoliberismo antipolitico. Attenzione, non dobbiamo confonderlo con il liberismo classico che, viceversa, una dimensione politica l’aveva. Il neoliberismo di cui parlo, che ha occupato la scena politica mondiale dalla caduta del muro di Berlino a oggi, è radicalmente antipolitico: è nato dall’idea che, con la fine del comunismo e la fine delle ideologie, si dovesse ridimensionare drasticamente la politica e il ruolo della dimensione pubblica con i partiti e le istituzioni democratiche. Perché le istituzioni politiche europee, a cominciare dalla Commissione, sono di fatto svuotate?

Con un premier senza credibilità internazionale, la rincorsa diventa ancora più difficile

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Il blairismo si è lasciato affascinare dall’illusione di cavalcare la globalizzazione I governi di destra hanno ridimensionato le istituzioni europee, convinti che sarebbe stato il mercato a risolvere tutto. Si è vissuta la politica come una inutile complicazione. L’ultraliberismo ha predicato una concezione della politica ridotta ad ancella dell’economia, senza alcun compito se non quello di rimuovere gli ostacoli che si frappongono al pieno dispiegarsi delle virtù benefiche del mercato. L’Europa è cresciuta, in un momento delicato della sua storia, sotto l’impronta di questa visione. Da questo punto di vista sarebbe utile una seria riflessione anche sulle scelte della sinistra europea in quella fase. Veramente il centrosinistra era al governo nei principali Paesi europei, in quel momento. Una parte si è accodato a una impostazione neoliberista… È vero, il blairismo si è lasciato affascinare da quest’idea, illudendosi di poter cavalcare la globalizzazione. Altri, invece, come i socialisti francesi, si sono affidati all’idea che lo Stato nazionale avrebbe fatto da riparo. Ma la risposta non era neanche questa: andava ricercata in chiave europeista. Resta il fatto che la sinistra non ha saputo dare risposte concrete, neanche di fronte a una crisi che ha determinato un grande senso di smarrimento. Da questo punto di vista, invece, la destra al governo ha avuto una torsione populista e, incapace di fornire soluzioni efficaci, si è limitata a dare risposte difensive, basate su certezze antiche, con richiami alla terra, all’identità, al sangue, alla religione… La sinistra si è divisa sulla lettera della Bce. Una parte dice: «È il nostro programma»; un’altra dice: «No, bisogna andare nella direzione contraria». Così non disorientate gli elettori? La lettera della Bce non è un programma di governo e non bisogna prenderla come tale. Ha dato delle indicazioni, degli obiettivi da raggiungere. È poi il governo a decidere le misure da intraprendere per realizzarli. Certo, questo governo è andato avanti con la politica degli annunci, e oggi è evidente il suo fallimento. Prendiamo il tema della spesa pubblica: quella globale, con i gover24

ni di centrosinistra, era arrivata al 46,5 per cento del Pil. Bene, Berlusconi è riuscito nel “miracolo” di aumentarla, portandola fino al 53 per cento, nonostante tagli indiscriminati e sciagurati alla spesa per scuola, università, ricerca. Vogliamo parlare dell’andamento del debito pubblico? Uno studio di Bloomberg evidenzia che gli unici due periodi in cui il debito pro capite degli italiani è diminuito (1,1 per cento), sono stati quello del governo da me presieduto e quello del governo Prodi. Con Berlusconi, invece, è sempre aumentato. Noi avevamo impostato una linea progressiva di riduzione del debito, che infatti è passato dal 120 per cento al 109 del Pil, con un avanzo primario del 3,8 per cento. Tutto questo è stato consumato, cancellato dai governi Berlusconi. Lo dico perché loro raccontano di una sinistra della spesa, ma è una favola. Noi abbiamo la coscienza tranquilla verso le generazioni future. Ma quella lettera chiede interventi drastici. Lei che ne pensa? La lettera della Bce contiene anche considerazioni interessanti. Ad esempio, sollecita la costruzione di un sistema di protezione per il lavoro flessibile, sul modello danese. Ma pochi sanno in cosa consiste questo modello, che io applicherei subito… Prendiamo il caso di un disabile mentale: mentre in Italia riceve 250 euro al mese, in Danimarca ne riceve 1.500. Questo per dire che è falsa l’affermazione secondo la quale soffriamo di una eccessiva generosità nel nostro sistema di welfare. Tolta la spesa previdenziale, che è al di sopra della media europea, infatti, il nostro welfare non è al livello degli altri Paesi europei più avanzati. Il sistema di protezione del lavoro flessibile che c’è nei Paesi dell’Europa del Nord da noi non esiste. Fino ad ora lei ha criticato il modello iperliberista, l’ideologismo della destra, Berlusconi. Eppure lo spazio critico sembra tutto occupato da alcuni giornali e movimenti, come i grillini. E il Pd? Il Pd nelle ultime elezioni è risultato essere il primo partito del Paese. I sondaggi, inoltre, danno il centrosinistra in vantaggio sul centrodestra di 10 punti. Ma la vera questione è un’altra: l’Italia ha bisogno di profondi cambiamenti per recuperare un decennio perduto. Questo richiede una maggioranza ampia, in Parlamento come nel Paese. I sondaggi dicono che quella che oggi in Parlamento è 4 novembre 2011

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Forze diverse come la sinistra e i cattolici pensa si possano mettere insieme? Su molte questioni, a partire dalla bioetica, la distanza è grande. Sono convinto che sia possibile costruire un programma di legislatura, che unisca un arco di forze diverse. Naturalmente la prospettiva politica di un partito come l’Udc è diversa da quella di Sel, ma ritengo che si possa trovare un accordo per governare insieme su questioni urgenti che affrontino la crisi. Pensiamo al fisco: è possibile convergere su misure che spostino il peso della fiscalità sulla rendita liberando il lavoro e le imprese. È urgente attuare riforme di tipo liberale per rimuovere gli ostacoli corporativi al dinamismo sociale e alla sua mobilità. Bisogna rimettere in ordine le istituzioni democratiche, ridurre il peso della pubblica amministrazione, i costi della politica. Sto indicando grandi questioni su cui si può trovare un’intesa. Poi, è ovvio che vi siano altre grandi questioni che investono, per loro natura, la formazione culturale e la coscienza di ciascuno, sensibilità diverse che attraversano gli stessi singoli partiti. Temi su cui vi sono profonde differenze, come quelli eticamente sensibili. Ma per affrontarli, il terreno di confronto

Una seduta del Parlamento europeo

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minoranza, ormai è maggioranza nel Paese: parliamo del 60 per cento. Ora si tratta di trasformare questo ampio consenso alle opposizioni nel sostegno a un governo di legislatura che abbia un programma di ricostruzione del Paese: riforma delle istituzioni, rilancio dell’economia, centralità del lavoro, riduzione delle diseguaglianze sociali, questione fiscale, sicurezza. Ecco perché il Partito democratico sta lavorando per unire le forze che sono all’opposizione. Lei recentemente ha accennato al fatto che c’è qualcuno che pensa a un “cavaliere bianco”, un Berlusconi buono che possa andare al governo del Paese. Cosa intendeva? Volevo dire che forse qualcuno si illude che possa continuare un berlusconismo senza Berlusconi. È l’idea che il capitalismo possa governarsi da solo, senza bisogno dei partiti e delle istituzioni democratiche. Forse qualcuno ritiene che effettivamente si debba cercare una via d’uscita da questa stagione e che, però, ciò sia possibile farlo continuando a escludere o a tenere ai margini la sinistra. Ma si tratta di un’illusione e di un errore. Detto questo, noi sappiamo che la sinistra da sola non basta e puntiamo ad una alleanza più larga.

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Bloomberg Variazione del debito pubblico italiano con gli ultimi 8 governi

è quello parlamentare. L’intero continente è stato attraversato quindici giorni fa da un movimento di persone che chiedevano risposte. La politica non è troppo distante dalla società? Oggi il difetto della politica è quello di non avere l’autorevolezza e la forza di dare risposte. Una mancanza anche nei confronti dei movimenti, che chiedono alla politica la capacità di riprendere le redini e correggere le storture, le disuguaglianze, le ingiustizie, la drammatica esclusione sociale di una generazione che è il prodotto di uno sviluppo capitalistico senza regole. A questo proposito, vorrei citare un pensiero di Mario Tronti: «Non è vero, come recita la vulgata corrente, che la crisi della politica deriva dal suo distacco dalla società civile. Al contrario, la politica entra in crisi perché somiglia troppo alla società civile. Ne ha assunto i peggiori vizi ed è diventato l’hegeliano regno dei bisogni». Una frase scultorea, una descrizione esatta, a mio parere, della realtà: la crisi della politica deriva proprio dalla sua perdita di forza. La politica allora cosa deve fare? «Deve riguadagnare l’animo grande e l’intenzione alta», come ha scritto Machiavelli. La vera risposta della politica è in termini di autorevolezza, di capacità di riguadagnare le leve del potere. La politica perde prestigio perché si separa dalla forza, e così facendo diventa predicazione. A settembre ho parlato con il presidente Clinton, secondo il quale il dramma che stiamo vivendo è che l’antipolitica produce leader capaci di raccontare belle storie, ma incapaci di decidere. Ecco, la crisi della politica è lì: quando non è capace di incidere sulla realtà. Come affrontare, concretamente, questa fa-

L’antipolitica produce leader capaci di raccontare belle storie ma incapaci di decidere

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se così complessa e cruciale? La politica deve tornare a governare i grandi processi e raccogliere la sfida dell’economia globale. Questo si può fare soltanto con istituzioni forti, che, per quanto ci riguarda, sono quelle dell’Unione europea. I movimenti progressisti non possono che essere europeisti e avranno l’occasione di dimostrarlo alle prossime importanti elezioni politiche che interesseranno Francia, Germania e, speriamo, Italia. Parliamo di tre Paesi fondatori, di 200 milioni di cittadini europei. È molto importante che i progressisti vadano al governo sulla base di idee condivise, che individuino grandi obiettivi comuni: l’Europa non può ridursi a tagli e austerità. Occorre una strategia europea di rilancio della crescita, attraverso un grande piano di investimenti in infrastrutture, ricerca, innovazione, energia verde. Per affrontare la questione del debito è necessario mettere in campo una strategia solidale, dotare l’Europa di propri strumenti, come gli eurobond, la financial transaction tax, un’agenzia indipendente per il debito. È necessario un salto di qualità nella coesione politica della Ue che non può essere affidata al tandem Merkel-Sarkozy. Oggi le istituzioni europee sono indebolite, sostituite da pochi governi nazionali, prigionieri dei loro problemi interni, incapaci di assicurare un governo politico dell’Europa. I progressisti, futura classe dirigente europea, devono dire “no”. Noi faremo diversamente, riprendendo in mano il processo di integrazione. D’Alema avrà un ruolo in Italia, in una nuova stagione? Un ruolo io ce l’ho. Sono presidente della Feps e della Fondazione Italianieuropei, ho un compito istituzionale importante per l’opposizione. Soprattutto, lavoro per proporre analisi e idee che continuino a suscitare interesse nel dibattito politico italiano. 4 novembre 2011

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nero 28L’ottobre di Scopelliti

di 31All’ombra Malagrotta

in 34Mamme tempo di crisi

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L’ottobre nero di Scopelliti

di Rocco Vazzana

Indagato per falso in bilancio, indicato come politico di riferimento da alcuni pentiti, turbato dalle inchieste della Direzione distrettuale antimafia di Genova su un assessore della sua Giunta. Non deve essere un periodo sereno per Giuseppe Scopelliti, presidente della Regione Calabria e uomo di peso del partito di Berlusconi. Nel mese di ottobre, il suo regno è finito sotto la lente d’ingrandimento della magistratura. Per i pm l’attuale governatore avrebbe gestito con eccessiva disinvoltura le casse del Comune di Reggio quando vestiva i panni del sindaco. L’inchiesta mira a chiarire come si sia creato un buco da almeno 170 milioni di euro nel bilancio comunale, un rosso che per la Procura di Reggio è tipico di «un ente in dissesto finanziario». La cosa pubblica sarebbe stata amministrata come una cosa privata, un affare di cui non rendere conto a nessuno. Voci di bilancio sballate, spesa corrente finanziata con fondi vincolati, dirigenti che si autoliquidavano compensi milionari, dipendenti mai pagati, consulenze affidate a parenti e amici. È la sintesi del “modello Reggio”, fiore all’occhiello dell’attuale governatore, fondato sulla rincorsa al turismo e al divertimento. Un modello fatto di compensi esorbitanti offerti al network Rtl in cambio della diretta estiva dal lungomare, di vip strapagati per passeggiare in centro, 28

di feste ed eventi mondani per tutti. Ma in mezzo a questo “scialo” c’è scappato anche un morto. Anzi, una morta, che ha fatto scattare gli accertamenti sugli uffici dell’amministrazione reggina. Orsola Fallara era la dirigente comunale del settore Finanze e Tributi nominata da Scopelliti. È morta nel dicembre del 2010, ingerendo acido muriatico, dopo essere finita sotto inchiesta per aver versato sul suo conto e su quello di amici più di 3 milioni di euro sottratti ai fondi comunali. Un caso archiviato come suicidio, anche se sul suo cadavere non è mai stata disposta l’autopsia. Misteri a parte, resta da capire se Orsola Fallara abbia commesso reati a titolo personale o col tacito assenso della politica. Subito dopo la sua uscita di scena, è partita la gara a infangare il suo nome, un modo poco elegante per dissociarsi da una figura diventata scomoda solo perché colta con le mani nello stesso sacco da cui tanti attingevano. Ma la dirigente, oltre a ricevere un lauto stipendio, era titolare di incarichi extra, assegnati dall’allora sindaco Scopelliti. Come il compito di difendere l’ente di fronte alla commissione Tributaria. «Gli incarichi conferiti alla dottoressa Fallara Orsola appaiono del tutto identici a quelli conferiti a professionisti esterni all’ente», scrivono nella loro relazione gli ispettori nominati dalla Procura, «non tenendo in alcun conto che la stessa era una dirigente dell’ente». Orsola Fallara, in altri termini, per legge non poteva essere messa sullo stesso piano di un consulente esterno e nessun compenso aggiuntivo poteva esserle riconosciuto. Ma così non è stato. Si è trattato di uno dei tanti illeciti che hanno creato una voragine nel bilancio comunale. Scopelliti ora dovrà chiarire la sua posizione davanti ai magistrati, perché è difficile credere che un buco da 170 milioni di euro si accumuli senza che il sindaco si accorga di nulla. E non sono stati solo i soldi prelevati dalla Fallara a crearlo. 4 novembre 2011

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Secondo Demetrio Naccari Carlizzi (Pd), sindaco facente funzioni dal dicembre 2001 al maggio 2002 e consigliere comunale fino al 2007, Scopelliti non poteva non sapere. «Già nel 2003 denunciammo una situazione che avrebbe portato il Comune al dissesto», dice. «Scopelliti aveva impostato un meccanismo in base al quale il bilancio diventava la cassa per acquistare consenso». Un consenso di carta, secondo l’ex consigliere comunale, frutto solo dell’autopromozione. «Spendere 1 milione di euro per la diretta di Rtl vuol dire farsi una pubblicità incredibile, ma è la pubblicità del “cacao Meravigliao”: il prodotto non esiste», ironizza Naccari Carliz-

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zi. «In più è stata elargita una quantità incredibile di contributi senza avvisi pubblici e procedura di evidenza». Fino ad arrivare alla situazione attuale di dissesto. «Nel biennio 2009/2010 il confronto è diventato molto aspro perché Scopelliti è arrivato a blindare le informazioni fino a non consegnare il bilancio analitico ai consiglieri», continua l’esponente del Pd. «La discussione politica amministrativa era finita. Per noi, Scopelliti aveva falsificato tutto, per questo presentammo esposti alla magistratura». Ma il “modello Reggio”, secondo Naccari Carlizzi, si è trasferito anche in Regione. «Alcuni ex dirigenti del Comune, indicati dall’inchiesta come bene29


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ficiari di compensi non dovuti, adesso siedono accanto a Scopelliti nell’amministrazione regionale». Squadra che vince non si cambia. E il governatore non è abituato a perdere. Giovanissimo, è stato il sindaco più amato d’Italia, eletto al primo turno col 70 per cento dei consensi. E ha stracciato l’uscente Agazio Loiero (Pd) alle ultime elezioni regionali. Ma nel frattempo troppi soldi sono stati elargiti in maniera sospetta. Anche se i calabresi sono abituati a veder passare sotto il loro naso grandi flussi di denaro destinati a risollevare, almeno sulla carta, una delle aree economicamente più depresse d’Europa. Di sviluppo finora se ne è visto poco e le risorse sono finite nelle tasche dei soliti noti. Dal 1989 l’accaparramento è diventato ancora più facile grazie al “decreto Reggio”, un unicum giuridico che prevedeva la creazione di un fondo di 600 miliardi di vecchie lire «per interventi di risanamento sociale, ambientale e culturale e di sviluppo della città». Ancora oggi è la madre di tutte le mammelle statali, la “minna”, come direbbero i reggini, da cui succhiare finché dà latte. È lo strumento ideale per creare clientele, visto che a gestire parte dei soldi viene delegato il sindaco della città dal ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti. E una volta eletto governatore, nel marzo 2010, «Scopelliti ha fatto di tutto», sostiene Naccari Carlizzi, «pur di non lasciare quella delega nelle mani di Giuseppe Raffa, il vicesindaco diventato primo cittadino facente funzioni». Ma il progetto non è andato in porto.

Naccari (Pd): «Il bilancio era diventato la cassa per acquistare consensi»

Demetrio Naccari Carlizzi

Il falso in bilancio non è l’unica gatta da pelare per il governatore della Calabria. Il 20 ottobre, durante l’udienza del processo “Testamento”, il collaboratore di giustizia Roberto Moio, ex uomo di fiducia del boss Giovanni Tegano, ha parlato del ruolo della ’ndrangheta nelle consultazioni elettorali: «I voti si compravano. Ho raccolto voti per un sacco di gente (...). I Tegano avevano rapporti ottimi con l’amministra30

zione, hanno sempre candidato qualcuno (…). Abbiamo appoggiato Scopelliti». Parole gravissime che potrebbero essere frutto della fantasia di un millantatore, anche se non è la prima volta che il governatore viene tirato in ballo dai pentiti. Nel novembre del 2009 Nino Fiume, ex killer della potentissima cosca De Stefano, dichiarò ai magistrati: «Conosco Giuseppe Scopelliti, in quanto ho appoggiato politicamente lo stesso». Un’affermazione secca a cui il governatore replicò senza scomporsi: «Conosco Fiume. Come tutti i ragazzi di questa città, negli anni Ottanta frequentavo l’unica discoteca che c’era a Reggio, il Papirus. Ci si conosceva un po’ tutti (…). Mai parlato di politica con Fiume. Ho appreso dai giornali che faceva campagna elettorale per me». E in passato, nel febbraio del 2007, qualcuno - senza sapere di essere ascoltato - ha chiamato in causa anche i familiari del presidente. In un’intercettazione telefonica due imprenditori parlavano del sistema degli appalti. Franco Labate si lamentava con Domenico Barbieri (arrestato nell’abito dell’inchiesta “Meta”): «Stanno dando i lavori solo dove vogliono (…). C’è una ditta che sta facendo man bassa». Dall’altro lato della cornetta il suo interlocutore rispondeva: «Vuoi sapere come ha fatto a entrare? Con il fratello del sindaco (Scopelliti, ndr), i soldi se li sta prendendo lui, quello che si è riempito la mazzetta, la pila (i soldi, ndr) se l’è presa lui». Ma la loro potrebbe essere una semplice congettura, visto che la magistratura non ha accertato illeciti. L’ultima tegola che si è abbattuta sulla testa del governatore viene da Genova, dove la Dda ha presentato una relazione alla Commissione parlamentare Antimafia per documentare «l’alacre attività di sostegno svolta, nell’ultimo voto regionale, da esponenti della cosca (la Raso-Gullace di Cittanova, Reggio Calabria, molto attiva nel territorio ligure, ndr) anche con palesi intimidazioni, a favore del candidato Antonio Stefano Caridi». Ovvero il primo degli eletti del Pdl nella provincia di Reggio, attuale assessore alle Attività produttive della giunta Scopelliti. Anche in questo caso, però, l’accusa è tutta da dimostrare. L’unica certezza è che per il governatore della Calabria ottobre è un mese da dimenticare. 4 novembre 2011

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All’ombra di

MALAGROTTA

di Sofia Basso

Mentre a Roma infuria la battaglia sui nuovi siti per i rifiuti della Capitale, l’avvocato che ha fatto aprire un’indagine per omicidio colposo contro la megadiscarica rilancia: «La Thyssen ci ha ricordato che l’accettazione del rischio si paga» left 4 novembre 2011

Malagrotta come la Thyssen? A paragonare la megadiscarica della Capitale alla multinazionale tedesca condannata in primo grado per il rogo dell’acciaieria di Torino è Francesca Romana Fragale, l’avvocato che ha appena fatto aprire l’inchiesta della Procura di Roma sui quattro abitanti dell’area di Malagrotta morti di tumore tra il 2008 e il 2010. Dopo aver presentato un esposto per omicidio colposo e disastro ambientale contro la discarica, il legale di parte civile annuncia a left che intende rincarare la dose: «La Thyssen ci ha ricordato che esiste anche il dolo eventuale, cioè l’accettazione del rischio che l’evento si verifichi. Farò presente agli organi competenti che anche in questo caso potrebbe essere astrattamente configurabile la stessa ipotesi, che è uno scalino superiore rispetto alla mera colpa per negligenza, 31


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Manlio Cerroni, presidente del Colari e monopolista dello smaltimento dei rifiuti in Lazio

Roma, una protesta contro la megadiscarica di Malagrotta

imprudenza e imperizia». Le tragedie, insomma, possono essere impreviste o messe in conto. E se qualcuno è davvero morto per l’invaso più controverso d’Europa, non si può dire che gli allarmi non ci siano stati. Di certo sono state molte le richieste, da Roma e da Bruxelles, perché l’impianto sulla Aurelia si mettesse in regola con le norme ambientali e l’area venisse bonificata. Fino all’ordine perentorio di chiusura. Tante volte annunciato, il pensionamento della discarica viene rimandato di anno in anno dal 2007. L’ultima proroga scade il 31 dicembre, ma il sindaco di Roma già parla di uno slittamento a fine marzo 2012. «Credo che in Procura stiano disponendo un’indagine epidemiologica - spiega il legale che sostiene le famiglie delle vittime - per verificare se sussiste o meno il nesso di causalità tra le emissioni nocive provenienti dalla discarica e gli eventi lesivi».

Se la chiusura dell’impianto non sarà fatta secondo le norme, l’inquinamento continuerà per decenni

I nomi degli indagati di questo ennesimo procedimento a carico della discarica gestita dalla Giovi, società del gruppo Colari di Manlio Cerroni, il monopolista dello smaltimento dei rifiuti in Lazio, sono ancora secretati. L’imprenditore, intanto, smentisce qualsiasi legame tra i suoi impianti e le patologie sviluppate dagli abitanti cresciuti all’ombra del più grande immondezzaio d’Europa. L’indiscusso re dei rifiuti, che ha collezionato procedure di infrazione per-

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ché non trattava la spazzatura prima di interrarla, questa volta ha dalla sua una sentenza del Tar che ha annullato l’ordinanza del Campidoglio che sollecitava una messa in sicurezza dell’area. A far scattare la richiesta del Comune erano stati gli allarmanti risultati di uno studio Ispra, confermato quest’estate dall’Arpa, che rilevava «uno stato di contaminazione diffuso delle acque sotterranee per metalli e inquinanti organici». Accanto ad arsenico, nichel, alluminio, piombo e benzene, con valori superiori ai limiti di legge sino a 200 volte, nei pozzi interni ed esterni dell’invaso era stato trovato anche N-burtilbenzenesolfinammide, una sostanza cancerogena indicata in letteratura «come possibile marker di contaminazione da discarica di rifiuti solidi urbani». Data la presenza di altri impianti potenzialmente inquinanti, secondo il Tar, è difficile quantificare l’eventuale «effetto indotto dalla discarica». A negare quello che nemmeno il Tribunale amministrativo esclude è Cerroni: «Malagrotta è una grande vasca isolata senza collegamento alcuno con l’esterno». Mentre l’imprenditore e le istituzioni litigano sull’interpretazione dei dati, gli abitanti del circondario si ammalano. E alcuni muoiono. Come Gerardo Ferrante, promotore del comitato Pisana 64, ucciso in pochi mesi da una rara forma di tumore al cervello. Fino all’ultimo, con un filo di voce, dava consigli agli amici su come proseguire la battaglia. Due settimane fa, l’avvocato Fragale ha 4 novembre 2011

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presentato alla Procura di Roma 12 nuove cartelle cliniche per ampliare il dossier della class action contro quei 240 ettari di rifiuti per 47 metri d’altezza, l’ottavo colle di Roma, come l’ha soprannominato qualcuno. Quartieri interi, da Massimina a Ponte Galeria, trattengono il respiro quando tira vento, a seconda che soffi il maestrale o la tramontana. «I rifiuti andrebbero coperti con almeno 20 cm di terra - denuncia Salvatore Damante, ricercatore ambientale per i comitati - ma spesso non viene fatto, così l’acido solfidrico si sparge nell’aria, superando i limiti olfattivi anche di 10 volte». L’11 novembre Francesco Rando, amministratore unico della Giovi, dovrà tornare in aula dopo tre condanne penali, per difendersi nuovamente da accuse di malagestione e danni ambientali. Intanto la discarica cresce in altezza, inghiottendo ogni giorno 5mila tonnellate di rifiuti. E alla sua ombra, Cerroni scava. Da settimane le sue ruspe sono al lavoro pochi chilometri più in là, a Monti dell’Ortaccio, allarmando i residenti che temono che il presidente del gruppo Colari stia preparando l’alternativa a Malagrotta ancora una volta sotto le loro finestre. Il timore, insomma, è che Cerroni voglia giocare d’anticipo sulle autorità della Capitale che vorrebbero costruire le nuove discariche a Riano e a Corcolle ma devono fare i conti con l’opposizione dei cittadini che il 5 novembre si sono dati di nuovo appuntamento in piazza. Mister rifiuti scava anche a Testa di Cane, subito dietro l’invaso storico, e c’è chi ipotizza che Cerroni stia preparando la pattumiera per le scorie del suo gassificatore. Perché se la discarica deve chiudere, la centrale avviata tre anni fa per bruciare il combustibile da rifiuti dovrebbe invece espandersi, attivando le seconde e terze linee. «Quando il Colari decise di collocare il gassificatore a ridosso della discarica - racconta Maurizio Melandri, presidente dell’Osservatorio ambientale della Valle Galeria -, il Comune di Roma chiese uno studio di sicurezza integrato per timore dell’effetto domino, perché in questa area ci sono altri cinque impianti a rischio di incidente rilevante». Cerroni è riuscito a fare a meno dello studio e ha costruito la sua centrale con i finanziamenti Cip6, quelli per le energie pulite. Oltre a non funzionare a pieno regime (in questi giorni sarebbe addirittura fermo), il gassificatore

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«non chiude affatto il ciclo perché espelle nell’atmosfera la materia rifiuto e produce nuovi scarti da trattare e da smaltire per migliaia di tonnellate/anno», denuncia un documento dell’Osservatorio. «Durante l’accensione - rincara Damante c’è il rischio che si producano diossine». Tutto attorno, oltre alle zone abitate, ci sono fattorie e pascoli. Così, se l’inquinamento dovesse filtrare nel terreno, nell’aria o nelle falde come sostengono da tempo i comitati, finirebbe immancabilmente sulla tavola degli italiani. Il signore della spazzatura nega tutto e ha tappezzato i cancelli della discarica con nuovi cartelli che pubblicizzano il suo Progetto di ripristino ambientale con l’immagine di una grande area verde. «Nell’arco di 4-5 anni, Malagrotta diventerà un Parco naturale con oltre 340mila piante», scrive Cerroni, che non ha risposto alle richieste di intervista di left ma verga molti comunicati stampa. «Vuol fare concorrenza al Central park - chiosa ironico Sergio Apollonio, instancabile presidente del Comitato Malagrotta -, purtroppo questa discarica inquinerà ancora per decenni». Da qui la richiesta che vengano rispettate le norme per la gestione post operativa trentennale dell’impianto, con «controlli costanti della captazione del biogas e dell’estrazione del percolato», il liquido che si forma con la putrefazione dei rifiuti. «Se non si faranno i lavori - avverte Damante -, il percolato continuerà a uscire, come effetto delle piogge e del cedimento del terreno. Purtroppo bisogna ricordarsi che i metalli pesanti nelle falde danno patologie dopo molti anni». Così, alla vigilia dell’agognata chiusura della megadiscarica, la strada per gli abitanti della zona, stanchi e intontiti dopo trent’anni di battaglie, è ancora in salita. E alle loro preoccupazioni, si aggiungono quelle dei residenti di Riano e di Corcolle, pronti alle barricate contro il progetto di due nuove discariche sul loro territorio. Perché se Roma non può finire come Napoli, loro non vogliono finire come Malagrotta. 33


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I prezzi che aumentano, le battaglie a scuola. Viaggio tra le donne che vanno in pensione più tardi e guadagnano meno degli uomini

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al tempo della crisi

di Chiara Paolin

© sahlgoode/ flickr

La buona notizia arriva già la mattina presto: «In seguito alla manovra correttiva del governo Berlusconi - dice impeccabile la conduttrice delle news antelucane -, tutte le donne italiane andranno in pensione più tardi, oltre i 65 anni, ma guadagneranno meno dei loro mariti o compagni. Questo a causa delle retribuzioni più basse ottenute dalle lavoratrici, compensi mediamente inferiori del 20 per cento a parità di titolo di studio e anzianità, con punte che arrivano però oltre l’80 per cento considerata la prestigiosa posizione professionale conquistata più spesso dagli uomini rispetto alle donne. Le quali, se restano casalinghe, rischiano di soffrire una vera e propria condizione di povertà».

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Ascoltando le - poco sorprendenti - novità, l’italiana media ha già preparato il caffè, redarguito almeno un figlio circa lo stato pietoso dei jeans indossati e chiesto alla figlia di uscire dal bagno più o meno tre volte. Il marito, se c´è, sta facendo la barba, o la prima telefonata urgente. Forse darà uno strappo ai ragazzi verso scuola, ma di certo avrà già in testa il piano della giornata: lavoro, un salto dal commercialista o dall’elettrauto, magari un salutino alla mamma e poi addirittura un calcetto serale, una corsa in palestra, una partita in tivù con gli amici. Pure lei, la moglie, avrebbe in mente una sera4 novembre 2011

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ta al cinema con la collega simpatica o l’amica di scuola che non vede da un anno. Ma di solito finisce sempre che, verso sera, deve rinunciare alla sua ora d’aria: il tempo non basta mai, gli sforzi per rispondere a tutte le richieste sono erculei, i calcoli per far rientrare nel budget quotidiano gli imprevisti rasentano il premio Nobel per la matematica creativa. Basta leggere il contenuto della prima mail cliccata in ufficio togliendo la giacca. È la coordinatrice di classe che striglia i colleghi genitori: «Quest’anno (ma pure l’anno scorso) le maestre hanno chiesto di comprare ai bambini l’eserciziario di italiano e matematica (costo totale euro 13). In regalo la Casa editrice ha fornito l’eserciziario di storia e geografia. Ho provveduto come ogni anno a fare le provviste di scottex, etc. Poi vi sarà l’uscita al frantoio (costo euro 23 circa). In previsione delle spese da sostenere abbiamo deciso di corrispondere un fondo spese in acconto di euro 50 cadauno. Vi prego di non ritardare oltre i contributi». In scadenza c’è anche la rata della pallavolo, e quelle scarpe per la danza classica che costano un occhio della testa. Squilla il telefono, parte la giostra del lavoro (tutti arrabbiati, tutti in cerca della gratificazione che non arriva mai), e senza quasi respirare si trotta fino al tardo pomeriggio. O più tardi, perché all’orario di lavoro ordinario, le canoniche otto ore ormai diventate per tutti almeno dieci (includendo spostamenti ed extra vari), la donna italica somma una quantità record di impegni familiari. Tutte le ricerche nazionali ed europee confermano: ogni signora perbene, oltre a svolgere la sua professione, deve tenere in ordine la casa, fare la spesa, passare dal dottore per le ricette, pensare alla cena e a quella camicia da stirare prima di andare a letto. Quadretto fantozziano o realistico ritratto delle donne italiane d’oggi? Il sito www.ingenere.it della Fondazione Brodolini riflette efficacemente sul tema tentando un raffronto con altre realtà europee. Per esempio: visto che le manovre degli ultimi anni tendono a punire l’impiego pubblico (luogo privilegiato di occupazione femminile) tagliando sul sociale (leggi nido, asili e assistenza agli anziani), non sarà che alla fine anche questa benedetta crisi globale resterà appiccicata sul-

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le spalle delle donne? Roberta Carlini, direttrice in ingenere.it, pensa di sì: «Il caso dell’Irlanda, che ha preceduto tutti nell’adozione di misure draconiane (aumento delle imposte, tagli fino al 20 per cento dei salari dei lavoratori pubblici, inclusa sanità e scuola) è agghiacciante: a due anni di distanza, queste politiche non hanno impedito la caduta del Pil del 7,1 per cento e l’aumento della disoccupazione al 13 per cento». Un tracollo che ha inciso pesantemente sulle opportunità di riequilibrio in un Paese assai cattolico e tradizionalista, proprio come l´Italia.

A Milano consiglieri-madri in rivolta A Milano la settimana scorsa i consiglieri comunali del Pd Marilisa D’Amico e Marianna De Censi, sette figli in tutto, hanno formalizzato una proposta molto particolare alla commissione Affari istituzionali di palazzo Marino. La D’Amico, mamma tre volte e presidente della commissione, ha annunciato una proposta di modifica del Regolamento di organizzazione del consiglio comunale: si richiede che nella norma riguardante la programmazione dei lavori d’aula si tenga conto delle «esigenze di conciliazione dei tempi» fra politica e famiglia nel fissare sedute e orari. Inoltre, si chiede di prevedere un termine di chiusura massimo delle sedute, per quelle che si protraggono alla sera o di notte, così da evitare sforamenti dannosi per chi ha famiglia. Il collega consigliere Pdl Marco Osnato si è detto d’accordo sulla proposta, ma ha aggiunto però che sarà difficile attuarla, «quando si parla di ostruzionismo e di migliaia di emendamenti» che richiedono giorni e notti in aula.

«Crisi o non crisi, le donne hanno sempre dovuto rimboccarsi le maniche tra impegni di lavoro, cuore di mamma e slancio sociale. Certo la recessione non ha aiutato, ma le armi per uscirne a testa alta ci sono, basta conoscerle». Così tentano di reagire le autrici di Donne sull’orlo della crisi economica (Rizzoli), Monica D’Ascenzo e Giada Vercelli: le italiane devono farsi finalmente rispettare, a casa e fuori. «Il primo passo è imparare a non delegare ad altri le proprie scelte nel lavoro, nella gestione del budget familiare e degli investimenti» suggeriscono le esperte. Ma chi glielo va a dire al capo che quegli apprezzamenti sul look non sono piacevoli se poi si passa immediatamente per isteriche iperfemministe (mentre ai colleghi che strizzano l’occhio capita stranamente di far carriera più in fretta)? Non c’è tempo per meditare sulla soluzione, domani sarà un altro giorno di ordinario delirio, e intanto bisogna infilare nel forno le polpette congelate nel weekend (metà pane metà carne, che si risparmia e sono più leggere) inventandosi una scusa buona per rinviare al 27 lo shopping con la figlia, per quelle famose scarpette. Rosa, morbide, flessuose, nonostante tutto.

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Croce rotta

di Debora Aru e Alberto Puliafito

La Croce rossa italiana va verso la privatizzazione. E si occuperà dei Cie. Con tanti saluti al principio di “Umanità” che la Cri giura di rispettare.

I centri di identificazione ed espulsione per migranti “clandestini”, voluti dal ministro Maroni, sono le strutture italiane più criticate a livello internazionale (dall’European migration network e da Amnesty international, per esempio) per la loro palese mancanza di rispetto dei diritti umani. Nonostante ciò, nella bozza di decreto legislativo di riordino della Cri, ancora senza nume36

ro, che abbiamo avuto modo di leggere in anteprima, si aggiunge ai compiti dell’ente quello di «gestire centri per l’identificazione e l’espulsione di immigrati stranieri e centri per l’accoglienza dei richiedenti asilo». E, come si cercò di fare con la Protezione civile, si tenta di nuovo di privatizzare un ente preposto ad “aiutare” e “fare del bene”. Il parallelismo non è casuale: le modalità della privatizzazione sono molto simili a quanto stava accadendo al Dipartimento allora diretto da Guido Bertolaso, che alla fine del 2009 stava per diventare una Spa. Negli ultimi 30 anni, la Cri ha avuto più commissari straordinari che presidenti eletti. Attualmente il commissario è Francesco Rocca, uomo vicino a Gianni Letta e alla destra di Gianni Alemanno. «Al suo fianco», lo ammette lui stesso, lavora anche «un ex terrorista dei Nar», Paolo Pizzonia. Il commissario dovrebbe riorganizzare l’ente e 4 novembre 2011

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© CAROTENUTO/ imagoeconomica

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Sul sito left.it il documento riservato sulla privatizzazione della Croce Rossa left.it

risanare il bilancio, gravemente in rosso. Nessuno dei due compiti è stato portato a termine ma questo non ha impedito la proroga dell’incarico.

La privatizzazione e gli appalti Dopo che la privatizzazione era già stata paventata e poi ritirata nella scorsa finanziaria, ora ricompare nel silenzio più profondo. L’ultima bozza datata 27 ottobre 2011, prevede che il Comitato centrale e quelli regionali della Cri rimangano pubblici, mentre comitati locali e provinciali diverrebbero enti di diritto privato. Con la possibilità di mantenere o stipulare convenzioni con enti pubblici. Così si ottiene il doppio risultato di mantenere il controllo statale, e la garanzia di finanziamenti provenienti da ben quattro ministeri per il Comitato centrale (parliamo di 160-180 milioni di euro all’anno). Mentre le strutture locali potranno accedere al 5 per 1000. In pratica spesa pubblica e guadagni privati. Inoltre, da Roma, l’ente potrà avvalersi dei “servigi” dei comitati locali “privatizzati” per lo svolgimento dei compiti previsti e per convenzioni varie. Come dire che ci sarà una struttura centrale che agirà da general contractor e che le strutture locali diventeranno soggetti attuatori. La conseguenza? Molti appalti, magari senza gara. Vestiario e vitto per quelli che nei Cie vengono chiamati «ospiti» e che, invece, sono a tutti gli effetti dei reclusi. Ma anche appalti edili. Non è solo un’ipotesi. Un anno fa, due consiglieri comunali di Torino (Marco Grimaldi e Maria Teresa Silvestrini), dopo una visita al Cie di corso Brunelleschi scrivevano in una nota: «Il modello di gestione affidato alla Croce rossa militare, vincitrice di una gara anche per il raddoppio del centro (da 90 a 180 posti) che sarà operativo da settembre (3 milioni di euro in 3 anni), appare quello tipico della “multiutility Spa”, la quale gestisce tutti i servizi, dall’accoglienza e refezione all’assistenza legale, sanitaria, psicologica». Il tutto senza alcun rispetto per i principi di «indipendenza» e «neutralità» propri della Croce rossa, visto che i Cie sono strutture governative.

Guerra e propaganda Scorrendo la bozza del decreto si trovano, fra i nuovi compiti di Croce rossa, anche l’«advoca-

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cy» e la «diplomazia umanitaria». Sulla prima c’è poco da dire: letteralmente, significa «pubblicità di sostegno». È una forma di pubblicità no profit per promuovere consenso su determinate tematiche, una specie di attività lobbying. Da svolgere principalmente in teatri di guerra o crisi internazionali. Quanto alla «diplomazia umanitaria», qualcuno forse ricorderà il ruolo ambiguo di Maurizio Scelli, allora commissario straordinario di Croce rossa e oggi deputato del Pdl, dopo un tentativo andato a monte di organizzare la gioventù berlusconiana. In Iraq, con grande disappunto dei nostri servizi segreti, Scelli tentò di mediare con i rapitori di Enzo Baldoni, Giuliana Sgrena, Simona Pari e Simona Torretta. È questa la tipologia di missioni umanitarie che la Cri vuole gestire? Dietro i fini umanitari, sembra nascondersi l’obiettivo di sostenere il Governo nelle missioni di “ricostruzione”. Forse già in Libia, dove gli interessi dell’Eni sono cosa nota. L’ipotesi non è affatto remota: in Iraq, l’intervento della Cri era stigmatizzato anche dalla Croce rossa internazionale centrale di Ginevra poiché si accompagnava alle forze armate («le attuali attività della vostra società nazionale in Iraq danneggiano la credibilità del Movimento», scrivevano da Ginevra) e dall’Organizzazione mondiale della sanità, che non condivideva l’idea di Scelli di costruire nuovi ospedali in Iraq invece di supportare le strutture preesistenti. E anche lì il Governo italiano aveva ed ha tutt’ora interessi non solo nella ricostruzione ma anche, ovviamente, nel ramo petrolifero.

Mai sentiti i sindacati Tornando in casa nostra, ci sono altre due questioni contenute nella bozza di decreto di riordino che appaiono particolarmente importanti. La prima riguarda i dipendenti (2.365 in tutta Italia) ed ha scatenato la dura reazione dei sindacati. Tutte le sigle sindacali, unite, hanno organizzato una mobilitazione e rilevato le criticità della bozza. Con la privatizzazione dei comitati provinciali e locali i dipendenti a tempo indeterminato passerebbero ad un contratto privato oppure ad altre amministrazioni. «Con il rischio però, in caso di mancato ricollocamento, di finire dritti nelle liste di mobilità». E i pre37


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Immobiliare Croce rossa Poi c’è il nodo, mai risolto, del patrimonio immobiliare della Cri. Immenso, stimabile in almeno un migliaio di proprietà e mai inventariato (l’inventario dovrebbe essere redatto entro 180 giorni dall’approvazione del decreto, come scritto nella bozza). Inoltre, il comma 1 dell’articolo 5 dice che «il patrimonio immobiliare della Cri è destinato «al perseguimento dei fini statutari [...] anche mediante utilizzo in comodato d’uso gratuito da parte dei Comitati locali e provinciali affiliati». Come dire che la Cri pubblica, trasformandosi in una specie di gigantesca agenzia immobiliare, cede alla Cri privatizzata - cui spettano solo «oneri indiretti e costi di manutenzione» - immobili che sono patrimonio pubblico. Con molti vantaggi per i comitati locali, senza dubbio. Pensiamo a un bando di gara: la Cri che ha ricevuto in comodato la sua sede, per esempio, ha un vantaggio rispetto alle croci private che devono sopportare costi di gestione più alti, quindi non possono competere. Ma non basta: come da tradizione di tutti gli organismi che hanno a che vedere con i governi Berlusconi, il patrimonio immobiliare diventa anche risorsa da dismettere per risanare le casse. Lo prevede il comma 2 dell’art. 5 della bozza. Come verranno venduti questi immobili? A chi e a che prezzo? E lo spirito 38

di chi li ha donati alla Croce rossa perché li utilizzasse per i suoi scopi associativi - non certo per risanare un debito - non verrà forse tradito?

Il lato oscuro della virtù “Non si spara sulla Croce rossa”. È un modo di dire che nasconde qualcosa di più: un modo di dire che rende molto complicato qualsiasi tentativo di critica nei confronti dell’ente benefico più famoso del mondo. Un ente che vuole mantenere il suo volto buono ma lava i panni sporchi a casa sua. Al punto che nel nuovo Codice etico si legge: «È vietato all’appartenente alla Cri il rilascio di interviste a soggetti terzi». Le poche voci di dissenso vengono isolate: è il caso, per esempio, dei tre “testimoni” di una recente inchiesta di Report sull’ente, il Maresciallo Vincenzo Lo Zito che da anni combatte la sua battaglia contro quella che ri- Il commissario della Cri Francesco Rocca con Gianni Letta tiene una mala gestione del Comitato regionale Abruzzo, presieduto da Maria Teresa Letta (sorella di Gianni); Anna Montanile che ha sollevato legittimi dubbi sul patrimonio immobiliare che avrebbe dovuto inventariare; Daniele Tosoni, volontario di Cri sospeso dal servizio per aver osato criticare l’operato dell’ente. Tutti e tre hanno subito provvedimenti disciplinari. Tutto, all’esterno, deve apparire perfetto e sotto controllo da parte del commissario Rocca. Che la bozza di decreto lascia al suo posto per un altro anno. Eppure, anche nella Croce rossa italiana è ben presente il lato oscuro della virtù.

I comitati della Cri diventano privati. Potranno partecipare ad appalti e vendere i propri immobili

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cari? Secondo i sindacati dal riordino deriverebbe «il sostanziale licenziamento di tutti i lavoratori precari alla scadenza del loro contratto di lavoro». Quella bozza, ci raccontano i sindacati, è stata scritta senza che loro potessero intervenire, nonostante contenga la premessa: «Sentite le organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative». Solo dopo l’uscita delle prima indiscrezioni, il 20 ottobre, il commissario Rocca indice un incontro proprio nel giorno dell’alluvione che ha paralizzato Roma. I rappresentanti sindacali, con un telegramma, chiedono il rinvio. Ma tutto si svolge come programmato. La bozza viene redatta e i sindacati diffidano, attraverso un avvocato, il commissario Rocca per aver fatto tutto senza consultarli.

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la scuola che non c’è società

Dalle strutture per l’infanzia emiliane al liceo classico, continua l’attacco allo studio

L’Italia chiede asilo

di Giuseppe Benedetti

Perché all’estero non dovrebbero ridere di noi, quando possono constatare, tra le altre cose, che investiamo largamente in parole su meritocrazia ed eccellenza, ma poi, nella realtà dei fatti, non riusciamo neanche a custodire i nostri gioielli? Poche settimane fa a Reggio Emilia è stato avviato un azionariato popolare per salvare gli asili nati negli anni settanta sul progetto del pedagogista Loris Malaguzzi, quelle strutture formative destinate ai più piccoli che sono state studiate e imitate dappertutto e che nel 1991 Newsweek collocò tra le scuole più belle del mondo. Si tratta di un’ottantina di scuole frequentate da circa 7mila bambini. La drastica riduzione di fondi per la scuola ha falcidiato anche queste strutture d’eccellenza. Solo per le spese di manutenzione in 4 anni si è passati da 800mila a 130mila euro. Reggio Emilia ha anticipato gli obiettivi di Lisbona 2000 per quel che riguarda la scolarizzazione dei più piccoli: è la città italiana con la più alta percentuale di bambini tra 0 e 6 anni che frequentano un’istituzione scolastica (e nella fascia fra 0 e 3 anni il dato di Reggio è più del doppio della media nazionale). In questi asili, se sopravviveranno ai tagli, i bambini hanno a disposizione spazi ampi e pieni di luce. Qui trovano, oltre alle maestre, l’“atelierista”, con cui fanno esperienze artistiche, scoprendo materiali e giocando con strutture interattive. Nelle mense i bambini partecipano alla preparazione dei pasti, provando i diversi sapori. E nel mentre ci si riempie la bocca di valorizzazione del merito e delle buone pratiche, se non si procaccerà risorse alternative, la rete degli asili di Reggio sarà costretta a dimezzare il servizio. Ma questo è uno strano Paese, anche perché succede che chi per professione si occupa dei sistemi di istruzione svaluta la formazione liceale, accusandola di essere eccessivamente teorica e non in sintonia con il nostro

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Gli economisti concordi: occorre più qualità nella formazione tempo, dominato dall’economia, mentre gli economisti sostengono l’importanza di una formazione di qualità, che ancora è garantita proprio dal percorso liceale. Per esempio, Ignazio Visco, neogovernatore della Banca d’Italia, ha dichiarato che l’economia italiana perde quota nel mondo perché i giovani sono poco istruiti e che un anno di studio in più per ciascuno potrebbe aumentare del 5 per cento il prodotto pro-capite. E il neopresidente della Bce Mario Draghi, nei giorni della protesta dei giovani “indignati”, ha ricordato che il grado d’istruzione della forza lavoro e in particolare dei giovani è un fattore fondamentale di crescita in un’economia basata sulla conoscenza. Invece accade che anche su un percorso di qualità, come quello liceale, si abbattano le conseguenze di politiche miopi e antitetiche alla valorizzazione del merito e dell’eccellenza. A parte i tagli che hanno colpi-

to indiscriminatamente tutti i percorsi di istruzione secondaria, nello specifico del liceo classico, con una nota ministeriale di qualche mese fa sul riordino dell’assegnazione degli insegnamenti in base ai titoli conseguiti, si è nei fatti indebolita la figura di riferimento del docente di lingue classiche, destinato, se le regole non cambieranno, ad insegnare solo lingua e letteratura greca. Infatti sarà travolto dall’esercito dei colleghi rimasti senza cattedra a causa dei tagli all’orario che gli toglieranno gli insegnamenti delle altre materie letterarie. Questo è un Paese davvero strano, anche perché per un malinteso principio egualitario si tende a deprimere ciò che funziona piuttosto che migliorare i settori che non rispondono alle attese. Così le constatazioni di fatto, come ad esempio il semplice riscontro che i licei forniscono una preparazione culturale di qualità mentre gli istituti professionali, in alcune aree del Paese, sono in difficoltà, sollevano polveroni sotto forma di dispute ideologiche, queste sì teoriche e non in sintonia con i tempi. joeben61@libero.it 39


calcio mancino

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Uno dei più carismatici allenatori del dopoguerra. Dai molti lati oscuri

Le ombre di Bela Guttmann

di Emanuele Santi

Quando, nel ’58, sbarcò ad Oporto, parlava il portoghese troppo bene per averlo imparato soltanto l’anno prima a San Paolo dove era rimasto per non rientrare con la sua Honved nell’Ungheria del dopo Imre Nagy. Per questo motivo qualcuno ritiene che si fosse rifugiato in Brasile già durante l’occupazione nazista mentre altri lo volevano nascosto tra Parigi e la Svizzera. Egli stesso non ha mai chiarito il dubbio dicendo di essere scampato alla deportazione «grazie a Dio», lo stesso dio che non era riuscito a salvare suo fratello. Bela Guttmann nasce a Budapest nel 1899 da mamma Eszter e papà Abraham, entrambi ballerini del Teatro dell’Opera. A sedici anni è già istruttore di danza classica ma, col benestare del rabbino, preferisce dedicarsi al calcio, sempre più popolare nei caffè e nei salotti borghesi dell’Impero austro-ungarico. Dopo la gavetta nel Torekves passa al Mtk, club dell’aristocrazia e della ricca comunità ebraica. Vince tre titoli nazionali e si sposta a Vienna nell’Hakoah, polisportiva di soli atleti ebrei la cui sezione di calcio vantava tra i tifosi un certo Franz Kafka da Praga. Con la squadra dai colori sionisti, bianco e celeste, il centromediano ungherese arriva secondo nel ’22 e vince il campionato austriaco nel ’25. L’anno seguente, naviga fino a New York dove il football era uno sport completamente diverso e il soccer non garantiva 40

lo stesso tenore di vita. Per arrotondare, apre una scuola di danza per i lavoratori del porto, gli stessi insospettabili che venticinque anni dopo ispireranno ad Elia Kazan un celebre film con Marlon Brando. Il crollo di Wall street del ’29 costa a Guttmann parecchi dollari investiti in Borsa e lo costringe a tornare presto all’Hakoah. Grazie ad Hugo Meisl, allenatore della Nazionale austriaca e vecchio amico del padre, inizia la carriera di allenatore ad Enschede in Olanda con ottimi risultati. Dopo il rientro a Vienna per allenare proprio l’Hakoah, viene sorpreso nel ’38 dall’annessione al Reich che significa scioglimento del club e pronta fuga verso Budapest dove guida l’Ujpest Dozsa a vincere campionato e coppa Mitropa. Nel ’45, riappare misteriosamente vivo in Romania sulla panchina del Ciocanul, l’antico Maccabi di Bucarest. Torna in Ungheria, va a Padova e poi a Trieste. Nel ’52, allena la Nazionale magiara, poi vola a Cipro, due anni a Milano, uno a Vicenza e uno alla Honved. Terribile la sua sfuriata quando viene esonerato dal Milan: «Non sono né un criminale, né un omosessuale». In Brasile importa il modulo 4-2-4 e in Portogallo ottiene i trionfi migliori. Con il Benfica vince campionato e due Coppe dei Campioni consecutive: nel ’61 contro il Barcellona e, nel ’62, contro il Real Madrid. Nel ’63, la società di Lisbona non gli rinno-

L’allenatore ungherese Bela Guttmann

Ha guidato il Benfica sul tetto d’Europa contro il Real Madrid va il contratto e lui esclama: «Per cento anni non sarete più campioni d’Europa», famosa maledizione confermata da cinque finali perse fino ad oggi. Bela Guttmann è stato il prototipo del sergente di ferro. Elegante, severo, esaltato, ipnotizzatore e camaleontico, con le sue assurde fissazioni e manie. Su tutte l’angoscia del sesso. Era fortemente convinto che i calciatori dovessero astenersi da rapporti sessuali nei giorni precedenti la partita. Per sua stessa ammissione tutto ciò gli causava vere e proprie ossessioni e incubi notturni. E pensare che durante il periodo viennese, dal ’21 al ’26, si era anche laureato in psicologia. e.santi@libero.it 4 novembre 2011

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il volto 42Cile, della rivolta

zampe 44Eni, legate

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48 Inferno d’argilla left   29 luglio /4 agosto 2011

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il volto della

rivolta

di Angelo D’Addesio

© Candia/ ap/lapresse

Era il 13 maggio quando la stagione dell’indignazione nasceva in Cile, il Paese del miracolo economico e dei Chicago Boys. A guidarla Camila Vallejo Dowling, 23enne leader degli studenti cileni. Che chiedono istruzione gratuita, pubblica e di qualità

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Camila, come è nata la protesta degli studenti cileni, e come si è trasformata in un partecipato movimento sociale unitario? Bisogna distinguere vari livelli di mobilitazione e di organizzazione dei movimenti sociali, per avere un chiaro panorama della portata politica che oggi ha e che in un futuro potrà avere il movimento studentesco. La nostra priorità è una riforma strutturale del sistema educativo cileno e quindi il recupero dell’educazione pubblica, la sua qualità, l’accesso ugualitario, la gratuità, la fine delle logiche di lucro. A queste richieste presentate al governo si è associata la gran parte della popolazione, marciando o organizzandosi con noi come un attore in più in questa lotta. In questo senso potremmo dire che c’è un grande blocco sociale che appoggia il movimento e che lo allarga al di là degli studenti. Questo è un aspetto molto positivo. Quali sono i punti in comune con i movimenti sociali e politici mondiali come gli indignados europei o americani? Il nostro movimento è anche il riflesso di inquietudini politiche presenti per molti anni nelle vite dei cileni, ma che per paura o per rassegnazione non sono state esternate in modo forte come ora. Questo malessere è legato all’esistenza di una élite politica che lavora costantemente alle spalle della gente, non risponde alle sue necessità, crea falsi consensi per approvare leggi che favoriscono solo pochi. Inoltre mantiene intatto l’attuale establishment politico del Paese, ristretto e poco partecipativo. Pertanto abbiamo avanzato le proposte come lo svolgimento di plebisciti popolari su questioni di rilevanza nazionale o, più drasticamente, la formazione di un’Assemblea costituente che crei una nuova Carta fondamentale per il Cile, più democratica e inclusiva. Ma queste sono parole d’ordine che vanno oltre il movimento studentesco e rappresentano l’anticamera di un movimento cittadino molto più ampio, che 4 novembre 2011

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speriamo possa saldarsi in tempi veloci, perché il nostro Paese deve superare serie lacune democratiche. Cosa manca alla scuola cilena per essere in linea con quelle mondiali? Ci sono molte cose del sistema educativo cileno da modificare totalmente. In primo luogo deve essere sradicato dalla legislazione il principio dell’educazione come servizio o bene di consumo individuale: vogliamo che sia considerata come diritto umano e mezzo di sviluppo sociale. Bisogna eliminare la logica del profitto nell’istruzione che crea incentivi perversi. Esigiamo che lo Stato assicuri un sistema di educazione pubblica, gratuita e di qualità in tutti i livelli, finanziando direttamente le istituzioni educative e non solo attraverso contributi e borse di studio. Favorendo così la riduzione delle tasse e evitando l’indebitamento di studenti e famiglie. Qual è la differenza fra questo e i precedenti governi nelle relazioni con il mondo della scuola? Durante i governi della Concertaciòn di centro-sinistra, che pure hanno perseguito il modello neoliberale ideato dalla dittatura, sono stati fatti alcuni passi in avanti come l’aumento della copertura del sistema pre scolare, il divieto di discriminazione di studentesse madri o incinte e l’implementazione di piani sociali a beneficio dei più poveri. Ma non c’è stato alcun cambiamento strutturale del sistema politico ed educativo. Ora con il governo di Piñera la situazione è più tesa. Prima ci ha offerto un tavolo di dialogo, promettendo di non dettare condizioni, ma subito dopo ci ha imposto di iniziare le attività accademiche del secondo semestre. Noi, pur con molte riserve, abbiamo tenuto due riunioni col governo. Nell’ultima, poiché il governo ha ripresentato la stessa proposta di inizio anno, abbiamo deciso di ritirarci e proseguire la nostra mobilitazione. Come giudica il livello di preparazione delle scuole e delle università cilene rispetto al mercato del lavoro? Oggi esiste una profonda disuguaglianza poiché gli studenti vengono valutati secondo la loro università di provenienza. Molte università

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private hanno il solo obiettivo di ottenere profitti attraverso l’educazione più che consegnare ai propri studenti un processo formativo di qualità, e lo Stato non interviene. D’altra parte, c’è una totale deregolamentazione dell’apertura di corsi e quote: in quasi la metà dei casi, i laureati non lavorano nel settore per cui hanno studiato. A giudizio di molti, questi sono dati sufficienti a giustificare un’urgente riforma del sistema educativo cileno. È diventata un personaggio rilevante a livello internazionale. Cosa vede nel suo futuro professionale e politico? Molte volte mi descrivono come un simbolo della nostra lotta, ma è una semplificazione dei mass-media per “personificare” il movimento. In realtà ciascuno ha un suo ruolo e a me è toccato quello di essere la portavoce delle proposte presentate dalla maggioranza della società cilena. In questa stessa linea, come militante del Partito comunista e come parte di questo movimento sociale, sono disposta a svolgere ogni ruolo necessario per avviare un nuovo progetto politico e sociale opposto a questo sfrenato modello neoliberale. Ma è qualcosa che verrà dopo aver raggiunto gli obiettivi dell’attuale mobilitazione. Ora mi interessa soltanto la mia formazione professionale. E alle giovani generazioni, in questa situazione di crisi globale e sfiducia per la politica, che messaggio volete lanciare? Abbiamo un punto di incontro comune, il modello economico neoliberale che ha generato ovunque crisi simili. Viviamo in realtà molto differenti ma ci scontriamo con problemi strutturali uguali. Di fronte a tutto ciò, è necessario organizzare nuove alternative politiche. Magari non avranno nell’immediato risultati positivi, ma sono un primo passo indispensabile per avviare un nuovo modello che capovolga questa situazione di disuguaglianza che ci angoscia.

I governi di centrosinistra hanno fatto alcune riforme, ma senza toccare i problemi strutturali della scuola

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Impianto di Gazprom in Siberia

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di Cecilia Tosi

L’Italia è una macchina a gas e Berlusconi vuole guidarla per forza. Che Bruxelles non gradisca l’ostinazione del Cavaliere è scontato. Che anche Mosca sbuffi, meno. 44

Stiamo parlando del settore industriale, dove l’Eni si conferma prima azienda italiana per fatturato e utili, proprio mentre si affanna a recuperare posizioni in Libia in uno sforzo congiunto con Palazzo Chigi. Gas e petrolio, è ovvio, sono in cima all’agenda di ogni governo, ma non tutti gli Stati gestiscono il settore dell’energia nello stesso modo. C’è chi opta per il controllo diretto e totale, come fa il Cremlino con Gazprom (gas) e Rosneft (petrolio); e c’è chi si affida completamente al mercato, come fa la Casa Bianca. Poi c’è l’Italia, dove alla regola si è sempre sostituita la prassi e l’Eni - pur essendo controllata dal ministero del Tesoro - non ha mai rinunciato a una sua personalissima politica estera. Almeno fino ad ora. C’era un tempo in cui il cane a sei zampe si spingeva lontano senza padroni e Enrico Mattei istituiva una Direzione esteri per non obbligare i suoi rappresentanti a transitare per le ambasciate. Oggi, invece, il governo italiano non molla la sua compagnie preferita neanche un secondo. Basti guardare cosa succede in Libia: dal 23 settembre il cacciatorpediniere San Marco è stato impegnato nella riattivazione dei pozzi di petrolio e gas che alimentano il gasdotto Eni Greenstream, con l’aiuto di elicotteri della marina e tiratori scelti. A strutture ripristinate, il San Marco è servito al trasporto dei tecnici della compagnia petrolifera. Un mese prima, l’amministratore delegato Scaroni era andato a trovare il presidente della compagnia petrolifera libica Nuri Ben Ruwin offrendo al Consiglio transitorio (Cnt) aiuti umanitari e materiale medico. Contemporaneamente, Frattini lo autorizzava a fornire 150 milioni di euro di petrolio raf4 novembre 2011

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finato al Cnt. Oggi Farnesina e Eni sono unite dal comune interesse a ripristinare gli approvvigionamenti energetici, ma stanno dalla stessa parte anche in una battaglia politica, quella tra Francia e Italia. Due Paesi ansiosi di guadagnare il primo posto nel cuore libico, tanto da offrire la propria disponibilità a partecipare a una missione di peace keeping che prenda il posto di quella della Nato. Mandare i soldati in un nuovo teatro non è proprio il miglior modo di affrontare la crisi economica, ma Berlusconi è così, preferisce andare sul terreno, pur di mettere una buona parola con i padroni del carburante. E vuole diventare protagonista in Libia così come in Russia, dove si reca spesso e volentieri. E anche se ad attrarlo a San Pietroburgo è il compleanno del suo amico Putin che spegne le candeline, il premier garantisce alle agenzie di stampa che tagliare la torta è solo un’occasione per parlare di gasdotti. Peccato che bisbocciare insieme ai potenti non sia sempre la soluzione a tutti i problemi.

poco utili. Lo sanno bene gli ingegneri del gasdotto che dovremmo costruire con l’Algeria (Galsi), in attesa di mettersi a lavoro da tempo immemore. Di promesse, nel mondo dell’energia, se ne fanno tante. Soprattutto se si tiene al proprio partner, come Gazprom tiene all’Eni. Le due compagnie hanno celebrato la propria unione nel 2007, quando gli italiani si sono aggiudicati ricchi giacimenti in Siberia grazie al fatto che Gazprom non poteva acquisire le azioni della Yukos di Khodorkhovsky senza incorrere nelle sanzioni degli Stati Uniti. L’amico più fidato per custodire quegli asset era l’Eni, che in cambio di questo legame indissolubi-

«Negli ultimi tempi si avverte una tensione tra Gazprom e Eni», ci racconta una fonte anonima. «Pare che Alexey Miller, amministratore delegato del gigante russo, non consideri la compagnia italiana affidabile come un tempo». E perchè mai? Eni e Gazprom hanno deciso di essere “strategic partner” fino al 2012, una relazione speciale confermata dalla recente decisione dei russi di dare il via ai lavori di South stream, il gasdotto che dovrebbe portare il petrolio del Caspio direttamente nei Balcani e poi in Italia. Un progetto bello da vedere sul powerpoint, ma che resta in sospeso da anni. Il guaio è, secondo gli analisti del settore, che l’Europa in preda alla crisi non registra aumenti nel consumo di gas e nuovi corridoi sono

le ha portato la sua dote: l’ingresso del gas russo direttamente nel territorio italiano. Da quel momento le società italiane, come le municipalizzate di Milano e Brescia, hanno potuto comprare le partite di gas direttamente dal produttore, mentre l’advisor per i contratti con le italiane è diventato Intesa San Paolo, un gruppo che gode della benedizione di Romano Prodi. Il centrosinistra, però, cade dopo un anno e nel 2008 arriva Berlusconi e ricominciano i viaggi a Mosca. Il neopremier vuole occuparsi direttamente di politica energetica, ma i debiti di Eni con Gazprom sembrano salire, invece che scendere. Nel 2011 la lista delle cessioni della compagnia italiana a quella russa comprende il 50 per cento di Elephant, l’enorme giacimento petrolifero situato nei mari della Libia, e forse Promgas, la joint venture di intermediazione che ha un solo cliente, Edison, e che secondo Reuters passerà completamente nelle mani della compagnia russa tra breve. Eni ha anche concesso a francesi e tedeschi di entrare in South stream, vendendo parte delle sue azioni e Edf e Wintershell, mentre Gazprom guardava dall’alto del suo 50 per cento.

La compagnia petrolifera ha sempre goduto di grande autonomia. Adesso il suo legame con la politica è più forte. Ma i partner russi potrebbero non gradire

Ma il gigante russo non sembra mai contento. Gazprom sente di non essere stata del tutto ripagata per i giacimenti in Siberia. Alle promesse non hanno ancora fatto seguito i fatti e ha paura che Eni meni il can per l’aia. Ai russi non è piaciuto come la compagnia di Scaroni abbia cercato di sca© Nikolsky/ ap/lapresse

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La prima azienda italiana continua a crescere: ha appena trovato un enorme giacimento in Mozambico

valcarli affidandosi alla politica per rinegoziare i prezzi. In Italia non c’era mai stato un legame tanto stretto tra governo e azienda, che oggi celebrano incontri periodici alla Farnesina, un’abitudine che sarebbe stata impensabile fino a qualche anno fa.

Ma Berlusconi non può rinunciare alle sue trasferte a Mosca. Le sue manifestazioni d’affetto verso l’amico del Cremlino vengono spesso prese in giro, senza coglierne le serissime conseguenze. Appoggiare un leader che limita la libertà della sua popolazione - Gheddafi docet - non sempre porta buoni frutti. Se Putin resta al potere è perché gode di sostegno, sì, ma anche perché buona parte dei russi a votare non ci va nemmeno, convinta com’è che il risultato sia già scritto, magari con un aiutino da parte degli scrutatori elettorali. La corruzione e le attività illecite, in Russia, sono diventato l’unico mezzo di sostentamento per la maggior parte dei lavoratori, che certo non possono campare soltanto con uno stipendio medio di 250 euro al mese.

Prima, infatti, il settore dell’energia godeva di una certa autonomia, grazie alla scarsa incisività dell’industria petrolifera sull’occupazione: basti pensare che 79mila dipendenti - di cui solo una parte minoritaria è impiegata nella ricerca e produzione petrolifera - sono sufficienti all’Eni per un utile da 6.318 miliardi di euro, mentre un’azienda come la Fiat ne impiega 137mila per un utile da 179 milioni. Oggi, invece, la politica sembra preferire un allineamento perfetto tra gli interessi della compagnia energetica e quelli dell’esecutivo, un atteggiamento da sempre inviso ai mercati. Un’azienda che cambia strategia a seconda dei governi, infatti, significa instabilità, una parola che in Russia - dove Putin resterà al potere fino al 2024 - non è ammessa.

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L’amministratore delegato di Eni Paolo Scaroni

E se gli idrocarburi sono la fonte di un potere che non può permettersi incrinature, è meglio che chi li gestisce possa andare sul sicuro. Quando si tratta di profitto, non c’è legame di amicizia che tenga. E se, ad esempio, la Francia dovesse guadagnare fette di mercato in Libia, Mosca e Parigi potrebbero anche stringere i loro rapporti, specie ora che i transalpini hanno il controllo di Edison, potenziale cliente privilegiata dei russi. E perché lasciar fuori britannici e americani? Rosneft, il gigante petrolifero russo che affianca Gazprom, ha trattato per la cessione dei ricchissimi giacimenti dell’Artico con Bp e poi ha deciso di firmare con Exxon. Eni, invece, non è stata invitata, e l’esclusione potrebbe scottare molto a chi si considera un alleato privilegiato di Mosca. Ma gli italiani non si scompongono. La compagnia che fu di Mattei ha appena scoperto il più grande giacimento della sua storia in Mozambico e ha avuto una certa fortuna anche in Iraq. I profitti salgono e i dirigenti si fregano le mani, anche se devono difendersi dalle proteste dei lavoratori in Italia e all’estero: in Tunisia gli abitanti di un intero villaggio hanno occupato il cantiere di Tazarka per protestare contro i danni ambientali procurati dall’impianto italiano, mentre a Venezia solo due settimane fa trecento lavoratori hanno mandato in tilt il traffico cittadino chiedendo all’azienda di ritirare la previsione di chiusura definitiva della raffineria. L’Eni, però, sfoggia un evidente ottimismo: la pazienza dei popoli si sarà pure esaurita, i giacimenti petroliferi no. 4 novembre 2011

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L’appetito francese

di Paola Mirenda

Di italiano resterà giusto il cognome di origine del suo nuovo patron, Henri Proglio, presidente di Edf, Electricité de France. Edison - la società che fornisce l’elettricità a 1 milione di famiglie italiane - non parlerà più la lingua di Dante non appena la società d’Oltralpe formalizzerà l’accordo con A2A. Incruenta ma decisa, la scalata della società francese era nell’aria da tempo, ben prima dell’offensiva alla Parmalat, conquistata l’estate scorsa da Lactalis. Quella di Edf è una strategia che non ha come unico obiettivo l’Italia. Se la Germania non è più un cliente - Berlino ha scelto di rompere con il nucleare francese dopo il disastro di Fukushima - la società di Proglio ha subito recuperato firmando nuovi contratti in Serbia, dove assicurerà la totalità dell’energia elettrica. E in Belgio detiene il 51 per cento della Spe, la seconda società di produzione di elettricità del Paese. Un lavorìo senza sosta per Henri Proglio, classico self-mademan partito dal nulla che in trent’anni ha fatto carriera nella stessa azienda: la Compagnie générale des eaux, poi diventata Vivendi environnement e infine Veolia. A volerlo alla guida di Edf nel 2009 è Nicolas Sarkozy, amico e sodale politico. Esponente della destra nazionalista, vicino negli anni Sessanta all’estrema destra, Proglio ha sempre mantenuto un basso profilo in pubblico, evitando di esporsi all’attenzione dei media. Nel privato però il suo è uno dei nomi che contano. Lo sa bene Anne Lauvergeon, per 12 anni alla guida di Areva e dallo scorso luglio baby pensionata del gruppo leader nel campo atomico. Si dice che Sarkozy l’abbia fatta fuori proprio per accontentare Proglio, che per lei non aveva mai avuto simpatia. Areva, partecipata al 90 per cento dallo Stato, è stata sempre fiera della sua indipendenza rispetto agli altri gruppi energetici del Paese. Proglio invece cercava una sinergia nel settore, che consentisse di giocare a livello internazionale su più piani, quello politico e quello finanziario. Una sorta di cordata, di cui Edf doveva tirare le fila. La Lauvergeon ha pagato con la perdita del posto (Hollande aveva definito la sua cacciata un “segnale increscioso”) la sua scelta di non aver voluto Proglio come capo. Eliminata

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CIRONNEAU/ap/lapresse

Dietro l’acquisto di Edison da parte di Edf c’è la strategia di Henri Proglio, patron del gruppo d’Oltralpe. La stessa di Nicolas Sarkozy: conquistare tutto

Il patron di Edf Henri Proglio

Lauvergeon, tra Areva e Edf è scoppiato di nuovo l’amore, testimoniato dai tre contratti firmati sotto gli occhi di Eric Besson, che chiudono anni di guerra fratricida tra i due gruppi. Persino Gdf-Suez (diretta concorrente di Edf) è stata richiamata all’ordine e invitata a non contrastare troppo gli interessi di Proglio. La defenestrazione di Lauvergeon è avvenuta a luglio, quando la guerra in Libia sembrava prossima alla fine e la collaborazione tra Cnt ed Eliseo iniziava a trasformarsi in contratti vantaggiosi per le industrie francesi. La politica estera di Parigi passa oggi per i grandi gruppi guidati da amici personali del presidente come Proglio (energia e nucleare), Bolloré (trasporti e logistica), Bouygues (costruzioni), Dassault (aviazione). Secondo Jacques Dupuydauby, patron del gruppo franco-spagnolo Progosa, l’Eliseo esercita indebite pressioni per far ottenere alle “sue” industrie contratti vantaggiosi, come la gestione dei porti africani per Bolloré, compreso quello di Misurata. Sarkozy, già pressato da scandali ben maggiori, smentisce scocciato. Intanto però le industrie francesi macinano commesse su commesse. E dopo la Libia, le truppe dell’Eliseo si apprestano a intervenire in Somalia, a fianco del Kenya. Un’altra ottima occasione per fare affari. 47


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Inferno d’argilla

foto di Jeung Keun Park (LaPresse)

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Per cinque mesi all’anno la capitale del Bangladesh diventa il regno dei mattoni. Ottomila persone costruiscono con le loro mani milioni di laterizi e con il loro lavoro contribuiscono alla ricchezza nazionale per l’1 per cento del Pil. Sono intere famiglie a dedicarsi ai mattoni, che purtroppo sono prodotti anche con derivati del carbone e provocano agli operai left 4 novembre 2011

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reportage

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problemi respiratori e artriti precoci. Ma a Dakka, una delle capitali piĂš popolose - 15 milioni di abitanti - e piĂš povere del mondo, la salute dei lavoratori non è al primo posto. Figuriamoci l’ambiente: impensabile depurare le emissioni della combustione prodotta dalla benzina. Minime le speranze di riscatto per i bambini: per trasportare mattoni pesanti 2 chili, nessuno di loro va a scuola. 50

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reportage

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© Favila/ ap/lapresse

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thailandia Quattro mesi di pioggia per un tracollo finanziario pari al 2 per cento del Pil. Le alluvioni che stanno colpendo la Thailandia hanno spinto la Banca centrale di Bangkok a ridurre le stime di crescita per il 2011, dal 4.1 al 2.6 per cento, e purtroppo non si tratta di una stima definitiva. Il fiume Chao Praya ha raggiunto livelli mai visti, spingendo i cittadini della capitale a fuggire nelle campagne e mettendo a repentaglio i celebri monumenti del centro storico.

india È la capitale indiana dell’informatica, ma anche quella dei suicidi. Bangalore, la città asiatica conosciuta per le sue industrie hi-tech e per i suoi campus all’avanguardia ha registrato, secondo i dati del National crime records bureau, 2.167 casi di morte volontaria nel 2009 contro i 1.212 di Nuova Delhi. I dati, resi noti questa settimana, confermano il trend negativo che va avanti da oltre 10 anni.

Julius Malema, leader giovanile dell’Anc (il partito fondato da Mandela), non perde occasione di manifestare il suo dissenso verso il leader del suo partito Jacob Zuma, attuale presidente del Sudafrica. L’ultima iniziativa di Malema è stata una protesta (il 27 ottobre) contro la disoccupazione tra gli under 25, un corteo lungo 15 chilometri per chiedere posti di lavoro e una migliore ripartizione delle ricchezze. Fonti dell’Anc ammettono che la marcia aveva un significato politico, ma si sussurra anche che i giovani del partito siano stati minacciati: «Se andate, siete espulsi».

Come molti marines, aveva messo in conto di poter essere colpito anche dal fuoco amico. Ma si aspettava che questo accadesse nei suoi due anni trascorsi in Iraq, e non certo a Oakland, California. Curioso destino per Scott Olsen, ventiquattrenne veterano di guerra, che si è ritrovato con un lacrimogeno in testa ed è dovuto ricorrere alle cure mediche. Il suo errore, aver scelto di aderire alle proteste della branca locale del movimento “Occupy Wall street”.

latino america

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Usa

Su 14 Paesi classificati come i più violenti al mondo, sei sono sudamericani. Il non invidiabile primato è stato reso noto dalla Geneve declaration, l’iniziativa nata nel 2006 dai governi di 42 Paesi e che opera nell’ambito del Programma delle Nazioni unite per lo sviluppo (Pnud). Il primato spetta a El Salvador, con più di 60 morti ogni 100mila abitanti: in rapporto alla popolazione, tra il 2004 e il 2009 sono morte più persone nel piccole Paese centroamericano che in Iraq. L’ex Paese di Saddam Hussein arriva comunque secondo, seguito al terzo posto dalla Giamaica. La patria di Bob Marley si rivela leader non solo nella musica reggae ma anche negli omicidi legati soprattutto a due fattori, traffico di droga e prostituzione.

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Sudafrica


mondo

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caucaso

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Senegal

Pena di morte per il principale accusato dell’attentato a Marrakech dell’aprile scorso. Adil al-Atmani è stato condannato alla pena capitale dal tribunale antiterrorista di Salé, mentre Hakim Dah, considerato il suo principale complice, dovrà scontare l’ergastolo. Molto più mite la sentenza per altre sette accusati, quattro dei quali sono stati condannati a 4 anni di prigione e i restanti 3 a 2 anni. Proteste da parte dei familiari delle vittime, molte delle quali francesi. «Non abbiamo più fiducia nella giustizia marocchina», hanno dichiarato alla stampa.

Il biofuel? Può anche uccidere, come è successo in Senegal, dove il 27 ottobre una persona è morta durante le proteste contro la vendita di 20mila ettari di terra agli imprenditori italiani e senegalesi della joint venture Senethanol. La compagnia, specializzata nella produzione di carburanti alternativi, ha ottenuto la concessione senza consultare la popolazione. Gli abitanti hanno accusato il presidente della comunità rurale, Karrasse Kane, di aver ceduto ai privati un terzo di tutte le terre coltivabili della zona, «una percentuale insostenibile» secondo gli agricoltori. La rivolta, scoppiata ai primi di ottobre a Fanaye, è cresciuta di intensità fino a coinvolgere altre regioni del Paese. Il 27 ottobre l’incontro chiarificatore presso la sede della comunità rurale si è trasformato in violenta battaglia tra sostenitori e accusatori di Kane, causando un morto e 14 feriti gravi. Il governo ha temporaneamente sospeso il progetto.

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i partiti che hanno ottenuto un unico seggio alla Costituente tunisina left   4 novembre 2011

il libro La guerra in Afghanistan non ha annullato la storia e la cultura di un popolo, ma i resoconti giornalistici sì. Fernando Gentilini, ex inviato della Nato a Kabul, prova a rimediare con Libero a Kabul (Editori internazionali riuniti, 313 pp., 19.50 euro), in cui racconta una società e le sue divisioni interne, le lotte per il potere e le tradizioni millenarie. E la vita quotidiana di chi sopravvive all’Afghanistan. 53

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L’Abkazia spera nell’effetto domino. La regione che ha dichiarato l’indipendenza dalla Georgia nel 2008 - insieme all’Ossezia del Sud - è in cerca di riconoscimenti internazionali. Per ora ha incassato solo quelli di Russia, Nicaragua, Venezuela e degli arcipelaghi di Vanuatu, Tuvalu e Nauru (uno in più della vicina Ossezia), ma adesso ha una nuova freccia al suo arco: i campionati mondiali di domino. Giocatori di tutto il mondo si sono ritrovate nella “capitale” Sukhumi per sfidarsi a colpi di tessere. La manifestazione è stata dominata dagli americani, che hanno vinto in tutte le categorie, ma i più contenti di tutti erano gli abkazi. Delegazioni provenienti da più di 20 Paesi hanno conosciuto il loro Paese e d’ora in poi non lo dimenticheranno. Specie dopo l’eccezionale spettacolo pirotecnico offerto ai campioni, insieme a visite turistiche e pranzi luculliani. Per una spesa totale di 650mila dollari.


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56Adolescenti e depressione

60Ilditesoro Pompei

Fossati 64Ivano si racconta

cultura

Artissima sulle rotte internazionali della creatività. Dal 4 al 6 novembre al Lingotto torna la più grande mostra mercato dell’arte contemporanea in Italia. Con centinaia di galleristi e artisti da ogni parte del mondo. A cominciare dal fotografo angolano Kiluanji Kia Henda, del quale proponiamo qui una brillante reinterpretazione de Il mercante di Venezia.

left   29 luglio /4 agosto 2011

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scienza

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I pionieri della prevenzione

di Federico Tulli

Togliersi la vita a 11 anni. Un evento purtroppo non così raro se in Italia sono stati ben 374 i bambini di età compresa tra 10 e 14 anni che, tra il 1980 e il 2007, si sono suicidati. Un fenomeno preoccupante, drammatico, che raramente trova adeguata copertura sui media nazionali troppo concentrati sul fatto di cronaca più che sulle dinamiche che lo hanno originato. Ma che è solo la punta di un iceberg sotto il quale si cela un mondo, quello 56

del disagio adolescenziale, ancora non del tutto indagato dal punto di vista medico-scientifico e soprattutto scarsamente monitorato dal sistema sanitario nazionale. A lanciare l’allarme, evidenziando la «necessità di sensibilizzare le istituzioni a investire di più, presto e bene nella prevenzione, per intercettare le situazioni problematiche prima che si cronicizzino» fino a sfociare nel Trattamento sanitario obbligatorio (Tso) o, peggio, nell’atto estremo, è un antesignano nel campo della tutela della salute mentale degli under 18, lo psicoterapeuta Emilio Bonaccorsi, direttore dell’Unità operativa complessa (Uoc) per la Tutela dell’adolescenza presso la Asl Roma E. Un servizio, racconta Bonaccorsi a left, che dal 1992 «si occupa di prevenzione, cura e riabilitazione delle patologie psichiatriche in età giovanile, arrivando oggi a operare capillarmente con un’équipe di circa 30 esperti su un territorio abitato da oltre 500mila persone». Tutto è cominciato nel centro di Roma, quartiere Prati, con un picco4 novembre 2011

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scienza

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lo presidio territoriale utilizzato come rampa di lancio dai medici verso le circa venti scuole presenti nell’area coperta dalla odierna Asl Roma E, con l’obiettivo primario di informare i giovani dell’esistenza di un servizio a loro disposizione anche solo per ascoltare problematiche non direttamente riconducibili a uno stato patologico più o meno grave. «Col tempo racconta Bonaccorsi - siamo diventati un punto di riferimento oltre che per i ragazzi, anche per i loro genitori e soprattutto gli insegnanti, con molti dei quali c’è una proficua collaborazione nell’opera di intercettazione delle situazioni a rischio». In concreto questo si è tradotto nell’arco dei venti anni nella cura di quasi 5mila giovani e nel “contatto” degli esperti con oltre 100mila persone. Man mano è stato possibile integrare al meglio l’azione “mobile” sul campo con delle strutture fisse «come il centro diurno terapeutico che può ospitare dalle 8 alle 20 fino a 10 ragazzi e come la “residenza protetta” che serve a evitare quanto più possibile il ricovero obbligatorio per i casi più gravi». E qui Bonaccorsi denuncia un problema storico. I Servizi psichiatrici di diagnosi e cura (Spdc), cioè i reparti psichiatrici per adulti collocati negli ospedali generali, sono gli unici luoghi dove può essere effettuato il Tso in Italia, oltre ai servizi di neuropsichiatria infantile. Non esistono cioè, salvo rari casi, luoghi deputati espressamente al ricovero di persone di età compresa tra i 12 e i 18 anni, con tutto ciò che ne consegue in termini di assistenza e cura. E di rischio. Inutile sottolineare cosa comporta «tenere un “esordio” psicotico agitato in un reparto dove ci sono bimbi di 8 anni». Motivo in più, spiega, per puntare sulla prevenzione organizzando una fitta rete specifica di assistenza agli adolescenti che interagisca con i servizi pubblici di neuropsichiatria infantile da un lato e con quelli per l’età adulta dall’altro. Un modello efficace, del resto, c’è ed è rappresentato dall’Uoc Tutela adolescenza che Bonaccorsi dirige, ma inspiegabilmente, sebbene anche dall’estero siano venuti per studiarlo ed esportarlo - specie in nord Europa -, a oggi questa rimane un’esperienza isolata. «È un problema di ordine culturale e politico», spiega il professor

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In Gran Bretagna si trovano ben 120 dei circa 150 centri esistenti al mondo di “intervento precoce sulle psicosi” Giuseppe Ducci, primario della Spdc del San Filippo Neri e coordinatore dei 22 Spdc presenti nel Lazio. «In Italia - aggiunge - si è sempre data importanza alle strutture, al numero di persone che vi lavorano oppure allo spazio a disposizione, molto meno alle azioni che vi si svolgono. In Gran Bretagna, dove ci sono 120 dei circa 150 centri esistenti al mondo di “intervento precoce sulle psicosi” ci sono delle leggi nazionali che entrano nel merito di come si opera, sulla base dei giudizi di commissioni di esperti. Lì da loro si punta su interventi di provata efficacia per evitare il più possibile il ricovero. Ad esempio, c’è una mole di lavori nel mondo che prova l’utilità di intercettare il disagio nelle scuole, ma in Italia non viene fatto in modo organico quasi da nessuna parte». Venerdì 4 novembre Ducci è il protagonista della conferenza intitolata “Il ricovero degli adolescenti in Spdc: aspetti clinici e organizzativi” durante la quale approfondirà i temi accennati a left. L’incontro fa parte di quattro giornate formative dal titolo Psicopatologia dell’adolecscenza: teorie più recenti, complessità e gravità degli interventi nella pratica clinica organizzate a Roma dalla Uoc diretta da Bonaccorsi. «Tranne che in alcuni ottimi casi, il disagio psichico adolescenziale non ha un interlocutore di tipo medico-assistenziale e psicologico dotato di strutture idonee a dare una risposta», conferma Paolo Girardi, docente di psichiatria all’Università La Sapienza di Roma e direttore della Uoc di Psichiatria dell’Ospedale Sant’Andrea, che il 14 ottobre ha parlato di “Suicidio in adolescenza”. «Premesso che la formazione dell’operatore è cruciale perché la manifestazione di un disagio non significa necessariamente malattia, e quindi occorre saper distinguere un “normale” problema esistenziale dal disturbo psichico, un suicidio non si cura. Per prevenirlo occorre costruire una relazione, serve un luogo dove incontrarsi. La re57


scienza

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te britannica presente soprattutto nelle scuole ha fatto sì che il numero di ricoveri in età 1425 anni sia quasi azzerato. Diminuendo il lavoro a carico dei centri di salute mentale e migliorando l’offerta di salute mentale adeguata all’età dell’utente». Quale risposta dare a questo tipo di emergenza psichiatrica è anche il filo conduttore dell’intervento del professor Stefano Vicari (2 dicembre) dal titolo Esordi psicotici in età pre-adolescenziale e adolescenziale. «Negli ultimi anni - ha spiegato di recente il responsabile dell’Unità operativa di Neuropsichiatria infantile dell’Ospedale Bambino Gesù di Roma - l’evidenza di una maggiore efficacia di un intervento precoce di fronte alle emergenze psichiatriche nei minori, affiancato a iter diagnostici e terapeutici multidisciplinari, ha indotto una trasformazione del paradigma di cura di bambini e adolescenti con gravi disturbi psicopatologici. In questo senso, la gestione dell’emergenza psichiatrica da parte dei servizi di Neuropsichiatria infantile del Bambino Gesù rappresenta una risorsa strategica indispensabile per una l’assistenza globale del bambino e dell’adolescente che presenti un quadro clinico di emergenza». Investire sugli interventi per l’adolescenza, ridurre il ricovero degli adolescenti e al tempo stesso migliorarne la qualità, sono tutte azioni che hanno una ricaduta positiva provata. E su cui bisognerebbe lavorare secondo modalità condivise e scientificamente valide. Quale modello teorico da adottare è al centro dell’intervento dello psichiatra Paolo Fiori Nastro (18 novembre). Il docente dell’Università La Sapienza di Roma parlerà di Violen58

za nei giovani: un comportamento innaturale e malato. «Il servizio creato da Bonaccorsi racconta Fiori Nastro - ha preceduto di almeno di 7-8 anni le acquisizioni dirompenti che hanno cominciato a circolare nel mondo psichiatrico internazionale a partire dagli anni Duemila. E che oggi sono bagaglio acquisito a livello mondiale. Vale a dire, la possibilità di constatare l’esistenza di una condizione peggiorativa che poi esita nelle malattie mentali gravi ha fatto sì che si parlasse di prevenzione in psichiatria quando l’atteggiamento principale per tutti gli anni 80-90, e in particolare in Italia, era quello della gestione della cronicità secondo l’idea che la malattia mentale fosse organica». Fiori Nastro ritiene importante sottolineare che una teoria può invece non essere solo un’elucubrazione mentale, diventando oggettivamente una valida prassi. E porta nel suo intervento l’esempio della violenza. «Pensiamo - dice - a quanto e come l’idea che ognuno ha dell’essere umano condizioni il modo di valutare atti come quelli violenti. Chi crede che la violenza sia intrinseca alla natura umana, vede come unico atteggiamento possibile quello coercitivo, punitivo. Chi invece è convinto, come me, che la violenza non sia nella natura umana, ma sia innaturale ed espressione di un malessere, pensa che sia obbligatorio andare a cercare quali sono le ragioni di questo star male e quali possono essere le risposte da dare a chi si muove nel contesto sociale in modo violento». Ci sono però anche altre forme di violenza, molto meno evidenti. Come ad esempio quella colta dai giudici che indagano per concorso in omicidio il marito della donna che questa estate a Orbetello ha ucciso il figlio. L’uomo non ha partecipato materialmente al crimine, ma è accusato per via «di un atteggiamento negligente e imprudente perché, nonostante fosse pienamente al corrente della estrema gravità della situazione, non ha adottato alcuna misura idonea a proteggere il piccolo». «Questa forma di lontananza affettiva evidentemente viene vista finalmente, anche o soprattutto da magistrati, come violenza», conclude Fiori Nastro. «Se comincia a cambiare l’idea di violenza allora c’è la possibilità di fare enormi passi avanti sul piano culturale, sociale e soprattutto in ambito psichiatrico». 4 novembre 2011

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scaffale Tra cronaca ed epos Leogrande si mette sulle rotte dei migranti

In cerca di un sentiero fra le onde di Filippo La Porta

8 marzo 1997, ore 18,57, Canale di Otranto: una piccola motovedetta albanese con centoventi persone a bordo, la Kater I Rades, viene speronata dalla corvetta Sibilla della Marina Militare italiana, che ha l’ordine di compiere operazioni di «disturbo e interdizione» per fermare qualsiasi nave clandestina. L’esito è terribile: cinquantasette morti, ventiquattro dispersi e trentaquattro superstiti. La più grande tragedia del mare prodotta da accordi tra Stati e da politiche di respingimento. Alessandro Leogrande ce la racconta in Naufragio (Feltrinelli) mescolando l’epos di Conrad e il piglio documentaristico meticoloso di A sangue freddo di Truman Capote. Si comincia dalla tradizione orale dei villaggi polverosi a nord di Valona, dove i vecchi raccontano ancora l’impresa di Pirro re dell’Epiro, più di 2000 anni fa. Pirro per sconfiggere le legioni romane dovette trasportare gli elefanti attraverso il Canale di Otranto, lungo 60 miglia, e per farlo seguì la corrente del fiume Aòos, quasi un sentiero invisibile scavato tra le onde dell’Adriatico. Quando è caduto il regime claustrofobico di Enver Hoxha migliaia di albanesi hanno attraversato il mare ricordandosi di quel “sentiero” di Pirro. Leogrande, nato a Taranto trentaquattro anni fa, è forse il nostro più bravo scrittore-reporter, cronista puntiglioso e al tempo stesso visionario del presente. Ricordo almeno i reportage Nel paese dei viceré (2006) e Uomini e caporali (2008). Anche in Naufragio usa sapientemente tecniche narrative “spettacolari” per condurre il lettore dentro il cuore di tenebra di un evento tragico ma non ineluttabile (come può essere una catastrofe naturale). Raccoglie dati, osserva, incontra sopravvissuti, militari, avvocati, etc., si mette in contatto con le associazioni antirazziste, cammina, ragiona… Ma soprattutto - ed è questa la “differenza” con altri reportage narrativi - assume il punto di vista delle vittime, ce ne fa sentire la voce. Questa identificazione empatica - penso solo al lungo silenzio con cui l’autore resta lì, a guardare il relitto della Kater i Rades - dà al libro una coloritura emotiva e una forza di rappresentazione che invano cerchereste in analoghe inchieste giornalistiche. Accanto alle testimonianze e ai resoconti su quel blocco navale in alto mare, Leogrande raccoglie anche altre voci, leggende metropolitane, racconti più o meno fantasiosi intrecciati con eventi reali. Ad esempio, è certamente vero (ed inquietante) che due disertori albanesi fuggirono verso l’Italia con un Mig ed eludendo ogni controllo radar riuscirono ad atterrare nel minuscolo aereoporto militare di Galatina. Ma è tutto da verificare che uno dei due sia diventato, per le sue doti di coraggio e abilità, il pilota dell’elicottero di Berlusconi! Il naufragio di quel venerdì Santo del 1997 si conclude come tanti altri misteri italiani: riprese televisive improvvisamente interrotte, nastri silenti, incriminazioni mancate (gli unici due colpevoli ufficiali sono il comandante della corvetta e il timoniere della motovedetta), ordini che non si sa più chi abbia dato, risarcimenti offensivi… Il libro si conclude con il lungo elenco delle vittime, di cui è indicata l’età al momento del decesso: in trentuno avevano meno di sedici anni.

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La lotta partigiana. La resistenza alla feroce occupazione nazifascista e poi il lavoro di medico engagé. Il mitico “Paolo”, che i fascisti non riuscirono a fiaccare, si racconta in questo toccante libro di memorie, scritto con la storica Michela Ponzani. Senza fare di necessitÀ Virtù

di Rosario Bentivegna, Einaudi, 422 p 20 euro

Epos lirico e possente, che attraversa le pieghe della storia dell’Europa dell’Est, dai territori dell’impero Ottomano alla Russia vagheggiata come orizzonte di pace. Torna la splendida saga di Crnjanski in edizione compatta e economica. MIGRAZIONI

di Miloš Crnjanski, Adelphi, 1076 pagine, 20 euro

Un tuffo nella Napoli degli anni 50, nel passato di una città giovane e brulicante di vita. Torna la misteriosa Elena Ferrante con una saga popolare dalla lingua tornita e saporosa. Affrescando odi familiari e amori giovanili che lasciano senza fiato. L’amica geniale

di Elena Ferrante, Edizioni e/o, 327 pagine,

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cultura

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le prime piogge, nuovi Gli ultimi segni di Con drammatici crolli. Mentre si accelera la cancellazione

POMPEI

Affreschi della Villa dei Misteri, Pompei, I secolo a.C. A destra, la studiosa di diritto antico Eva Cantarella

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Alle prime piogge di autunno, nuovi crolli a Pompei. Che vanno a sommarsi a quelli avvenuti l’anno scorso, in primis, alla Schola Armaturarum. Ora si parla del cedimento di mura di costruzione moderna, ma anche di danni nella Domus di Diomede. «Purtroppo era prevedibile, visto che nel frattempo non si è fatto niente di ciò che si doveva fare per la tutela di un sito archeologico così importante» commenta Eva Cantarella, che insieme all’archeologa Luciana Jacobelli, ha appena pubblicato il volume Nascere, vivere e morire a Pompei (Electa) proseguendo così la ricerca avviata con i I volti dell’amore, con Supplizi capitali (ora in nuova edizione Feltrinelli) e con altri saggi dedicati alla società, alla cultura e alla vita quotidiana nella cittadina vesuviana sepolta dall’eruzione del 79 a.C. Inefficienza, incompetenza, ma anche mala gestione hanno contrassegnato il commissariamento del sito archeologico pompeiano e le politiche dell’emergenza del governo Berlusconi, non di rado, hanno generato dispendiosi mostri. «Come il presunto recupero del teatro di Pompei - commenta la studiosa -, oggi è inguardabile». Intanto, accanto ai rischi che corrono architetture e affreschi, si accende l’allarme per i “graffiti”, le scrit-

di scritte di strada, fonti importanti per lo storico. La denuncia di Eva Cantarella

di Simona Maggiorelli te che costellavano le antiche strade pompeiane. Esposte alle intemperie, senza protezioni, ora rischiano di scomparire. Professoressa Cantarella quanto contano le fonti non ufficiali? Dai graffiti si può imparare moltissimo, perché ci danno informazioni storiche che non troviamo nelle fonti principali. Un esempio: fra il I secolo a.C e il I secolo d.C ci fu un’emancipazione delle donne, che si videro riconosciuti, almeno formalmente, diritti che prima non avevano. In quel periodo le donne cominciarono ad avere maggiore libertà di movimento. Dalle fonti letterarie si potrebbe dedurre che fosse un fatto di élite. Ma a Pompei iscrizioni parietali documentano, invece, che si trattava di un fenomeno più generalizzato. Autrici di alcune scritte erano le aselline? Le aselline erano di modesta estrazione, lavoravano al Termopolium, ma non erano affatto prostitute, come poi si è voluto dire. Grazie ai loro graffiti si è saputo che alle elezioni municipali le donne sostenevano questo o quel candidato. All’epoca non c’erano manifesti elettorali. Si scriveva direttamente sui muri. A Pompei sono stati trovati messaggi di propaganda elettorale firmati da don4 novembre 2011

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cultura

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«Tra i graffiti sul muro degli edifici sono state ritrovate anche poesie d’amore scritte da donne»

© CALEO/ imagoeconomica

ne che si interessavano alle elezioni, che sceglievano chi votare. Più in generale a Pompei, sui muri, si scriveva di tutto. Comprese le dichiarazioni d’amore. Gli uomini, curiosamente, preferivano andare a scrivere questi messaggi in gruppo. Fra i graffiti pompeiani poi si sono trovate anche poesie d’amore firmate da donne. Alcune rivelano una certa conoscenza della letteratura e dei poeti più noti. Informazioni, preziose, ripeto, che non abbiamo da altre fonti. Visto il silenzio imposto alle matrone, un’estrazione più umile, poteva significare maggiore “libertà”? Le donne più povere uscivano di più per le strade. Ma per andare a lavorare. E allora il lavoro non aveva il senso di una realizzazione sociale. Era una necessità. Diversamente dalle donne greche che vivevano recluse, le matrone uscivano, per esempio per andare a teatro, ma dovevano farsi accompagnare. Nell’antichità le donne erano sotto tutela a vita, prima del padre, poi del marito. Dal suo libro emerge che Pompei non era poi quella città libera e licenziosa che si dice. C’era un forte controllo sulle donne e anche paura della loro autonomia? A Pompei c’erano i bordelli come in tutto l’impero romano. Semplicemente si sono trovate delle pitture erotiche con nomi di donna scritti vicino a figure che a noi possono apparire spinte. Ma i Romani erano pagani, l’idea di peccato cristiana non aveva ancora fatto breccia. Quanto alla paura delle donne, questo risulta anche dalla grande letteratura. Anche senza andare a scomodare Giovenale che scrisse satire particolarmente feroci quanto a misoginia. Lei scrive di un largo ricorso all’aborto. A differenza dell’adulterio, non era punito?

La donna che abortiva veniva punita solo se lo faceva senza il permesso del marito. Del resto i padri potevano esporre i neonati figuriamoci se era un problema l’aborto. A Roma la donna che abortisce senza il consenso del marito è punita perché non rispetta il suo diritto ad avere un figlio. Non c’era il problema odierno di una Chiesa che condanna l’ aborto come uccisione di una vita. Val la pena di ricordare che i Romani dicevano che il feto “Homo non recte dicitur”, ovvero che non è corretto dire che il feto sia persona. Lei ha sottolineato spesso che la società greca era basata sulla pederastia. Accadeva lo stesso nella latinità? Né a Roma né in Grecia c’era l’idea di omosessualità come la intendiamo noi. Se guardiamo a quella che era l’etica sessuale dei maschi, l’uomo greco e quello romano potevano avere rapporti sia con uomini che con donne a patto di avere un ruolo attivo. In Grecia era il giovane, il ragazzo, ad avere rapporti passivi con un uomo adulto. Si pensava che avesse una funzione educativa e veniva accettato. Se poi l’ex ragazzo, diventato adulto, continuava a essere passivo veniva condannato, si diceva che “si era fatto donna”. A Roma no. Il ragazzino non poteva essere partner passivo perché l’uomo romano doveva dominare sempre. Allora il partner passivo era lo schiavo, giovane o vecchio che fosse. Uno degli schiavi, chiamato concubinus, dormiva con il padrone, fino a quando non si sposava. C’è anche un famoso carme di Catullo dedicato al suo concubino. Fra i Romani c’era anche una particolare solidarietà maschile che li portava a scambiarsi le mogli come oggetti... Serviva a instaurare rapporti di parentela. Gli uomini lo facevano tranquillamente e le donne lo accettavano. Marzia, fu ceduta dal marito Catone all’amico Ortenzio. Con il permesso del padre di lei. Ebbe due figli con Ortenzio poi, alla sua morte, Catone la riprese con sé. Che poi Marzia fosse così felice non abbiamo modo di saperlo. Il problema è che quando una pratica sociale è molto diffusa non la si percepisce più come offensiva.

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trasformazione cultura

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È stato un ottobre grande perché non ci fu la via verso la morte

La lunga

estate calda

O

ra, nella realtà della natura non umana, è autunno. Guardo e vedo il cielo e le piante che hanno le foglie verdi. Sono certo che esiste e non lo vedo, oltre l’orizzonte, il mare. Ma quella parola, autunno, mi lascia perplesso. Dicono che il periodo di tempo che, abbandonata l’estate, diventa più freddo e piovoso inizia all’equinozio d’autunno quando le ore della luce del giorno sono uguali alle ombre della notte. Guardo la lampada che grande e sovrana sta sopra il piano della scrivania e le chiedo: “Perché dormi fino al tardo pomeriggio come se fosse estate ed apri gli occhi pieni di luce alle stesse ore di tre mesi fa?” La piccola lucetta rossa perde la certezza dell’esistenza della corrente elettrica e, tremando, dice “è perché tu pensi che l’estate sia iniziata il trenta aprile con l’articolo che diceva Psichiatra inventore della Analisi collettiva”. Sorrido ed esprimo la mia compassione per la miopia della lucetta che ha poca energia per illuminare il passato invisibile. So, infatti, che i termini pensati e detti nel gennaio scorso, anno nuovo, avevano un significato profondo. Lo dissero le parole: separazione dal passato che non indicavano un tempo ma la comparsa di una realtà diversa da prima. Ed altre parole “riuscita della cura” dicevano di un movimento fondamentale nel cammino verso la verità umana. Ed il pensiero senza coscienza disse “L’estate è iniziata il primo gennaio 2011”. Ma, sono certo che è la verità. Ora è novembre e sono trascorsi dieci mesi. Anche se ho soltanto frammenti di ricordi coscienti di atteggiamenti, comportamenti e gesti dall’atmosfera misteriosa so, con certezza, che ci sono state reazioni violente da parte di alcuni. Quali? Non so. è come se il ricordo cosciente dei fatti accaduti si fosse frammentato in particelle che, come foglie secche mosse dal vento, diventano polvere invisibile. Ed io so che esso svanisce nel nulla quando non è rinnovato dall’acqua che è la memoria indefinita che si crea senza la consapevolezza della coscienza.

di Massimo Fagioli psichiatra

Ed ora affiorano di tanto in tanto parole che, avvicinandosi l’una all’altra esprimono un suono che si movimenta come se componesse parole che dicono... non so. Compaiono tre parole, ma il suono è un lamento come se, nascendo, avessero subito una lesione. E comprendo pensando al titolo: Il linguaggio rinnovato. E compaiono le pagine della settimana scorsa in cui i colori sono diventati pallidi con i capelli imbiancati. Fu il venti marzo 1984 che, parlando a Napoli dissi, senza averlo pensato: Cura, formazione, ricerca. E così rimase per tanti anni, zoppicando. Ma, per fortuna, nella lunga estate qualcosa di non conoscibile si realizzò e pensai che non avevo detto la verità. La memoria-fantasia dell’esperienza vissuta, ovvero i tanti anni di sedute di psicoterapia di un grande gruppo, erano iniziati con la creazione originale, mai accaduta nella storia, che poteva indicare il non percepibile nella veglia con le parole: cura e ricerca. Ed ora, pentito e grato al lavoro di psicoterapia con il grande gruppo ho aggiunto: e formazione. Fu perché nei primi anni, la definizione dell’Analisi collettiva non era netta. E dissi: “annullate il fatto che ho scritto tre volumi di teoria. Ricominciamo insieme la ricerca”. Nello studio privato, poi, si realizzò il pensiero e le parole che dissero: setting, transfert, interpretazione. E la memoria disegna, con le parole e le figure del ricordo cosciente, il tempo detto 2002, quando feci un disegno ed un video intitolato La psichiatria esiste? Rimarcavo così quanto avevo sempre sostenuto: la psicoterapia è psichiatria perché è diagnosi e cura della malattia mentale. Vedo lo studio in cui facciamo le sedute e ricordo il 2001 quando modificai la struttura con un legno chiaro che mi portò all’angolo che unisce le due grandi ali. Non ci furono più esseri umani che, malamente, mi udivano senza vedermi ma tutti potevano vedere la realtà del corpo ed udire la voce che dava le interpretazioni dei sogni raccontati con la descrizione delle immagini oniriche. Fu frustrata la fantasticheria che avrebbe potuto pensare che avevo qualcosa da nascondere perché toglievo il

Pensando, due anni fa vedemmo l’antica festa del Sole 62

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corpo dalla loro vista. Era una pessima idea che negava la mia vita basata sul rifiuto continuo della tradizione delle analisi individuali di impostazione freudiana. Avevo fatto cure individuali ma con le mie idee e la mia formazione realizzata con la prassi di psichiatra. Ma, dopo le psicoterapie di gruppo di Padova e Kreuzlingen, avevo usato la struttura materiale della seduta analitica con il paziente sdraiato che, palesemente, parlava del lettino che ogni medico usa per le visite che scoprono le malattie del corpo. E penso che sia stato un tempo necessario per elaborare la separazione dalla mente che pensa alla realtà della medicina dell’organismo biologico umano. Forse perché ho il cuore sensibile alle grazie che appaiono in una donna quando l’angolo del vestito che sta sopra una spalla cade in basso, talora sembra che il piano del pavimento su cui i piedi poggiano si alzi e si abbassi. Osservo che, guardando le ultime pagine scritte avevo visto che si sovrapponevano e si intersecavano il livello del pensiero che fa ed aveva fatto immagini architettoniche ed il linguaggio che otteneva il suo essere nella composizione delle parole. E ricordo l’espressione verbale: cura, ricerca e formazione. E subito dopo il ricordo della nuova struttura in legno del setting fatta nel 2001 mi fa pensare che avevo avuto sempre presente, senza rendermi conto, la realtà biologica dell’essere umano. E penso, insieme, che immagine silenziosa e voce sonora si hanno dopo la fantasia di sparizione simultanea allo stimolo. Poi, dopo sei anni, si ha una realizzazione evidente della mano dell’essere umano, ovvero la scrittura. Ma poi ancora vedo che la parola solitudine si avvicina alla mano e alla scrittura come fosse la sorella trigemina. E vedo che la scrittura diventa esistente nella solitudine, e penso che l’essere umano ha la capacità di modificare le forme che la natura ha creato. Ci fu la scrittura dei tre libri. Poi accadde l’illusione del volto delle tre donne more. E la parola cura, emendata dall’amore senza intelligenza del prendersi cura, domanda: può il linguaggio articolato dell’interpretazione creare una realtà che non esisteva? Ed io ricordo «l’arte per levare» che è la lotta, con la parola, contro la negazione e la pulsione di annullamento. E tornano i pensieri antichi che, spinti dall’esigenza di curare, ovvero togliere il non umano dalla mente del proprio simile, fecero le parole “fantasia di sparizione verso proprie realtà interiori”. E fui subito certo che non era pulsione di annullamento come quella che avevo visto nella persona che aveva perduto l’identità umana irrazionale ovvero la vitalità e la fantasia. E pensai la parola frustrazione.

cultura

A gennaio 2011 nacque un tempo diverso. Un lieve smarrimento parlò di una identità nuova, senza scissione. Il pensiero senza coscienza fece una separazione senza annullamento È come se avessi cambiato vestito. E viene di nuovo, come fosse una fonte perenne, la memoria della prima adolescenza quando, in verità, ricordando la sesta parte della pagnotta di pane giallo che aveva la figura di un quadrato, penso che il vestito non si cambiò durante i molti mesi in cui la vita aveva l’animo del carpe diem. Sono trascorsi quasi settanta anni e la modificazione dell’aspetto evidente di left che ha coinvolto le due pagine in cui sto scrivendo da quasi sei anni parlano con i loro colori più forti di prima. Non so cosa dicono. Come fossi in una terra sconosciuta, abitata da gente con una affascinante pelle verde scuro come la bottiglia che porta, attraversando il mare, il messaggio della speranza e certezza di un umano nuovo, sento la voce. Comprendo che articolano parole, ma non vedo il significato. È un linguaggio cinese o russo? È alfabeto greco? E so che non è quella lingua che, uguale in tante persone, costituisce “l’identità” nazionale che fa le guerre e uccide perché nega l’uguaglianza della nascita degli esseri umani. O, forse, come i poeti compongono frasi belle, senza significato. Soltanto più lontano, una silhouette di donna, che appare nuda, non riesce ad ingannarmi. So che ha sopra e per tutta la superficie del corpo, una seconda pelle, color giallino, che la fa sembrare una statua di legno chiaro. So che si difende dal maschio che la nega. Ma io comprendo, dall’odore del legno bagnato dalle lacrime, che dice la parola che non bisogna dire, come fosse il nome di un dio innominabile: trasformazione. E due parole indicano gli opposti, sparizione-apparizione che, insieme, figliano: creatività.

Per tanti anni abbiamo pensato e sofferto e ci siamo liberati dall’oppressione dei miti creduti senza fantasia

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on deve stupire che per chiudere la sua carriera Ivano Fossati abbia scelto i ritmi e i suoni con i quali l’ha aperta, ormai quarant’anni fa. Il nuovo disco Decadancing gioca tra l’assonanza della parola decadenza e il ritmo del ballo. Ma è una danza sulle macerie: facile pensare alla decadenza che leggiamo sui nostri giornali ogni giorno. Dalla sua casa in Liguria dove si prepara alla sua ultima tournée che partirà a Milano il 9 novembre e chiuderà a Udine il 2 febbraio, Ivano Fossati ci spiega che «non è riferita solo al nostro Paese. Per me la decadenza è l’abituarsi al peggio: alla cattiva tv, alla cattiva letteratura, alla cattiva musica soprattutto. Uno degli aspetti della decadenza è questo abituarsi progressivo ad accontentarsi perché sembra che non ci sia niente di meglio. Allora ci facciamo andare bene dei brutti libri, della brutta televisione, del brutto cinema. Ed è quello che sta accadendo ed è quello che deter-

mina anche l’imbruttimento dei luoghi dove viviamo. Perché se diventiamo meno acuti, noi facciamo diventare meno bello anche quello che ci sta intorno». Decadancing è un disco molto suonato, con una presenza orchestrale che contrappunta la ritmica rock e il canto intenso di Fossati. «è un disco in buona parte acustico - continua -. Ma soprattutto lascia spazio alla musica: i dischi italiani spesso sono verbosi, pieni di parole». Anche se le parole che usa sono durissime. Da molto tempo il cantautore genovese ci ha abituato a riflessioni molto amare sull’oggi, sulla contemporaneità anche politica dei nostri giorni. Prima raccontando il «tempo sbandato» di una notte in Italia, poi i rischi che corre la nostra «Cara, vecchia democrazia». In questo disco il giudizio diventa più drastico, scrive immagini terribili: «che buio disprezzabile è la politica, non vale neanche il giornale del mese prima», «questo è un deserto di democra-

A pochi giorni dalla sua ultima tournée che partirà il 9 novembre da Milano, Ivano Fossati si racconta di Giommaria Monti

La decadenza è

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zia». «è un’immagine terribile in generale, non solo in Italia. Io ci tengo a mettere le mie riflessioni su un piano allargato, perché non mi importa minimamente di fare la critica alla politica partitica nazionale. Vorrei cercare di vedere un po’ più lontano. Noi viviamo il momento che viviamo, però gli americani hanno vissuto l’era Bush che non era molto lusinghiera rispetto a quella che capita a noi. Per non parlare dei francesi». Ma il nostro è anche un Paese dove i ragazzi per realizzare i sogni devono andare via. Fossati in questo disco lo racconta in “Laura e l’avvenire”: «La decadenza è anche dover lasciare il proprio paese per lavorare. Ma si può ricominciare. Nella canzone ci sono due persone che perdono il lavoro, ma invece di sprofondare nella disperazione trovano una specie di accordo immediato tra di loro. E questo io lo trovo importantissimo. Perché quando nella propria vita privata si ha un alleato, che è il proprio compagno, la propria campagna abbiamo già vinto molto della nostra battaglia. Questi due poveretti che perdono il lavoro insieme, sono alleati e probabilmente quello che gli accadrà dopo, che la canzone non dice, magari sarà qualcosa di buono. Proprio perché loro sono insieme». Nelle canzoni di Fossati da sempre dentro il buio c’è una luce lontana, una strada che si fa in discesa per uscire. Come la foto della copertina di Decadancing, che un giorno ha messo sul pianoforte e ha cominciato a suonare e a scrivere. «è una foto scattata in Grecia: una strada in discesa che gira e va verso il mare. Una mia via di fuga, un suggerimento a me stesso. Forse è emblematica per la scelta che ho fatto: se questo doveva essere il mio ultimo album di canzoni inedite, allora questa era la scelta più giusta che potessi fare». Già, perché lo ha annunciato in tv da Fazio. Ascoltandolo, abbiamo sperato che fosse solo il bisogno di Fossati di mettere un punto nella propria storia artistica e cominciare altre cose. Il bisogno di scendere dalla macchina dello show business. Non sembrava un addio. Non era così, ci conferma: «No, non era così. Io sono stato abbastanza chiaro: ho detto che questo sarà l’ultimo disco di canzoni inedite che scrivo. Così come finita la tournè a febbraio io tornerò a diventare un privato cittadino. E la mia scelta è molto netta». Lo ha detto in tv, davanti a qualche milione di persone. Una confessione che ha suscitato l’ironia strabica di commentatori autorevoli, co-

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me Aldo Grasso sul Corriere della Sera che in prima pagina ha parlato di operazione promozionale per portare il disco in cima alle classifiche. «Sono sciocchezze. Nessuno dopo quarant’anni di mestiere e di carriera fa una cosa del genere proprio l’ultimo giorno. Io volevo avvisare il mio pubblico e me stesso, mi sembrava una cosa ben fatta. E soprattutto ho chiesto la televisione per dire questa cosa perché la tv, pur con tutti i suoi difetti, è l’unico mezzo che non distorce le parole. Quello che tu dici scegli tu come dirlo, non c’è nessuno che poi anche in buona fede cambia il senso delle tue parole». In fondo noi giornalisti siamo dei manipolatori. «Ma no, ho detto che lo fate anche in buonafede. Mille volte mi è capitato che un giornalista riscrive la tua frase senza nessuna intenzione malevola, ma la riscrive in un altro modo. La tv invece ti garantisce di più e per questo l’ho scelta». Quindi la decisione è irrevocabile, Fossati da febbraio sarà un privato cittadino. Ligabue, Battiato, Conte, Guccini hanno sperimentato anche altre forme creative: il cinema, il romanzo, la pittura. Fossati insieme al disco ha pubblicato anche un libro con Renato Tortarolo che racconta la musica, le parole, le immagini della sua arte. Chissà, magari la tentazione di proseguire in un altro modo ce l’avrà: «Assolutamente no. Io sono così abituato alla sintesi di quattro minuti di canzone che a volte ho difficoltà perfino a scrivere una mail. Quindi la risposta è no, nessuno si aspetti romanzi. L’unica volta in cui mi sono lasciato tentare all’inizio degli anni 90 con un racconto lungo, Il Giullare. Ma è un esperimento irripetibile. Non mi riconosco nessun talento di romanziere». Le ultime parole del disco di Fossati sono uno sguardo al dopo: «Il tempo cancella le intenzioni del cuore». Lui lo scrive in “Tutto questo futuro”. Noi ce lo auguriamo davvero.

«Il mio è un disco in buona parte acustico. I dischi italiani sono spesso verbosi, pieni di parole»

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Il rapporto con una donna visto da Sergio Staino: «Autoironia, tenerezza, gioco. Tutto quello che si perde Berlusconi»

L’intelligenza poetica di Bobo

di Donatella Coccoli

Bobo e Bibi in camera da letto, lui ha sonno, sbadiglia vistosamente, si infila il pigiama e scivola nel letto. Lei è già lì che legge, assorta. «Cosa leggi cara?», chiede lui, «...un libro di algebra», risponde lei. «Algebra? E ti piace?», dice lui stupito, «... bè non è avvincente come un romanzo d’amore... ma almeno non mi crea inutili aspettative...», risponde lei tagliente mentre Bobo accusa il colpo... Scene di una storia di coppia condite con ironia e gioco, così si potrebbe sintetizzare il piccolo e delicato “oggettino” come lo definisce il suo autore. È il libro Stainoterapia dell’amore di Sergio Staino edito da Salani. Un viaggio attraverso flash e sequenze di attimi di vita che hanno come protagonista Bobo e la sua compagna Bibi. Una dialettica effervescente lungo tanti anni insieme. Staino racconta come l’idea sia venuta a Maria Grazia Mazzitelli, responsabile della Salani: «Le piaceva questa cosa - dice - di trattare il rapporto di coppia tra Bobo e Bibi che non è direttamente politico ma che comunque lo è, perché sotto sotto vengono fuori le dinamiche dell’area in cui si identifica Bobo che è un progressista, un de-

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mocratico». E a proposito del valore “politico” dice Staino: «Ripensandoci, invece del sottotitolo La miglior cura per la coppia inizia con una risata potevo mettere Tutta la bellezza che si perde Berlusconi». Le schermaglie amorose tra i due personaggi, gli sguardi teneri di Bobo, il suo arrossire imbarazzato, la fierezza di Bibi e il suo pungere l’uomo quasi a sfidarlo, in effetti sembrano atteggiamenti lontani mille miglia dalle cronache del bunga bunga. «Voglio dire - continua Staino - che questo nostro capo del Governo rappresenta la summa di un certo modo di essere maschi, prevaricatori, “trombatori”. Ma così si perde tutta la fetta più bella dell’altra metà del cielo, la tenerezza, l’intelligenza, il gioco, la complicità dentro la parità. Sono cose che riempiono la vita». Senza questo tipo di rapporto c’è «proprio la perdita dell’intelligenza poetica, la perdita delle cose più importanti che giustificano il fatto che uno passa 7080 anni su questa terra». L’intelligenza poetica Bobo ce l’ha. L’umanità del personaggio - e del suo autore - se traspare ogni giorno dalle vignette sui giornali, in modo particolare esce fuori dal libro. E questo aspetto lo mettono in evidenza anche dei piccoli testi che portano la firma di artisti, personaggi della politica e della cultura. Una serie di “inserti” leggeri che legano le strisce con Bobo e Bibi. Una umanità che Tullio De Mauro per esempio definisce da «piccola sentinella che lavora per il grande esercito dell’eguaglianza, della liberazione della gente dalle paure, dalle oppressioni, dai ricatti, dagli sfruttamenti». E oggi la sensibilità di Staino cosa coglie nella società italiana? La volgarità di questa pseudocultura berlusconiana avrà la meglio? «Fortunatamente - afferma - sento una grande indignazione attorno a noi. Certo, i settori più fragili della società, soprattutto delle classi popolari, sono stati fortemente contaminati da questo atteggiamento. Vediamo mamme che portano le bambine piccolissime negli studi televisivi oppure insegnano tranquillamente a quelle grandi ad andare a letto con qualcuno che conta. Credo comunque che il corpo generale dell’Italia sia ancora potenzialmente sano. Se gli offri altre alternative, se gli prospetti una possibilità di convivenza serena e responsabile l’indignazione cresce». 4 novembre 2011

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Maurizio Cattelan, Untitled (2001). A destra Cattelan, If a tree falls in the forest and there is no one araund it. Does it make sound? (1998)

Barzellettiere dell’arte o dirompente provocatore? Al Guggenheim si celebra l’artista italiano più gettonato del momento. In una grande retrospettiva

il circo cattelan

di Simona Maggiorelli Quando mesi fa alla Biennale di Venezia, con una flotta di spettatori e appassionati d’arte, ci siamo ritrovati a naso in su per rimirare la lunga teoria di piccioni impagliati che Maurizio Cattelan ha schierato sui cornicioni, c’è venuto più di un dubbio che l’artista padovano volesse farsi beffe del nostro piccionesco ammirare un’opera di fatto inesistente. Il messaggio, a quanto pare, non era passato così forte e chiaro alla Biennale del 1997 dove per la prima volta Cattelan aveva tirato fuori dal cilindro i suoi assorti e attoniti piccioni. E memore di quel “perseverare diabolicum” che rimbombava nella sua infanzia cattolica, ora ci riprova, reiterando la trovata alla personale che dal 4 novembre gli dedica il Guggenheim Museum di New York. Mettendo ancora una volta a dura prova il malcapitato critico: gesto di rottura contro il mummificato sistema dell’arte internazionale? Barzelletta artistica? Opportunismo di mercato? Trovata pubblicitaria? Quando si parla di Maurizio Cattelan, l’artista italiano più pagato e gettonato del momento, saltano le categorie e sale l’imbarazzo nel leggere

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sbarca a new york

e interpretare opere e azioni artistiche che sembrano esaurirsi in un simpatico gesto provocatorio. Come quella volta che, per vendicarsi delle esuberanti confidenze sessuali di un gallerista, Cattelan lo convinse a comparire in un Tableau vivant travestito da coniglio rosa. «Lo avevo obbligato a indossare la sua ossessione», dice Cattelan al critico e sodale Francesco Bonami. «Così, sotto forma di arte, si poteva vedere la mania di una persona. La galleria era una trappola per fare fesse le ragazze - racconta Cattelan in Autobiografia non autorizzata (Mondadori) -. Ma ora le ragazze che arrivavano, anziché essere affascinate dal giovane, ne ridevano a crepapelle». Altrove avrebbe detto poi che quella buffa mascherata poteva essere anche un autoritratto. Come quando, nel 2001, Cattelan si è “incarnato” in un pupazzo che spunta dal pavimento del museo di Rotterdam rappresentando così il suo essere «un abusivo dell’arte» (lo confessa a Catherine Grenier nel libro intervista Un salto nel vuoto, Rizzoli). O come quando ha raccontato sé stesso come un orsetto che pericolosamente va in trici-

Sfidando i tabù ha raffigurato Wojtyla sotto un meteorite clo su un filo sospeso mentre il pubblico lo spia dal buco della serratura. Ma sarebbe anche ingiusto dire che Cattelan sia solo questo. Come ricorda la curatrice della mostra newyorkese Nancy Spector nel catalogo Maurizio Cattelan All (Guggenheim Skira), l’artista padovano è stato anche capace di ideare immagini dirompenti come papa Wojtyla colpito da un meteorite ne La nona ora (1999) e ha osato denunciare la criminale pazzia di Hitler rappresentandolo mentre prega in ginocchio (Him, 2001). La Spector ha appeso quella statua a fili invisibili lasciandola sinistramente dondolare nel vuoto, insieme ad altre immaginifiche “creature” dell’universo Cattelan, dall’asinello con la tv in groppa, al cavallo con la scritta INRI, senza dimenticare il pinocchio riverso nella fontana di Frank L. Wright, ideato nel 2008 proprio per il Guggenheim. 67


cultura

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Mercan Dede il Blade Runner d’Oriente

Dalla Turchia alla Puglia. Con intenzioni di conquista, sì, ma culturale. Esportando l’antica arte dei dervisci. Ma pronto a lasciarsi di Daniele De Michele aka Donpasta contaminare dal ritmo della taranta C’è un uomo, in Turchia, che è stato capace di far danzare, per la prima volta dopo millenni, una donna tra i dervisci rotanti. Gli effetti di un’innovazione su una storia e sulla cultura, possono essere salvifici o devastanti, tutto dipende dall’onestà con cui si fa una cosa, diceva Coltrane. Incontro Mercan Dede grazie a Ludovico Einaudi, che è stato maestro concertatore dell’ultima Notte della Taranta. Immaginatevi uno strano tipo con una cresta punk, un flauto traverso in legno, il Ney, e due piatti da dj, che passa il tempo a parlare di cucina suonando armonie che vengono dall’alba dei tempi. Una sorta di Blade Runner al servizio della musica di Oriente. Chiedo a lui cosa significhi rapportarsi con una tradizione antichissima. Gli spiego che per un salentino, parlare di trance, danze di donne, tarantismo e paganesimi, è assai complicato. Perché il tarantismo, la rivolta di una donna attraverso l’isteria al maschilismo ed al patriarcato, non è argomento da trattare alla leggera. Gli racconto che De Martino fu cacciato dal Partito comunista italiano per aver sostenuto, coraggiosamente, che la religione non si sconfiggeva cancellandola, ma lavorando come faceva lei, in quel misterioso mondo dell’angoscia umana, che per semplice operazione di marketing, prese la protezione di Santo Paolo. Il Pci è morto, Santo Paolo, è presente in ogni imprecazione sotto forma di canto. Poi ci arrivò il delirio della modernità, che, più efficace del Pci, pretese che il progresso procedeva solo a discapito della storia. Vinse e l’identità collettiva, ancorata a quelle pratiche, fu cancellata. In Salento, negli ultimi anni, grazie a gente come i Sud Sound System, che fanno ragga in dialetto salentino, il rapporto con la musica tradizionale è riapparso. Tu, quando hai iniziato, hai ricevuto resistenze culturali e religiose in Turchia con il tuo lavoro? Ovviamente per molto tempo non è stato facile, ma me lo aspettavo. Quando per la prima volta fe68

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ci danzare una donna tra i dervisci, circa quindici anni fa, molti si sentirono offesi. Ora ci sono tante donne tra i dervisci o i musicisti di sufi. Una delle responsabilità dell’artista è di liberare la testa e l’anima della gente. Noi ci proviamo, come il pubblico risponda non dipende più da noi. Il danzatore derviscio più anziano che lavora con te, ha accettato le tue innovazioni? Lui ripete con un’attitudine e valori molto tradizionali. Inizialmente il mio modo di fare lo innervosiva, allora gli dissi “vieni con me in tournée, se non ti senti a tuo agio, non danzare. Non voglio obbligati”. Da quel momento abbiamo lavorato ogni sera, è molto concentrato ed eccitato. Ogni tanto quando faccio il dj nei rave, viene nel pubblico e vuole girare sui ritmi elettronici, perché dice che c’è una energia magica. In un certo senso ha fatto nascere la techno dervish. Il mio idolo, Joe Strummer nacque ad Ankara e da allora la Turchia è ufficialmente il luogo dove il punk inglese ha preso vita. Scherzo, però dalla tua capigliatura immagino che di sovvertimenti di tradizioni te ne intendi. Un’attitudine punk e sperimentale aiuta il rinnovarsi di una cultura? L’essenza del punk è per me legata alla libertà ed alla giustizia. È una fantastica espressione di come possa essere l’umanità. Libera, creativa, piena di vita e con il fuoco nel suo cuore. Prendi il caso di un giovane musicista salentino che ho visto in concerto qui in Salento, Antonio Castrignanò. Quando suonava, non si isolava, era in rapporto con chi ascoltava, lasciandosi andare, senza curarsi del loro giudizio, ma mettendo tutta l’energia possibile. Per me, questo è il punk. La migliore musica elettronica a Londra la fanno dei tipi del Bangladesh, la musica più fresca in Francia è quella algerina. Tutto ormai si intreccia. La scena artistica turca è molto dinamica. Pensi che sia in grado di modificare la situazione culturale e politica? La Turchia è cambiata molto negli ultimi 15 anni. Ci sono tantissimi scrittori, musicisti, artisti che hanno un grande impatto, più di tanti politici. Ad esempio, vent’anni fa, i musicisti curdi zigani avevano tantissime difficoltà a passare in radio, tv o in concerto. Nel mio ensemble, ci sono musicisti turchi, armeni, dell’Anatolia che suonano assieme, con una sinfonia piena di diversità. Questo ti-

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po di scambi che succedono nella musica hanno apportato molte innovazioni nella società turca, alzandone il livello democratico. Vieni da una famiglia di musicisti? No, vengo da una famiglia di origini modeste, né di musicisti, né di artisti. Sono frutto del caso. Forse per questo ho deciso di lavorare con la musica e le arti visive, forse perché da ragazzo era molto stufo. Noi otrantini abbiamo inventato l’espressione “mamma li turchi”, dopo la vostra invasione. Siamo legati a voi da una storia difficile ma comune, che si espleta nell’uso indiscriminato di melanzane. Cosa caratterizza di più la cucina turca? Penso le spezie ed il caffè. Il vero caffè turco ha un profumo magico. Quando qualcuno lo prepara, tutto il vicinato profuma. A volte è servito con un bicchiere d’acqua fredda e due deliziosi dolcetti turchi. La tua ricetta salentina preferita? Fave e cicorie. Sono assolutamente complementari. Quando le mangi sei in connessione con la terra. Come anche con le olive ed i peperoncini. Ogni cosa ha il gusto della terra, del mare e dell’aria del Salento. Pensando alle melanzane turche, un vero prodigio di equilibri, faccio allora uno sforzo, mettendo da parte antiche beghe tra popoli. Puoi dirmi a che ricette assoceresti tre musicisti che ami? Manu Chao ed i Tacos. Sono pieni di gusto, colore e vita. Sono ingredienti presentati separatamente. Ecco, la musica di Manu Chao è un misto di suoni differenti e strutture indefinite. La gente prende quello di cui ha voglia. In un certo senso sono cibi e musiche interattivi! E poi Ludovico Einaudi e la vellutata. La sua musica è soffice, come una crema, piena di colori. Bjork ed il cibo giapponese. La sua è una musica molto estetica, un po’ come il cibo giapponese, dove la presentazione è molto importante, minimale e estremamente matematica. Nei sushi e sashimi trovi una dimensione precisa, con 6 porzioni in ogni piatto. Un po’ come nella musica di Bjork, dove per ogni canzone c’è una precisa ponderazione e scelta degli strumenti.

«L’essenza del punk è legata alla libertà e alla giustizia. Per me è una fantastica espressione di come possa essere l’umanità»

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teatro cultura

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Gabriele Lavia torna dopo trent’anni a mettere in scena I masnadieri di Schiller. Un allestimento magnifico con la nuova Giovane compagnia dell’Argentina di Roma

Il letto, la battaglia, la forca

di Marcantonio Lucidi «L’uomo nasce dal fango, sguazza un poco nel fango, produce fango e si scioglie alla fine nel fango: e come fango finirà forse appiccicato alle suole delle scarpe di un pronipote». Difficile, difficilissimo essere ironici con questa battuta che lo zoppo e gobbo e orrendo Franz pronuncia da solo in un angolo di palcoscenico del teatro India di Roma, finalmente utilizzato in tutta la sua larghezza e vastità, circondato per tre lati da grandi pannelli riempiti di graffiti sui quali esplode la scritta “Sturm und Drang”, Tempesta e Assalto. Eppure questo bravissimo giovane attore, Francesco Bonomo, arriva a un tale sardonico sghignazzo che viene immediata la risata della mente, diversa da quella del cuore, perché fredda, disperata, scagliata contro il dio che ci confina in questo mondo e ci condanna a stare zoppi e gobbi, ciascuno a suo modo, nell’anima o nel corpo: «Natura… madre maledetta, chi ti ha dato il potere di premiare lui e castigare me? Perché c’è qualcuno che ha tutto… e un altro che non ha niente?», inveisce Franz, fratello di colui che ha tutto, Karl, bello, biondo eppure anch’egli un maledetto, dannato nello spirito, che cercherà di raddrizzare il mondo con la rapina, l’omicidio, la devastazione. I masnadieri di Friedrich Schiller, messi in scena per la seconda volta da Gabriele Lavia dopo l’indimenticata sua edizione dell’82, sono vestiti di cuoio come romantici blouson noir parigini, coperti con il nero della rivolta indossato dalle menti dei giovani d’oggi. Tutto deve essere distrutto in nome dell’uomo lasciato senza dèi in una Ragione illuministica che non lo addestra ad ordinare il mondo. Da rovesciare sono persino le regole della drammaturgia. Già così addentro a Shakespeare, Schiller diciassettenne nel 1776, (anno fra l’al-

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Una scena de I masnadieri, diretto da Gabriele Lavia

tro dell’indipendenza americana) inizia a scrivere con I masnadieri un racconto pieno di rumore e furore, certo non pensato da un idiota ma da un sovvertitore che mette in scena le due storie parallele dei fratelli - senza curarsi troppo di intrecci, coerenza, cause e effetti - e

L’uomo come fango finirà sulle scarpe di un pronipote nel finale le manda a sbattere l’una contro l’altra in un clangore d’inferno e di sprofondamento. Ci sono autori perfetti per certi registi. Se levassero le locandine da fuori il teatro per l’ingresso di spettatori ignari di cosa si rappresenta e di chi lo allestisce, fin dalle prime battute pronunciate da ombre che camminano dentro il buio delle luci, si direbbe che questo è Lavia. Che fa Schiller. Energia, forza, corse a perdifiato, da masnada barbara, germanica, atavica, contro le legioni delle istituzioni politiche, dello status quo e del moralismo. Azione allo spasimo, per lo spettatore che ama il teatro e sta come un ragaz-

zino stupito di fronte alla mamma che gli scaraventa un bidone di gelato in gola. Nessuna indulgenza verso i personaggi. Il coraggio non esiste ma solo la temerarietà, la prudenza muore nella codardia, senza saggezza è il vecchio padre Moor affogato nella sentina degli errori non riscattabili. «Il letto, la battaglia, la forca - urla Karl - sono i nostri destini», i destini di chi muore. Amalia, innamorata del masnadiero, concupita dallo storpio, canta: «Maledetti voiiiii, maledetti voiii». Con questo allestimento nasce la Giovane compagnia del Teatro di Roma: oltre a Bonomo , bravi anche Simone Toni, un Karl fra un Cristo e un dannato di periferia, e Cristina Pasino, un’Amalia perduta nella sua gioventù, ragazza che a tutti e a nessuno s’augura d’incontrare a vent’anni. Guidato con mano da maestro il gruppo degli altri quindici attori, totalmente immersi nelle tempeste romantiche di Lavia e Schiller. Scene di Alessandro Camera, costumi di Andrea Viotti, musiche rock di Franco Mussida, luci di Simone De Angelis, graffiti dei due writers Paolo Colasanti e Leonardo Maltese.

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cinema cultura

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Infanzia e armonia

Da sinistra Anton Adasinsky (Mefistofele) e Johannes Zeiler (Faust)

Un affresco, l’ultimo film di Aleksandr Sokurov. Il regista russo “dipinge” la perdita di umanità del personaggio di Goethe

La terra desolata di Faust

di Alessia Mazzenga

Il Faust e la sua insaziabile ansia di conoscenza, il suo distogliere lo sguardo da dio («chi può dire oggi di credere in dio?»), per cercare il senso della vita nella materia («dove sarà quest’anima? Nella testa, nel cuore? Io non l’ho mai trovata») è l’uomo moderno. Il geniale scienziato, il coraggioso scopritore, che porta avanti il progresso. Le sue tentazioni: la frenesia d’azione e di potere, il dominio sulla storia e sugli altri. È su questa seconda natura dell’eroe contemporaneo, onnipotente, che tradisce sé stesso ben prima d’intrattenere il rovinoso patto con un povero diavolo, che si concentra la rappresentazione del Faust, ora nelle sale, di Aleksandr Sokurov. Il regista russo (allievo del grande Andrei Tarkovskij), vincitore del Leone d’oro all’ultima Mostra del cinema di Venezia. Dopo aver ritratto Hitler, come omuncolo ridicolo, in Moloch, come eroe perduto Lenin in Taurus e Hirohito, imperatore e criminale di guerra, ne Il sole, ora il regista propone il mitico personaggio mefistofelico a conclusione della sua impietosa disamina sulle poco eroiche figure del potere nell’era contemporanea. Con una carrellata che parte dalle altezze celesti e finisce sul pene di un cadavere miseramente squartato Sokurov cinicamente ci trasporta nel mondo laido e senza speranza (e il riferimento alle inquietanti pitture del fiammingo Bosch è immediato) di un “titano”, che mentre intraprende il suo cammino verso il progresso si corrompe, perché cieco e pronto a rinunciare a ciò che ha di più prezioso. La sua umanità, appunto. «Il male non ha niente di sovrannaturale ha dichiarato recentemente il regista -. Lo si crede in una società moralmente degradata. Ma l’uomo non è debole, è forte, può combattere e vincere». E sono le uniche parole di speranza in una rappresentazione che altrimenti apparirebbe disperata. Sokurov, infatti, dipinge (nel vero senso della parola, nel film l’immagine pittorica è sovrana) un Mesfistofele (Anton Adasinsky, grandissimo attore e mimo) tanto orrendo nell’aspetto quanto innocuo nell’animo se paragonato al suo dottor Faust (l’attore Johannes Zeiler). Scienziato per cui «la vita ha perso ogni valore», quando ha deciso di abbracciare un’azione delittuosa ispirata dallo “spirito di negazione” verso l’esistente. «Tutto ciò che è fugace è soltanto fetore», dirà mentre fallisce la sua ricerca sull’uomo, ridotto a semplice cadavere che cammina. Solo le immagini sublimi d’intatta bellezza del volto di Margherita, che per pochi istanti solamente riescono a fermare il suo sterile vagare senza senso per lande desertiche (indimenticabile il desolante paesaggio finale) e che ci mostrano la vita a cui il Faust ha rinunciato, di una struggente nostalgia per quello che sarebbe potuto essere e non è stato, restituiscono dignità all’umano e valore a ciò che non può avere prezzo.

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Forse non sarà un capolavoro la pellicola Cavalli, dell’esordiente Michele Rho, presentata alla passata Mostra del cinema di Venezia e dallo scorso fine settimana nelle sale. Ma certamente ha il coraggio di esplorare vie non più battute dalla nostra cinematografia nazionale. Soprattutto quando la storia decide di affrontare il percorso di formazione di due adolescenti, senza scadere nel vuoto delle banalità delle inutili commedie contemporanee. Alessandro e Pietro (da grandi Vinicio Marchioni e Michele Alhaique) vivono isolati tra le montagne di un incontaminato paesaggio dell’Italia di fine ’800 con i genitori (Cesare Apolito e Asia Argento). Fino a quando la giovane mamma non muore e il padre dona loro due bellissimi cavalli con cui rendersi indipendenti, in tempi in cui l’infanzia durava poco e occorreva certamente vitalità per affrontare da soli un mondo adulto anche molto violento. Un mondo diverso dal nostro, però, più genuino (che solo da poco aveva cominciato a corrompersi nel claustrofobico paesaggio urbano), con valori e priorità diverse. Che nel film viene rappresentato con immagini che riescono a ricreare il fascino selvaggio di un’armonia originaria ora perduta. Tra uomo, natura e a.m. animali.

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bazar cultura

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Junior di Martina Fotia

Sulle orme del Sapiens Tutti parenti, tutti differenti. Homo Sapiens. La grande storia della diversità umana è la mostra che Palaexpo inaugura a Roma l’11 novembre. Un evento dai contenuti per molti versi rivoluzionari, frutto di un progetto di ricerca interdisciplinare concepito dal genetista italiano Luigi Cavalli Sforza. Un’equipe internazionale di scienziati, afferenti a diverse discipline, presenta le più recenti scoperte sull’evoluzione dell’uomo e sulle strade percorse dai nostri antenati. La mostra segue un ordine cronologico, a partire dalla nascita del genere Homo e attraverso le varie tappe della sua evoluzione. Filo conduttore è l’esplorazione ma anche la contemporaneità di ben cinque specie di ominidi sul pianeta Terra. Il messaggio di fondo è di unità storica e genetica, siamo una specie giovane, che nasce in Africa meno di 200mila anni fa e sappiamo che rispetto all’età della terra la nostra comparsa è davvero recente, ma nello stesso tempo di diversità, poiché da un piccolo inizio si è sviluppata una grande storia di innovazione e ingegnosi adattamenti.

La mostra si ripropone l’intento di ricostruire il cespuglio degli ominidi e cerca di dimostrare che l’evoluzione dell’uomo non è un flusso, una freccia, un fiume che scorre in modo lineare e progressivo. Ma è un qualcosa che funziona a scarti, ci sono molte specie diverse con tante cose in comune ma che sono distinte tra loro. La mostra, divisa in sei sezioni, si propone al pubblico attraverso molti exhibit interattivi ed immersivi (la prima camminata dell’umanità a Laetoli, in Tanzania) e postazioni handson (sulle pitture rupestri). E i bambini? I loro libri di storia sono “preistorici” quanto basta per decidere di portarli a seguire sia la mostra che l’intelligente laboratorio didattico. “Simili diversi” è il nome che è stato dato allo spazio per i bambini, con lo scopo di far loro visualizzare i concetti della mostra in modo tangibile e pratico. Al posto del pavimento un grande planisfero li accoglierà consentendogli di seguire gli spostamenti degli ominidi e nello stesso tempo di osservare e realizzare che cosa accadeva nelle altre parti del glo-

bo e quali altri “parenti” vi facessero la loro comparsa. Sulle pareti, una linea del tempo allestita con tasche e recipienti, li aiuterà a riallacciare le fila della nostra storia millenaria tra genetica, popoli e lingue. Un’esperienza emozionante per ripercorrere il viaggio dell’umanità.

scienza di Federico Tulli

© nasa

Il pianeta mai nato

L’asteroide Lutetia fotografato dalla sonda Rosetta

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Il piacere di incontrarlo e osservarlo da vicino lo ha avuto fino a oggi solamente la sonda Rosetta. Grazie a questo straordinario appuntamento spaziale, avvenuto nel 2010, gli esperti dell’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf), del Max Planck Institut e dell’Istituto renano per la ricerca ambientale, dipartimento di ricerca planetaria a Colonia hanno potuto delineare il primo ritratto completo dell’asteroide Lutetia. A quello che è uno dei corpi celesti più antichi del Sistema solare, noto come il “pia-

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cultura

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Blues di Federico Sisti

Il gran ritorno di Tom Stralunato come sempre, di spigolo con la vita più che mai, e armato da un’esigenza espressiva viscerale e autentica. È il ritorno di una delle più geniali maschere del rock blues dei nostri tempi. A sette anni dalla pubblicazione di Real Gone è appena uscito il nuovo album di Tom Waits, il suo ventiduesimo lavoro dal titolo Bad as me. Un disco in cui poesia ad alto tasso alcolico, si mescola a ruvide ballate velate di malinconia. È il miglior distillato dello stile Waits, così come da sempre lo conosciamo, con l’aggiunta di un inaspettato pizzico di auto ironia. Che si fa divertito e pungente nel video che ha anticipato il lancio del disco e in cui si vede il cantante e compositore alla guida di una vecchia auto scassata, in veste di imbonitore di se stesso, mentre cerca di convincere i passanti ad ascoltare il suo Cattivo come me. Tredici brani incazzati quanto basta, intervallati da testi intimi e struggenti come “Back in the crowd”, poesie costruite su cose apparentemente piccole e quotidiane, ma dense di emozioni. A far da contrappunto, sullo sfondo, di tanto in tanto un rumoreggiare metallico di pentole, un bofonchiare di motori sfondati. E poi il ritmo scuro della notte, gli incontri casuali e un po’ balordi nei quartieri malneta mai nato”, la prestigiosa rivista scientifica Science dedica la copertina e tre interessanti articoli. La sonda dell’Agenzia spaziale europea (Esa), Rosetta, in viaggio verso la cometa Churyumov-Gerasimenko che incrocerà nel 2014, ha puntato i suoi “occhi” sull’asteroide il 10 luglio 2010, quando è arrivata a soli 3.170 chilometri da Lutetia. Dai dati emerge che si tratta di una sorta di dinosauro spaziale, un vero e proprio fossile del Sistema solare, antichissimo e unico, più simile più a un precursore di un pianeta, ossia a un planetesimale, che agli altri asteroidi. Questa distinzione è importante, sottolineano gli esperti, perché i planetesimali sono le prime unità che hanno dato vita ai pianeti. La strumentazione (la camera Osiris e lo spettrometro Virtis) che ha reso possibile

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Tom Waits

famati della città degli Angeli. Quell’atmosfera, insomma, che l’accompagnava anche nei film di Jim Jarmush e che continua a stargli appiccicata addosso come un alone bohemien regalando una patina underground ad ogni suo lavoro, malgrado l’anti divo Tom Waits stia saldamente in cima alle classiche da oltre trent’anni, rischiando talora di sembrare la controfigura di se stesso. Un manierismo, una posa, un’insistenza sulla voce “vissuta” che in questo nuovo Bad as me lasciano il posto invece a un uso della voce misurato e profondo. le osservazioni è in gran parte di costruzione italiana. Osiris ha permesso di stabilire l’età di Lutetia, circa 3,6 miliardi di anni. «Mentre Virtis - spiega in uno dei tre articoli pubblicati su Science, Fabrizio Capaccioni (Inaf-Ifsi, Istituto di fisica dello spazio interplanetario di Roma) responsabile scientifico dello spettrometro - ha rilevato come la sua superficie sia estremamente uniforme dal punto di vista della composizione mantenendo le caratteristiche di una crosta primordiale, formata da materiali assimilabili a meteoriti primitive». Dai dati emerge anche che la superficie non è stata modellata dall’acqua e che ha temperature medie oscillanti tra 210 e 28 gradi sotto lo zero. Lutetia, infine, è ricoperto di uno strato di polvere molto fine e omogeneo, simile alla regolite che copre la Luna.

cdbox COLDPLAY Raffinato e al tempo stesso più solare è l’atteso ritorno dei Coldplay. Con un album di studio dal titolo esotico, Mylo Xyloto, (Emi) che la band capitanata da Chris Martin ha presentato in anteprima mondiale in un grande concerto di piazza a Madrid. ADAM FREI Empty music industry è il debutto per Adam Frei, il nuovo progetto indipendente della band già nota (soprattutto al pubblico britannico) con il nome The Afterglow. Molte chitarre, poche concessioni ad arrangiamenti orchestrali o di tastiera. AA VV This must be the palce non è solo il titolo dell’ ultimo film di Paolo Sorrentino ma anche quello della sua colonna sonora pubblicata da Indigo film. Tra i protagonisti: Gavin Friday Band, Iggy Pop, Jonsi & Alex, Julia Kent e i The Pieces Of Shit la band di cui fa parte Sean Penn nel film. DRAGONETTE Sono una delle band più gettonate del momento. Con l’album Fixing to Thrill, i Dragonette mettono a valore la collaborazione con Martin Solveig nella hit “Hello. Il terzetto elettro pop canadese veleggia di nuovo verso il top della classifica.

BABALÙ Reggae, trip hop, pop, dub, si mescolano nell’esordio di Babalù Battito stabile (Officina records/Egea) il mastering è di Greg Calbi (che ha lavorato con Springsteen).

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appuntamenti cultura

Milano

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Roma

Arte ’800

Venerdì 4 novembre aprono al pubblico le Gallerie d’Italia - Piazza Scala. All’interno un percorso dedicato all’arte dell’Ottocento, da Canova a Boccioni.

Bari

Note di piano

È il pianoforte, declinato nelle sue forme più diverse, il vero protagonista della rassegna musicale Time Zones. Dal 4 al 19 novembre al teatro Forma.

cosenza

Da Stern a Gatto

Per il Roma jazz festival in arrivo all’Auditorium parco della musica alcuni tra i più grandi nomi del jazz. Da Dave Holland (8 novembre) a Mike Stern, nella foto, (il 10) e Pat Metheny (il 13) per arrivare ai nostri Roberto Gatto (l’11) o Danilo Rea (il 15). Chiude il 17 novembre il concerto di Dee Deee Bridgewater con un omaggio a Billie Holiday. www.romajazzfestival.it

Torino siena

La Palestina tra noi

Tanti bambini e donne tra le macerie. Volti che esprimono la non rassegnazione, l’aspirazione ad un’esistenza degna di essere vissuta. Sono le immagini del reportage Per non far finta di non sapere realizzato da Fabio Cappelli (elaborazioni digitali di Mariangela Iannotta) nei campi profughi palestinesi in Libano. La mostra è allestita dal 5 al 13 novembre a Siena, presso il Santa Maria della Scala. Un’altra mostra (a cura dell’associazione Hawiyya) La Palestina della convivenza fa ripercorre la storia dei palestinesi dal 1880 al 1948. Sempre il 5 novembre sul dramma vissuto dai palestinesi a partire dalle 9.30 si tiene un convegno con docenti, scrittori e giornalisti.

Meet design

Dopo il successo della tappa romana, Meet Design sbarca a Torino. Dal 5 novembre incontri, mostre e presentazioni daranno vita a un viaggio nel design italiano con particolare attenzione alle nuove leve.

umbria

Donne e libri Pazienza at the war

Il Museo delle arti e dei mestieri della provincia di Cosenza ospita dal 4 novembre all’11 dicembre la mostra Astarte & Zanardi, Andrea Pazienza at the war. 74

Si intitola C’era una donna ed è dedicata interamente all’universo femminile l’edizione 2011 di Umbrialibri, manifestazione incentrata sull’editoria e la cultura che dal 4 al 6 novembre è a Terni e dal 10 al 13 alla Rocca Paolina a Perugia. Previsti anche laboratori didattici .

Roma

Mojo Station

Tre location per tre giorni alla scoperta della cultura blues. È la settima edizione del Mojo station festival che all’Ex cinema Palazzo, al circolo Arci Clockwork e al Jailbreak dal 4 al 6 novembre ospita il meglio delle sonorità afro americane made in Italy.

in tour

L’anima di Dente

Il suo ultimo album Io tra di noi è un successo e per Dente è l’ora di festeggiare sui palchi. Appuntamento il 4 novembre al Ratatoj di Saluzzo (Cn) e il 5 all’Hiroshima di Torino. 4 novembre 2011

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Dal 3 novembre in tutte le librerie

il nuovo libro delL’Asino d’oro www.lasinodoroedizioni.it



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