ELIO GALASSO OREFICERIA MEDIEVALE IN CAMPANIA storia dell’oreficeria campana
1 FEDERAZIONE ORAFI CAMPANI
ELIO GALASSO OREFICERIA MEDIEVALE IN CAMPANIA storia dell’oreficeria campana
1 FEDERAZIONE ORAFI CAMPANI
FEDERAZIONE ORAFI CAMPANI storia dell’oreficeria campana / 1 ELIO GALASSO Oreficeria medievale in Campania
ELIO GALASSO Oreficeria medievale in Campania prima edizione - Museo del Sannio, 1969 seconda edizione - Federazione Orafi Campani, 2005
2005 © FEDERAZIONE ORAFI CAMPANI pubblicazione a cura di
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Fibula di Benevento (Seconda metà VII sec.). Oro con cammeo in onice e gemme a goccia. Oxford, Ashmolean Museum.
La tutela ed il rilancio del settore orafo della Campania può e deve trovare un sostegno fondamentale nella riscoperta della sua plurimillenaria tradizione d'arte orafa. Il nostro artigianato deriva la sua sapienza e creatività a partire da una tradizione antichissima, che si è intrecciata con le grandi civiltà artistiche della nostra regione. Diffondere la conoscenza di questa grande tradizione vuol dire non solo fare opera di divulgazione scientifica di una storia che, per le sue straordinarie realizzazioni, merita di essere conosciuta da tutti, ma anche rinvigorire l'immagine ed il fascino dell'arte orafa campana dei nostri giorni, in quanto discendente diretta di una straordinaria vicenda plurisecolare. Perciò la Federazione Orafi Campani ha voluto ripubblicare, come primo volume di una collana che intende percorrere la storia dell'oreficeria campana sino ai nostri giorni, lo studio sull'oreficeria medievale in Campania, realizzato dal Prof. Elio Galasso, già Direttore del Museo del Sannio di Benevento. Nella continuità plurisecolare della oreficeria della Campania l'Autore propone il fascino straordinario della produzione medievale determinatovi dall'incontro tra culture diversissime barbariche e nordeuropee (longobarda e normanna), mediorientali (bizantina, siriaca, iraniana, islamica), mediterranee (di Amalfi e Gaeta) - sul fecondo sostrato della classicità grecoromana. Il Galasso esamina capolavori eseguiti tra il VII e il XIII secolo che si trovano tuttora nella regione o che, pur conservati altrove, egli attribuisce ad officine della Campania, opportunamente riferendosi all'ambito della regione odierna che nel Medioevo includeva varie e distinte entità politiche. Ne risultano due principali gruppi di opere d'arte. Il primo viene assegnato ad una inedita “Scuola beneventana”, il secondo è messo in relazione con le officine palermitane del XII secolo. Tra questi poli si colloca una serie di oggetti nei quali maniere di fondo sostanzialmente bizantino si colorano a volta di tinte occidentali e che, per ciò stesso, viene collegata alla rinascita desideriana di Montecassino. Opere di assoluta bellezza risultano, fra tante, la fibula aurea di Capua del Cabinet des Médailles della Biblioteca Nazionale di Parigi, gli ori da Senise del Museo Archeologico Nazionale di Napoli, la fibula di Benevento dello Ashmolean Museum di Oxford in Gran Bretagna, la splendida stauroteca del duomo di Napoli, le coperte dell'evangeliario del duomo di Capua, le mitrie di Scala e di Amalfi, le lastre argentee a sbalzo e cesello già nella collezione Martin Le Roy, la croce aurea della cattedrale di Gaeta. L'avere riunito in un quadro unitario e in così larga sintesi un materiale di datazione e interpretazione assai difficile, provvisto di una letteratura frammentaria, e l'averne dato una analisi stilistica che ha guidato ogni successiva ricerca, costituisce non piccolo merito dell'Autore e rende quantomai utile ed opportuna l'odierna ristampa dell'introvabile volume.
Giuseppe Pezzuto Presidente Federazione Orafi Campani
Federazione Orafi Campani
La Federazione Orafi Campani, con oltre 500 aziende associate appartenenti a tutte le categorie del mondo orafo (dettaglianti, grossisti, produttori, artigiani), è la più numerosa organizzazione di rappresentanza del settore orafo in Campania. La F.O.C. cura la tutela sindacale degli interessi e delle istanze del comparto a tutti i livelli istituzionali ed offre assistenza e consulenza specializzata alle singole imprese. La Federazione, attualmente presieduta da Giuseppe Pezzuto, è nata nel 1994 dall’evoluzione della storica Associazione Orafa Napoletana, struttura di rappresentanza del settore fondata nel 1945. La F.O.C. aderisce alla Confcommercio, alla Federazione Nazionale Dettaglianti Orafi e, tramite quest’ultima, alla Confedorafi. E’ il fulcro in Campania delle organizzazioni nazionali di settore. La F.O.C. ha delegazioni in quasi tutti i comuni della provincia di Napoli e nella regione. 2500 aziende, di cui 1500 dettaglianti, 200 grossisti e 800 tra industriali ed artigiani: tra i più importanti e vitali comparti orafi in Campania e in Italia, cardine dell’economia della nostra regione. Dare un contributo concreto alla crescita del settore è l’obiettivo principale della Federazione, volto a fornire ai propri Soci servizi e strumenti per una conduzione efficiente della propria azienda. La F.O.C. cura la formazione e l’aggiornamento dei giovani, degli imprenditori e dei loro collaboratori, organizzando corsi e seminari sulla gemmologia, sulle novità normative, sul marketing di settore e su tutte le tematiche e le innovazioni che le imprese devono conoscere per far fronte all’evoluzione del mercato. Particolare attenzione è riservata all’accesso al credi-
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to: tramite speciali convenzioni con primari istituti bancari o attraverso il Consorzio Fidi Ascom la Federazione consente agli associati di ottenere condizioni di favore negli strumenti bancari e tassi inferiori a quelli di mercato. Gli uffici della Federazione sono quotidianamente a disposizione dei soci per risolvere insieme, con consulenze personalizzate, ogni problema legale, amministrativo ed aziendale. La F.O.C. opera per la sicurezza delle imprese attraverso il dialogo costante con le Forze dell’Ordine e specifici programmi di incentivazione come il “Progetto Sicurezza” che, con il sostegno della Camera di Commercio su proposta dell’AscomConfcommercio, ha consentito a numerosi gioiellieri di avere un rilevante contributo per l’acquisto di sistemi antifurto. CONSIGLIO DIRETTIVO
Presidente
Pezzuto Giuseppe
Vicepresidenti
Capuano Pietro, de Laurentiis Roberto
Consiglieri
Angeloni Ciro, Anzovino Cosma, Ascione Mauro, Caruso Cosimo, De Marco Carmen, De Meo Johnny, De Simone Luigi, Di Dio Alfredo, Di Gennaro Francesco, Giannotti Vincenzo, Lanfreschi Giovan Giuseppe, Minieri Paolo, Natale Giovanni, Pace Salvatore, Pennacchio Aniello, Perrella Antonio, Pezzuto Biancamaria, Salvati Alfredo, Torsi Carlo.
PREFAZIONE
Sebbene sull’oreficeria fiorita nel Medioevo in Campania non siano mancati studi, alcuni fatti sono stati finora in ombra, altri senza un’adeguata valutazione critica, tutti inoltre in attesa di essere considerati in connessione tra loro, in una chiara visione di insieme, storicamente fondata. Tanto più che la regione, la quale già in età romana, per l’annessione di una parte del Sannio al tempo dell’imperatore Adriano, non era omogenea, si presenta fino all’unificazione del Mezzogiorno ad opera dei Normanni distinta in due aree, una interna, al centro di un vasto ducato, poi principato longobardo di Benevento, l’altra costiera, con il ducato di Napoli e quindi con Amalfi e Gaeta resesi autonome in orbita bizantina; aree differenziate, nonostante il comune fondo classico, la diffusione di cultura orientale anche nella prima e le relazioni tra loro intercorrenti. È apparsa quindi necessaria, insieme a chiarificazioni e ad approfondimenti specifici, pure di natura tecnica, la ricostruzione del quadro unitario delle complesse vicende. A soddisfare queste esigenze ha mirato perciò il presente lavoro, frutto di attenti studi condotti con acume ed amore da Elio Galasso. Così, attraverso lo studio di pezzi inediti o poco noti ed una nuova, approfondita disamina del materiale conosciuto, sono state ricostruite, tenendo conto peraltro dei contributi precedenti, le vicende che si svolsero nella regione dalla fase di trapasso dal Tardoantico all’Alto Medioevo fino a tutto il periodo svevo, tralasciando volutamente quello successivo. La splendida fioritura dell’oreficeria gotica durante l’età angioina, quando in Napoli, divenuta pure capitale artistica del regno, affluirono dalla Francia e poi dalla Toscana, in particolare da Siena, gli orafi insieme agli architetti, agli scultori e ai pittori, è infatti materia che non può non formare oggetto di altra specifica monografia. Risalta perciò nella trattazione, in tutta evidenza, la portata della scuola di Benevento. Ne sono infatti accuratamente studiati il sorgere e lo svolgersi ad opera dei Longobardi, i quali anche per la mediazione culturale operata dalla Chiesa non tardarono ad arricchire il repertorio barbarico di modi stilistici di ascendenza classica 7
ed insieme bizantini ed orientali, in una produzione aulica, rivelata da rinvenimenti purtroppo non numerosi e sporadici. Sì che bene a questa oreficeria, della quale per la prima volta sono stati esaminati comparativamente tutti gli oggetti ritrovati, viene ora data la definizione di «beneventana», in analogia a quanto è avvenuto per le altre arti fiorite a Benevento e nel suo territorio, sia pure dopo il periodo di splendore di quella, conclusosi nell’VIII secolo, quando per motivi politici ed economici si ridusse gradualmente, fino a cessare del tutto, l’afflusso di oro dall’impero bizantino. Con la stessa attenta analisi delle opere pervenuteci, appaiono quindi ricostruiti i fatti verificatisi a Napoli e nella Campania costiera, dove cospicua fu l’importazione di oreficerie bizantine e dove queste influenzarono largamente la produzione locale, che poi assunse ad Amalfi e a Gaeta, dopo l’emancipazione da Napoli, caratteristiche peculiari per l’innesto sul fondo originario di modi orientali. Si andò formando così, nel IX secolo, un linguaggio che si diffuse anche nell’entroterra, frazionato dalla secessione di Salerno e poi di Capua dal principato di Benevento, un linguaggio comune ormai alle città della riviera e dell’interno, come a Montecassino. E bene viene presentata nel libro la funzione avuta nei riguardi dell’oreficeria da questo grande centro, quando, con la conquista normanna, la Campania politicamente unificata fu una parte periferica dello stato unitario costituito nel Mezzogiorno d’Italia e finì con raccogliere per lo più i prodotti raffinati delle botteghe del palazzo reale di Palermo, quelli nei quali l’armonica fusione di modi bizantini e arabi nello spirito già romanico venne realizzata anche mediante tecniche nuove. Ne sono quindi analizzate le conseguenze fino al periodo svevo, del quale per le ingiurie del tempo e degli uomini pochissimo purtroppo è giunto fino a noi. Ma quanto rimane ha consentito di cogliere anche nell’oreficeria la tendenza classicizzante comune alle altre arti, tendenza che affiora pure in opere del primo periodo angioino, quando ormai prevalevano le forme gotiche importate dalla Francia. Con l’esame di esse si conclude la ricostruzione dell’intero svolgimento dell’oreficeria in Campania dal V al XIII secolo, ricostruzione che per essere rigorosamente fondata su un’ampia ed accurata documentazione, oltre che su un attento vaglio critico delle opere, appare pienamente rispondente alle esigenze che l’hanno suggerita. MARIO ROTILI (dalla prefazione alla prima edizione del 1969)
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ELIO GALASSO OREFICERIA MEDIEVALE IN CAMPANIA
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DUCA IGNOTO del sec. VIII Tremisse d’oro (con appiccagnolo di reimpiego); ROMUALDO II DUCA (703-729) Tremisse d’oro; ARECHI II PRINCIPE (758-787) Tremisse d’oro; GRIMOALDO III PRINCIPE (788-806) tre Tremissi d’oro e un Denaro d’argento; GRIMOALDO IV PRINCIPE (806817) Denaro d’argento; SICONE PRINCIPE (817-832) due Denari d’argento; SICARDO PRINCIPE (832-839) un Soldo d’oro e due Denari d’argento; ADELCHI PRINCIPE (855-878) due Denari d’argento; LUDOVICO II IMPERATORE e ANGILBERGA (867-871) due Denari d’argento; Interregno di PIETRO VESCOVO DI BENEVENTO (897) Denaro d’argento. Mantova, Collezione privata (ora Benevento, Museo del Sannio)
CAPITOLO PRIMO
OREFICERIA MEDIOEVALE IN CAMPANIA
altri campi come in quello dell’oreficeria medioevale in Campania è In pochi possibile rendersi conto di quanto complesso possa essere un tema in appa-
renza lineare perché relativo ad una regione che fu sempre al centro delle vicende dell’Italia meridionale, e talora non soltanto di questa. Trovare soluzioni di continuità nella storia dell’oreficeria campana riesce impresa ardua, dati anche i precisi raccordi di ciascuna delle sue fasi con una tradizione remotissima. Il che coincide con i riferimenti moderni al graduale trapasso della cultura antica nel Medio Evo. Ma altrettanto difficile sarebbe dimostrare una inesistente uniformità di sviluppo in quanto, prima della unificazione del Mezzogiorno ad opera dei Normanni, non è possibile parlare neppure di omogeneità della regione attuale né secondo i termini geografico-amministrativi di creazione romana - che del resto distinguevano il Samnium dalla Campania vera e propria - né da un punto di vista etnico. Il presente lavoro si propone pertanto di tracciare il quadro unitario di una materia variatissima eppure intessuta di rapporti del tutto particolari, che l’esame tecnico-stilistico sottolinea e classifica meglio che non il criterio strettamente cronologico. Di qui la possibilità di individuare una importante scuola beneventana non solo sulla base di rinvenimenti nell’ambito dei territori politicamente longobardi ma soprattutto mediante le corrispondenze alla ‘facies’ artistica dell’entroterra meridionale di ciascuno degli oggetti considerati, proponendo caute cronologie ed attribuzioni nella consapevolezza che un gioiello può essere tramandato per generazioni nella stessa famiglia e riapparire alla luce molto lontano dal luogo di origine. Fra le oreficerie beneventane e quelle coeve delle zone comprese nell’orbita bizantina non sarà tracciata una delimitazione netta, nonostante la discussione separata degli argomenti: differenze notevoli in realtà esistono, tuttavia il fondo classico della civiltà della Campania e le relazioni di ogni natura intercorse fra le popolazioni locali nell’Alto Medioevo favorì in modo evidente gli scambi delle forme espressive. 11
Neppure si riterrà di trattare partitamente di certi atteggiamenti individuali di aree, quali la costiera amalfitana o quella di Gaeta, gravitanti con alterna autonomia attorno al ducato di Napoli. Con la conquista normanna e la formazione dello stato unitario nel Mezzogiorno d’Italia, la Campania, acquisita per la prima volta l’unita territoriale, ebbe in Montecassino - punto d’incontro di modi orientali e occidentali - la sua guida spirituale, e nei maggiori centri rivieraschi le zone più ricettive nei confronti della produzione orafa degli ‘ateliers’ reali palermitani. La regione, quantunque messa in una condizione periferica, sviluppò allora una fervida attività artistica che adeguandosi ai modelli siciliani si innestò felicemente sul tronco bizantino. Tale fase verrà seguita fino allo sbocco nella stagione sveva per rilevare quanto e come i tipi importati insieme a lavori di tessitura, ad icone musive e dipinte entro cornici d’argento, ad oggetti smaltati, abbiano inciso sulla evoluzione del gusto locale. La scarsa oreficeria federiciana a noi pervenuta non consentirà forse di cogliere a pieno le sfumature degli orientamenti con i quali anche le arti cosiddette minori espressero le generali tendenze ad una potente plasticità di ispirazione classica, ma un’opera quale il reliquiario dei Santi Prisco e Stefano, nel Tesoro del Duomo di Capua, sembra sufficiente testimonianza della partecipazione dell’arte orafa al movimento che interessò l’intera regione. Non è del resto senza significato la presenza del piccolo capolavoro in una città prediletta da Federico II e da lui arricchita della monumentale Porta del Regno sul Volturno purtroppo distrutta. Deliberatamente si tralascia di prendere in considerazione l’oreficeria angioina, materia troppo vasta e diversa per non meritare una trattazione singola, per quanto le esigenze critiche conducano fino al secondo decennio del Trecento sulle tracce di quella filigrana ‘a vermicelli’ e in riporti di emisferette a traforo che era stato il vero ‘leit-motiv’ della scuola palermitana. Ma la splendida mitra di Amalfi del tempo di Roberto d’Angiò, ultima opera qui inclusa, non offre ormai di sapore campano che l’antica maestria di bottega: la sua originalità consiste nella energia dei profili, nelle soluzioni linearistiche che conferiscono agli stessi elementi ripresi dalla natura raffinate levità gotiche di colore oltremontano. La qualità spesso eccezionale della produzione non ha mancato finora di stimolare l’interesse degli studiosi man mano che abili riconoscimenti e fortunate scoperte archeologiche consentivano di recuperare il materiale. Tuttavia, mai è stato rico12
struito il profilo critico di una vicenda che in Campania ha premesse remote se, come pare probabile, provengono da una officina greca locale la lamina d’oro a sbalzo e la collana in elettro e oro, entrambe dell’VIII-VII secolo a.C., rinvenute nel 1886 nella Tomba 11 della necropoli di Cuma1. È questo che ora si tiene presente nell’affrontare il tema dell’oreficeria campana medioevale. Bisognerà peraltro valutare la realtà politica dell’ambiente ampliando o riducendo i limiti di una definizione geografica puramente convenzionale e talvolta addirittura anacronistica, specie per l’Alto Medioevo, secondo l’alterna possibilità di includervi parte del Lazio meridionale e del Molise, della 1. Ori e argenti dell’Italia antica, Catalogo della Puglia del Nord e della Lucania. Si Mostra, Oreficerie greche ed ellenistiche a cura di potrà così riconoscere nella regione un N. DEGRASSI, Torino-Bari 1961, n. 226, p. 89. gusto caratteristico nonostante gli 2. Cfr. R. DOEHAERD, Méditerranée et economie occidentale pendant le haut Moyen Âge, «Cahiers aggiornamenti della struttura sociale, i d’Histoire Mondiale» I (1954), 3, p. 571 ss.; R. variabili rapporti di scambio con altri LOPEZ, Les influences orientales et l’eveil économique de l’Occident, ivi, p. 594 ss.; AUTORI VARI, paesi, le continue invenzioni di tecniAtti del X Congresso Internazionale di Scienze che che ebbero luogo tra il VII e il IX Storiche (Roma, settembre 1955), Firenze 1955, secolo sullo sfondo del generale procesIII; R. LATOUCHE, Les origines de l’économie occidentale (IV -XI siècle), Paris 1956. so di trasformazione civile attuatosi nel 3. M. ROTILI, Arti figurative e arti minori in Storia Mediterraneo2. In seguito, le singole di Napoli, Napoli 1967, II. 2 (1969), p. 877 ss. 4. Ori e argenti dell’Italia antica cit., p. 79. Vedi influenze culturali, barbarica, bizantiinoltre: L. BREGLIA, Catalogo delle oreficerie del na, musulmana e orientale agenti in Museo Nazionale di Napoli, Roma 1941; R. Campania, divennero meno autonome SIVIERO, Gli ori e le ombre del Museo Nazionale di Napoli, Firenze 1954. ed i fenomeni artistici tornarono ad 5. In particolare: M. ROTILI, L’arte nel Sannio, 3 ispirazione prevalentemente unitaria . Benevento 1952; E. T. SALMON, Samnium and the Samnites, Cambridge 1967. Indagando le origini di quel gusto sugli scarsi dati documentari disponibili, ritroviamo nella regione fin dalla prima età storica il suo duplice ambiente culturale conservatosi nel Medioevo, quello della fascia costiera sostanzialmente greco animato da apporti etruschi - gli ori di Ruvo, ora nel Museo Archeologico Nazionale di Napoli, fanno pensare addirittura ad una officina campana di imitazione etrusca4 - e quello italico dell’area interna, centro della civiltà sannitica estesa dal Molise alla Lucania5. II processo di osmosi tematica e formale tra le due aree, che ha acquistato e
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e
nuova fisionomia con la recente scoperta di ori e argenti greci nella necropoli sannitica di Caudium6, finì per essere incrementato dalla unità latina con la conferma del sostanziale divario culturale preesistente, sempre avvertibile nelle orefice6. Parte di tale materiale è esposto nella Sezione Archeologica del Museo del Sannio a rie greche e orientali descritte da Benevento. Sui reperti della necropoli caudina Petronio Arbitro nella Cena di cfr. D. MUSTILLI, La documentazione archeologiTrimalchione e nei tesori delle città ca in Campania in Greci e Italici in Magna Grecia, Atti del Primo Convegno di Studi sulla sepolte dal Vesuvio nel 79 d.C. 7. In Magna Grecia (Taranto, 4-8 novembre 1961), modo particolare interessa la presenza Napoli 1962, p. 163 ss. con bibl.; M. ROTILI, Il Museo del Sannio nell’abbazia di Santa Sofia e in età classica di «aurifices» e «argentanella Rocca dei Rettori di Benevento, Roma 1967; rii» a Benevento quale prologo della A.D. T RENDALL , The red-figured vases of scuola medioevale che è doveroso ormai Lucania, Campania and Sicily, Oxford 1967, I, p. 700. riconoscere. Si tratta infatti di argo7. Sugli ori di età classica della Campania, consermento inedito, fondato su testimonianvati quasi tutti nel Museo Archeologico Nazionale di Napoli, oltre ai citati lavori della ze epigrafiche e sulla sopravvivenza di BREGLIA, del SIVIERO e al Catalogo della Mostra rarissimi oggetti, come l’anello d’oro Ori e argenti dell’Italia antica, cfr. A. HERON DE tardoromano conservato nel Museo del VILLEFOSSE , L’argenterie et les bijoux d’or du Trésor de Boscoreale, Paris 1903; A. MAIURI, La Sannio a Benevento, sulla cui pietra Casa di Menandro e il suo tesoro di argenteria, incastonata è incisa la svelta figuretta di Roma 1932. Sulle attività di orafi e gioiellieri campani antichi: A. LIPINSKY, Epigrafia latina un gallo incedente a sinistra ascrivibile minore: orafi ed argentieri nella Roma pagana e ad un gemmario locale8. cristiana «IX Corso di cultura sull’arte ravennate Le prime affermazioni europee del e bizantina», Ravenna 1962, p. 315 ss.; ID; Le arti minori in Campania fino al secolo X circa in Cristianesimo agirono proprio in terra contributo dell’Archidiocesi di Capua alla vita campana da catalizzatore dello sviluppo religiosa e culturale del Meridione, «Atti del Convegno Nazionale di Studi Storici promosso civile. La regione, assai ricettiva nei ricdalla Società di Storia Patria di Terra di Lavoro chi centri portuali brulicanti di traffici e (26-31 ottobre 1966)», Roma 1967, p. 129 ss.; nelle grandi città agrarie dell’interno, ne ID.; Oreficerie bizantine ed italo-bizantine nella regione campana, «XIV Corso di cultura sull’arte accolse con profitto gli impulsi nelle ravennate e bizantina», Ravenna 1967, p. 105 ss. attività connesse con le funzioni e l’arre8. Significativa anche l’iscrizione di un cinerario ottagonale dello stesso museo: «ARGENTARIA L.F. do sacro. Tale situazione si delineò in MAXIMILLA FILIAE OPTIMAE» (C.I.L. IX. 1748). maniera evidente dopo l’Editto di Milano del 313 d.C., a seguito del quale nuovi centri urbani assurti ad autorità di sedi vescovili videro sorgere, con la costitu14
zione di una gerarchia ecclesiastica, botteghe orafe in grado di raccogliere l’eredità classica9. Di queste non esiste purtroppo una documentazione storica sufficiente né è possibile individuare le caratteristiche tecniche. 9. Sulle prime sedi vescovili in Campania e nel Sannio cfr. F. LANZONI, Le diocesi dalle origini al La più antica testimonianza della principio del secolo VII, Faenza 1927. continuità di quella tradizione risale ai 10 S. PONTII PAULINI NOLANI, Opera ex recensione G. D E H ARTEL , Pragae-Vindobonae-Lipsiae principi del V secolo e riguarda la gran1894, «Corpus scriptorum ecclesiasticorum litede «crux divina» in oro, l’«auritus calix» rarum editum concilio et impensis Academiae e lo «scyphus argenteus» cui accenna Literarum Caesareae Vindobonensis», vol. XXIX Epistulae, vol. XXX Carmina: per l’«auritus San Paolino nei suoi Carmina. Al colto calix» cfr. Carmen XXIII v. 128; per lo «scyphus cittadino burdigalense, trasferitosi in argenteus» cfr. Carmen XVIII vv. 467; per la «crux divina» cfr. Carmen XVIII vv. 460 e 609località Coemeteria - poi Cimitile - per 610 nonché Epistulae pp. 268.6, 269.14, costituirvi una comunità monastica e 273.25. Sulla croce vedi inoltre L.A. MURATORI, quindi eletto nel 410 vescovo della viciAnecdota. I. Dissertatio de cruce nolana, Mediolani 1679; G.S. REMONDINI, Della nolana na Nola, si deve, com’è noto, l’imporecclesiastica storia, Napoli 1747, I, 15, p. 440 ss.: tante complesso di edifici sacri costruiti «Della preziosa croce fatta da San Paolino nella Basilica del Cimitero» con una ricostruzione intorno al sepolcro di San Felice, primo fantasiosa della croce a tav. 1. fig. 1; A. LIPINSKY, vescovo di Nola martirizzato durante la La «crux gemmata» e il culto della Santa Croce persecuzione di Decio. Grandi cure San nei documenti superstiti e nelle raffigurazioni monumentali «VII Corso di cultura sull’arte Paolino dedicò anche ai loro arredi. ravennate e bizantina», Ravenna 1960, II, p. Alle ricordate testimonianze dei Carmi 139 ss.; ID., Le arti minori in Campania fino al secolo X circa cit., p. 110 ss.: I D., Oreficerie egli, approfondendo la questione delle bizantine ed italo-bizantine nella regione campareliquie della Santa Croce, aggiunse na cit., p. 132. Su Cimitile e sulla figura di San nelle Epistole la descrizione di ambienti Paolino cfr. i seguenti studi più recenti: G.C. G OLDSMITH , Paulinus’churches at Nola, text, splendenti di oro dagli altari ai lacunari translations and commentary, Amsterdam 1940; delle volte, da una delle quali, forse G. CHIERICI, Cimitile, «Palladio» 1953, p. 175 ss., 1957, p. 69 ss.; I D ., Cimitile, «Archivio nella Basilica, pendeva tra lampade la Storico di Terra di Lavoro» 1959, p. 81 ss.; H. famosa «crux divina»10. BELTING, Die Basilica dei SS. Martiri in Cimitile Sembra dunque legittimo avanzare und ihr frühmittelalterliche Freskenzyklus, Wiesbaden 1962; M. ROTILI, Arti figurative e l’ipotesi di una attività orafa nolana dai modi oggi sfuggenti e tuttavia certo permeati di raffinata sensibilità orientale. A tali conclusioni invita il rapporto di contemporaneità con l’ambiente artistico romano dove una croce aurea simile a 15
quella di San Paolino, adorna di gemme e orlata di perle secondo una indubbia simbologia orientale, appare nel mosaico dell’abside di Santa Pudenziana. Ma di quegli albori dell’oreficeria 11. C. COURTOIS, Les Vandales et l’Afrique, Paris altomedioevale campana poco più che 1955, p. 194 ss. Il vescovo nolano era invece la notizia resisteva già alla metà del V morto nel 431. 12. M.A. C ASSIODORO , Variae, IV. 50 in secolo al flagello delle incursioni dei Monumenta Germaniae Historica, t. XII a cura Vandali di Genserico, che una infondata di TH. MOMMSEN. Sul conflitto tra barbari e tradizione vuole abbiano deportato San bizantini cfr. PROCOPIO DI CESAREA, De bello gotico, ediz. e traduz. di D. COMPARETTI, Roma Paolino in Africa11. Fra il 507 e il 511 fu 1895, «Fonti per la Storia d’Italia dell’lstituto inoltre una eruzione del Vesuvio ad Storico Italiano per il Medioevo». accrescere i disordini nella economia nolana. Seguirono i disastri della guerra greco-gotica12 e, ultimo sconvolgimento della vita sociale, l’invasione longobarda che alterò profondamente dal 568-70 le condizioni storiche e politiche dell’intero Mezzogiorno segnando l’inizio di una nuova civiltà artistica.
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CAPITOLO SECONDO
LA SCUOLA BENEVENTANA
processo formativo dei nuovi modi artistici doveva ricevere sostanziali Il laborioso contributi dall’oreficeria, risollevatasi con i Longobardi dall’ambito artigianale
cui si era prevalentemente ridotta dopo la metà del V secolo. Fu essa la prima tra le arti a godere della iniziale fase di assestamento unitario del ducato di Benevento, sistemando il rapporto linguistico tra cultura 1. G.P. BOGNETTI, L’influsso delle istituzioni militari importata e civiltà locale nel significato romane sulle istituzioni longobarde del secolo VI e la prevalente di acclimazione all’ambiente natura della Fara, «Atti del Congresso Internazionale di Diritto Romano e di Storia del latino. E si trattò di un risultato sorprenDiritto», Verona 1948 - Milano 1951, vol. IV; A. dente per un tipo di vita, come quella TAGLIAFERRI, Note sull’economia longobarda dagli stanziamenti nordici al primo ducato italiano, barbarica, orientata verso una economia «Economia e Storia» 4 (1962), p. 425 ss; A. di raccolta, dove la timida richiesta di TAGLIAFERRI, Tematica e ritmo bizantini nell’arte prodotti finiti in metallo, armi o utensilelongobarda. Le croci auree, «Aquileia nostra» 1964. 2. P.S. LEICHT, Operai, artigiani, agricoltori in Italia ria di qualità, non favoriva certo la grandal secolo VI al XVI, Milano 1946-1959; C. de produzione. HIGOUNET, Le problème économique: L’Èglise et la vie rurale pendant le très Haut Moyen Âge in Le La condizione dei Longobardi di chiese nei regni dell’Europa occidentale e i loro rapfronte alle genti assoggettate non si preporti con Roma sino all’800, «Settimane di Studio sentava peraltro completamente primitidel Centro Italiano di Studi sull’Alto Medioevo. VII», Spoleto 1960, p. 775 ss.; G. GALASSO, Le va. Moderata nei contatti con Bisanzio città campane nell’atto medioevo in Mezzogiorno durante la permanenza pannonica, essa medievale e moderno, Torino 1965, p. 61 ss. era in molti sensi predisposta ad assorbire forme e tecniche dell’area mediterranea1. Ne fanno fede il sistema di insediamento sulla base territoriale dell’ordinamento romano, la pronta costituzione della capitale nel principale centro sulla via Appia, il rispetto della funzione coordinatrice delle città per quanto riguarda le attività economiche e artigianali, lo stesso consenso alla formazione di possedimenti ecclesiastici accanto alle vaste proprietà di sovrani e primati2. I centri urbani si avviarono presto a ridiventare sede delle industrie manifatturiere 17
dopo la riorganizzazione seguita alla scomparsa di talune città o alla riduzione dell’importanza di altre: drammatica la sorte di Capua, ridotta nei primi secoli del ducato ad una funzione del tutto provinciale. Non è dunque fuor di luogo pensare alla presenza anche in Benevento di quei fabbri-orefici vaganti, di cui nel territorio longobardo dell’Italia settentrionale è stata ritrovata qualche tomba riconoscibile dal tipico strumentario3. Ad essi e ad officine operanti nella tradizione tardoromana doveva essere affidata l’esecuzione della vasta gamma di manufatti, armi ed accessori ornamentali documentati nella necropoli beneventana dei secoli VI-VIII4. È, questo, un materiale interessante per lo studio delle tecniche acquisite dai Longobardi nelle precedenti migrazioni, ma ancor più per stabilire gli inizi di una scuola orafa professionale nell’interno della Campania dato che non si riscontrano analoghi notevoli sviluppi nel3. M. BROZZI-A. TAGLIAFERRI, Arte longobarda. La l’architettura, nella scultura in pietra e scultura figurativa su marmo e su metallo, Cividale nella pittura almeno fino alla metà del 1961, II p. 16. secolo VIII. Il campo preferito dai primi 4. A. ZAZO, Rinvenimento di una necropoli longobarda del VII-VIII secolo, «Samnium» I (1928), 1, p. artisti barbarici rimase infatti il metallo, 130. Gli oggetti rimasti a Benevento si conservaoltre che il legno e l’osso. La fortuna di tali no nel Museo del Sannio. 5. G.P. BOGNETTI, Sul tipo e sul grado di civiltà dei arti, notò acutamente il Bognetti, fu dovuLongobardi in Italia secondo i dati dell’archeologia e ta al fatto che i loro schemi espressivi della storia dell’arte, «Atti del 3° Congresso «rispondevano ad una classe vasta e statica Internazionale di Storia dell’Alto-medioevo», Losanna 1951-1954, p. 69. di committenti, trasfusa poi nel feudo e saldamente affermatasi nell’economia rurale dell’Italia, legata agli interessi della Chiesa e al suo spirito tradizionalista»5. Gli oggetti in ferro della necropoli beneventana - spade a lama piatta ad unico o a doppio taglio, punte di lancia con lama robusta e costolatura piena terminanti in linea ogivale, cuspidi di lancia con sfaccettature, teste di ascia, punte di frecce, lame - sono prodotti di una civiltà avanzata nella lavorazione del metallo che se non sapeva usare per i preziosi la filigrana, lo sbalzo, il niello, il traforo, l’incastonatura, la laminatura e l’agemina, avrebbe presto imparato a farlo. Alcune di queste tecniche si ritrovano anzi già nelle fibule, linguelle, piastrine e guarnizioni bronzee di cinture maschili trovate insieme alle armi, ma soprattutto nei chiodi in bronzo dorato di uno scudo con umbone in ferro. Ne restano cinque, a margini spioventi e testa piana decorata da una croce incisa a trattini, con un cerchio all’incrocio dei bracci e due cerchietti minori ai lati delle estremità. Al bordo corre un motivo a zig-zag entro due circonferenze concentriche. Singolare è il motivo della 18
croce che sembra riscontrarsi in un solo altro esempio in Italia, cioè nei chiodi dell’umbone frammentario di Cava Manara conservato nel Museo Civico di Pavia6. Esso era invece frequente in altri manufatti, specialmente nelle crocette auree7. Il Grierson ne ha individuato la derivazione dalle monete di Tiberio II (578-582)8: il fenomeno può spiegarsi nel regno settentrionale per il tramite ravennate e, nel Sud, per contatti instaurati con i territori bizantini dell’Adriatico attraverso la via Appia. La fattura molto accurata degli esemplari beneventani denota la rapida trasformazione del primitivo fabbro-orefice in artigiano-artista nel corso del VI secolo. Alla sua capacità di controllare gli impulsi ornamentali di varia provenienza faceva riscontro del resto quella degli orafi che modellarono i monili e le crocette della stessa necropoli*. Nella vicenda delle origini della scuola beneventana ebbe parte un altro interlocutore ricco di esperienze, la Chiesa, mediatrice di cultura fra la popolazione romana e quella barbarica non ancora del tutto convertita fino al VIII secolo ed oltre, nonostante il passaggio ufficiale alla nuova fede, stando alla tradizione, per intervento del vescovo Barbato e di Teodorada, consorte del duca Romualdo I (671-687)9. Notizie contraddittorie per la totalità degli stanziamenti europei permettono di con-
6. A. PERONI, Oreficerie e metalli lavorati tardoantichi e altomedioevali del territorio di Pavia, Spoleto 1967, p. 144 n. 108. 7. S. FUCHS, Die Langobardischen Goldblattkreuze aus der Zone südwärts der Alpen, Berlin 1938, nn. 134, 175, 177. Inoltre: J. WERNER, Münzdatierte austrasische Grabfunde, «Germanische Denkmäler Völkerwanderungszeit» III (1935), p. 77 ss.; ID., Das alamannische Fürstengrab von Wittslinger, «Münchner Beiträge zur Vor - und Frühgeschichte» II (1950), p. 85 ss.; G. H ASELOFF , Die Longobardischen Goldblattkreuze. Ein Beitrag zur Frage nach dem Ursprung von Stil II, «Jahrbuch des Römisch-germanischen Zentralmuseums», Mainz 1956, p. 143 ss.; O. VON H ESSEN , Die Goldblattkreuze aus der Zone nord-wärts der Alpen in Problemi della civiltà e dell’economia longobarda, Milano 1964, p. 199 ss. 8. P. GRIERSON, The silver coinage of the Lombards, «Archivio Storico Lombardo» 1956, p. 130 ss. Per la presenza dello stesso motivo nella monetazione longobarda cfr. E. BERNAREGGI, Il sistema economico e la monetazione dei Longobardi nell’Italia superiore, Milano 1960, p. 71. altri reperti della necropoli longobarda di * Vari Benevento, rimasti fin dal 1927 tra i framment ritenuti di scarto, sono stati da me riconosciuti e pubblicati (E. GALASSO, Il museo in mostra, Benevento, Museo del Sannio 1990). Tra essi sono alcuni gioielli specificamente pertinenti a questo studio: Orecchino a cestello in bronzo con gemma vitrea azzurra (Inv. 40341), Perla in pasta vitrea gialla (Inv. 40332), Puntali di cintura in ferro ageminati in argento con motivi a tenia e ovuli (Inv. 40371, 40373). 9. Cfr. F. HIRSCH, Das Herzogthum Benevent bis zum Untergange des langobardischen Reiches, Leipzig 1871 (traduz. di M. SCHIPA, Il ducato di Benevento sino alla caduta del regno longobardo, Roma-TorinoNapoli 1890; nuova ediz. in La Longobardia meridionale a cura di N. Acocella, Roma 1968); G. POCHETTINO, I Longobardi nell’Italia meridionale (570-1080), Napoli-Caserta 1930; E. PONTIERI, Benevento longobarda e il travaglio politico dell’Italia meridionale nell’Alto Medioevo, «Atti del 3° Congresso Internazionale di Studi sull’Alto Medioevo», Spoleto 1959, p. 19 ss.; A. PRATESI, Barbato, santo in Dizionario biografico degli italiani, Roma VI (1964), p. 128 ss.
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cludere che i Longobardi furono legati per lungo tempo all’antica religione pagana. Le numerose crocette delle loro necropoli, comprese quelle di Benevento, sollevano dunque problemi di rapporti dettati anche da utilità politica o da tendenze personali. In ogni modo, l’infiltrazione di elementi stilistici cristiani nel repertorio dei motivi decorativi zoomorfi di origine germanica e scandinava risultò utile per l’arricchimento delle tecniche consuetudinarie del maestro di bottega, che gli oggetti riferibili alla produzione della Campania longobarda rivelano subito in 10. Cfr. in particolare: G. DE FRANCOVICH, Problemi possesso di numerosi processi metallurgici della pittura e della scultura preromanica in I problemi comuni dell’Europa post-carolingia, «Settimane di e forse anche di tecniche dello smalto, praStudio del Centro Italiano di Studi sull’Alto ticate di solito da specialisti. Medioevo. II», Spoleto 1955, p. 355 ss.; H. Nella «Longobardia minor», cui conBELTING, Die Basilica dei SS. Martiri in Cimitile und frühmittelalterlicher Freschenzyklus cit.; F. viene estendere i termini della omogenea BOLOGNA, Pittura delle origini, Roma 1962, H. cultura beneventana, non appaiono numeBelting, Studien zum beneventanischen Hof im 8. Jahrhundert, «Dumbarton Oaks Studies», 1962 p. rosi fenomeni di importazione per quanto 141 ss.; M. ROTILI, Origini della pittura italiana, riguarda l’oreficeria. Ma bisogna tener preBergamo 1963; ID., L’Exultet della Cattedrale di sente che, a differenza del regno di Pavia, Capua e la miniatura «beneventana» in Il contributo dell’Archidiocesi di Capua alla vita religiosa e culturadove il materiale superstite comprende le del Meridione cit., p. 197 ss.; ID., La diocesi di anche forme correnti e artigianali, le testiBenevento, «Corpus della scultura altomedievale. V», Spoleto 1966; ID., Architettura e scultura monianze del territorio meridionale, quasi dell’Alto Medioevo a Benevento, «XIV Corso di culesclusivamente di tipo aulico e di alta quatura sull’arte ravennate e bizantina» cit., p. 293 ss.; lità, provengono da rinvenimenti sporadiID., La miniatura «beneventana» dell’Alto Medioevo, ivi, p. 309 ss.; A. RUSCONI, La Chiesa di Santa Sofia ci. Ne è sufficiente ricercarne la causa nel di Benevento, ivi p. 339 ss.; F. BOLOGNA, Gli affrecarattere chiuso della politica longobarda schi di Santa Sofia in Benevento, Università degli Studi di Napoli, Istituto di Storia dell’Arte, Corso almeno fino a quando il Sacrum Palatium di Lezioni per l’Anno Accademico 1967-1968; ID., della capitale rimase il centro di uno stato La pittura del Medioevo, Milano 1968. unitario; sebbene possa sempre formularsi per alcuni momenti una distinzione tra situazione politica e vicende artistiche. Sulla scorta del materiale a disposizione, delineare un profilo della scuola orafa beneventana in rapporto alle acquisizioni storico-sociologiche e storico-economiche non sembra pertanto prematuro. In attesa di altre fortunate scoperte archeologiche, la trama di sviluppo di quella produzione si definisce anche con l’ausilio dei dati forniti dalla indagine critica in diversi settori artistici e su nuove fonti documentarie. Basti considerare le forti analogie con l’architettura, la pittura e la miniatura, ormai «beneventane» nell’accezione generale10. 20
È con la scultura tuttavia che il confronto si fa stringente, fino a rilevare nella oreficeria la matrice di temi decorativi di tipico gusto longobardo, mediati dalla plastica per una naturale tendenza al traforo e alla iterazione di ornati ad intreccio11. Così, a differenza di quanto accadde nell’Italia settentrionale, dove il coefficiente del linguaggio autenticamente germanico mantenne tutta la sua consistenza, nella «Longobardia minor» si impose un senso di fresca eleganza nell’interpretare le forme classiche con venature di astrazione bizantina. Di grande significato risulta in proposito la decorazione per lo più floreale dei capitelli altomedioevali del Museo del Sannio mediata dall’arte del metallo e in particolare dall’oreficeria, da cui discende pure l’effetto cromatico, accentuato dal colore aggiunto, nei rilievi a nastri di Trivento nel Molise e Monte Sant’Angelo nella Puglia del Nord richia11. M. ROTILI, La diocesi di Benevento cit. manti le filigrane. Testimonianza singola12. Ivi, p. 74 e tav. XXVI a. Per i rapporti tra oreficeria re è poi una lastra marmorea (tav. II a) e scultura decorativa nell’Alto Medioevo cfr. specificamente: B. BRÉHIER, L’art en France des invasions della fine del VII o dei primi dell’VIII barbares à l’époque romane, Paris 1930; S. Fuchs, secolo conservata a Circello, in provincia Die langobardischen Goldblattkreuze aus der Zone südwärts der Alpen cit.; H. FOCILLON, Du Moyendi Benevento, che al di là del puro decoÂge germanique au Moyen-Âge occidental in Moyen rativismo desume dalla oreficeria barbariÂge. Survivance et reveils, Montreal 1945; G. DE ca la stessa resa plastica del volto FRANCOVICH, Il problema delle origini della scultura cosidetta «longobarda», «Atti del I Congresso umano12. Circostanze del genere conferInternazionale di studi longobardi», Spoleto 1952, mano le recenti soluzioni del problema p. 225 ss.; I. BELLI BARSALI, Problemi altomedievali. Rapporti tra la morfologia della incorniciatura sculdi una ben definita e unitaria circolaziotorea e la tecnica dell’oreficeria, «Arte lombarda» X ne culturale nell’area longobarda. (1965), vol. fuori abbonam. di «Studi in on. di Con interesse prevalentemente storiGiusta Nicco Fasola», p. 19 ss. co-artistico va dunque esaminato il campo specifico dell’oreficeria, non solo per una nuova classificazione degli oggetti secondo la morfologia e la varietà dei luoghi di rinvenimento, ma soprattutto per localizzarne per quanto possibile l’origine con opportuna valutazione delle affinità linguistico-figurative, in modo da riconnetterli al loro proprio contesto ambientale. Dal punto di vista stilistico gli ori longobardi dell’Italia meridionale, da ascrivere nella quasi totalità ad ‘ateliers’ della capitale, dispiegano una grande ricchezza di forme in stretto rapporto con il mondo orientale, siriaco, iranico ed islamico, un rapporto poi ulteriormente approfonditosi, come indicano gli ori e i gioielli delle vesti di San Zaccaria nell’affresco del secolo VIII nell’abside sinistra della chiesa di Santa Sofia a Benevento. Sono le fibule a scudo a 21
rivelare meglio di ogni altro monile le componenti di quel gusto, che trovava un motivo di primitiva esaltazione nello splendore del metallo e nel luccichio delle pietre preziose ma perseguiva con crescente interesse la decorazione stilizzata, la figura costruita con la linea, l’animazione del traforo, il contrasto tra primo piano in luce e fondo in ombra. Tali intenti emergono nella fibula d’oro di Capua (tav. II b) conservata nel Cabinet des Médailles della Bibliothéque Nationale di Parigi, lì pervenuta non si sa bene se dalla città romana - oggi Santa Maria Capua Vetere - distrutta nell’841 dai Saraceni, o dalla Capua attuale, fondata nell’866 dai profughi riparati a Sicopoli13. Formata da un disco lavorato a traforo, presenta la superficie divisa in zone concentriche. La più esterna è delimitata da due giri di filo d’oro finemente perlinato, nei quali è iscritta una zona con almandine ‘cloi13. J. WERNER, Die byzantinische Scheibenfibel von sonnées’ a faccia piana tagliate a triangoli. Al Capua, «Acta Archaeologica» VII (1936), p. 57 ss.; centro, ricavato a sbalzo e ad «opus interrasiM. C. ROSS, Some Longobard insignia, «Allen Memorial Art Museum Bulletin», Oberlin (Ohio, le» appare un grifo dalla pelle squamosa inceUSA), XX[ (1964), 3, p. 142 ss. e fig. 6: A. dente a sinistra, con un animale più piccolo LIPINSKY, Le arti minori in Campania fino al secolo X circa cit., p. 134 ss.; Id., Oreficerie bizantine ed non identificabile fra gli artigli. Dal bordo italo-bizantine nella regione campana cit., p. 113 ss. pendono tre catenine con gemme a goccia. 14. M.C. ROSS, Some longobard insignia cit., pp. 146 e 152. Compreso in un gruppo omogeneo di 15. G. BOVINI, La statua di porfido del Museo Arcivescovile fibule a tre pendagli provenienti dall’Italia di Ravenna, «VII Corso di cultura sull’arte ravennate e bizantina», Ravenna 1960, I, p. 39 ss. meridionale, il gioiello capuano è stato datato 16. G. Bovini, «Cristo vincitore sulle forze del male» nelfra il VI ed il VII secolo dal Ross14, che vi ha l’iconografia paleo-cristiana ravennate, «XI Corso di cultura sull’arte ravennate e bizantina», Ravenna riconosciuto una ripetizione longobarda del 1964, p. 25 ss.; A. LIPINSKY, La croce di San tipo di fibula riservato nella tarda età romana Lorenzo, la fibula del Palatino e le oreficerie tardoromane «a vite» (in appendice: Saggio di un Corpus all’imperatore, come attestano, tra numerosi delle fibule «a balestra»), «Palatino. Rivista romana ritratti dipinti, miniati o scolpiti, la monudi cultura», n. s. VI (1964), 5-6, p. 52 ss. mentale statua in porfido del Museo Arcivescovile di Ravenna ed il ritratto dell’imperatore nel «bema» di San Vitale15. La documentazione iconografica antica di tali oggetti corrisponde ad una precisa differenza di valori gerarchici, poiché la fibula a due pendagli contrassegnava la carica del «proconsul augustalis» mentre quella semplice a balestra indicava l’alto funzionario della classe senatoria. Allo stesso modo, nell’iconografia sacra, il Cristo si adorna della fibula imperiale a tre pendagli nel mosaico della Cappella Arcivescovile di Ravenna risalente agli anni 493-519, mentre gli arcangeli Michele e Gabriele, ai lati dell’abside di Sant’Apollinare in Classe, recano sulla spalla destra la fibula di grado proconsolare a due pendagli16. Anche ai santi appartenenti al rango senatorio è sempre 22
attribuito il loro caratteristico distintivo a balestra: a San Vitale nell’abside della sua chiesa in Ravenna, a S. Onesiforo nei mosaici di Haghios Ghiorgios in Salonicco, ai santi Sergio e Bacco in una icona del Museo di Kiew proveniente dal Monastero di Santa Caterina al Sinai. Alla documentazione può aggiungersi la fibula a due pendagli sulla veste del proconsole che riceve la Vergine, San Giuseppe e Cristo Bambino profughi in Egitto, nel mosaico dell’arco trionfale di Santa Maria Maggiore in Roma eseguito fra il 442 e il 450 sulla scorta del Vangelo apocrifo detto Pseudo17. Cfr. N. A. BRODZKY, L’iconographie oubliée de l’arc Matteo17. éphésien de Sainte Marie Majeure a Rome, Nelle loro monete auree i duchi e i «Bibliothèque de Byzantion», Bruxelles, I (1966), p. 1 ss. principi beneventani mostrano fino al i caratteri stilistici di tali monete d’oro e d’argento * Per secolo IX la fibula a tre pendagli sulla cfr. E. GALASSO, Il soldo d’oro beneventano, dollaro dell’Alto Medioevo, in “Sannio Economia” rivista della spalla destra (tav. IX c)*. La diffusione in Camera di Commmercio di Benevento, marzo-aprile ambiente longobardo di un monile esclu1978. Su mia proposta del febbraio 2005, ne sono stati acquistati per il Museo del Sannio altri diciotto sivamente bizantino dal punto di vista esemplari, da me già riconosciuti in una collezione tipologico non sorprende del tutto. Lo privata di Mantova: DUCA IGNOTO del sec. VIII Tremisse d’oro; ROMUALDO II DUCA (703-729) storico Procopio, nel discutere la politica Tremisse d’oro; ARECHI II PRINCIPE (758-787) Tremisse d’oro; GRIMOALDO III PRINCIPE (788-806) di Giustiniano tendente a fare tre Tremissi d’oro e un Denaro d’argento; GRIMOALDO dell’Armenia uno stato cuscinetto lungo IV PRINCIPE (806-817) Denaro d’argento; SICONE PRINCIPE (817-832) due Denari d’argento; SICARDO la frontiera orientale, sostiene che lo stesPRINCIPE (832-839) un Soldo d’oro e due Denari d’arso imperatore concesse a cinque satrapi gento; ADELCHI PRINCIPE (855-878) due Denari d’argento; LUDOVICO II IMPERATORE e ANGILBERGA armeni, come simbolo del potere, man(867-871) due Denari d’argento; Interregno di telli purpurei ornati di fibule d’oro con al PIETRO VESCOVO DI BENEVENTO (897) Denaro d’argento. Foto a pag. 10 e a pag. 44. centro una pietra preziosa e tre zaffiri 18. PROCOPIUS, Buildings, VII, Cambridge 1940, traduz. pendenti da catenine pure d’oro 18. ingl. di M.B. Dewing con la collab. di G. DOWNEY, lib. III. 1, p. 184; PAOLO DIACONO, Historia Doveva trattarsi di insegne del genere. Langobardorum, trad. ingl. di W.D. FOULKE, New York 1907, p. 177. Ma per le fibule italiane occorre rifarsi ad una produzione locale molto caratterizzata. I complessi modi stilistici rivelano infatti nella fibula capuana l’opera di un artefice sensibile a diverse risonanze culturali mediterranee. Alla istintiva predilezione per la policromia, specialmente per l’ornato a pietre rosse, che i Longobardi ebbero in comune con gli Ostrogoti e con molte genti germaniche, egli univa l’interesse per la forma romana del gioiello, marcando la stilizzazione del grifo predatore sul modello di prototipi iraniani del mitico animale, poi trasmessi attraverso le arti minori bizantine anche 23
all’ambiente dei Fatimiti d’Egitto e dei Selgiuchidi di Mossul e Bagdad. Tale accentuazione ha un evidente valore simbolico, significando il grifo la forza vincitrice, e si ricollega alla destinazione della fibula. A quale sovrano sia appartenuta non è dato conoscere. Stabilita tuttavia l’impossibilità di rapporti diretti con la tarda civiltà islamica, non sembra opportuno riproporre l’argomento della sua incerta provenienza per collocarla in epoca successiva alla fondazione della nuova Capua. Nel confermare quindi la datazione del Ross, con una certa propensione per il VII secolo, sorge l’ipotesi che la fibula sia appartenuta ad un membro della famiglia ducale di Benevento piuttosto che ad un gastaldo capuano, e che sia passata a Capua con lui o con un erede. Casi del genere avvenivano di solito per monacazioni, come risulta dalle fonti docu19. J. MAZZOLENI, Le pergamene di Capua, Napoli mentarie. Un analogo trasferimento di un 1957-1960, I, p. 7 ss. gioiello sullo stesso itinerario viene segna20. Cfr. soprattutto A. SAMBON, Recueil des monnaies de l’Italie méridionale depuis le VII siècle jusqu’au lato da una «charta donationis» del marzo XIX . Bénévent, «Le Musée. Revue d’Art mendel 977 con cui la nobile longobarda suelle», Paris 1908-1909, p. 27 ss.; M. CAGIATI, La zecca di Benevento, Milano 1916-1917. Sichelperga, entrando nel monastero 21. A. DE RINALDIS, Senise. Monili d’oro di età barcapuano di San Giovanni a Corte retto barica, «Notizie degli Scavi di Antichità» 1916, dalla badessa Sichelgarda, donava ad esso p. 329 ss. Cfr. inoltre: L. BREGLIA, Catalogo delle oreficerie del Museo Nazionale di Napoli cit., nn. alcuni beni di famiglia in Dugenta, presso 996-1001; R. SIVIERO, Gli ori e le ambre del Sant’Agata dei Goti, in zona beneventaMuseo Nazionale di Napoli cit.; Ori e argenti dell’Italia antica. Catalogo della Mostra cit., nn. na, nonché «affiblatorium de auru unu 865-869, p. 246 ss. Fu il LIPINSKY (Le arti minopesante uncie due»19. ri in Campania fino al secolo X circa cit., p. 139) L’ipotesi ora avanzata pone il problead avvertire per la prima volta i collegamenti fra gli oggetti di Senise e gli «ateliers» di Benevento. ma della bottega di origine, che deve essere localizzata a Benevento. Nella capitale è accertabile infatti per il VII secolo una notevole attività orafa la quale, oltre a risentire influssi bizantini perfino nella monetazione in oro della zecca ducale20, tendeva a risolvere il gusto per la policromia in una più matura preferenza per la costruzione formale e la disposizione armonica dell’ornato. Uguali intenti animavano gli ignoti artefici dell’importante tesoro scoperto nel 1916 a Senise, in Lucania, entro una tomba riportata in luce durante lavori di sterro in contrada La Salsa21. La sua datazione, assicurata dall’impronta del soldo aureo di Eraclio e Tiberio (659-668) sul rovescio dei due orecchini (tav. V a), rivela precise e
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coincidenze con la cronologia di gran parte dell’oreficeria longobarda meridionale. Un’attenta analisi stilistica riporta anche per questi oggetti alla città di Benevento dove, individuati i diversi ‘ateliers’ da cui uscirono altre minuterie in oro durante i secoli VII e VIII, è ormai da localizzare il fulcro di una scuola fortemente caratterizzata, chiave della civiltà artistica che, trovato il completo assetto interno verso la metà del secolo VIII, viene oggi chiamata «beneventana» in tutte le sue espressioni. Di qui l’opportunità di estendere tale definizione all’oreficeria, e con la stessa proprietà, se Benevento ne fu l’unico centro propulsore22. II tesoro di Senise, esposto nel Museo Archeologico Nazionale di Napoli, consta di una croce, due anelli, due orecchini, una fibula e un frammento di monile impre22. Oltre ai lavori sulle arti figurative citati alla nota 10, per l’appellativo di «beneventana» dato alla cisabile, tutti in oro. La croce (tav. I), in scrittura libraria diffusa soprattutto nel ducato, lamina a sezione pentagonale consolidata poi principato, di Benevento cfr. il classico E. A. all’interno da mastice, ha bracci uguali LOEW, The Beneventan script, Oxford 1914, nonché dello stesso: Scriptura beneventana, Oxford riuniti al centro da un castone ovale 1929. Inoltre: G. B ATTELLI , Lezioni di privo del lapislazzulo originario. Quattro paleografia, Città del Vaticano 1949; G. CENCETTI, Lineamenti di storia della scrittura cappelletti di lamina si saldano alle estrelatina, Bologna 1954; J. MAZZOLENI, Lezioni di mità dei bracci mediante dentelli. Al paleografia latina, diplomatica e scienze ausiliari. braccio superiore è fissata la cerniera delNapoli 1964-1966 con vasta bibliografia; per la scrittura beneventana documentaria cfr. E. l’appiccagnolo con una maglia a fascia GALASSO, Caratteri paleografici e diplomatici delcircolare ancora sospesa all’orlo filigranal’atto privato a Capua e a Benevento prima del secolo XI in Il contributo dell’Archidiocesi di Capua to; il braccio inferiore conserva tracce alla vita religiosa e culturale del Meridione, «Atti della cerniera in lamina rigida per un del Convegno Nazionale di Studi Storici promospendente perduto. Molto elegante la fatso dalla Società di Storia Patria di Terra di Lavoro (26-31 ottobre 1966), Roma 1967, p. 291 ss. tura dei due anelli. Il primo (tav. I) è una fascia larga in oro massiccio lavorata a giorno con volute a S di varia dimensione. Da essa si diparte un calice di sei petali ad alto fusto per reggere il castone quadrangolare contenente una pietra dura verde a superficie spianata. Il secondo anello (tav. IV) appare come una verga tonda, pure in oro massiccio, saldata con una coppia di globuli ad un grande castone ovale riccamente decorato nella parte esterna. Presenta infatti il bordo di filo a globetti, una zona ornata a treccia di filigrana e una zona più interna con sedici castoni trapezoidali contenenti pietre dure in rosso granato e verde smeraldo, le quali circondano una sardonice ovale con25
vessa a tre strati su cui è intagliata una sfinge alata accovacciata*. A sua volta, il frammento di monile sembra essere appartenuto ad una fascetta circolare bulinata esternamente, con cerniere in lamina rigida su due lati opposti; dai resti delle cerniere pende una minuscola crocetta equilatera con castoni in pietra dura verde smeraldo riuniti al piccolo castone centrale con un’almandina. Si tratta di oggetti in stretto rapporto fra loro per la qualità delle tecniche. Comune a tutti è la tendenza alla decorazione cromatica di pietre in sapienti consonanze col bagliore caldo dell’oro. Tale gusto consegue il risultato più notevole nelle figure a paste vitree ‘cloisonnées’ degli orecchini (tav. IV), ormai lontane dai semplici effetti contrastati delle coeve incastonature barbariche e chiaramente sensibili all’arte musiva bizantina, documenti di un linguaggio nuovo che non si disunirà neppure nello squisito astrattismo della filigrana della grande fibula. Ma né l’equilibrio compositivo né il cavilloso linearismo rinunciano ad una forte irruenza espressiva che deforma le figure superando ogni insinuazione realistica. I due orecchini sono formati ciascuno L’intagliatore tenne presente il tipo della Sfinge alata di * età imperiale romana trovata nel 1991 nel giardino da un grosso anello superiore e da un disco della Rocca dei Rettori. Molti resti dei santuari isiaci in funzione di pendente, al quale una cerdi Benevento furono reimpiegati nella cattedrale e niera assicura una crocetta quasi identica a nella chiesa di Santa Sofia dai Longobardi cfr. E. GALASSO, Presentazione in Benevento nella storia, quella del frammento di monile per la Roma, Editalia 1997, p. 11. natura e la disposizione delle paste vitree. A sua volta l’anello è in oro massiccio, per metà a sezione rotonda raccordata da cordami di globuli alla zona anteriore appiattita, con castoni per piccole pietre verdi e almandine alternate ed elementi anulari in lamina sporgenti. Finissimo l’andamento della decorazione a fasce concentriche del disco. Nel giro esterno, chiuso da un filo d’oro a perline oblunghe o rotonde - alternate secondo un motivo classico passato poi alla scultura longobarda (tavv. IIIb, c) - ritornano con disposizione perpendicolare a raggiera gli elementi anulari degli anelli superiori, tra i quali erano forse inserite perle sostenute da un filo. Una zona più interna, formata da pietre in tinte granata e azzurro tenue incastonate, circonda il cerchio centrale, quasi continuandosi nel disegno di testina muliebre che vi campeggia sul fondo verde unito purtroppo mal conservato. Il vigore emblematico dell’immagine realizzata con assoluta padronanza dei nuovi mezzi linguistici segnala in questi capolavori una delle prime manifestazioni indipendenti della cultura figurativa beneventana, che sarebbe pervenuta dopo un secolo alle sue maggiori espressioni con gli artisti della corte di Arechi II. 26
Sul rovescio di entrambi gli orecchini vennero inserite ‘brattee’ - sottili lamine d’oro - con evidente significato apotropaico. In opposizione ai busti di Costante II e Costantino Pogonato raffigurati frontalmente sul recto della moneta, esso mostra la croce potenziata su tre gradini affiancata da due figure stanti diademate reggenti nella destra un’asta sormontata dal globo crucigero. Nel giro si legge VICTORI AVGYS, nell’esergo CONOB. Da notare che le prime emissioni della zecca beneventana si modellarono proprio su conii costantinopolitani di questo tipo, i «solidi Constantinopolitani boni» nominati per il loro alto titolo in quasi tutte le sanzioni pecuniarie dei documenti altomedioevali dell’Italia meridionale23. La fibula ovale (tav. I), o forse bor23. A. DOPSCH, Economia naturale ed economia chia d’abito per la ripiegatura del bordo monetaria nella storia universale, traduz. di B. P ARADISI , Firenze 1949, p. 129; S. verso l’interno liscio, ha tutta la superfiMAZZARINO, La fine del mondo antico, Milano cie in lamina ricoperta dall’arioso rilievo 1959, p. 167; D. Talbot Rice, Arte bizantina, di quattro fasce concentriche di filigrana traduz. ital., Bologna 1962 (2 ed.), p. 215 ss.; ID., I Bizantini, traduz. ital., Milano 1963, p. a onde regolari alte e serrate. Il motivo 140 ss. viene ripreso intorno ai castoni margi24. Ori e argenti dell’Italia antica. Catalogo della Mostra cit., n. 888, p. 251 ss. Inoltre: R. nali, fra i quali si interpongono ornaMENGARELLI, La necropoli barbarica di Castel menti a forma di S contrapposte. Di essi Trosino, «Monumenti antichi della R. uno soltanto conserva l’originaria calotAccademia dei Lincei» HI (1902), p. 324 e tav. XIV; J. WERNER, Die langobardischen Fibeln ta in pasta vitrea di color cobalto conteaus Italien, Berlin 1950, p. 38 e tav. XLIV; G. nuta in origine negli alveoli dagli orli BECATTI, Oreficerie antiche dalle minoiche alle barbariche, Roma 1955, n. 585. punteggiati a sbalzo. Il grande castone 25. A. PASQUI-R. PARIBENI, Necropoli barbarica di centrale, pure privo ormai della pietra Nocera Umbra, «Monumenti antichi della R. ovale, è decorato da un nastro di semiAccademia dei Lincei» XXV «1918), p. 137 ss.; N. A BERG , Die Goten und Langobarden in circoli a giorno con un granello d’oro Italien, Uppsala 1923; J. WERNER, Die langoalle giunture. bardischen Fibeln aus Italien cit.; S. FUCKS, Die langobardischen Fibeln aus Italien, Berlin 1958; I motivi della filigrana, l’alternarsi Ori e argenti dell’Italia antica. Catalogo della dei castoni quadri e circolari periferici, e Mostra cit. la presenza del castone centrale riconnettono tipologicamente il gioiello di Senise ad un esemplare di simili proporzioni rinvenuto nella Tomba 177 della necropoli di Castel Trosino pure datato al VII secolo24. Ma collegamenti stilistici esistono anche con le fibule della necropoli di Nocera Umbra, dove però il disegno più sche27
matico della filigrana dipende da esecuzione tecnica meno avanzata25. Per quanto riguarda gli smalti, identici a quelli degli orecchini e del frammentino di monile, la lavorazione della Fibula di Senise appare ancor più progredita che nei coevi lavori di oreficeria europea e rivendicabile pertanto ad un maestro di scuola ad alto livello. La stretta affinità, specie nel disegno ad S contrapposte della filigrana, con altre due fibule l’una appartenente ad un corredo funerario scoperto nella ‘Grande Grèce’ nel 1887 e passato nella collezione dei conti polacchi Dzialynski ora dispersa26, l’altra registrata negli inventari dello Ashmolean Museum di Oxford come proveniente proprio da Benevento27 - sembra non soltanto confermare l’esecuzione del tesoro di Senise nella capitale longobarda del Sud, ma porre in 26. La provenienza è riferita con l’espressione generirisalto l’originalità dei modi espressivi ca ‘Grande Grèce’ nel rarissimo volume in cui fu delle sue officine. D’altra parte queste pubblicata la collezione formata dai conti dovevano avere allora vari decenni di Dzialynski nel loro castello di Goluchow: W. FROEHNER, Collections du Chàteau de Goluchow esperienza se, non condizionate da necesL’orfèvrerie, Paris 1879, p. 76. sità di saldature sovrabbondanti, le quali 27. M.C. ROSS, Some longobard insignia cit., p. 145 ss. e fig. 4; A. L IPINSKY , Le arti minori in invece nelle oreficerie del ducato spoletiCampania fino al secolo X circa cit., p. 137 ss.; no spesso affondavano letteralmente gli ID., Oreficerie bizantine ed italo-bizantine nella elementi giustapposti nella lega saldante, regione campana cit., p. 116 ss. La fibula venne acquisita dal museo inglese nel 1928, l’anno sucrealizzavano con microscopici fissaggi cessivo cioè al rinvenimento di un tesoro longodelle filigrane disegni nettissimi benché bardo a Benevento che la stampa locale (Cfr. il giornale «II Mezzogiorno», Napoli 15-16 marzo complicati. 1927) aveva rivelato ben più consistente di quelPer tali considerazioni l’analisi dei raplo passato poi nel Museo del Sannio. Cfr. A. porti fra il tesoro rinvenuto in Lucania e Zazo, Rinvenimento di una necropoli longobarda del VII-VIII secolo cit. gli altri ori della «Longobardia minor» diventa essenziale e va approfondita. Pur senza stabilire cronologie assolute, si possono infatti determinare diversi livelli qualitativi per giungere con la Fibula di Senise all’apice di uno sviluppo artistico segnato da tappe quali la Fibula Dzialynski e, prima ancora, la Fibula di Benevento dello Ashmolean Museum. La Fibula Dzialynski, a disco con due giri di gemme e perle, ciascuno interrotto da dieci castoni circolari, documenta la ricerca di nuovi raccordi poligonali basati su espressioni numeriche di difficile significato, probabilmente simbolico o magico. La singolare corrispondenza delle sue due diecine di castoni, apparentemente regolare, è in 28
realtà un fatto unico nella decorazione delle fibule longobarde, che presentano sempre alveoli e umboni nei ritmi di quattro e otto, oppure di sei e dodici. La inseriscono peraltro nella produzione beneventana il motivo della filigrana a doppio cordoncino attorcigliato all’orlo e l’ornato a S a doppie spirali con contrappunto di cerchietti. Ancora classico, il gioiello del museo oxoniense (tav. VII) ripete invece lo schema tipico della fibula a tamburo completata da tre pendagli con gemme a goccia, rossa quella centrale, viola le laterali: si tratta del distintivo di un sovrano. Un cordoncino di filigrana a spiga delimita qui il bordo tra due fili d’oro godronato e si ripete nel campo del disco scompartendone un’ampia fascia in quattro settori. Ritorna il motivo a S contrapposte, con le 28. Sulla glittica altomedioevale cfr.: H. WENTZEL spirali contrappuntate da anelletti pure in Die mittelalterlichen Gemmen der Staatlichen filigrana inseriti negli spazi vuoti. La simMünzsammlung zu München,» Münchner metrica disposizione del disegno indurJahrbuch der bildenden Kunst», München VIII (1937), p. 37 ss.; ID., Die byzantinischen Kameen rebbe a pensare che si tratti di un lavoro in Kassel, in Mouseion-Studien aus Kunst und bizantino. Va però notato, insieme alla Geschichte für Otto Förster, Frankfurt a. M. 1939, p. 88 ss.; ID., Mittelalterliche Kameen, «Zeitschrift tecnica, il fatto che l’artista conferì agli des Deutschen Vereins für Kunstwissenschaft», elementi decorativi desunti dal repertorio Berlin VIII (1941), p. 45 ss.; ID., Mittelalterliche comune agli ‘ateliers’ attivi a Benevento Gemmen in den Sammlungen Italiens, «Mitteilungen des Kunsthistorischen Instituts in nel VII secolo - identici a quelli di un Florenz», Berlin VII (1956), p. 240 ss.; ID., frammento di grossa fibula tonda in oro Datierte und datierbare byzantinische Kameen in Festschrift Friedrich Winkler, Berlin 1959, p. 9 ss.; trovato nel 1962 in contrada Pezzapiana ID., Zur Diskussion um die stampischer Adler presso la città e conservato nel Museo del 1967. «Kunstchronik», Nürnberg XX (1967), 5, Sannio (tav. VIII d) - una precisa funzione p. 121 ss. di fondo per il risalto del cammeo chiuso in un ampio castone ovale al centro del disco. Piuttosto, è la fattura del cammeo a determinare qualche dubbio. Il busto del giovane guerriero - o della dea Minerva - con elmo crestato e corazza riproducente una testa di Medusa appare infatti intagliato nello strato bianco della pietra di onice scuro con il manierato intento di valorizzare al massimo la dicromia del minerale. Riesce quindi impossibile stabilire se l’autore della fibula abbia riutilizzato un gioiello tardoromano o abbia commissionato ad un gemmario longobardo la ripetizione di un prototipo antico28. Una eventuale attribuzione poi del cammeo ad artista bizantino della Rinascita in base a confronti con le famose ‘cassette civili’ in avorio del IX secolo sparse in musei d’Europa e d’America, non troverebbe convalida 29
nella datazione della parte orafa pura, che non può oltrepassare la metà del secolo VIII per tecnica e stile. Di tipo consueto il rovescio della fibula. Vi aderisce una lamina aurea rotonda di rinforzo alla quale sono fissati, oltre agli occhielli dei tre pendagli, quelli dell’ardiglione ora perduto e la larga staffa che lo accoglieva. In relazione con il materiale di Senise, e particolarmente con gli orecchini, sono alcuni altri oggetti altomedioevali da rivendicare alla scuola beneventana. Prescindendo dai valori stilistici, l’importanza degli Orecchini di Senise consiste nella loro singolare tecnica di ‘verroterie’, cioè di incastonatura di paste vitree colorate in alveoli ribattuti ai bordi. Questa stessa tecnica, con un quasi 29. M.C. ROSS-P. VERDIER, Arts of the Migration identico combinarsi di elementi decoratiPeriod. The Walters Art Gallery, Baltimore (USA) vi e addirittura lo stesso gusto nello stiliz1961; M.C. ROSS, Some longobard insignia cit., zare il volto muliebre, appare nella Fibula p. 144 e fig. 2. 30. PAOLO DIACONO, Historia Langobardorum cit., di Comacchio (tav. III a) della Walters Art IV 48 e II. 28. Gallery di Baltimore (Maryland, USA)29. 31. E. SILVAGNI, Monumenta epigraphica christiana saeculo XIII antiquiora quae in Italiae finibus Fornita in basso di tre anelletti per i adhuc extant, vol. IV, fasc. II, Beneventum, In ganci dei pendagli perduti, è da comprenCivitate Vaticana, 1943; N. GRAY, The paleodere anch’essa fra le insegne di sovrani graphy of latin inscriptions in the eight, ninth and tenth centuries in Italy, «Papers of the British longobardi. Ma, come per le altre, sarebSchool at Rome» XIV, n. s. III (1948), p. 38 ss,; be vano il tentativo di identificare il perE. GALASSO, L’indizione greca nelle epigrafi di Benevento, «Samnium» XXXVIII (1965), 1-2, p. sonaggio a cui appartenne. Tali monili 87 ss.; ID., Caratteri paleografici e diplomatici delprovengono infatti da tombe profanate e l’atto privato a Capua e a Benenvento prima del in ogni caso non più esistenti. Talora secolo XI cit. erano gli stessi Longobardi a manomettere i sarcofaghi per recuperare i metalli da rifondere o per toglierne oggetti di credute proprietà taumaturgiche: Paolo Diacono ricorda la violazione della tomba di Rotari a Monza nel VII secolo e, soprattutto, di quella di Alboino nell’VIII secolo ad opera di Giselberto duca di Verona per entrare in possesso della celebre spada del sovrano30. Anche i sepolcri delle famiglie ducali e principesche di Benevento dovevano essere stati profanati in antico, o devastati da terremoti, se in età romanica vennero scomposti per inserirne le lastre con iscrizioni metriche nella facciata della cattedrale, dove tuttora rimangono quelle scampate alle distruzioni dell’ultimo conflitto mondiale31. La Fibula di Comacchio, così detta dal luogo del rinvenimento, presenta nel sottile 30
bordo a globuli lo stesso effetto di corona aurea dell’uguale orlo di uno dei due anelli trovati a Senise in Lucania. Nella serie molteplice di giri concentrici segue, tra due fili di oro godronato, il cordoncino di filigrana a spiga già osservato nella Fibula di Benevento, ma le assonanze con la decorazione dei gioielli lucani non assicurano l’attribuzione della Fibula di Comacchio allo stesso ‘atelier’. Più internamente sono due fasce, la prima mossa da un serrato susseguirsi di corpi emisferoidali lavorati a sbalzo con un motivo non ricorrente altrove, la seconda lievemente incassata per contenere gli stessi elementi anulari che con disposizione perpendicolare a raggiera ornano gli Orecchini di Senise. Sì che, a parte la mancanza del giro di castoni rettangolari, l’intero nucleo centrale della fibula della galleria statunitense ripete le forme di quegli orecchini, avendo nel centro un cerchio dove campeggia su smalto scuro una figurina muliebre in ‘verroterie’. Questi tondi dovevano quindi essere preparati indipendentemente dall’oggetto sul quale sarebbero poi stati montati. Nella Fibula di Comacchio l’immagine appare peraltro a mezzo busto ancor più stilizzata nel volto triangolare, dove i particolari somatici risultano appena accennati dalle 32. M. ROSENBERG , Zeilenschmelz. Die Frühdenkmaler, Darmstadt 1922, p. 5 ss.; Y. lamelle auree degli scomparti. Manca l’inHACKENBROCK, Italienisches Emails des frühen dicazione dei capelli ai lati delle guance, Mittelalters, Basel, «Ars Docta» II (1938), p. 12; P. E. S CHRAMM , Herrschaftszeichen und ma vi sono meglio definiti gli orecchini a Stattssymbolik, Stuttgart 1956, III, p. 1100; M.C. cerchi pendenti. Sulla veste, che discende ROSS, Some longobard insignia cit., p. 144 e fig. 3. dalle spalle ripiegandosi, spiccano tre borchiette rotonde. Difficile pure per questa fìbula stabilire una cronologia sulla base del linguaggio tecnicoartistico. Tuttavia i suoi smalti sembrano molto affini a modelli orientali e l’abbinamento di filigrane e sbalzi offre un piacevole movimento di superficie a cui la figura centrale appiattita partecipa con il reticolo dei tramezzi del ‘cloisonné’. Ne deriva la sensazione che il gioiello rappresenti, come la Fibula Castellani del British Museum di Londra, una fase lievemente più antica dell’oreficeria longobarda meridionale, forse dei primi del VII secolo, perfetta dal punto di vista tecnico ma ancora priva dei toni gravi con i quali in seguito i maestri beneventani avrebbero approfondito in veri e propri contrasti le vibrazioni luministiche del metallo, conferendo volume alle figure in ‘verroterie’. Nel trattamento del rilievo la Fibula Castellani (tav. V b), rinvenuta a Canosa di Puglia ma denominata dal famoso orefice romano che la possedette32, rivela un quasi identico filtro linguistico. L’immagine clipeata a smalto policromo, un volto di donna 31
tra due elementi lanceolati stilizzati, si raccorda per le linee curve insistite degli alveoli alla circostante zona di cerchietti a smalto, a sua volta contornata all’interno e all’esterno da due giri di perle delimitati da fili di globuletti aurei. L’orlo, perlinato come di consueto, reca in basso i tre ganci dei pendagli perduti. Da notare che il personaggio raffigurato nel clipeo porta a sua volta sul petto una fibula con tre pendenti sopra la veste a motivi geometrici. La finissima composizione è improntata ad uno schema assai semplice. Più che altro, l’artista ha sfruttato le proprietà cromatiche dei materiali, in parte oggi ancora intatti poiché diverse perle rimangono al loro posto. Siamo dunque di nuovo in presenza di una testimonianza di tradizioni espressive autonome. Dall’Italia meridionale proviene infine una fìbula longobarda (tav. VI a) conservata prima a Roma nella collezione del conte Sergio Stroganoff e passata poi alla Melvin Gutman Collection of Jewelry già nello Allen Memorial Art Museum di Oberlin (Ohio, USA)33. Varie caratteristiche la accomunano al gruppo dei gioielli in esame, dal medaglione centrale smaltato con un semplice elemento decorativo a quadrifoglio - che ritorna in una crocetta bizantina del 33. C. PARKHURST, The Melvin Gutman Collection Cleveland Museum of Art (tav. VI b) - alla of ancient and medieval gold, «Allen Memorial fascia intermedia con anelletti e perle Art Museum Bulletin» XVIII (1961), n. 149; alternati, ai numerosi giri di trecce fino al M.C. ROSS, Some longobard insignia cit., 146 e bordo perlinato. Originale è soltanto il motivo a serpentina della seconda zona. A proposito di queste ultime fìbule qui ora rivendicate alla prima produzione beneventana, può essere ragionevolmente formulata l’ipotesi di orafi bizantini oppure romani al servizio della corte longobarda. Tanto più che si tratta sempre di distintivi di sovrani, come attesta la presenza in tutte dei tre ganci per i pendagli. L’impiego di tecniche progredite, tramandate da secoli nella regione campana, e lo schema geometrico delle composizioni si ricollegano infatti direttamente alla tarda antichità piuttosto che alla concezione estetica germanica. Non va però dimenticato che decorazioni simili, in filigrana su fibule d’oro a disco, appartenevano anche ad altre culture barbariche, anzitutto a quella franca, per cui bisogna pensare ad una rapida assimilazione nell’occidente europeo di elementi stilistici dal Mediterraneo orientale attraverso le officine pontiche, siriache e alessandrine. Tale influenza restò dominante nel primo secolo della conquista longobarda dell’Italia meridionale, e l’oreficeria ne costituisce il documento principale. L’arte bizantina del metallo impose agli ‘ateliers’ beneventani alla ricerca di un linguag32
gio autonomo singolari iconografie e forme. Ma i maestri locali vennero lentamente recuperando i valori di quella civiltà classica che sarebbero diventati parte fondamentale di una loro nuova oreficeria. II relativo ciclo storico era ormai concluso durante la fase di espansione politica dei Longobardi verso il golfo di Taranto promossa dal duca Romualdo I dopo il 671 e sfociata nel temporaneo insediamento a Taranto e a Brindisi34. Il costituirsi di alcuni gastaldati in Lucania e nella Calabria settentrionale, seguito alla frattura della continuità territoriale dei domini bizantini tra la penisola salentina e quella calabra, giustifica anche la presenza nella Lucania sud-orientale dei corredi funerari del Museo Archeologico Nazionale di Napoli e della Collezione Dzialynski. Non si deve parlare dunque di regresso tecnico, ma di trasformazione del gusto barbarico, pervenuto alle raffinatezze del tesoro di Senise proprio al termine di quel VII secolo che ci ha lasciato diverse altre testimonianze d’arte di grande importanza. Accanto alla Fibula Dzialynski venne trovata una coppia di spendidi orecchini 34. G. POCHETTINO, I Longobardi nell’Italia meridionale cit., pp. 98 ss., 119 ss., 330 ss. del tipo a tamburo, o ‘a cestello’, che con35. L. BREGLIA, Catalogo delle oreficerie del Museo sente di ampliare le indagini sulla scuola Nazionale di Napoli cit., n. 224, p. 57 e tavv. XXV. 7, XXXVIII. 1; R. SIVIERO, Gli ori e le beneventana. Il disco è unito con cerniera ambre del Museo Nazionale di Napoli cit., n. 532 ad un cerchietto superiore a nastro recante e tav. 248. sul lato piatto i castoni per le paste vitree perdute. Mancano ai lati della fascia i due fili di perline originari. Il disegno in ‘verroterie’ del tamburo presenta caratteri molto particolari essendo costituito da quattro alveoli con almandine, a rombi risultanti da due triangoli equilateri accostati, intorno ad un castone circolare minore. Una cerniera conserva un piccolo pendaglio con perlina. Dal punto di vista tipologico i due orecchini sono identici a quelli di Senise, ma l’ornato segue un modello diverso e anche i dettagli della lavorazione non sono gli stessi. Siamo sempre in presenza di gioielli longobardi, usciti però da una bottega finora sconosciuta, forse della capitale, cui li ricollega la fibula con essi rinvenuta, peraltro di diversa fattura. Riesce quindi del tutto sorprendente l’affinità con l’Orecchino 24774 (tav. VI c) del Museo Archeologico Nazionale di Napoli registrato con provenienza da Ercolano antica35. Anche questo monile si lega infatti ad un cerchietto appiattito con listello di lamina a castoni, fiancheggiato tuttavia non da perline, bensì da otto anelletti di lamina rigida. Il lato anteriore del disco pendente pre33
senta al centro lo stesso motivo ornamentale degli Orecchini Dzialynski, vale a dire quattro castoni romboidali che circondano un alveolo rotondo con pietra scura. Ciascuno dei castoni romboidali, diviso in due parti da un tramezzo d’oro, contiene otto granati disposti a croce. Di interesse ancora maggiore le applicazioni sul campo del tamburo: quattro laminette e granuli aurei in simmetrica successione sulla zona più esterna. Lungo il bordo di filo godronato sono saldati tredici anelletti perpendicolari; gli spazi tra l’uno e l’altro accolgono perle fissate con un filo che le attraversa passando per gli anelletti. In basso, da una cerniera a tre maglie pende infine un cerchietto di filo godronato che regge a sua volta una perla. La struttura del monile ricondurrebbe agli orecchini beneventani, ma la provenienza e l’impronta, sul rovescio del disco, di un denario del console Caius Papius Mutilus emesso fra il 91 e l’88 a.C. durante la Guerra Sociale non lasciano dubbi circa la datazione tra il I secolo a.C. ed il 79 d.C., anno della eruzione del Vesuvio che 36. A. LIPINSKY, Le arti minori in Campania fino al secolo X circa cit., p. 141. Lo studioso ignora stradistrusse Ercolano. Né sembra opportuno namente il preciso riferimento della provenienza accogliere la proposta del Lipinsky di dell’orecchino da Ercolano antica e la presenza dei caratteri oschi su di esso. attribuirlo ad una produzione longobarda 37. W. F ROEHNER , Collections du Château de in base allo «stretto rapporto cronologico Goluchow. Lorfèvrerie cit., p. 96 n. 201 e tav. e topografico» con gli Orecchini XVIII. Inoltre: C. CECCHELLI, La vita di Roma nel Medio Evo, Roma 1951-1952, pp. 918 ss., Dzialynski36. L’adesione dell’autore di questi ultimi a prototipi classici non meraviglia comunque. Al cadere del VII secolo l’oreficeria della «Longobardia minor» aveva ormai esaurito l’impulso inizialmente ricevuto dai conquistatori, che alla ricchezza di preziosi su vesti ed armi, su cinture e bardature di cavalli, avevano affidato una esibizione di potenza. Il progressivo avvicinamento alle popolazioni assoggettate se da un lato attenuò tale esigenza per l’adattamento dello sfarzo barbarico a una nuova dimensione di gusto, dall’altro creò condizioni diverse di società ed economia, incapaci di sostenere il ritmo del primo secolo e mezzo dopo la conquista. Numerosi ‘ateliers’ dovettero essere costretti a chiudere, i rimanenti a limitarsi ad una produzione corrente, solo in casi sporadici all’altezza della tradizione. Nei decenni della crisi, cioè tra la fine del VII secolo e gli inizi dell’VIII si collocano gli Orecchini Dzialynski, come indica il ricorso ad un repertorio non originale, anzi pedissequamente seguace di modelli classici. Lo stesso può dirsi dell’encolpio crucifor34
me orientale che fu trovato insieme alla fibula e agli orecchini longobardi nel corredo funerario della ‘Grande Grèce’ passato alla collezione Dzialynski37. Costituito da una teca a croce d’oro niellato, reca sul davanti una Crocifissione (tav. VIII a) con riscrizione latina in lettere greche «Rex regnanti(um)». Sul retro appaiono il medaglione del Cristo al centro, la Madonna col Bambino in alto, due Angeli adoranti ai lati e, in basso, due figure di Santi. La lavorazione a niello e la tecnica dello smalto rosso e verde, con cui sulla croce dentro la custodia è rappresentata una non comune scena di Assunzione della Vergine (tav. VIII b), riportano ad ambiente artistico della fine del VII o dei primi dell’VIII secolo. Documento storico rilevante dell’incontro delle due civiltà preminenti nell’Italia meridionale, la tomba della ‘Grande Grèce’ - per ripetere l’espressione del Froehner doveva pertanto avere accolto in quel 38. F. HIRSCH, Das Herzogthum Benevent bis zum periodo una donna longobarda col suo Untergange des langobardischen Reiches cit.; G. ricco corredo di monili. POCHETTINO, I Longobardi nell’Italia meridionale cit. Sebbene manchi un lavoro moderno 39. Cfr. E. GALASSO, Caratteri paleografici e diplomasui primi due secoli del ducato beneventici dell’atto privato a Capua e a Benevento prima del secolo XI cit., con ampia bibliografia aggiornatano che sostituisca l’ormai superata ta a p. 293. nota 8. opera dello Hirsch e quella assai poco 40. In particolare: P. B ERTOLINI , Arechi II in precisa del Pochettino38, numerose indaDizionario Biografico degli Italiani cit., IV (1962), p. 71 ss.; O. BERTOLINI, Carlomagno e gini particolari vanno mettendo in luce le Benemerito in Karl der Grosse, Düsseldorf 1966, attente cure dei duchi per riportare le I, p. 609 ss. terre conquistate all’antica prosperità39. Scoperte archeologiche come quella ora esaminata, valutate con rigoroso metodo scientifico, offrono contributi decisivi alla soluzione dei problemi ancora aperti. E lo studio delle attività economiche connesse con la produzione orafa, della società ad essa interessata, o dei fenomeni religiosi, amministrativi e politici relativi, dilata i limiti della materia, soprattutto nella prospettiva dei rapporti tra Oriente e Occidente nella «Longobardia minor». Lo splendido fiorire dell’oreficeria nel VII secolo aveva risentito della forte coscienza etnica mantenuta dalla casta dominante pur nella complessità di adattamenti ambientali, di pressioni esterne e fluttuazioni di alleanze. Eppure nel consolidare la sua realtà politica, il nuovo stato finì per collocarsi di fronte agli imperi franco-germanico e bizantino in una posizione di grigia equidistanza, alla lunga dannosa per le attività prive di risorse locali. Di qui il rapido declino di molte arti ‘minori’ in 35
coincidenza con la piena affermazione dello stato ad opera del principe Arechi II40. Uomo di eccezionale personalità, egli sanzionò il ruolo di Benevento capitale creandovi una corte in grado di gareggiare con quella di Pavia. Durante il suo principato l’arte beneventana maturò forme uniche nella storia civile dell’Alto Medioevo europeo, eppure il suo mecenatismo non riuscì a fermare il declino dell’oreficeria, integrata ormai da crescenti importazioni: «regina dives opum - riferisce lo stesso Arechi nell’esordio dei suoi atti di donazione alla chiesa di Santa Sofia41 - mihi pulchris instructa zetis excrescunt, dum diversa gemmarum metallorumque genera redundaret, et tyria multa, quidquid feret Indus, quidve tabso vana Creta et mellis mittit Arabs, mandatque nigri pellis Etiops et vestiunt Seres». Ma prima di esaminare le ulteriori testimonianze dell’attività orafa longobarda nell’Italia meridionale, giova prendere in considerazione l’ultimo gruppo di ori del VIIVIII secolo finora noto, quello del Museo del Sannio, rinvenuto nel 1927 in contrada Pezzapiana nella necropoli di Benevento 41. Documento in S. BORGIA, Memorie istoriche (tav. X). Per ragioni tematiche ed in parte della pontificia città di Benevento, Roma 1763 ss.; anche stilistiche esso prelude infatti alla 1, p. 269 ss. Cfr. anche: O. BERTOLINI, I documenti trascritti nel «Liber preceptorum produzione del secolo successivo. Si tratta Beneventani monasterii S. Sophiae». («Chronicon di una svelta armilla, una coppia di orecS. Sophiae») in Studi di storia napoletana in on. chini e due crocette, cui nel 1962 si è di Michelangelo Schipa, Napoli 1926, p. 11 ss. aggiunto il ricordato frammento di fibula d’oro di uguale provenienza. La cronologia indicata resta fuori discussione. In particolare l’ultimo pezzo, col suo cordoncino di filigrana a spiga delimitante il bordo tra due fili di oro godronato, sembra uscito dalla stessa bottega che produsse la Fibula di Benevento conservata a Oxford: sono identici il motivo decorativo e la tecnica della filigrana a netto rilievo sul fondo laminato. L’andamento ricurvo farebbe pensare appunto ad un frammento di cornicetta staccatosi da una grossa fibula o borchia d’abito, cui si agganciava mediante la zona concava interna, a margine vivo come nella Fibula di Senise. All’‘atelier’ degli ori di Senise si collegano i due orecchini (tav. VIII c) in oro massiccio, dei quali non si può ormai dire se reggessero un tamburo in funzione di pendente. Certo la loro conformazione richiama gli anelli portanti degli orecchini lucani per la struttura in parte a sezione rotonda con globulo terminale d’incastro, in parte più grossa, schiacciata, orlata da due fili di oro godronato e sei doppie coppie di globuli minori, con cordami di filo che la raccordano alla zona liscia. 36
Inclassificabile la sottile armilla aperta e liscia, a sezione circolare, per la mancanza di qualsiasi elemento ornamentale. Per essa dovrebbe valere l’attribuzione cronologica dei monili con i quali fu trovata. Un discorso a sé meritano le due crocette che, con i tre esemplari pure beneventani passati nel Germanisches National Museum di Norimberga (tav. XI), assumono un risalto particolare anche prescindendo dai problemi cronologici cui si deve accennare in termini molto prudenti. Infatti gli stessi tentativi del Fuchs, del Werner e dello Haseloff non collimano e possono fornire soltanto elementi indicativi42. L’interesse dei pezzi in questione, tutti d’oro, coincide con le osservazioni di carattere generale fatte dal Bognetti, il quale disgiunse la fabbricazione di simili oggetti da iniziative spontanee di conversione al Cattolicesimo43. Egli notò 42. Vedi la nota 7 del presente Capitolo. che prima di venire in Italia i Longobardi 43. G.P. B OGNETTI , Le crocette longobarde chiudevano le loro vesti sulla spalla (Recensione a un’opera di Joachim Werner) in L’età mediante fibule in forma di croce uncinalongobarda, Milano 1967, III, p. 137 ss. 44. Sulla complessa materia dei rapporti tra mondo ta. Fu dopo lo stanziamento a sud delle figurativo germanico e mediterraneo, con particoAlpi che, tranne qualche caso di sopravvilare riguardo al I e II stile, cfr. G. HASELOFF, I principi mediterranei dell’arte barbarica in Il pasvenza, come la Svastica di Voltago, entrò saggio dall’Antichità al Medioevo in Occidente, nel loro uso la croce cristiana in funzione «Settimane di Studio del Centro Italiano di Studi di spilla o di finimento del vestito. Tale sull’Alto Medioevo. IX» Spoleto 1962, p. 477 ss. croce era sormontata talvolta dalla colomba, ma solo per un richiamo a riti funebri comuni ad altri popoli indo-germanici e non per influssi della simbologia cristiana. Sottolineando poi la presenza, quasi costante in tali lavori di oreficeria, di immagini di sovrani longobardi e bizantini o di decorazioni attinte al repertorio pagano tradizionale, il Bognetti ritenne probabile una distribuzione di crocette da parte dello stesso sovrano per fini politico-militari. La esecuzione delle crocette di Benevento e Norimberga proprio nella capitale della «Longobardia minor» diventa quindi molto significativa e verifica l’ipotesi anche per l’Italia meridionale. Stilisticamente esse rientrano nell’ambito del cosiddetto ‘secondo stile’, vale a dire di una cultura ormai matura la quale accostava motivi mediterranei alla sua tematica antica senza però rinunciare alla propria specificità44. Ma la loro decorazione documenta il crescente cedimento della scuola beneventana ai più diversi spunti imitativi. Importa comunque sottolineare l’interesse storico-artistico di ciascuno di questi oggetti, per i quali la pur vasta casistica di analogie finora considerata si amplia alla luce di una nuova 37
impostazione critica della materia e dei recenti studi sull’arte della Longobardia meridionale. Se si esclude la croce scolpita a rilievo su un sarcofago beneventano della fine del VI secolo o dei primi del VII, nella quale però i bracci partono da un disco centrale45, l’esemplare equilatero del Museo del Sannio suggerisce un solo possibile confronto tipologico per quanto riguarda la «Longobardia minor», quello con la crocetta aurea del Museo Provinciale Campano di Capua dai bracci a profilo ugualmente divergente (tav. XII a). Questa tuttavia è inornata, mentre il pezzo beneventano presenta per ciascun braccio una variante della 45. M. ROTILI, La diocesi di Benevento cit., n. 29 p. 49 e tav. IX b. La crocetta aurea è catalogata in S. decorazione ’a tenia’ ricavata a stampo, FUCHS, Die langobardischen Goldblattkreuze aus costituita da un disco in cui si conchiude il der Zone südwärts der Alpen cit., n. 194. Cfr. tipico motivo della girandola di tre serpenti pure: M. BROZZI-A. TAGLIAFERRI, Arte longobarda cit., p. 41 e tav. V. dal corpo stilizzato in due linee, l’una conti46. G. MONACO, Oreficerie longobarde a Parma, nua, l’altra punteggiata, con testa ingrossata, Parma 1955, p. 23. 47. S. F UCHS , Figürliche Bronzebeschläge der occhi ben distinti e mandibole aperte (tav. IX Langobardezelt aus Italiens, «Röm. Mitt.» LV a). In Italia si possono richiamare tra l’altro (1940), p. 100 ss.; O. TSCHUMI, Burgunder; due fibule con decorazione simile trovate a Alamannen und Longobarden in der Schweiz, Bonn 1945, p. 200 ss.; A. TAGLIAFERRI, Le Parma46 e quelle variamente segnalate dal diverse fasi dell’economia longobarda con particolaWerner per il regno longobardo. Si tratta re riguardo al commercio internazionale in Problemi della civiltà e dell’economia longobarda però di girandole di uccelli, talora di fattura cit., p. 273 ss. e tav. XI F. Sullo scudo di Ischl cfr. classicheggiante, databili ancora al VI secolo. specialmente: J. WERNER, Ein longobardischen Il triplice serpente ruotante ritorna invece Schild von Ischl an der Alz, «Bayer. Vorg. blätter, Monaco, Ht 18-19, 1951, p. 45 ss.; O. VON nella guarnizione centrale dell’umbone dello HESSEN, Die Funde der Reihengröberzeit aus dem scudo longobardo di Ischl in Austria (tav. IX Landkreis Traunstein, Kallmünz OPF. 1964. 48. G. D E V ITA , Thesaurus alter Antiquitatum b) in bronzo dorato lavorato a punzone e Beneventanarum Medii Aevi, Romae 1764, p. 43. bulino, connesso, specie per altri motivi decorativi estranei alla tematica dell’ornamentazione animale germanica, con le guarnizioni italiane di Firenze, Stabio e Lucca47. Siamo pertanto nel cerchio artistico del Mediterraneo, esteso oltralpe dalla mediazione bizantina soprattutto in una fase avanzata. Sembrano invece da escludere, per la crocetta del Museo del Sannio, rapporti pur suggestivi con il culto longobardo della vipera, che il duca di Benevento Romualdo I avrebbe professato in segreto nei riguardi di un esemplare d’oro, poi consegnato al vescovo Barbato perché ne facesse un calice e una patena48. 38
Diverso risulta infine il sistema di fissaggio delle crocette alla veste. Quella di Benevento venne cucita attraverso tre forellini praticati nel margine di ciascun braccio, quella di Capua doveva essere usata come encolpio, recando ancora su due bracci tre maglie a S di una catenina. La seconda crocetta del Museo del Sannio49 ha bracci a profilo ugualmente divergente, due secondo un asse longitudinale maggiore dell’altro. Sulla superficie non presenta alcuna decorazione, mentre ai margini reca due forellini per ciascun braccio, ad eccezione di quello superiore più corto, dove ne appaiono tre. La forma a croce latina, poco frequente nell’oreficeria longobarda, è comune in quella bizantina che doveva offrirne i modelli ad altre oreficerie barbariche di tipo aulico come dimostrano le croci monogrammate di Monza50, del tesoro 49. S. FUCHS, Die langobardischen Goldblattkreuze visigotico di Torre Donijmeno in Spagna aus der Zone südwärts der Alpen cit., n. 195. e quella ritrovata presso il vecchio 50. Ivi, nn. 63 e 64. 51. A. PERONI, Oreficerie e metalli lavorati tardoantiOspedale di Pavia (tav. XII b) 51. Per chi e altomedievali del territorio di Pavia cit., n. Benevento si deve ancora citare il caso 85, p. 126 e tav. XXI. 52. Proviene dalla contrada San Vitale, presso dell’esemplare con bratteata di Benevento. S. F UCHS , Die langobardischen Godescalco duca (739-742) finito a Goldblattkreuze aus der Zone sudwarts der Alpen Norimberga52, che richiama analogie non cit., n. 186. Ivi sono anche catalogate le altre due crocette beneventane passate nel museo di soltanto morfologiche con le quattro croNorimberga, delle quali si dirà in seguito: l’esemcette argentee applicate sul Reliquiario di plare monogrammato (n. 173) e quello ad intrecci di tenie (n. 184). Sant’Agostino nella chiesa di San Pietro 53. A. PERONI, Oreficerie e metalli lavorati tardoanti53 in Ciel d’Oro a Pavia (tav. XII c) . In quechi e altomedievali del territorio di Pavia cit., n. ste ultime la scarna decorazione segue 125, p. 147 e tavv. VI, XXXIV-XXXVI. uno schema semplice, con fiore stilizzato alle estremità dei bracci e, all’incrocio, un medaglione dall’orlo perlinato raffigurante il Cristo. Allo stesso modo, nella crocetta beneventana la bratteata centrale è chiusa da un giro di minuscole perline ottenute a punzone. Sono, queste, caratteristiche della prima metà del secolo VIII, cui risalgono anche le crocette pavesi connesse alla traslazione nel 722 in Pavia delle spoglie di Sant’Agostino ad opera di re Liutprando. Il tipo delle stampigliature a punzone appartiene in realtà alla pratica di tutto l’artigianato barbarico, ma nell’esemplare beneventano il nitido ordinamento delle perline per sottolineare il profilo sottintende una squisita tradizione di gusto. Quanto al riferimento a Leone III Isaurico della moneta impressa sulla crocet39
ta, venne supposta una imprecisabile adesione di Godescalco alla politica dell’imperatore iconoclasta54. Una simile ripresa iconografica si riscontra in un esemplare a croce latina del Germanisches National Museum di Norimberga per via di quattro calotte semisferiche sulle estremità dei bracci a profilo molto divergente, mentre le crocette di Pavia presentano i fiori stampigliati. Proveniente pure dalla necropoli di Benevento, esso conferma la nuova tendenza delle officine locali alla decorazione stilizzata. Alle quattro calotte fa riscontro, al centro, un tondo a filo continuo con il nesso grafico GRIV in lettere capitali lievemente allungate. Si tratta di un monogramma del nome Gregorius, piuttosto che di Grimualdus, da riferire con ogni probabilità al predecessore di Godescalco, il duca Gregorio (732-739). Talora semplice come nei due casi ora esaminati, la decorazione di questi manufatti si fa a volte complessa ma di maniera, come nel terzo esemplare beneventano di Norimberga, a bracci alquanto patenti con tre fori su ciascuno, ritagliato da una lamina già impressa. Nel campo scorre un fitto 54. M. CAGIATI, La zecca di Benevento cit., 5 p. 34. intreccio regolare di tenie annodate con 55. Documento in Monumenta ad Neapolitani Ducatus historiam pertinentia cit., II. 2, p. 147 ss. disegno a stampo, mentre il tondo cen56. R. ZENO, Storia del diritto marittimo italiano del trale è incorniciato da un giro di petali Mediterraneo, Milano 1946 con ampia bibliografia. Inoltre: F. CALASSO, Medioevo del Diritto. I. rilevato e da uno interno di perline. Le fonti, Milano 1954, in particolare a p. 438. In un vario atteggiarsi di modi espressivi, la scuola orafa beneventana aveva dunque seguito con coerenza le linee di sviluppo indicate dalla cultura tardoromana, con influenze bizantine. Essa deve avere inoltre incontrato, alla metà del secolo VII, il nuovo interlocutore della civiltà mediterranea, quel mondo arabomusulmano che modificò in profondità i rapporti tra Oriente e Occidente. Ma non risentì del fenomeno, ancora limitato allora per il campo artistico, laddove la sua produzione era pervenuta ai massimi raggiungimenti e si sarebbe presto esaurita. Se mai, si trattò di conseguenze indirette, a causa della progressiva recessione dei traffici bizantini. Già in quel secolo l’originaria omogeneità economica del commercio marittimo mediterraneo poteva dirsi spezzata, almeno per l’Europa, in una moltitudine di usi locali. Lo stesso ducato napoletano si avviava a una decadenza culminata nel patto dell’836 col principe Sicardo di Benevento, indicante chiaramente l’importanza raggiunta da altri centri della regione campana, soprattutto Amalfi e Gaeta, dipendenti dal duca di Napoli ma di fatto autonomi55. L’uguale unica tradizione assicurava, è vero, una sufficiente unità di ispirazione ai rapporti impostati da queste potenziali repubbliche marinare56. Tuttavia era una civiltà nuova 40
che affluiva nell’interno del Mezzogiorno, non più direttamente dall’Oriente sul tracciato della via Appia bensì in relazione col loro ruolo di intermediarie fra le terre longobarde e il mondo bizantino del Tirreno. Né si deve dimenticare la presenza in Benevento di una colonia ebraica e di «negotiatores» amalfitani57. Ma questi traffici di scarso rilievo, ai quali ben poco contribuivano le carovane dei 57. A. Z AZO , I beni della Badia di S. Sofia in pellegrini diretti in Oriente, non potevano Benevento nel XIV secolo, «Samnium» XXIX modificare l’economia di accumulo rispon(1956), 3, p. 131 ss.; E. GALASSO, L’antica comunità israelitica di Benevento in Saggi di storia benedente alla condizione sociale dei maggioventana, Benevento 1963, p. 83 ss. renti longobardi. Inoltre non riguardavano 58. A. Sambon, Recueil des monnaies de l’Italie méril’oro che in scarsa percentuale. All’attività dionale depuis le VIIe siecle jusqu’au XIXe. Bénévent cit., p. 13 ss.; M. CAGIATI, La zecca di Benevento orafa beneventana cominciò così a venir cit., p. 70 ss. Anche se non del tutto accettabili sul meno la materia prima, un tempo fornita piano generale, trovano una certa rispondenza nella situazione della «Longobardia minor» le appunto dall’impero bizantino anche sotto osservazioni sulla rarefazione monetaria riferita forma di tributi, compensi o bottini di alla scarsità di oro da alcuni a espresse e confutate guerra. Pure nella monetazione, per la dal Luzzatto (G. LUZZATTO, Economia naturale ed economia monetaria nell’Alto Medioevo in Moneta e quale era riservato il maggior contingente scambi nell’Alto Medioevo, «Settimane di studio del del metallo, l’oro cominciò a scadere di Centro Italiano di Studi sull’Alto Medioevo. VIII» Spoleto 1961, p. 26 ss.). titolo e sul finire del secolo VIII venne inte59. M. BLOCH, Il problema dell’oro nel Medioevo in grato dall’argento e dal bronzo, rimanendo Lavoro e tecnica nel Medioevo, Bari 1959, p. 103 ss. esso impiegato in soldi grevi e manierati 60. O. BERTOLINi, I documenti trascritti nel «Liber preceptorum Beneventani manasterii S. Sophiae». (tav. IX c)58. Ancora, in quel secolo si («Chronicon S. Sophiae») cit.: a. 838 gennaio, aggiunse il divieto delle leggi bizantine ai Benevento: Sicardo principe «tibi Autulo aurifici nostro», doc. 111, p. 32; a. 838, gennaio, mercanti di esportare oro in Occidente Avellino: Sicardo principe «tibi Autulo aurifeci proprio mentre lo stato tentava di arginare nostro», doc. 112, p. 32; a. 845, ottobre, il dissanguamento delle scorte favorendo Benevento: Radelchi I principe «tibi Autulo aurifici nostro» doc. 120, p. 33; a. 850, novembre, industrie manifatturiere di lusso, come Benevento: Radelgario principe «tibi Autulo auriquella della seta59. fici nostro», doc. 121, p. 33. La crisi della scuola beneventana si inquadra pertanto in un contesto generale relativo a tutta l’area europea. Non che la produzione sia stata d’improvviso interrotta: quattro documenti datati fra il gennaio dell’838 e il novembre dell’850 riportano le donazioni dei principi Sicardo, Radelchi I e Radelgario ad un «Autulo aurifici nostro»60. Ma poiché nessun oggetto di quel periodo è stato finora ritrovato, è probabile che quello di Autulus fosse ormai l’ulti41
mo ‘atelier’ della capitale, in grado di reggersi soltanto col favore dei sovrani, nella cui corte l’«aurifex» viveva con il «vestararius», il «marescallus», il sarto e quanti altri il principe accoglieva insieme ai dignitari e alla «pars nobilium»61. Con queste estreme manifestazioni di tipo aulico si concludeva il ciclo di una grande vicenda dell’arte altomedioevale italiana. Intanto, mentre le esperienze formali di cui era stata feconda l’oreficeria beneventana venivano trasmesse alle arti maggiori, che proprio nel secolo VIII vissero la loro splendida stagione, un gusto diverso per i preziosi cominciava a penetrare nella capitale della Longobardia meridionale attenta 61. Su tale tipo di «possessores» nella società longoalle novità della produzione straniera. barda meridionale cfr.: M. DEL TREPPO, La vita Promotore dei nuovi interessi era stato il economica e sociale in una grande abbazia del Mezzogiorno. San Vincenzo al Volturno nell’Alto principe Arechi II, che aveva intrecciato a Medioevo, «Archivio Storico per le Provincie Benevento una delle trame al più alto Napoletane» n. s. (1965), pp. 64 e 68; ID., Terra livello della cultura del suo tempo, aprenSancti Vincencii. L’abbazia di S. Vincenzo al Volturno nell’Alto Medioevo, Napoli 1968. dola alla partecipazione spirituale di 62. F. BOLOGNA, Gli affreschi di Santa Sofia in Paolo Diacono e agli apporti del mondo Benevento cit., p. 27 ss. 63. M. AVERY , The Exultet Rolls of South Italy, medio-orientale. Nell’immenso patrimoPrinceton 1936. nio d’arte da lui procurato al principato 64. A. ZAZO, Un vescovo beneventano del IX secolo: facevano spicco le gemme e gli ori, Petrus «Sagacissimus», «Samnium» XXIII (1950), 4, p. 17 ss. e poi in Ricerche e studi storici. Napoli importati, come si è visto, dalle regioni V (1961), p. 5 ss.; A. SAMBON, Recueil des mondell’antico regno sassanide e dalle terre naies de l’Italie meridionale depuis le VII siecle jusqu’au XIX . Bénévent cit., p. 31 ss.; M. CAGIATI, arabe, per adornare il Sacrum La zecca di Benevento cit., pp. 71 e 121 ss. Beneventanum Palatium e, più tardi, la reggia di Salerno. Non a caso dunque nella corona, nei monili, nelle vesti preziose del Santo, nell’affresco con San Zaccaria divenuto muto che annuncia la prossima paternità fatto dipingere dal sovrano nella chiesa di Santa Sofia di Benevento, appare una oreficeria di tipo orientale, sia pure giustificata da precisi riferimenti alla tradizione iconografica siriaco-armena dell’episodio biblico62. Oltre alla documentazione letteraria, solo le miniature possono dare l’idea di simili tesori, e in particolare i rotoli degli «Exultet», di provenienza esclusivamente meridionale63. L’ultimo pezzo di oreficeria medioevale rinvenuto a Benevento, la croce pettorale d’oro del vescovo Pietro (894-914), appartiene infatti all’arte bizantina, anche se, concordando con il Sambon, va assegnato a questo prelato, in un periodo di reggenza del principato benee
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ventano nell’897, un denaro d’argento (tav. XX b) con il nome della Vergine, che costituisce, con le monete attribuite a Radelchi II dopo il rientro dall’esilio, l’estremo documento della zecca beneventana e, insieme, di un’attività orafa nella città longobarda64. Ed è sorprendente che l’unico esemplare finora noto del Denaro d’argento di Pietro Vescovo sia stato adesso trovato nella collezione privata di Mantova di cui ho qui dato notizia* Nel celebre Chronicon Sanctae Sophiae della Biblioteca Apostolica Vaticana (Ms. Vat. lat. 4939) un miniatore beneventano del secolo XII raffigurava Arechi II in trono con scettro e corona in atto di assistere alla costruzione della chiesa. Ma le inse- * Cfr. a p. 23 gne del principe, con le loro insistite sequenze di piastrine riquadrate da linee di pietre preziose, parlano solo il linguaggio normanno-bizantino: nella sua stessa terra di origine l’oreficeria beneventana era ormai diventata leggenda.
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ARECHI II PRINCIPE (758-787) Tremisse d’oro Mantova, Collezione privata (ora Benevento, Museo del Sannio)
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CAPITOLO TERZO
LA PRODUZIONE BIZANTINA E CAMPANO-BIZANTINA
stagione dell’oreficeria beneventana appare ancor più significativa se si L’ intensa considera che per circa sette secoli, dalla fine della guerra greco-gotica all’avvento
del regno angioino, la Campania costiera subì l’influenza della cultura bizantina. Nel ducato di Napoli e nelle aree marginali dove l’azione politica dell’impero d’Oriente si esplicava direttamente o indirettamente, le arti figurative ebbero uno svolgimento interessante ma con rare manifestazioni di rilievo1. Le arti ‘minori’ nonostante lacune talora vistose nella documentazione, dimostrano peraltro una ricchezza notevole anche per 1. Cfr. le seguenti opere generali: H.W. SCHULZ, i numerosi oggetti importati, che se ora Denkmäler der kunst des Mittelalters in vengono presi in considerazione come Unteritalien, Dresden, 1860; D. SALAZARO, Studi sui monumenti dell’Italia meridionale dal IV al indici di un gusto in svolgimento, costiXIII secolo, Napoli 1871; A. VENTURI, Storia deltuirono il modello adottato localmente l’arte italiana, Milano 1901 ss.; E. BERTAUX, l’Art dans l’Italie méridonale, Paris 1904; W. F. perfino dall’artigianato modesto. La ricoVOLBACH, Die Malerei und Plastik des Mittelalters struzione recente di tali fenomeni ha in Italien, Potsdam 1924; CH. DIEHL, Manuel messo in evidenza particolari adesioni d’art byzantin, Paris 1925; P. TOESCA, Storia dell’arte italiana. Il Medioevo, Torino 1927 (rist. della Campania bizantina allo spirito elle1965); A. HASELOFF, La scultura preromanica in nistico di cui l’ambiente era permeato, Italia, Bologna 1930; E. L AVAGNINO , L’arte medioevale, Torino 1936 (rist. 1953); M. ROTILI, ma con riprese dei modi della limitrofa Arti figurative e arti minori cit. con ampia biblioarea beneventana2. L’indirizzo orientale grafia aggiornata. ricco di venature esotiche raggiunse a 2. M. ROTILI, Arti figurative e arti minori cit. nord e a sud di Napoli i centri costieri non dipendenti dal ducato e penetrò perfino nel territorio longobardo, dando luogo a tipiche espressioni dell’arte altomedioevale meridionale. Dal secolo IX i rapporti culturali con l’entroterra, ormai avviato alla scissione nei tre principati di Benevento, Capua e Salerno, subirono una evoluzione determinante per quel che riguarda l’oreficeria. Le città marittime, da Amalfi a Gaeta, cominciarono ad elaborare forme autonome inne45
stando sul sostrato bizantino altri modi orientali, specialmente arabi, e riconsiderando la vitalità della tradizione latina. In tale contesto, fino al secolo IX, venne delineandosi un linguaggio artistico campano che costituì la vera unità della regione perché parlato a Montecassino come a Napoli, a Capua come a Benevento ed a Salerno. Per quel periodo la documentazione dell’attività orafa di tipo bizantino rimane cospicua nonostante le falcidie delle scorrerie dei Saraceni, insediati alla foce del Garigliano, e degli Ungheri sopraggiunti intorno al 9373. È per i secoli VI-VII invece che mancano dati sufficienti, non senza responsabilità del fenomeno iconoclastico, sì che occorre subito dire che molti aspetti della produzione sviluppatasi dopo l’avvio della scuola nolana resteranno per sempre oscuri. Così, riesce difficile valutare gli apporti dovuti ai pellegrinaggi dei primi tempi nell’Oriente cristiano da dove fino all’avanzata dell’Islam, al cadere del VII secolo, dovet3. N. CILENTO, Le incursioni saraceniche nell’Italia te affluire un gran numero di oggettimeridionale in Italia meridionale longobarda cit., ricordo. Di essi ricorderemo, tra le paste p. 175 ss. Inoltre: F. HIRSCH-M. SCHIPA, La Longobardia meridionale (570-1077) cit. vitree e lapidee figurate che si conservano 4. A. VENTURI, Storia dell’arte italiana cit., II, pp. nel Museo Archeologico Nazionale di 669-670, nn. 10903, 10901, 10910. Napoli, la placchetta con al centro la 5. A. LIPINSKY, Enkolpia cruciformi orientali in Italia. II. Campania (1). La croce di bronzo nel Museo Vergine e il Bambino tra Angeli e, intorno, Provinciale Campano di Capua, «Bollettino della in quattordici scomparti, le Storie evangeBadia Greca di Grottaferrata», n. s. XV (1961), 12, p. 69 ss. liche; il disco di pietra rossastra intagliata con una Madonna in pasta dura, e una tavoletta pure in pasta dura che presenta tre figure di Santi nimbati in abiti sacerdotali sullo sfondo di una basilica bizantina4. Cimeli non meno interessanti sono l’encolpio in bronzo del Museo Provinciale Campano di Capua (tav. XV), quelli - almeno cinque, tutti inediti - del Museo Nazionale di Capodimonte di Napoli e il gruppo anch’esso inedito della raccolta Pico Cellini di Roma consistente in una mezza dozzina di pezzi affini tra loro, provenienti forse dalla costiera amalfitana. Sono esemplari simili ai tanti altri - le cosidette «croci di Palestina», secondo una definizione popolare russa - disseminati in necropoli copte dell’Egitto cristiano, nonché in Siria, Asia Minore, sul litorale dalmata, in Ungheria, in Grecia e un po’ dovunque in Italia5. Si tratta di prodotti correnti, eppure non trascurabili per l’influenza esercitata sull’arte del metallo in Campania. In genere usati come croci pettorali, sono quasi sempre formati da due valve con un disegno inciso talora su 46
entrambe, altre volte solo su quella anteriore. Gli esemplari di proporzioni più ridotte sono privi di raffigurazione. La connessione di questi oggetti con l’oreficeria supera il campo iconografico per riguardare il gusto del tracciato a incisione e del rilievo punteggiato. Basta osservare l’originale Cristo tra Angeli nell’ovale centrale di uno degli encolpi del Museo Nazionale di Capodimonte (tav. XIV a) o la sommaria Crocifissione (tav. XIV b) di un altro dei pezzi napoletani. Ma soprattutto bisogna mettere in evidenza una particolarità della crocetta capuana, che richiama una tecnica adottata per molti tipi di reliquiari in oro e argento di età successiva. La parte posteriore del cimelio presenta infatti cinque forellini circolari contenenti reliquie che si dovevano intravedere attraverso una laminetta in mica trasparente. Questo sistema ritorna solo in una crocetta scoperta nel «sepulchrum» dell’altare della sconsacrata chiesa di Santo Stefano in Falleri6. Ma il centro dell’arte bizantina in 6. G.B. DE ROSSI, Tabernacolo, altare e sua cappella Campania restava Napoli e napoletane reliquiaria in S. Stefano presso Fiano Romano, erano le maestranze che realizzarono nella «Bollettino d’Archeologia Cristiana», IV serie, VI (1888-1889), p. 154 ss. e tav. XI; J. BRAUN, regione le prime opere musive di gusto Der christliche Altar, München 1924, I, p. 629 e orientale a noi pervenute. Per l’oreficeria tav. 105. sono invece sempre le fonti letterarie a soc7. Chronicon Episcoporum S. Neapolitanae Ecclesiae in Monumenta ad Neapolitani Ducatus historiam correrci fino ai secoli VIII-IX, con indicapertinentia cit., I, p. 200. zioni di una ricchezza tale da non lasciar 8. Ivi, pp. 211, 216, 217. dubbi sul progressivo affermarsi delle officine locali. Al tempo del vescovo Stefano, consacrato nel settembre del 766, queste reggevano ormai il confronto con la coeva produzione longobarda: «Ad sanctae enim ecclesiae ornamentum - dice del presule il Chronicon episcoporum Sanctae Neapolitanae Ecclesiae7 fecit crucem auream mirabili fabrefactam opere, quod spanoclastum et antipenton vocitatur. Eodemque enim opere fecit et tres calices aureos cum patena aurea, quam in giro et medio gemmis decoravit. Fecit autem duo paria mascellarium ex auro mirifice sculpta, in quibus Evangelia per festivitates leguntur. Fecit et sancti altaris festiva velamina, quae auro gemmisque studuit decorare». Lo stesso Chronicon ricorda che il vescovo Tiberio, eletto nell’834, commissionò un’ampolla dorata, due «thimiamateria» e una croce d’oro, nonché un altare con valve d’argento, i relativi «velamina smalto, auro multisque gemmis decorata» e una grande patena d’argento dorato con il volto del Salvatore tra Angeli a sbalzo; infine accenna ad un «velamen cum auro et gemmis et listis ornatum»8. 47
Significativa appare la terminologia greca riferita all’oro, quasi sempre di etimo incerto a causa della perdita degli oggetti: «antipenton» potrebbe voler dire «rifuso»; «spanoclastum» indicherebbe «purissimo e artisticamente lavorato», mentre il genitivo latino «mascellarium» si riferisce certo alle coperte dell’evangeliario. Ignoto è il senso della voce «thimiamateria». Al secolo VIII viene datato invece l’orecchino d’oro (tav. XVII b) della collezione di Arthur G. Sambon pubblicato nel 1892 da Bartolomeo Capasso nei Monumenta ad Neapolitani Ducatus historiam pertinentia9. Ripetendo lo schema a tamburo con il disco orlato da globuletti, esso presenta sul lato principale un lavoro di filigrana a fasce concentriche con motivi geometrici e pietre preziose, sul retro, in un tondo di ovuli, due pavoni affrontati in atto di sorreggere con le zampe un vaso al disopra di un monogramma. Sempre sul lato posteriore, in basso, appare un volto femminile di gusto orientale. L’anello superiore con cerchietti 9. Monumenta ad Neapolitani Ducatus historiam perpendicolari si lega al disco mediante pertinentia cit., II. 2, p. 255. Cfr. M. ROTILI, Arti una cerniera. Il pendaglio romboidale del figurative e arti minori cit., p. 926. 10. Per i sigilli: M. S CHIFA , Storia del Ducato disco è ornato da un fiore a quattro petali Napoletano, Napoli 1895, pp. 298-299. Per la forse a paste vitree. Nulla assicura della zecca: A.G. S AMBON , Le monete del Ducato origine napoletana del monile. Nel secolo Napoletano, «Archivio Storico per le Provincie Napoletane» XIV (1889), p. 459 ss.; Corpus VIII del resto il modello bizantino era Nummorum Italicorum, Roma 1910 ss., XIX. presente ad altri tipi di oggetti metallici, L’Italia meridionale continentale. Napoli. Dal Ducato Napoletano a Carlo V, 1940. dai sigilli ducali alle coniazioni della modesta zecca, aperta verso il 662 quando l’imperatore Costante II, passato nell’Italia meridionale per muover guerra ai Longobardi di Benevento, prepose Basilio I al ducato partenopeo10. Di qui il limitato interesse artistico dei primi follari in bronzo sui quali vennero effigiati gli imperatori d’Oriente finché, per reazione al movimento iconoclastico manifestatosi sotto Leone III Isaurico, il duca Stefano fece battere moneta con una efficace immagine di San Gennaro tonsurato, in abito episcopale, con il libro dei Vangeli. Ma il tono delle emissioni napoletane non si risollevò che con i follari di Sergio II (870-877) (tav. XVII a), sempre con l’immagine del Santo patrono ma con impostazione grafica migliore, non raggiunta poi neppure dai denari d’argento di Atanasio II (877-898) coniati con i nomi dell’imperatore Basilio e di San Gennaro - questo intorno ad una croce potenziata - per celebrare la vittoria in Italia dei Bizantini sui Musulmani nell’884. 48
Impianto vivace delle figure e immediatezza di segno caratterizzano un’altra opera connessa per molti aspetti all’oreficeria, la mitra medioevale del Tesoro del Duomo di Capua11. Pur mancando conferme storiche dell’antica attribuzione a San Paolino, il vescovo capuano morto nell’843, due anni dopo avere assistito alla distruzione della sua città da parte dei Saraceni, il cimelio riveste un interesse unico nella regione campana non solo per l’alta datazione ma soprattutto per le fasce ricamate che corrono una lungo il bordo inferiore «in circuitu», due sui lati opposti verticalmente fino alla punta «in titulo». Il ritmo di ottagoni a lobi arrotondati e di quadrati con figure a mezzo busto tessute in filo dorato su fondo azzurro-viola richiama infatti gli smalti bizantini. Sul piatto anteriore (tav. XVIII a) appaiono in alto il Cristo, in basso San Pietro apostolo fiancheggiato da Angeli; su quello posteriore (tav. XVIII b) in alto la Vergine, in basso San Paolo apostolo ugualmente tra Angeli. Didascalie in greco facilitano la identificazione delle immagini contribuendo a individuare nella Capua 11. A. LIPINSKY, La Chiesa Metropolitana di Capua ed longobarda del secolo IX una forte presenza il suo Tesoro «Archivio Storico di Terra di Lavoro» III (1960-1964), p. 401 ss.; ID., Le arti minori in bizantina, peraltro finora non del tutto ignoCampania fino al secolo X circa cit., p. 148 ss. rata. Singolare è invece lo spirito col quale 12. P. F. RUSSO M. S. C., Itinerario campano dei l’artista ha rapportato al plastico vigore delle monaci calabro-greci sullo scorcio del secolo X, «Archivio Storico di Terra di Lavoro» III (1960figure l’effetto decorativo delle superfici degli 1964), p. 211 ss. Sulla civiltà figurativa della ottagoni, dove si inserisce un elemento circoCampania nell’età bizantina cfr. in particolare: F. BOLOGNA, Per una revisione dei problemi della lare con otto globi secondo un motivo fiorito scultura meridionale dal IX al XIII secolo in a lungo nella regione, ripetuto dopo qualche Sculture lignee nella Campania, Catalogo della secolo, per rimanere nella zona capuana, nel Mostra, Napoli 1950, p. 21 ss.; M. ROTILI, Arti figurative e arti minori cit. pulpito romanico della cattedrale di Caserta Vecchia. Sensibilità latina e cultura orientale trovano qui un’alta espressione comune, che fa pensare ad un prodotto locale modellato per la decorazione su miniature del periodo della dinastia macedone e per la forma sul tipo di mitra latina in uso nel Mezzogiorno. Si definisce pertanto nella zona settentrionale della Campania un ambiente artistico insospettato, oscillante fra il gusto beneventano e quello bizantino proveniente dal ducato di Napoli ma alimentato nel tempo dagli scambi con il monachesimo basiliano della Lucania e della Calabria. Basti ricordare il prolungato soggiorno di San Nilo da Rossano e dei suoi compagni nel cenobio di Valleluce presso Cassino prima di passare nel Lazio a fondarvi l’abbazia di Santa Maria di Grottaferrata, e la funzione di tappa sugli itinerari campani dei monaci calabro–greci svolta da Serperi nelle vicinanze di Gaeta12. 49
I modi elaborati dagli artisti capuani trovarono un terreno fecondo nell’oreficeria religiosa prolungandosi fino a tutto il secolo X, alla vigilia cioè dell’eccezionale rinnovamento in senso bizantino promosso a Montecassino dall’abate Desiderio da Benevento, poi papa Vittore III. Per questo appare fondato localizzare nella città del Volturno l’origine della crocetta pettorale in lamina d’argento dorato di Santo Stefano, Vescovo di Caiazzo dal 979 al 1023, se non anche quella del ricordato encolpio d’oro di Pietro vescovo di Benevento (894-914)13. Si trat13. Le due opere si conservano rispettivamente nella ta di opere poco omogenee fra loro, prechiesa cattedrale di Caiazzo, presso Capua, e nel sentando come uniche affinità la sottoliTesoro del Duomo di Benevento. Per la crocetta neatura a punti continui del bordo e di Caiazzo cfr.: B. DI DARIO, Santo Stefano vescovo e protettore della città e diocesi di Caiazzo, qualche particolare tecnico. La croce del Roma 1928, p. 150 ss.; M. INGUANEZ, La croce vescovo Pietro (tav. xx a), individuata dal dell’abate Santo Stefano. «Bollettino Ufficiale della Diocesi di Caiazzo» XIII (1940), 6, p. 63 nome latino scritto in onciale greca, si rifà ss.; ID., La croce dell’abate Stefano, «L’Osservatore alla grande tradizione longobarda meriRomano», 28-29 ottobre 1940, p. 3; B. DI dionale nel ricalcare la forma a bracci DARIO, Notizie storielle della città e della diocesi di Caiazzo, Lanciano 1941, p. 152; A. Lipinsky, uguali a coppie, con profilo lievemente Enkolpia cruciformi orientali in Italia. II. divergente, della crocetta d’oro inornata Campania. La croce di Santo Stefano di Caiazzo, «Bollettino della Badia Greca di Grottaferrata» n. del Museo del Sannio. I suoi castoni, s. XVIII (1964), 3-4, p. 177 ss.; ID., Arte orafa a svuotati delle gemme o degli smalti all’atCapua nel X secolo. La croce di Santo Stefano to dell’inumazione, furono realizzati con Menecillo vescovo di Caiazzo, «Capys. Annuario degli Amici di Capua» 1967, p. 13 ss.; ID., Le procedimenti estranei alle officine di arti minori in Campania fino al secolo X circa cit., Benevento, a quell’epoca ormai forse p. 136 ss.; ID., Oreficerie bizantine ed italo-bizantine nella regione campana cit., p. 120 ss. Da inattive, ma la saldatura a freddo dei notare che alla crocetta di Caiazzo si è sempre bracci non è lavoro bizantino. Gli anelletaccompagnato un antico anello, di incerta fattuti sporgenti dai bordi, che conferiscono ra, che la tradizione vuole sia pure appartenuto al Santo vescovo. Per l’encolpio di Benevento cfr. all’opera un ricercato tono orientale, del A. ZAZO, Un vescovo beneventano del IX secolo’. resto già notato nella moneta battuta dal Petrus «Sagacissimus» cit. 14. Ivi. vescovo Pietro e dovuto alla settennale soggezione della Longobardia meridionale a Bisanzio14, fanno riscontro alle semicalotte sferiche sui terminali dei bracci, un motivo anch’esso presente nell’oreficeria beneventana in una delle tre crocette del Germanisches National Museum di Norimberga (tav. XI). Nel progressivo orientamento del gusto capuano verso i modi bizantini si inquadra 50
la crocetta di Caiazzo, la quale segue lo schema degli encolpi bronzei di importazione, con sagoma tozza per i bracci uguali a coppie e il corpo bivalve. Nell’applicazione delle cerniere ricorre nuovamente il procedimento di saldatura a freddo. Di grande interesse la decorazione a sbalzo e a cesello, dove si avverte un vigoroso linguaggio campano. Nella Crocifissione (tav. XXI) del lato principale il Cristo, coi fianchi coperti dal perizoma annodato al centro, poggia i piedi disgiunti sul «suppedaneum»; le braccia sono appena incurvate, le mani aperte; sul fondo di un nimbo gli ricade dal capo, lungo la spalla destra, una fluente capigliatura che con la ricca barba caratterizza il tipo iconografico orientale. Anche la Mano benedicente (tav. XXIII), nel medaglione del lato posteriore, ripete il gesto greco che congiunge il dito anulare al pollice. Ma il modellato del rilievo raggiunge singolare potenza nel torace del Cristo, tormentato da scanalature come nella superficie a crescenti del rovescio. L’artista, che trattava il metallo a mo’ d’intaglio con indubbie consonanze con la scultura lignea della regione, si inserisce pertanto nobilmente nel contesto culturale della inci15. Sculture lignee nella Campania, Catalogo della piente arte romanica campana. E, ciò va Mostra cit., n. 3 p. 34 ss. e tav. 1, n. 4 p. 36 ss. e detto anche considerando il tema sviluptav. 2, n. 11 p. 44 ss. e tavv. 4-5, n. 13 p. 51 ss. e pato da crocifissioni lignee successive, da tav. 7, n. 28 p. 86 ss. e tav. 28. 16. W. F. VOLBACH, Sculture medioevali della Campania, quella di San Giovanni Maggiore al «Atti della Pontificia Accademia Romana di Crocifisso di San Gregorio Maggiore in Archeologia» XII (1936), p. 90 ss. 17. N. CILENTO, La cronaca della dinastia capuana Napoli, dal Cristo di Santa Maria in Italia meridionale longobarda cit., p. 103 ss. Maggiore in Mirabella Eclano a quello della Confraternita della Pace di Acerra15. Già il Volbach16 aveva del resto fermato l’attenzione su alcuni frammenti di scultura longobarda in marmo del Museo Campano di Capua per confronti con la crocetta del vescovo Stefano, specie nella figurazione simbolica della Mano benedicente. Benché si tratti di opere posteriori, il richiamo torna opportuno per ribadire la individualità del filone artistico dell’esemplare di Caiazzo, i cui tratti stilistici non a torto hanno fatto pensare all’attività di qualche bottega orafa a Capua, o addirittura ad una scuola favorita dal nuovo ruolo politico della città dopo che, all’inizio del secolo X, il suo principe Atenolfo I si era insediato anche sul trono di Benevento ricostituendo in parte l’antica unità del Mezzogiorno longobardo17. Un discreto gruppo di ori appartiene peraltro con sicurezza a scuole italo-bizantine formatesi con il contributo diretto di maestranze orientali o sotto l’ascendente di 51
Bisanzio. Nella Campania, dove si possono ipotizzare per tutta l’eta normanna diversi di tali centri di produzione, fiorì in primo luogo quello imperniato sul cenobio di Montecassino per opera dell’abate Desiderio (1059-1087). Egli conferì alla massima carica monastica cassinese un prestigio eccezionale dedicandosi con visione moderna all’opera di ricostruzione avviata dall’abate Aligerno (949-986). E quando a coronamento dell’impresa papa Alessandro II consacrò nell’ottobre del 1079 la sua nuova chiesa, l’abbazia aveva superato ogni antico splendore. Purtroppo le fonti coeve, da Leone Marsicano a Pietro Diacono e Alfano di Salerno18, nel celebrare la dottrina di Desiderio non chiariscono l’entità dei rapporti da lui avuti con le arti bizantine e longobarde. Essi non si limitavano certo ad 18. LEO MARSICANUS sive OSTIENSIS, Chronica acquisizioni di codici miniati, opere di Monasterii Casinensis, ed. W. WATTENBACH in Monumenta Germaniae Historica. Scriptores, oreficeria a smalti, oggetti eburnei, o a Hannover 1846, VII, p. 57 ss.; P ETRUS contatti con personalità che agivano da DIACONUS, Chronica Monasterii Casinensis, ivi, tramite fra la cultura latina e quella greca p. 727 ss.; ALPHANUS ARCHIEPISCOPUS, Carmina in Patrologiae cursus completus. Series latina, ed. J. - si pensi alla presenza di Pantaleone di P. MIGNE, Paris, 1844 ss., vol. 147, p. 1219 ss. Amalfi alla consacrazione della chiesa cas19. A MATO D A M ONTECASSINO , Historie de li Normant. Storia dei Normanni volgarizzata in sinese19 - ma risalivano a conoscenze antico francese, ed. V. De Bartholomaeis, «Fonti dirette del periodo monastico trascorso per la Storia d’Italia», Roma 1935, vol. LXX, p. nella Badia di Cava dei Tirreni, in Santa 175 ss. 20. L’acuta tesi di un diretto intervento dell’abate Sofia di Benevento e in San Salvatore Desiderio in tal senso è recente: A.R. Maggiore a Corte in Capua. HAHNLOSHR, Magistra Latinitas und Peritia Graeca in Festschrift Eineni, Berlin 1965, p. 77 ss. Nel nuovo indirizzo artistico deside21. LEO MARSICANUS sive OSTIENSIS, Chronica riano l’oreficeria rivelò singolari esigenze Monasterii Casinensis cit., III. 18. di affermazione dell’elemento latino accanto alla irrinunciabile tradizione tecnica greca20, che trovava grande favore nell’abbazia mentre le raffinatezze dell’arte orafa e dello smalto giungevano al loro apogeo in Bisanzio. Leone Marsicano e Pietro Diacono nel loro Chronicon monasterii Casinensis descrivono capolavori quali il rivestimento d’oro e gemme per l’altare maggiore della nuova basilica ed il relativo paliotto pure in oro con smalti21. Ma quando gli artisti locali cominciarono a sostituirsi a quelli espressamente chiamati dall’Oriente, si verificò un progressivo approfondimento dei dati naturalistici, riconoscibile sul piano espressivo soprattutto nel modellato dell’anatomia umana, nonostante gli schemi non latini. Di qui l’attribuzione alla scuola cassinese delle quattro lastre d’argento con scene cristologi52
che, già della collezione francese Martin Le Roy22, il cui tono realistico esclude una provenienza da territori bizantini. Lavorate a sbalzo senza ripassaggi di bulino o cesello, presentano al centro una scena evangelica racchiusa entro una prima cornice a motivi vegetali diversi in ogni lastra e una seconda cornice a doppia bacchetta liscia, interrotta da un regolare ritmo di riporti decorativi. Ai quattro angoli altri motivi ornamentali coprono i fori per l’inchiodatura su supporti lignei. La loro perfetta conservazio22. G. MIGEON, La Collection Martin Le Roy, «Les Arts» 1902, 10, p. 4 ss.; G. SCHEUMBERGER, ne fa pensare ad un impiego come rivestiL’epopèe byzantine a la fin du X siècle, III partie: mento d’altare oppure ad una serie di Les Porphyrogenètes Zoé et Théodora. Paris 1905, pp. 228, 229, 652; J.J. MARQUET DE VASSEEOT, icone per predella del tipo di quelle veneCatalogue raisonné de la Collection Martin Le Roy. to-bizantine di Caorle, che dovevano I. Orfèvrerie et èmaillerie, Paris 1906, p. 5 ss.; A. essere esposte ai fedeli nelle festività23. LIPINSKY, Per una storia dell’oreficeria nel reame di Napoli e Sicilia. Le quattro lastre d’argento istoriate Dal punto di vista iconografico le della collezione Martin Le Roy, «Il Fuidoro» IV quattro scene si inseriscono negli schemi (1957), 4. p. 129 ss. 23. A. LIPINSKY, Goldene und silberne Antependien des bizantini tradizionali, con lievi differenze. Mittelalters in Italien. I. Das silberne Antependium Così nell’Annunciazione (tav. XXVI a), la von Caorle, «Das Münster» V (1952), p. 39 ss.; Vergine che solleva il braccio destro in ID., Altari aurei ed argentei del Medioevo in Italia. Torcello e Coorte, «L’orafo italiano» X (1956), 8, atteggiamento di timorosa sorpresa p. 37 ss. Sulla Pala d’Oro di Venezia cfr. i seguenti abbandona il lavoro di filatura, cui era studi più recenti: A. LIPINSKY, Goldene und silberne Antependien des Mittelalters in Italien cit., VI. intenta come in numerose altre raffiguraDie Pala d’Oro im St Markus-Donì zu Venedig, zioni orientali ispirate a fonti cristiane p. 194 ss.; W. F. V OLRACH -A. P ERTUSI -B. apocrife e specialmente al Protoevangelo BISCHOF-H. R. HAHNLOSER-G. FIOCCO, La Pala d’Oro, Firenze 1965. di San Giovanni24. Anche la scena della 24. L. SCARABELLI, I Vangeli Apocrifi, Bologna 1867; Madonna in trono col Bambino (tav. XXVI C. TISCHENDORF, Evangelio apocrypha, Leipzig 1876, 23 ediz.; O. BARDENHEVER, Gesckichfe der b) costituisce una versione originale nelaltchristlichen Literatur, Freiburg I Br., 1913. l’abbondante produzione artistica in 25. A. LIPINSKY, Per una storia dell’oreficeria nel reame onore della Vergine, mentre quella del di Napoli e Sicilia. Le quattro lastre d’argento istoriate della collezione Martin Le Roy cit., p. 131. Cristo che predica agli Apostoli (tav. XXVII a) si distacca completamente da ogni iconografia orientale ma non - com’è stato supposto25 - perché il mandato della diffusione del Verbo secondo il culto greco era stato conferito con l’apparizione delle lingue di fuoco agli Apostoli nella Pentecoste e la loro improvvisa alloglossia: in tal caso la Discesa dello Spirito Santo (tav. XXVII b) dell’ultima lastra sarebbe soltanto una versione tradizioème
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nale della precedente. Il valore della terza scena aumenta invece se si tratta, come sembra, di un nuovo elemento iconografico introdotto dall’orafo in senso occidentale italiano, per nulla riferito al mandato dell’opera missionaria. Ma le divergenze dalla cultura artistica bizantina risultano di gran lunga maggiori ad una analisi stilistica. Sebbene l’effetto d’insieme sia basato su compiacimenti decorativi, l’impianto delle quattro scene dispone apparati architettonici e arredi domestici 26. Per Ravenna: G. BOVINI-L.B. OTTOLENGHI, Avori dell’Alto Medioevo, Catalogo della Mostra, in funzione spaziale soprattutto nella Ravenna, 1956, 23 ediz., n. 81 p. 91 ss. e figg. Predicazione agli Apostoli, avvivata a destra 133-134, n. 82 p. 135. Per Brescia: A. MORASSI, Antica oreficeria italiana. Catalogo della Mostra da una fuga di piani di notevole efficacia della Triennale, Milano 1936, n. 97, pp. 28, 70 e prospettica. L’artista esprime il suo intefig. 27, n. 98 p. 90 e fig. 55; ID., Brescia in resse per il dato concreto proprio nella Catalogo delle cose d’arte e di antichità d’Italia, Roma 1939, vol. XI p. 188 ss. e fig. a p. 189. Cfr. resa della figura umana, preferendo alle il modellato simile nelle figure principali del ieratiche immagini delle coeve sculture paliotto argenteo di Cividale del 1193-1204, per le quali vedi: A. LIPINSKY. Altari aurei ed argentei bizantine in pietra o avorio volti carattedel Medioevo in Italia. Città di Castello e Cividale rizzati e corpi di proporzione classica, del Friuli, «L’orafo italiano» IX (1955), 1, p. 36 ss. ammantati di vesti a larghe pieghe, senti27. P. TOESCA (Storia dell’arte italiana. Il Medioevo cit. ed. 1927, p. 1145 nota 56) assegnò per primo le te fin nella loro realtà materica di pesanti lastre Le Roy all’arte dell’Italia meridionale, proporasi e damaschi. Sì che molto significativo nendo confronti con opere sparse sul litorale dalmata, a Traù e a Spalato. riesce il confronto con i preziosi panneggi del Cristo benedicente e della Vergine in trono col Bambino oggi nella Galleria dell’Accademia Jugoslava di Zagabria, già esposti alla Mostra degli Avori dell’Alto Medioevo a Ravenna, e dell’Arcangelo del Landesmuseum di Darmstadt, databili intorno al secolo X, nonché con le figure stilizzate sul coperchio della stauroteca d’argento dorato del secolo XI ora nel Duomo Vecchio di Brescia26. Un lavoro del genere, estraneo ai grandi centri di produzione dell’Impero d’Oriente, non fa che confermare le scarse notizie sulla provenienza da una bottega del Mezzogiorno italiano, peraltro non bizantina, aliena cioè da pedissequi riecheggiamenti dell’arte di Bisanzio e capace di esprimere con linguaggio originale le due culture del tempo27. Tale bottega poteva ben appartenere alla scuola cassinese, rimasta in Campania, tra la fine del secolo XI e l’inizio del XII, custode tenace della tradizione indigena, ma dischiusa al tempo stesso dal genio desideriano a nuove feconde esperienze. 54
Attraverso altre opere di oreficeria che presentano analogie formali con le Lastre Le Roy si può del resto risalire al medesimo ambiente campano-bizantino, cui si dovrebbero ricollegare perfino i prototipi delle «croci sulmonesi» in bronzo, diffuse dagli Abruzzi fino alla Calabria. Saldi nessi con l’arte desideriana mostra la Croce del Pantokrator del Museo del Duomo di Gaeta (tav. XIII)28, uno degli oggetti più problematici del Medioevo campano non tanto per la sagoma bizantineggiante ma pure inconsueta, quanto per il divario stilistico fra il garbato medaglione a smalto, riportato sul bronzo argentato, e il disegno inciso con mano sommaria sui bracci. Su quello verticale è infatti tracciato un motivo vegetale, sull’altro un lupo a sinistra e una lepre a destra, fra castoni a dentelli nei quali erano fissati pezzi di cristallo di rocca tondi tagliati ‘a cabo28. Y. HACKENBROCH, Italienisches Email des frühen chon’. Già in antico i cristalli andarono Mittelalters cit. p. 53; A. LIPINSKY, Per una storia dell’oreficeria nel reame di Napoli e Sicilia. La tuttavia in parte perduti - oggi ne restano Croce del Pantokrator nel Duomo di Gaeta, «Il solo due - e sostituiti con impasti brunicFuidoro» IV (1957), p. 70 ss.; ID., Oreficerie bizantine ed italo-bizantine nella regione campana ci imitanti pietre dure. cit., p. 147 ss. Un altro castone a dentelli accoglie, al 29. È la lega di oro e argento nel rapporto 4/5:1/5 centro della croce, il disco smaltato del nota appunto come ‘oro verde’, introdotta dagli antichi anche nella monetazione sebbene si preCristo benedicente con un volume nella stasse facilmente alle frodi (Cfr. F. MARTINORI, sinistra. Di questo lavoro appare di La moneta. Vocabolario generale, Roma 1915 p. 144 ss.). sommo interesse stabilire la provenienza. Di indubbio gusto orientale nella impostazione, esso presenta discordanze troppo sorprendenti per un artista bizantino poiché al tipico particolare dei tre riccioli sulla fronte, separati da una fluente capigliatura, si accompagna un movimento di braccia disarticolato rispetto al busto, nel tentativo riuscito di conferire forza espressiva all’immagine. Qualcosa di simile si nota negli smalti applicati con strana incertezza negli alveoli, dal contorno impreciso eppure tecnicamente perfetti nel disegno. Ciò che in essi meno si adatta al gusto intenso delle lastre bizantine è però il colore di fondo, abbassato per l’uso di una lega di elektron giallo citrino, l’antico ‘oro verde’29, cui sono raccordate tutte le altre tinte. Pertanto il volto del Cristo invece di apparire nel consueto rosa-incarnato diventa giallo scuro; la chioma e la barba, come gli occhi e il mantello, sono eseguiti in un azzurro cupo che trapassa in nero; la tunica è in turchese di combinazione, il libro giallo con bordo rosso, l’aureola verde smeraldo traslucido con croce gialla entro il bordo rosso. 55
Ancora una volta dunque la fusione di elementi opposti, mentre induce ad escludere una provenienza da territori soggetti all’Impero d’Oriente, compresi quelli dell’Italia meridionale, riporta al maggiore centro artistico italiano le cui personalità operavano con cultura bizantina e gusto latino: Montecassino nel secolo XI. Per una ulteriore definizione di tale ambiente, che appare ormai costituito da diversi centri di produzione, occorre affiancare alla Croce del Pantokrator di Gaeta la lastra, forse cassinese, in rame sbalzato e smaltato nota come Smalto di Santa Maria in Trastevere, dal luogo dove fu trovata per poi passare nel Museo di Palazzo Venezia a Roma (tav. XXX a)30. A differenza di quella, lo smalto romano presenta il Cristo benedicente, con un chirografo in mano e l’aureola di oro e gemme, a figura intera ma con uguale serrata stilizzazione, se non maggiore, per il largo tratteggio dei tramezzi degli alveoli. Eccezionale appare soprattutto il 30. Cfr. C. CECCHELLI, La vita di Roma nel Medio disegno delle vesti dove il senso greco delEvo cit., p. 41 ss. che l’attribuisce al «gruppo di l’incorporeo pone in risalto per contrasto cassinesi migrati accanto alla basilica di Santa i valori volumetrici del volto e del gesto. Maria in Trastevere»; D. TALBOT RICE, Kunst aus Byzanz, München 1959, p. 78, tav. 170 e XXIV, Quanto alla tecnica i riferimenti tra le che propone un interessante confronto con la due opere si limitano ad una esecuzione Stauroteca di Cosenza. 31. Cfr. M. I NGUANEZ , La stauroteca di raffinata, poiché la lastra di Palazzo Montecassino, «Illustrazione Vaticana», 1-15 apriVenezia è un «unicum» nella sua epoca a le 1934, p. 315 ss.; C. CECCHELLI, Vita di Roma causa del procedimento che ricavò a sbalnel Medio Evo cit., p. 26 ss. zo nel rame gli alveoli per le paste vitree colorate, senza far uso di scalpello o bulino e quindi di riporti metallici. Questo procedimento si ritrova soltanto nella lastra di rame smaltato inserita nel baldacchino della basilica di San Nicola di Bari, databile però intorno al 1139. Di gran lunga superiore doveva tuttavia essere il numero degli oggetti di oreficeria bizantina importati in Campania, anche se del periodo compreso fra la Rinascita, sotto la dinastia macedone, e la caduta della Seconda Roma quasi nulla rimane. Proprio a Montecassino ne offre testimonianza di notevole interesse una stauroteca di argento dorato, un reliquiario cioè contenente frammenti della Croce di Cristo31. Formata a doppia traversa, ha gli angoli interni ornati da cinque delle otto perle originarie. Perdute sono pure le pietre preziose, ad eccezione di due zaffiri incastonati nel braccio trasversale inferiore, un opale e un topazio nell’asse maggiore. Sul retro, in scrittura greca onciale del secolo X, si legge un’epigrafe laudativa riferita ad un certo Romano. È 56
noto che due imperatori bizantini con quel nome sedettero sul trono dell’Impero d’Oriente, il primo dal 919 al 944, il secondo dal 949 al 963. Potrebbe dunque trattarsi di uno di essi, e la stauroteca andrebbe identificata con quella che il Chronicon Casinense dice donata al cenobio dal monaco Leone, fratello dell’Abate Aligerno (949986) al ritorno da un pellegrinaggio a Gerusalemme32. Da allora per oltre un secolo l’abbazia cassinese guidò il gusto di gran parte della regione, essendo divenuta il principale punto di arrivo di tali importazioni dall’Oriente. Il Chronicon Casinense parla ancora di scrigni argentei con reliquie donati da Benedetto VIII all’abate Teobaldo nel 1023 e di un frammento della Santa Croce chiuso in 32. LEO MARSICANUS sive OSTIENSIS, Chronica Monasterii Casinensis cit., VII, p. 636. una icona d’oro con pietre preziose trafu33. Ivi, pp. 720 e 742. gata da un nobile amalfitano nel palazzo 34. S. FERRARI, Memorie religiose e civili della città di imperiale di Bisanzio al tempo della conGaeta, Napoli 1903, p. 189 ss.; E. SCHLUMBERGER, L’épopée byzantine a la fin du X giura del 1078 contro Michele VII e siècle cit., p. 532 ss.; Y. HACKENBROCH, Italienisches inviata all’abate Desiderio33. Emails des frühen Mittelalters cit., pp. 49, 56 e figg. 31-32; A. LIPINSKY, Per una storia dell’oreficeria nel Purtroppo rarissimi oggetti possono reame di Napoli e Sicilia. La Stauroteca di Gaeta, «Il dare oggi l’dea del pregio di quelle opere. Fuidoro», IV (1957), 1-2, p. 1 ss.; ID., Enkolpia Tra essi è la minuscola crocetta aurea del cruciformi orientali in Italia. II. Campania. La Stauroteca di Gaeta già nel cenobio di San Giovanni Tesoro della Cattedrale di Gaeta. proveApiro, «Bollettino della Badia Greca di niente da San Giovanni a Piro, uno dei Grottaferrata», n. s. XI (1957), 3, p. 91 ss. 35. Cfr.: F. PALAZZO, Il cenobio basiliano di San maggiori cenobi bizantini della Lucania34. Giovanni a Piro e cenni storici su San Giovanni a Il pezzo è ancor più interessante in quanPiro, Basco e Scarlo, Salerno 1958. to unico cimelio del famoso monastero 36. E. BERTAUX, L’art dans l’Italie meridionale. I. Le Moyen Âge, Paris 1904, p. 179. basiliano affacciato sul golfo di Policastro, del quale non restano che notizie storiche35. La piccola stauroteca poggia sul piedistallo d’argento su cui la fece montare il cardinale Tomaso De Vio vescovo di Gaeta, ma in origine doveva essere una croce pettorale, come attesta l’appiccagnolo superiore. Il Bertaux la ritenne invece una «staurìtzia», ossia un gioiello sacro usato per fermare il mantello degli imperatori di Bisanzio36. I problemi relativi al pezzo si estendono alle iscrizioni che identificano le figure a smalto policromo su entrambi i lati. La sagoma a croce latina bivalve presenta un caratteristico profilo appena divergente nei bracci, che terminano ciascuno in un lobo tondeggiante raccordato da minuscoli 57
cilindretti con testate a smalto. Sul lato principale (tav. XXIV a) spicca una Crocifissione bizantina, con il Cristo a piedi disgiunti poggiati sul «suppedaneum» sovrastante il monticello con il teschio di Adamo, ma vivo, con gli occhi aperti e il corpo dolcemente incurvato su un fianco. Nel lobo superiore è una immagine di San Michele Arcangelo ritagliata con ogni probabilità da un tondo più grande, con tracce di piume delle ali e , la lunghissima stola ricadente obliquamente dalla spalla. Tale raffigurazione dell’ divenne consueta nell’oreficeria del tardo Medioevo e oltre soprattutto nell’Italia meridionale - ritorna fra l’altro nella cosidetta Croce degli Orsini del 1343 e nelle croci abruzzesi d’argento del 1423 e 1445 conservate 37. N. KONDAKOV, Histoire et monuments des émaux a Missanello presso Potenza ed a Morano byzantins, introd. par A. DESVENIGORODSKOI, Calabro - ma riesce qui di complesso trad. francaise par F. TRAWINSKI, Francofort 1892; K. KUENSTLE, Ikonographie der christlichen significato perché potrebbe indicare la Kunst, Freiburg i Br. 1928. presenza eterna di Dio Padre inteso come 38. Vangelo secondo San Giovanni, XIX 26. Sapienza37. Sui due lobi laterali sono raf39. A. LIPINSKY, Calabria bizantina. I. Anelli paleocristiani e bizantini in Calabria, «Archivio figurati a sinistra la Vergine e a destra San Storico per la Calabria e la Lucania» XIII (1944), Giovanni Evangelista. Nel campo, sotto p. 214 ss. 40. E. SCHLUMBERGER, L’épopée byzantine a la fin du le braccia del Crocifisso si leggono le X siècle cit., p. 533. scritte ad essi riferite 41. S. FERRARI, Memorie religiose e civili della città di «Vedi, questo è tuo figlio» e Gaeta cit., p. 190, nota. «Vedi, questa è tua madre», cioè le parole pronunciate dal Cristo sulla croce, riportate appunto dall’Evangelista38. Sul lato posteriore della stauroteca (tav. XXIV b) appare la Vergine stante in atto di pregare con le mani protese e i gomiti stretti al corpo, accompagnata dal suo solito monogramma. Sui quattro lobi si vedono: in alto San Giovanni Battista, che la Chiesa greca metteva sempre in relazione iconografica con la Madonna; a destra San Giorgio uccisore del drago; in basso San Demetrio da Tessalonica e a sinistra Teodoro Stratilate, tutti megalomartiri del calendario bizantino. Nel campo, in corrispondenza della iscrizione del lato principale, si legge la seguente «Madre di Dio, aiuta il tuo servo invocazione: Basilio», che ripete un tipo di formula ricorrente anche nell’oreficieria bizantina dell’Italia meridionale39. Lo Schlumberger40 tentò di identificare il dedicante con Basilio II della dinastia macedone, mentre il Ferrari41 più cautamente propose di interpretare 58
l’ultima parola non come un nome proprio ma nell’accezione greca di «re, sovrano». Per la soluzione del problema, legato a quello della provenienza, mancano purtroppo elementi di raffronto negli altri reliquiari che presentano la stessa disposizione delle tre reliquie della Croce con la maggiore verticalmente al centro e le minori orizzontalmente ai lati42. La Stauroteca di Gaeta è decorata a smalto ‘cloisonné’ con sobri colori dai quali si stacca nettissimo lo smalto nero delle scritte di 42. Cfr. tra l’altro la ricordata «Crux gemmata» del tipo ‘champlevé’cioè ad incavo. Ma anche Tesoro della Cappella Sancta Sanctorum, già nel la tecnica offre pochi spunti per localizzare Museo Sacro della Biblioteca Apostolica Vaticana (H. G RISAR , Die römische Kapelle Sancta l’origine del prezioso reliquiario, che Sanctorum und ihr Schatz, Freiburg i Br. 1908, p. potrebbe aver seguito la sorte della mag89 fig. 42.) 43. Cfr. F. D E M ELY , Exuviae Sacrae gior parte dei preziosi saccheggiati a Constantinopolitanae, Paris 1904. Costantinopoli durante la crociata del 44. Y. HACKENBROCH, Italienisches Emails des frühen 122243. Si resterebbe così nel campo di una Mittelalters cit., p. 56. 45. Cfr. P. O RSI , Oggetti bizantini di Senise in ipotesi più verosimile di quella proposta Basilicata, «La Cultura Calabrese» I (1922), estr.; dalla Hackenbroch di assegnarlo ad uno A. LIPINSKY, Enkolpia cruciformi orientali in Italia. I. Calabria e Basilicata «Calabria degli artisti greci passati a Montecassino su Nobilissima», n. s. XI (1957), 1, p. 3 ss. 44 invito dell’abate Desiderio . 46. Sulla Croce dei Guelfi cfr.: W. A. NEUMANN, Der La possibilità della provenienza da un Reliquienschatz des Hauses BraunschweigLüneburg, Wien 1891, p. 63 ss.; O.R. VON monastero dell’Italia meridionale stimola FALKE -G. S CHMIDT-G. S WARZENSKY , Der in altro senso la ricerca sulla scorta degli Welfenschatz, Frankfurt a. M. 1930, pp. 27 ss., 97 ss., tavv. 1-4; Y. HACKLENBROCH, Italienisches elementi stilistici del tutto diversi da quelEmails des frühen Mittelalters cit., pp. 49, 54 ss. li degli encolpi e delle stauroteche prodotSulla Stauroteca di Velletri cfr.: S. BORGIA, De ti nel Mezzogiorno45.Un primo accostacruce veliterna commentarius, Roma 1780; A. LIPINSKY, La Croce di Velletri, «L’Osservatore mento in senso stilistico venne segnalato Romano» 8 giugno 1940; L. MORTARI, Il Museo dallo Swarzensky con la Croce dei Guelfi, Capitolare della Cattedrale di Velletri, Roma 1959. già nello Schlossmuseum di Berlino, e con quella del Museo Capitolare annesso al Duomo di Velletri poiché entrambe hanno inserita sul lato principale una crocetta d’oro con smalto a colori46. Il confronto, fondato soltanto nei riguardi della finissima stauroteca veliterna ma insostenibile con la croce dei Guelfi - tanto più se fatto per attribuire entrambi i pezzi alla scuola milanese - fu ripreso dalla Hackenbroch, la quale pensò ad una origine romana. In realtà, la sagoma, la disposizione delle figure e la tecnica a filigrana con perle e 59
gemme della crocetta di Velletri risentono dell’influsso bizantino, per cui l’inserimento della produzione orafa siciliana della prima età normanna, suggerito dal Lipinsky, rimane abbastanza convincente e pare suffragato dall’itinerario meridionale seguito dalla crocetta, donata al Duomo di Velletri nel 1254 dal cardinale Rinaldo dei Conti di Segni, per diverso tempo legato di papa Innocenzo IV (1243-1254) presso l’mperatore Federico II di Svevia in Puglia47. Le indagini sulla Stauroteca di Gaeta si 47. A. L IPINSKY , L’arte orafa normanno-sicula, approfondiscono nel constatare i rapporti «Annali dell’Accademia del Mediterraneo» 1 intercorrenti con la cosiddetta Croce di (1952-1953), Palermo 1954, p. 46 ss.; I D., Sizilianische Goldschmiedekunst im Zeitalter der Dagmar del Museo Nazionale di Normannen und Staufer, «Das Munster» X Copenaghen e con quella conservata a (1957), pp. 73 ss., 158 ss. (per la croce veliterna p. 166 ss. e figg. 37-40. Non a torto il Lipinsky Nikortsminda nel distretto di Ratscha, deplora che sia stata sempre tenuta in poco nell’Imerelia Montagnosa del Caucaso conto la notizia della donazione del Card. Meridionale, nonché con una croce della Rinaldo e quindi della provenienza della croce da un ambiente meridionale). Brummer Gallery già nella Collezione 48. Sulla Croce di Dagmar cfr. J. J. A. WORSAAE, Andronicos di Costantinopoli 48. La Nordiske oldsager i det Kongelige Museum i Kjöbenhavn, Kjöbenhavn 1859, p. 132, fig. 512 prima, trovata nella tomba della regina a-b; K. CHYTIL-A. FRIEDL-N. P. KONDAKOV, A Dagmar di Danimarca morta nel 1213, è frantisek Kriz zvany Zavisuv v pokladu Klastera ve un piccolo encolpio in oro con una Vyssim Brode v Cechach in Monografie Archeologike Komise pri Ceske Akademii ved a Crocifissione a smalto sul lato anteriore. Umeni, Praga 1930, I Ivi anche per la Croce di Sul rovescio i quattro medaglioni con Nikortsminda. L’interessante confronto con la croce della Brummer Gallery, riprodotta nel la Vergine, San Giovanni Battista, San Catalogo della Mostra del Museo di Baltimore Pietro e San Paolo, intorno al disco cen(Early christian and byzantine art, a cura della trale con il Cristo benedicente, ricordano Walters Art Gallery, Baltimore (Maryland, USA) 1947, n. 524 tav. LXIX), fu proposto dal appunto la croce di Gaeta anche nei cirCecchelli (La vita di Roma nel Medio Evo cit., p. coletti posti fra i lobi rotondi e i bracci 718 ss.). leggermente più tozzi. E se mancano dati sulla origine degli esemplari caucasico e statunitense, le notizie storiche sulla Croce di Dagmar fanno pensare ad un oggetto portato in dote dalla principessa boema andata sposa nel 1205 al re Valdemar di Danimarca, anche perché numerose sono per la Boemia le testimonianze di simili smalti bizantini, dalla crocetta sulla Corona di San Venceslao del Museo Hradscin di Praga alla Croce degli Zavis del Monastero di Vyssi Brod. 60
Esistono quindi parecchi elementi per concludere che questo tipo di crocette elaborato a Bisanzio ebbe larga diffusione nelle botteghe orafe influenzate dai modi dell’Impero d’Oriente, che lo ripresero con varianti. Sì che, senza escludere del tutto la prima ipotesi di una provenienza orientale dell’esemplare gaetano, le sue connessioni con i modelli analizzati possono contribuire a localizzarne l’origine nell’ambiente siciliano della prima età normanna, ancora legato alle forme e ai modelli orientali. Anche in tal caso però il termine che vi si legge sul rovescio conserva la sua ambiguità, suggerendo il riferimento non all’imperatore Basilio, bensì ad un igumeno dello stesso nome esistito nel monastero di San Giovanni a Piro nel secolo XI. Intanto, con il consolidamento della dinastia normanna e l’ascesa del suo prestigio politico, le importazioni campane di ori cominciarono a riguardare, e non solo per ragioni economiche, i prodotti degli ‘ateliers’ reali palermitani, nei quali sembrava di ritrovare sotto nuovi aspetti il filo conduttore della cultura cassinese.
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CAPITOLO QUARTO
GLI ORI DELL’ETÀ NORMANNO-SVEVA
di Gaeta apre il discusso problema dell’avvio della scuola siciliana, inesploLa Stauroteca rata per gran parte delle sue espressioni. Se peraltro il caso di quel cimelio sembra
destinato a rimanere insoluto per la sua eccezionaiità, alquanto attendibile è l’attribuzione alla oreficeria palermitana di altre opere, importate in antico in Campania ed oggi documenti insieme del grande livello raggiunto dall’arte orafa normanna e del gusto raffinato della regione. Dal loro esame unitario si delinea il carattere di una produzione finora considerata con incertezze1 ed invece tecnicamente affine all’oreficeria campano-bizantina che, filtrando il contributo siciliano attraverso la sua cultura romanica ed i continui scambi col Levante, ne tenne poi vive idee e procedimenti fino a tutto il periodo svevo ed oltre. Il fenomeno si svolse in parallelo con quanto avvenne nelle altre arti, ma riguardò in prevalenza aspetti tecnici. Quelli formali 1. A. L IPINSKY , L’arte orafa siciliana sotto i dovevano avere assunto in Sicilia una Normanni (1072-1194), «Il Fuidoro» V (1958), fisionomia peculiare già col primo «thi3-4 p. 79 ss. raz» degli emiri aglabiti, divenuto l’embrione delle grandi officine d’arte che i Normanni svilupparono nel palazzo reale di Palermo. La supposizione è avvalorata dal fatto che i principi lavorativi della filigrana e della granulazione trovano ampi riscontri nella oreficeria bizantina. Quanto alle cause, l’itinerario siculo-campano dei prodotti normanni va considerato anche in funzione economica, dato il ruolo sempre notevole di Napoli e delle città interne ed il controllo esercitato dalla corte palermitana sul commercio defluente dall’Oriente verso il Mediterraneo occidentale. Dagli ‘ateliers’ reali della Sicilia, rimasti attivi fra alterne vicende fino al 1225, passarono in Campania ori e stoffe di seta, velluti, broccati a figure, damaschi e tappeti tessuti con felice fusione di modi bizantini ed islamici. Un ulteriore incremento della circolazione di preziosi determinò l’arrivo a Napoli di maestri e artigiani allorché Federico II spostò verso la città partenopea interessi ed attività culturali. Il vero periodo glorioso dell’orefice63
ria normanna si era tuttavia concluso con la fine del secolo XII nel palazzo reale di Palermo, al quale si possono attribuire gli 2. HUGO FALCANDUS, Historia. Praefatio ad Petrum oggetti oggi conservati in Campania, caratPanormitanae Ecclesiae Thesaurarium. De calamiterizzati tutti da una viva eleganza nell’actate Siciliae, in G. DEL RE, Cronisti e scrittori sincroni napoletani editi e inediti. Napoli 1, p. 282. costamento dei materiali in infiniti accordi 3. A. LIPINSKY, L’arte orafa siciliana sotto i Normanni cromatici. Non meno tipiche le tecniche, (1072-1194) cit., p. 84) dà il seguente elenco di dalla filigrana ‘a vermicelli’, ignota a dodici pezzi «per i quali con quasi assoluta certezza si deve presumere l’esecuzione nella capitale della Bisanzio, alla incastonatura a cappi delle Sicilia»: Le decorazioni in oro e smalti sul manto di pietre, contornate a loro volta da perle. re Ruggero, datato 1133; le decorazioni in oro e smalti sulla «prima tunica» da datare all’incirca Insieme alla profusione di perline sulle verso il 1133; la cosiddetta «Cuffia di Costanza» († superfici, altro elemento inconfondibile di 1222), ma eseguita anche questa intorno al 1133; questa oreficeria, esse corrispondevano al la «Spada dell’Impero» e «da cerimonia», eseguita intorno al 1133; le gemme incastonate in oro fissanuovo senso estetico che si esaltava in sinte sull’«Alba», tessuta e ricamata nel 1181, e i tesi tecnico-stilistiche di incredibile efficariporti di gemme forse dell’anno 1194; le lastrine smaltate sui guanti d’incoronazione, eseguite forse cia. In proposito giova rileggere il significaverso il 1181; le gemme incastonate sui sandali tivo brano di Ugo Falcando: «Multa quid’incoronazione, riportate forse nel 1181; le lastridem et alia videas ibi varii coloris ac diversi ne in filigrana d’oro sul «Cingolo Azzurro», eseguite verso il 1181; le lastrine smaltate trovate in una generis ornamenta, in quibus et sericis delle tombe regali ed in seguito applicate ad un aurum intexitur, et multiformis picturae paliotto del Settecento, eseguite nella seconda metà del XII sec.; le lastrine smaltate sulla «Spada di S. varietas gemmis interlucentibus illustratur. Maurizio», della fine del secolo XII; le lastre in filiMargaritae quoque aut integrae cistulis grana e smalti sulla «Stola Imperiale», della prima aureis intercluduntur aut perforatae filo metà del sec. XIII; le sei aquile gemmigere, da una delle tombe regali, fissate, come le lastrine ricordate tenui connectuntur, et eleganti quadam al n. 9, sul paliotto settecentesco. dispositionis industria picturati iubentur 4. Ivi, a p. 85, il Lipinsky aggiunge i seguenti pezzi: gli orecchini del «Tesoro di Gisella», della metà del formam operis exhibere2». sec. XII; la stauroteca del Duomo di Cosenza, Nessuna delle opere rimaste in donata nel 1222 ma eseguita nella seconda metà Campania può essere assegnata al gruppo del sec. XII; la stauroteca di Velletri, donata nel 1254 ma databile tra la seconda metà del sec. XII di quasi sicura provenienza siciliana3. e la prima del XIII; il Reliquiario del Braccio di Alcune però - la Stauroteca di Napoli, la San Biagio nel Duomo di Dubrovnik in Dalmazia, della seconda metà del sec. XII. Fibula di Cassino e le Coperte dell’Evangeliario di Capua - mostrano rapporti con la produzione siciliana di tale natura da rendere convincente una attribuzione al medesimo ambiente artistico4. Legate agli stessi modi, appaiono infine estranee alle offi64
cine palermitane la crocetta aurea della Badia della SS. Trinità di Cava dei Tirreni, della fine del secolo XII, la Mitra di Scala, della seconda metà del secolo XIII, e la Mitra di Amalfi dei primi del Trecento5. La Stauroteca di Napoli (tav. XVI) è senza dubbio una delle opere di maggior pregio6. Conservata nella Cappella delle Reliquie del duomo partenopeo, venne identificata dal Taglialatela con quella eseguita su commissione del vescovo napoletano San Leonzio tra il 649 e il 653, ma recenti studi ne hanno messo in luce i caratteri tecnicostilistici posteriori di almeno cinque secoli, sì che si impone ora, con l’abbandono del riferimento al Santo vescovo e della vecchia denominazione di Croce di San Leonzio, un’attenta indagine dei rapporti del reliquiario con l’oreficeria normanna. Da tale scuola provengono la sua filigrana a vermicelli, il lavoro di perle e gemme in castoni a cestello e i quattro splendidi medaglioni d’oro a smalto ‘champlevé’ con i busti degli Evangelisti accompagnati da leggende greche. La fattura è affine a quella dei pezzi ascritti al periodo centrale di attività del «thiraz» palermitano, e in particolare ai fermagli del Manto reale di Ruggero del 1133 e alla Fibula di Cassino, ora nel Museo Nazionale delle Terme a Roma, della fine del secolo XII. Escludendo una esecuzione anteriore all’annessione del ducato di Napoli al regno di Puglia e Sicilia, avvenuta
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In questo terzo gruppo di opere il Lipinsky (Ivi, p. 85) include le lastrine d’oro con smalti della mitra di Argirò, della metà del sec. XII; la lastra di rame con smalti del Duomo di Bari, del 1130-1154; l’altare portatile di Agrigento, della seconda metà del sec. XII; la cosiddetta «Corona di Puglia» del Duomo di Bari, del sec. XII; il Trittico di San Martino alle Scale, in rame con smalti, nella Galleria Nazionale di Palazzo Abbatelli a Palermo, del sec. XII; l’aquila gemmigera fissata sulla statua aurea della Madonna d’oro nel Duomo di Essen, della prima metà del sec. XIII; le lastrine di oro con smalti sulla mitra di Linköping, della metà del sec. XIII; la fibula di Santa Severina, della metà del sec. XIII; le lastrine d’oro con smalti sui guanti liturgici nel Duomo di Bressanone, della metà del sec. XIII. A.S. Mazocchi, De Sanctorum Neapolitanae Ecclesiae Episcoporum cultu dissertatio, Napoli 1753, p. 176, n. 38; G. Taglialatela, La «Stauroteca di San Leonzio» nella Cattedrale di Napoli, Napoli 1877; P.H. RICKENBACH, Monte Cassino von seiner Gründung und Gestaltung bis zu seiner höchsten Blüte unter abt Desiderius in Jahreshericht über die Lehrund Erziehungs-Anstalt des Benedektiner-Stiftes Maria-Einsiedeln, Einsiedeln 1884; Monumenta ad Neapolitani Ducatus historiam pertinentia cit., II. 2. p. 19 e tavv. XIX-XX; B. CROCE, Sommario critico della Storia dell’Arte nel Napoletano, «Napoli Nobilissima» II (1893), III, p. 40; E. BERTAUX, L’Esposizione di Orvieto, «Archivio Storico dell’Arte» 1896, p. 409; ID., L’Art dans l’Italie méridionale cit., pp. 70, 179-180; M. ROSENBERG, Geschichte der Goldschmiedekunst auf technischer Grundlage: Zellenschmelz, Frankfurt a. M. 1921, I, fig. 82 e tav. III 3; A. MORASSI, Antica Oreficeria Italiana cit., p. 13, n. 10, figg. 31-33 e 63; L. SERRA, La Mostra dell’antica oreficeria italiana alla Triennale di Milano, «Bollettino d’Arte», XXX (1936), III serie, p. 83 e fig. a p. 79; A. LIPINSKY, La Stauroteca del Duomo di Napoli, «Partenope» I (1960), 2, p. 65 ss.; ID., Oreficerie bizantine ed italo-bizantine nella regione campana cit., p. 137 ss.; M. ROTILI, Arti figurative ed arti minori cit., p. 954 ss.
nel 1139, l’opera va dunque assegnata al periodo compreso appunto fra il 1139 e il 1194, data conclusiva della migliore fase delle officine normanne. I termini cronologici si restringono ulteriormente in base alla considerazione che un così munifico dono al duomo partenopeo può attribuirsi senza difficoltà soltanto ad un sovrano come Ruggero, morto nel 1154. D’altra parte il lato posteriore, sbalzato per un restauro sommario sul tipo delle croci sulmonesi con caratteri di transizione dal romanico al gotico - un semplice motivo vegetale raccorda il medaglione centrale con l’Agnello Mistico e, sui bracci, quelli dei quattro animali alati della profezia di Ezechiele, simboli degli Evangelisti - documenta la presenza a Napoli del reliquiario in età antica7. La stauroteca napoletana presenta una sagoma poco slanciata, con i bracci a profilo divergente nella parte terminale completati da un settore di cerchio. Si tratta di una variante della croce potenziata che, rientrando nei classici schemi bizantini, fa supporre che l’attuale lato principale fosse in origi7. Di gran lunga superiore è invece la base in argento, ne quello posteriore, opposto ad uno più un capolavoro del gotico fiorito napoletano, fatta importante, purtroppo perduto, con il eseguire dal Card. Oliviero Carafa (1458-1484), Cristo al centro contornato da tondi con come attesta lo stemma sul piede polilobato. 8. A. LIPINSKY, La Stauroteca di Cosenza e l’oreficela Vergine, San Giovanni Evangelista, ria siciliana del secolo XII, «Calabria l’Arcangelo e una quarta immagine simNobilissima» IX (1955), p. 76 ss.; I D ., Sizilianische Goldschmiedekunst im Zeitalter der bolica. Opere simili - come tra l’altro la Normannen und Staufer cit., pp. 73 ss., 158 ss. splendida Stauroteca di Cosenza, sotto la 9. A. LIPINSKY, Tiraz-Ergasterium. Le officine d’arte lastra del cui Crocifisso appare la raffigunel palazzo reale di Palermo, «Archivio Storico Siracusano» X (1964), p. 5 ss. razione della Etoimasia, cioè della preparazione del trono del Signore nel giorno 8 del Giudizio - furono certamente eseguite in Sicilia, da dove dovrebbero provenire anche gli smalti del reliquiario napoletano. Questi sono disposti in ordine inconsueto: in alto San Luca, a sinistra San Giovanni Evangelista (tav. XIX) a destra San Marco, in basso San Matteo. Al centro è un cristallo tagliato a croce che copre la reliquia. Per il disegno particolarmente accurato e gli accordi cromatici in stretta connessione con quelli della stauroteca cosentina e delle mitre di Argirò in Sicilia e di Scala in Campania, gli smalti dei dischi di riporto sembrano addirittura eseguiti nel poliedrico ambiente artistico palermitano del secolo XII, forse dopo l’arrivo forzato di maestranze specializzate dalla Morea e dal Negroponte a seguito della guerra del 1147-11489. L’analisi paleografica delle scritte in greco indicanti i Santi e i Vangeli conferma la 66
datazione, poiché alla onciale tarda dell’impero d’Oriente l’artista preferì la capitale latina epigrafica usata in Occidente durante l’età romanica. Ugualmente avviene nelle mitre di Scala, di Argirò e di Linköping, quest’ultima ora nello Statens Historiska Museum di Stoccolma10. Caratteristico della scuola palermitana del secolo XII appare anche il montaggio dei tondi. I loro castoni furono preparati con l’orlo seghettato e la serie continua di dentelli poi ribattuta verso l’interno. Sulla costa venne saldato un filo a cordoncino che serviva a mettere in risalto la lastrina interna, foggiata a sua volta, nella parte centrale, a disco rialzato sul piano filigranato. Siciliano è infine il montaggio delle pietre, fermate in castoni a bordo liscio o in grosso filo disposto a cappi sopra la superficie, decorata da una minuta filigrana a vermicelli fino al bordo esterno della croce a due fili di cordoncino. Questa tecnica richiama da vicino la lavorazione dei castoni a cestello per le pietre della ricordata fibula cassinese (tav. XXX b) passata nel Museo Nazionale delle Terme a 10. I segni grafici non furono smaltati ma tracciati dopo la cottura nella muffola. Degno di nota è il Roma, che qui merita di essere presa in tratteggio delle lettere latine: A con apice superiore considerazione perché la regione in cui e asta interna spezzata. M, O, T. 11. C. CECCHELLI, La vita di Roma nel Medio Evo cit., venne trovata, già compresa nell’area longop. 29. Per il confronto rinvia a F. RADEMACHER, barda, rimase sempre legata alla Campania Zwei ottonische Goldfibeln in Festschrift August Oxè, dal punto di vista geografico e culturale. Frankfurt a. M. 1938, p. 273 ss. 12. C. CECCHELLI, La vita di Roma nel Medio Evo cit., Attribuita in un primo momento dal p. 890. Questa volta lo studioso propose un conCecchelli ad «arte nordica, peculiarmente fronto con il fermaglio della regina Cunegonda nell’altare di Enrico II, già in Basilea e poi nel scandinava» dei secoli X-XI attraverso il Museo di Cluny, databile intorno al 1019. confronto con un fermaglio germanico11, la fibula venne ripresa in esame dallo studioso il quale sulla scorta di osservazioni del Rademacher concluse che «l’opera è di origine italiana o tedesca, ma è di lavoro nordico (forse della prima metà dell’XI secolo)»12. Tuttavia, anche a voler trascurare la cronologia del tesoretto di tareni aurei siciliani del secolo XII con i quali il gioiello venne trovato qualche decennio fa, sembra opportuno rivedere la questione dopo le recenti indagini sulla scuola orafa palermitana. La Fibula di Cassino è rotonda, con una profilatura di pietre oblunghe e rosette a vivacissime tonalità cromatiche irraggianti dal contorno. Un giro interno di placchette auree, dove le pietre si avvicendano con rosette a motivi cruciformi, circonda il disco centrale con sei alveoli intorno al castone principale rettangolare, ormai privo della pietra. Un 67
interesse cosi pronunciato per gli elementi ornamentali policromi, disposti con risalto sulla filigrana a vermicelli, presenta sorprendenti consonanze con la Stauroteca di Napoli, al punto da far pensare addirittura ad un unico autore delle due opere. Si ritorna pertanto nell’ambiente siculo-normanno, anzi alla sua fase di maggiore splendore, la metà del secolo XI I13. 13. Cfr. anche A. LIPINSKY, Oreficerie bizantine ed Un linguaggio pressocché identico italo-bizantine nella regione campana cit., p. 143. parla una terza opera relativa alla 14. Cfr. B. M OLAJOLI -R. C AUSA -S. A UGUSTI , Soprintendenza alle Gallerie della Campania. IV Campania, la coppia di Coperte di evangeMostra di Restauri, Catalogo, Napoli 1960, che liario del Duomo di Capua, in oro con riporta la ricchissima bibliografia precedente filigrane, gemme, perle e smalti, donate senza peraltro accogliere la proposta di attribuzione alla scuola palermitana avanzata da J. DEER dall’arcivescovo Alfano (1173-1182). (Der Kaiserornat Friedrichs II in Dissertationes Capolavoro dell’arte orafa medioevale nel Bernenses historiam orbis antiqui nascentisque medii aevi elucubrantes, a cura di A. Alfoldi, Bern Mezzogiorno d’Italia, hanno prospettato 1952, Serie II, fase. 2, p. 62 ss.) e ribadita da A. anch’esse una serie di problemi all’ampia LIPINSKY (Sizilianische Goldschmiedekunst im letteratura che se ne è occupata attribuenZeitalter der Normannen und Stauffer cit.). Sulle vecchie posizioni sono rimasti anche M.C. ROSS, dole in prevalenza ad oreficerie bizantine (Le travail de l’émail in L’art byzantin art européen, d’Oriente o di Montecassino14. Si tratta Athénes 1964, p. 404, n. 476) e F. STEENBOCH, (Der Kirchliche Prachteinband im frühen invece di un eccezionale pezzo uscito Mittelalter von den Aufgangen bis zum Beginn der dall’«ergasterium» palermitano verso la Gotik, Berlin 1965, pp. 190-191, n. 92, figg. metà del secolo XII. 128-129, che assegna però la parte orafa alla scuola palermitana). Prima del recente restauro le due valve 15. Il LIPINSKY (La chiesa metropolitana di Capua ed apparivano in diverso stato di conservail suo tesoro cit., p. 413 ss.) sostiene che il restauro dell’opera avrebbe dovuto ricostruire la filigrana, zione. Quella anteriore aveva perduto disporre altrimenti lastrine e gemme, e rifare i nella cornice esterna il rivestimento in castoni a cestello, marcando opportunamente lamina d’oro coperta da filigrane e ogni pezzo. Ma, nonostante le sue buone ragioni circa la disposizione degli smalti e delle pietre pregemme, mentre all’altra era stata aggiunta ziose, nulla assicura che con tale procedimento, solo una boccola di serratura per adattarla contrario agli attuali criteri di restauro delle opere d’arte, si sarebbe evitata l’impressione del falso. a sportello di tabernacolo. In ogni modo i danni alle raffigurazioni non risultano gravi, sebbene sia ormai alterata l’originaria disposizione delle lastrine smaltate e perduto l’effetto di superficie ammorbidita che la filigrana a vermicelli doveva conferire al piano d’incorniciatura, ora rifatto in lamina d’oro. Inoltre solo in pochi castoni si può ancora osservare la fattura a cestello tipica della scuola siciliana15. 68
Il piatto anteriore del cimelio capuano (tav. XXII) reca al centro uno stupendo Crocifisso dai piedi affiancati poggianti sul «suppedaneum». A sua volta la croce si erge sopra un monte nel quale è visibile il teschio di Adamo dentro una grotticella. Al disopra dei bracci orizzontali appaiono due Angeli a mezza figura. L’iconografia bizantina viene rispettata anche nelle immagini 16. È l’«oro rosso» degli antichi, per il cui trattamendella Vergine e di San Giovanni in basso, to cfr. Theophilus Monachus, De diversis artibus, ai lati del Cristo. La larga fascia esterna trad. inglese, introduz. e commento di C. R. presenta agli angoli lastrine quadrate con DODWELL, London 1961, cap. XL: De colorando auro; B. Cellini, I trattati dell’oreficeria e della gli apostoli Pietro, Paolo, Simone e scultura, a cura di C. Milanesi, Firenze 1893, Filippo; tra esse sono disposti altri smalti cap. XII. Inoltre: W. THEOBALD, Technik des Kunsthandwerks im X. Jahrundert. Des a disco con Andrea, Tommaso, Giacomo, Theophilus Presbyter Diversarum Schedula Taddeo e in alto un Angelo, in basso Artium, Berlin 1933; A. LIPINSKY, Oreficeria, Sant’Agata. I personaggi sono indicati da argenteria e gioielleria nel Tardo Impero e nell’Alto Medioevo: la «Diversarum artium schescritte in latino, il Crocifisso da didascalia dula» di Theophilus presbyter et monachus in «VI in greco. L’intera parte centrale, incassata Corso di cultura sull’arte ravennate e bizantina», Ravenna 1964, p. 255 ss. attraverso piani obliqui d’incorniciatura, 17. Si tratta dell’arcivescovo di Canterbury fatto truè eseguita in lamina con filigrana a larghe cidare sull’altare della sua cattedrale da re Enrico spirali, ad eccezione di due fasce sottili, al II nel 1173 e canonizzato nello stesso anno da papa Alessandro III in un clima di tesi rapporti disopra e al disotto della Crocifissione, politici fra la corte inglese e la curia romana. filigranate a vermicelli. Molte gemme sono purtroppo sfuggite ai castoni a cestello e l’effetto di luce vellutata si affida qui soprattutto al procedimento metallurgico che conferisce all’oro un colore più intenso, quasi rossiccio16. Assai meglio conservata, la seconda valva (tav. XXV) presenta in una mandorla centrale la Deesis, vale a dire il Pantokrator in trono con un libro chiuso nella sinistra e la destra in atto di benedire alla maniera greca. Lo accompagna il tradizionale monogramma «IC XC» nella grafia allungata di età romanica, imitante la scrittura epigrafica con strozzature nel tratteggio e apici marcati a triangolo. Quattro lastre con Angeli adoranti affiancano la mandorla, a completare il rettangolo incassato entro piani obliqui uguali a quelli del piatto anteriore. La decorazione della incorniciatura riprende i motivi dell’altra valva, ma qui le lastrine quadrate raffigurano i quattro Evangelisti e quelle tonde San Bartolomeo, San Tommaso a Beckett martire17, San Giacomo e San Nicola. In alto ritorna l’Angelo discoforo, in basso è Santo Stefano. 69
Come sempre, per l’identificazione della provenienza fornisce ottimi elementi la tecnica orafa (tav. XXIX b), interessante sia per la morbida filigrana originale che per il ritmo delle pietre preziose, disposte a gruppi di otto attorno ad una pietra maggiore - sei gemme e due perle, queste ultime sempre rivolte verso la Deesis - fermate tutte in castoni a maglie. Anche la mandorla è bordata di filigrane con gemme, secondo il gusto tipico dell’oreficeria palermitana del secolo XII. Ma se le singolari discordanze altrove rilevate tra iconografia bizantina e gusto latino sono pure qui evidenti, diverso si fa il discorso per la struttura architettonica delle due valve, di indubbia derivazione francese. Giovandosi della mostra degli smalti limosini tenuta in Vaticano nell’autunno del 1963, il Lipinsky ha infatti osservato che la coperta capuana con il Pantokrator è la trasposizione «di modelli francesi con gli elementi ornamentali più robusti e le lastre smaltate ad incavo, disegnate spesso con qualche rudezza», nelle forme più raffinate dell’arte orafa e dello smalto ad alveoli cari alla corte normanna18. Così, l’altare portatile 18. A. LIPINSKY La chiesa metropolitana di Capua detto de Sainte Foy, nella chiesa di Santa ed il suo tesoro cit., p. 410. Per la mostra vaticaFede a Conques, datato ai primi del secolo na cfr. E. TISSERANT-M. GAUTIER, Émaux de Limoges du Moyen Âge. Églises et Musées de XII, risulta molto vicino al capolavoro France, Bibliothèque Apostolique Vaticane 12 capuano per la sagoma della cornice e il novembre-12 décembre 1963, Paris 1963, in ritmo decorativo delle lastre smaltate, alterparticolare n. 1 tav. I, n. 13 tav. IX, n. 46 tav. XXVIII. Da notare che l’assassinio di San nate a gruppi di gemme sul fondo rabescaTommaso a Beckett venne raffigurato su molti to di filigrane. Per la mandorla col reliquiari e mitre di Limoges. 19. E. JAMISON, Alliance of England and Sicily in Pantokrator s’impone invece il confronto the second half of the XIIth century, «Journal of con un frammento di legatura conservato the Warburg and Courtault Institute» VI nel Musèe de Cluny a Parigi. Al contrario, (1943), p. 20 ss. gli accordi cromatici degli smalti verdi, rossi, bianchi, azzurri, bruni, definiscono nell’esemplare capuano una sensibilità italobizantina in parte legata ad espressioni ieratiche tradizionali ma impercettibilmente; mente aperta ai nuovi modi dell’arte romanica. Si tratta pertanto di una splendida testimonianza della linfa culturale che alimentava le raffinatezze tecniche e stilistiche dei laboratori reali di Palermo, ai quali il capolavoro dovette essere commissionato dallo stesso sovrano Guglielmo II il Buono (1166-1189) per farne dono all’arcivescovo Alfano di Capua, suo consigliere e legato19. Si spiegherebbe così anche la presenza, sulla valva, del dischetto smaltato con il santo martire inglese Tommaso a Beckett per ricordare al Alfano la sua ambasceria in Inghilterra poco dopo il clamoroso assassinio del vescovo di Canterbury. 70
Nell’ambito di una produzione ad altissimo livello quale fu quella siciliana, le opere conservate in Campania si collocano quindi tutte nella fase avanzata, ma più importante. Mancano ad esse quegli elementi classicheggianti di ornato che caratterizzarono la prima attività delle officine reali - si osservi la Cuffia di Costanza nel duomo di Palermo20 - e che trovano significativi riscontri negli avori delle ‘cassette civili’ italobizantine, delle quali un esempio è a Cava dei Tirreni21. Per un altro pezzo, la croce del Museo Capitolare annesso al duomo di Salerno, è invece dubbia la stessa attribuzione alla scuola normanna, cui pure orienterebbero gli smalti ed il castone a cestello di una crocetta perduta sul lato posteriore22. L’opera ormai interamente spogliata degli ori filigranati, venne con ogni probabilità 20. Cfr. J. DEER, Der Kaiserornat Friedrichs II cit: ricomposta in antico e gravata di aggiunDie «Krone der Kostanze». Ein Kamelaukion, p. te, con scarso rispetto della disposizione 19 ss., Der Stil der Goldschmiedearbeit der Krone, p. 24 ss., Die Krone des Kaiser und der originaria delle parti. Kaiserin, p. 26 ss.; P.E. S CHRAMM , Kaiser A sagoma latina con lobi terminali Friedrichs II Herrschaftszeichen, «Abhandlungen der Akademie der Wissenschaften in ingrossati e profilo movimentato da Göttingen. Phil.-Hist. Kl.», Dritte Folge Nr. dischetti con pietre preziose, la croce 36, Göttingen 1955: Die Helmkrone salernitana presenta sul prospetto (tav. (Kamelaukion) in Palermo und Friedrichs Ornat, p. 11 ss.; A. Lipinsky, Siziliens Krone, «Sicilia» XXXIII a) tempestato di gemme azzurre, 23 (1959), pp. 3 nn. all’incrocio dei bracci, un disco a rosette 21. H. GRAEWEN, Frühchrstliche und mittelalterliche Elfenbeinwerke, Roma 1889-1900; A. GOLDdi filigrana rovinatissima - vi rimane solSCHMIDT-K. WEITZMANN, Die byzantinischen tanto una delle otto originarie perline Elfenbeinskulpturen des X-XIII Jahrhunderts, con al centro l’immagine a smalto della Berlin 1930-1934. 22. Il LIPINSKY (Oreficerie bizantine ed italo-bizantine Vergine. Ai lati, due altri tondi smaltati nella regione campana cit., p. 136) sembra invece senza incorniciatura raffigurano un propenso a ritenerla di scuola siciliana. Vescovo, riconoscibile dalla ferula, e un Santo; un terzo dischetto con il busto del Cristo è inserito nel lobo inferiore. Gli altri tre lobi sono ornati dello stesso motivo a losanga, con globuletti di base e un quadrifoglio di pietre preziose, che ritorna sui terminali dei bracci e al centro nel lato posteriore della croce (tav. XXXIII b). Questo lavoro si distacca dal repertorio palermitano nella tecnica orafa non meno che nell’effetto delle gemme verdi complicato da fiorellini bianchi e rossi. Ugualmente si può dire di tutte le incastonature, ad eccezione di quella cruciforme. Per gli smalti, la prevalenza dei fondi azzurri e dei toni rosa, giallo e viola non escluderebbe una prove71
nienza siciliana, anche per il vigore plastico dell’incarnato e dei panneggi. In tal caso si tratterebbe di materiale di risulta, riportato sulla croce salernitana da un orafo locale, insieme al frammento di superficie in filigrana a vermicelli, tagliato irregolarmente per recuperare il suo castone cruciforme. Ad officine attive sulla costiera amalfitana durante il secolo XII con linguaggio tecnico-stilistico affine a quello siciliano può del resto attribuirsi ancora un pezzo di oreficeria: la stauroteca della Badia della SS. Trinità presso Cava dei Tirreni (tav. XXVM ) 23. Ma è 23. D. SALAZARO, Studi sui monumenti dell’Italia opera di ben altra finezza per la lavoraziomeridionale dal V al XIII secolo cit.; A. LIPINSKY, ne a tutta filigrana poggiata su lamina Antichi tesori d’arte da chiese e monasteri tra Salerno e Sorrento, «Per l’Arte Sacra» XI (1934), p. d’oro da entrambi i lati. 45 ss.; I D ., Art treasures of Southern Italy, La presenza del gioiello nel cenobio «Goldsmiths Journal» XXXIII (1935), p. 45 ss.; campano si riconnette alle gloriose vicenID., Cimeli d’arte religiosa: la crocetta della Badia di Cava dei Tirreni, «L’Osservatore Romano» 19 de storiche iniziate nel 1092 con la consaluglio 1940, p. 3; I D ., Sizilianische crazione della rinnovata chiesa da parte di Goldschmiedekunst im Zeitalter der Normannen und Stauffer cit., ID., Cimeli cavensi. I. La stauroUrbano II, sebbene non si possa dar tropteca aurea della Badia della SS. Trinità di Cava dei po credito alla tradizione di un dono di Tirreni, «Apollo. Bollettino dei Musei Provinciali quel pontefice alla badia pervenuta ad alti del Salernitano» I (1961), p. 99 ss.; ID., Le arti minori in Campania fino al secolo X circa, p. 142 fastigi e destinata ad irraggiare la riforma ss.; ID., Oreficerie bizantine ed italo-bizantine cluniacense per tutta l’Italia meridionale24. nella regione campana cit., p. 134 ss. 24. Urbano II era molto legato alla Badia di Cava, il Piccolo nelle dimensioni, il pezzo unisce cui abate Pietro Pappacarbone era stato suo maealla esecuzione ‘a giorno’ molto evoluta stro. Cfr. tra l’altro: L. D UCHESNE , Liber nelle difficili saldature, una linea particoPontificalis, Paris 1892, p. 293 ss.; J. PAULOT, Un pape français. Urban II, Paris 1903. Per la visita larmente elegante per quanto appiattita di quel pontefice a Cava: G.A. ADINOLFI, La stodalla base in argento dorato di età barocca ria della Cava distinta in tre epoche, Salsano 1938, p. 226 ss. su cui venne montato per tenerlo esposto. L’anello filigranato superiore indica infatti che si trattava di un encolpio con le reliquie della Santa Croce in un’apposita custodia alla maniera di una stauroteca bivalve. Perfettamente proporzionato nei bracci - quello inferiore è lungo il doppio degli altri tre - l’esemplare cavense si slarga in terminali quadrati, con i lati liberi interrotti da tre semicerchi secondo un profilo del tutto italiano, sottolineato dai cordoncini attorcigliati all’orlo. Nulla di simile ricorre nell’arte bizantina, cui però la crocetta si ricollega per la decorazione del vaso baccellato sul braccio inferiore, dal quale sorge, tra esili girari estesi 72
alla parte superiore, un fiore a otto petali. Altrettanti petali appaiono nel traforo dei dischi, circondati da ventiquattro cerchietti, al centro e sulle quattro testate. Viticci e fogliami contornano invece sulla linea orizzontale gli strumenti della Passione, cioè a destra la Croce su due gradini con l’issopo, la spugna e la lancia, a sinistra la colonna della Flagellazione con la corda e due flagelli. Il caratteristico motivo delle cinque rosette a traforo delle testate dei bracci e al loro punto d’incrocio, quasi ‘rosoni’ in miniatura, si ripete nella decorazione del lato poste25. Per quest’ultimo pezzo tuttavia W. riore, fantasiosa nel continuo scorrere dei ZALOZIECKY Byzantinisches Kunstgewerbe in H. girari vegetali sulla superficie libera. Th. BOSSERT, Geschichte des Kunstgewerbes aller Zeiten und Völker, Berlin 1933) sposta la data, Questo gusto per l’ornato in movirifiutando il tradizionale riferimento al granmento e per la leggerezza della materia, duca di Kiev. ribadito dall’uso del filo a serpentella per 26. F. MARION, Les arts mineurs au Musée de Dijon 1934. Il LIPINSKY (Oreficerie bizantine ed italosaldare le due valve (tav. XXIX a), è estrabizantine nella regione campana cit., p. 135) neo alla scuola palermitana eppure ugualpensa che questo pezzo possa provenire dalla stessa scuola di quello cavense. mente educato in ambiente raffinato. Considerandone la linea e i procedimenti che hanno conferito all’oro una tinta fulva, si potrebbe essere indotti ad assegnare la crocetta cavense alle officine palermitane, ma l’attribuzione a qualche officina della costiera amalfitana pare più probabile. Resta quindi da escludere anche una eventuale ipotesi di provenienza romana suggerita dalla tradizione del dono da parte di Urbano II. Del resto, a causa delle distruzioni dei Normanni guidati da Roberto il Guiscardo per liberare papa Gregorio VII assediato in Castel Sant’Angelo nel 1084 dall’imperatore Arrigo VI, ben difficilmente si può pensare ad un’attività orafa ad alto livello nella Roma della fine dell’XI e la prima metà del XII secolo. Significativi raffronti rinviano infatti a tale periodo per la datazione dell’opera. Una filigrana di fattura simile si ritrova sull’icona di San Giovanni Evangelista nel Monastero di Sant’Attanasio al Monte Athos, nonché sulla famosa Sciapca Monomaca, l’antica corona russa adoperata per la prima volta, secondo la tradizione, dal granduca Vladimiro Monomaco di Kiev (1113-1125)25. Fuori dall’area orientale un altro oggetto tecnicamente e formalmente assai vicino alla Crocetta di Cava è la ferula vescovile con filigrane appartenuta a Roberto di Citeaux († 1110) e conservata nel Museo di Dijon in Francia26. Ed anche se si tratta di riscontri geograficamente lontani, essi vanno presi in ogni modo in considerazione per la matrice bizantina comune all’esemplare cavense, 73
peraltro unico in Italia nel suo genere. Di qui anche l’ipotesi della provenienza da una bottega locale, fervida erede delle antiche tradizioni e operante con modi originali nell’ambito della cultura campano-bizantina dei primi due secoli dopo il Mille. Non soltanto oreficeria di importazione si dovette avere dunque in Campania nel periodo normanno. È vero che allora rimase inattiva la zecca di Napoli, chiusa da Ruggero II nel 1140 insieme a quelle di Amalfi e forse di Capua. Ma i conii dell’epoca, pure a Gaeta e a Salerno, erano ben lontani dalla classica eleganza dei famosi augustali (tav. XXXVI), capolavori dell’arte monetaria medioevale, usciti un secolo dopo dalle zecche di Messina e di Brindisi al tempo di Federico II e diffusi in tutto il regno svevo. Una evoluzione però si nota nel secolo XII in tutte le manifestazioni artistiche della regione. Sulle forme di germinazione locale arricchite dagli scambi con il Levante e la Sicilia, si innestavano elementi lombardi, pisani, romani, in vario modo assimilati. Sbocciò il romanico campano ed espresse figure di grande rilievo, in particolare nell’arte del metallo. Accennare qui alla discussa origine amalfitana di Ruggero da Melfi pare superfluo. Non lo è invece notare la complessità tecnica delle sue porte per il Mausoleo di Boemondo a Canosa - bizantineggianti nelle figure a incrostature argentee, musulmane negli arabeschi in bronzo - poiché la decorazione «alla tausia» d’argento si diffondeva proprio dalla costiera amalfitana, da poco arricchita di quei magnifici modelli che sono le porte delle cattedrali di Amalfi, Ravello, Atrani. Un procedimento simile, benché adeguato al gusto pittorico orientale, consentì al beneventano Oderisio potenti risultati plastici tanto nella porta minore che in quella principale del duomo di Troia, complicata da agemine e lavori a cesello e punzone. Ma il recupero dei valori classici, se stimolava l’intervento dei metalli nobili nelle fusioni del bronzo, riguardò per larga parte il campo specifico dell’oreficeria. La persistenza dei motivi decorativi di creazione normanna si affievolì man mano che la Sicilia divenne area periferica del regno meridionale. E perdendo con il decadere della scuola palermitana non solo il maggiore riferimento per lo sviluppo tecnico ma al tempo stesso l’indice della originalità di ogni produzione particolare, i vari centri del Mezzogiorno si avviarono ad uniformare i modi espressivi. D’altra parte, dal 1197 al 1221 la Sicilia fu teatro di gravi rivolte delle quali molto risentì l’attività degli opifici reali. Al regno di Arrigo VI seguì la reggenza di Costanza d’Altavilla per conto del figlio Federico II e quindi, dopo il matrimonio del giovane svevo con Costanza d’Aragona e la sua partenza per la Germania, la luogotenenza della 74
sovrana in un seguito di vicende che dovette favorire le botteghe artigiane private piuttosto che le officine reali. Una ripresa deve essere avvenuta con il rinnovato splendore di cultura della corte siciliana fino alla morte di Costanza nel 1222. Ma fu cosa breve. Nel 1230 Federico II si allontanava definitivamente da Palermo e con lui si spostò in Puglia e a Napoli gran parte dei maestri orafi, intarsiatori, tappezzieri, tessitori del ‘thiraz’, il cui definitivo declassamento si completò con la tragica morte degli ultimi discendenti del grande imperatore: Manfredi a Benevento nel 1266 e Corradino nel 1268 nella Napoli proclamata nuova capitale da Carlo I d’Angiò. I capolavori dell’epoca federiciana presentano solenni impianti architettonici e controllate assonanze cromatiche nell’applicazione delle gemme, ma ben di rado segnalano la loro bottega di origine, sì che l’attribuzione più consueta ad ‘ateliers’ napoletani sotto la protezione sovrana si giustifica soprattutto con il nuovo ruolo artistico della città partenopea. Rimane quindi dubbia la provenienza campana della Croce processionale della Cattedrale di Sant’Erasmo a Veroli, in provincia di Frosinone, conservata in antico nell’abbazia cistercense di Casamari. Nè può 27. E. KANTOROWICZ, Kaiser Friedrichs II, Berlin essere sufficiente la notizia che Federico II 1927, passim. aveva contribuito alla costruzione di quel28. A. LIPINSKY, L’arte orafa napoletana sotto gli Angiò in Dante e l’Italia meridionale, «Atti del II l’abbazia27. La monumentale opera preCongresso Nazionale di Studi Danteschi», senta del resto una sagoma a T estranea Firenze 1966, p. 184 ss. all’arte italiana, se si esclude la ricordata stauroteca veliterna, e diffusa invece in Renania e nella Germania meridionale. Di derivazione nordica è anche la sua filigrana, fonte di altri problemi in quanto connessa con quelle di un gioiello dell’imperatrice Costanza d’Aragona, e di altri oggetti dell’Italia centro-meridionale. Il Gioiello di Costanza, scoperto sulla mummia della consorte di Federico II, andò purtroppo perduto; ne resta tuttavia una precisa incisione che consente di accostarlo alla parte orafa della stauroteca eburnea in San Francesco a Cortona ed alla filigrana riportata sul famoso trittichetto già nella parrocchiale di Alba Fucense ed ora nel Museo di Palazzo Venezia a Roma28. Ma poiché le concordanze non arrivano fino al piano stilistico, il richiamo del Lipinsky a Maestro Diterico di Boppard, il feudatario di Viareggio più volte citato nei registri di Federico II, come al loro presunto autore, rimane del tutto improbabile. In realtà, per il secolo XIII è documentata soltanto l’attività di botteghe argentarie a Longobucco presso Rossano, favorita dalla presenza di miniere di piombo argentifero nella parte settentrionale della Calabria Citra, mentre si 75
hanno notizie di acquisti di oggetti di oreficeria veneziana da parte di Federico II29. Infatti è impossibile localizzare nell’Italia meridionale le botteghe degli orafi al servizio dello svevo, come quella di «Manfridus aurifex domni imperatoris» menzionato nel Quaternus de excadenciis Capitantae30. Limitando l’indagine alla Campania, occorre prendere in considerazione il Reliquiario dei Santi Prisco e Stefano nel Tesoro della Metropolitana di Capua, una cassetta rettangolare in legno ricoperta di lastre d’argento, lisce quelle del coper29. Le botteghe di Longobucco rimasero a lungo attive in età angioina. Da una di esse dovrebbe provechio, incise e in parte dorate quelle sui nire la croce argentea del 1308 già appartenuta lati lunghi. Due grandi maniglie trapezoialla badia cistercense di Santa Maria della Mattina e quindi passata alla Cattedrale di San Marco dali sporgono dai lati minori, tre cerniere Argentano in provincia di Cosenza. Cfr. S. ad occhielli fermano il coperchio posteCRISTOFARO, Cronistoria della città di San Marco riormente; mancano invece i supporti Argentano, Cosenza 1900, p. 242. Sugli acquisti di ori veneziani da parte di Federico II cfr.: per un originari31. Le lastre presentano una larga faldistorio: J. HUILLAROD-BREHOLLES, Historia incorniciatura a fascia con sinusoidi di Diplomatica Friderici II, V. 533; per una corona commissionata al veneto Marino Nadal: G. viticci rilevate dal fondo inciso a trattini MONTICOLO, La storia di Venezia nella vita privaparalleli. Al centro di ciascuna, sul piano ta, I. 324. scuro, spiccano figure isolate di grande 30. Quaternus de excadenciis Capitanatae, Montecassino, 1903, p. 56. interesse artistico: sul lato principale (tav. 31. A. LIPINSKY, La chiesa metropolitana di Capua ed XXXV a) il Cristo tra San Prisco vescovo e il suo tesoro cit., p. 375 ss. Nell’interno del reliquiario, diviso in due scomparti di uguali dimenSanto Stefano protomartire, sull’altro (tav. sioni, rivestiti di stoffa a figure di gusto islamico XXXV b) la Vergine col Bambino tra forse lavorata in Sicilia, venne trovato un velo seriSant’Agata e San Blasio. I Santi sono indico di color granata pure di arte islamica. 32. Anche l’indicazione tachigrafica della linea sovrapcati in una scrittura di transizione verso la posta con occhiello rientra nei canoni grafici duegotica32. A questo primo elemento utile centeschi. Le scritte sono SCS PRISCUS, SCS STEPHANUS, SCA AGATHA, SCS BLASIUS. per la datazione del lavoro, occorre aggiungere la singolare tecnica del disegno, la ben nota ‘bassetaille’ una cesellatura a bassissimo rilievo completata da incisioni a bulino e scalpello a largo taglio. Però l’artista non mirava evidentemente ad effetti di superficie, anzi, ad imitazione degli smalti traslucidi che nelle opere coeve modellavano il sottofondo per variare l’intensità dei colori vetrosi, aumentò l’illusione plastica delle figure coordinando i riflessi del metallo alla successiva doratura a fuoco. Questa tecnica, diffusa in Europa dalla metà del Duecento e arrivata all’apogeo nel secolo XIV, venne 76
quindi subordinata nel reliquiario capuano ad un preciso linguaggio formale. Anche l’iconografia segue schemi presenti nella cultura sveva meridionale. L’abbigliamento dei due santi Prisco (tav. XXXV c) e Blasio, costituito da una tunica con maniche bardata di «aurifrisia», cui si sovrappone la pianeta a largo panneggio, comprende un elemento caratteristico, la mitra ‘a bustina’ senza infule, decorata da una fascia lungo il bordo inferiore e da un’altra che sale perpendicolarmente alla cuspide. L’identità con la cosiddetta Mitra di San Paolino vescovo, conservata proprio a Capua, è molto significativa. Interessante appare inoltre la forma delle ferule che i due santi reggono con la sinistra. Esse sono alte quanto la figura e ornate da due nodi, l’uno presso l’estremità inferiore, l’altro poco sotto l’attacco del riccio, a sua volta decorato da motivi vegetali. Dal secolo X questo tipo di ferula doveva essere prodotto, in avorio o in osso lavorato al tornio con coloriture in nero e oro, nei principali centri del Mezzogiorno e con sicurezza a Palermo, dove bisogna localizzare l’origine delle ‘cassettine islamiche’ in lastre di avorio con borchie di ottone, di gusto strettamente affine. Tuttavia ne mancano testimonianze in Campania33. L’immagine di Santo Stefano (tav. 33. Se ne conserva un esemplare ad Acerenza in XXXV d), recante fra le mani un sasso a Lucania ed un gruppo inedito nel Museo Civico ricordo del martirio, rientra invece negli di Bologna. schemi tradizionali. Egli indossa la tunica dei diaconi lunga fino ai piedi, con «aurifrisia» al bordo inferiore ed alle maniche. Ugualmente può dirsi di Sant’Agata, che incede verso la Vergine recando nella destra un libro e fermando con la sinistra la chiusura a nastro dell’ampio mantello. Ma i motivi di maggiore interesse ricorrono nelle figure centrali, dove i caratteri bizantini sono alterati da anomalie molto significative. Il Cristo (tav. XXXV a) siede su un trono formato da una lastra rettangolare sostenuta da esili colonnine con base liscia e capitelli di tipo classico. La destra si leva a benedire come San Prisco e San Blasio, alla maniera latina; la sinistra regge uno scettro gigliato. Alla testa fa da sfondo il nimbo scompartito dalla croce. Nella zona capuana esistevano altre scene del genere, dal Pantokrator sulle coperte dell’Evangeliario di Alfano a quello dell’abside della chiesa di Sant’Angelo in Formis. In entrambe però non solo è diversa la struttura del trono con cuscini, ma manca quella notazione spaziale che l’ignoto autore del reliquiario offrì rialzando posteriormente la lastra del sedile in un errato quanto indicativo scorcio. E che all’artista premesse questa condizione stilistica, piuttosto che l’aspetto iconografico, 77
appare anche dal trono della Vergine (tav. XXXV b) impostato in modo quasi identico, con assoluto disinteresse per la forma e la ricchezza decorativa tradizionali. Né deve passare inosservato l’intimo contenuto del profilo convergente delle figure della Madre e del Bambino, anch’esso visibilmente estraneo all’arte bizantina. Nell’ambito della cultura occidentale le rappresentazioni del reliquiario capuano trovano riscontro in molti ritratti di sovrani in sculture, miniature, sigilli e monete, dove a partire dal secolo XI il trono con spalliera e braccioli, oppure a faldistorio ornato da protomi e zampe leonine, venne sosti34. Cfr. P.E. SCHRAMM, Herrschaftszeichen und tuito da un sedile rettangolare su colonniStaatssymbolik. Beitrage zu ihrer Geschichte vom 3. ne o pilastrini con indubbie allusioni al bis zum 16. Jahrhundert, «Schriften der Monumenta Germaniae Historica», Stuttgart concetto del potere, purtroppo non semXIII (1954-1956), 1-3; Id., Sphaira-globuspre facili a cogliersi 34. Gli esemplari Reichsapfel, Wanderung und Wandlung eines Herrschaftszeichens von Cesar bis zu Elisabeth II. meglio corrispondenti a quello capuano Ein Beitrag zum «Nachleben» der Antike, compaiono in una bolla aurea di Stuttgart 1958. Emmerico il Santo, re d’Ungheria (119635. P.E. S CHRAMM , Kaiser Friedrichs II. Herrschaftszeichen, mit Beitragen von J. DEER 1204), la cui vedova Costanza d’Aragona und O. K ALLSTROM , «Abhandlungen der passò sposa a Federico II, nonché in una Akademie der Wissenschaften in Göttingen. Phil.-Hist. Kl.» Dritte Folge Nr. 36, Göttingen bolla d’oro del 1218 e in un cammeo 1955, p. 149 e tav. XLVIII fig. 97, p. 125 e tav. bicolore dello stesso imperatore svevo35. E XLIV fig. 91. se è andato perduto il seggio in materiali 36. L. DE MAS-LATRIE, Perte et rachat du trône de l’empereur Frédéric II, «Bibliothéque de l’École preziosi di Federico II dato in pegno dai des Chartes» XXIV, V série, III (1962), p. 248 ss.; suoi successori ai banchieri genovesi36, P. E. SCHRAMM, Kaiser Friedrichs II cit., p. 83 ss. 37. P. E. SCHRAMM, Kaiser Friedrichs II cit., pp. 144 altri elementi di raffronto sono forniti, e 149, tav. XLVI figg. 94 a-b; p. 148, tav. XLVII sempre per il secolo XIII, dal trono impefig. 96. riale in marmo conservato a Goslar, nel distretto di Hildesheim, e da due capitelli in bronzo di una collezione privata parigina riconosciuti come frammenti di un trono imperiale37. Pertanto il reliquiario capuano dei Santi Prisco e Stefano va attribuito con una certa sicurezza all’ambiente artistico svevo dell’Italia meridionale, nel quale l’esigenza di immediatezza rappresentativa espressa dai suoi valori stilistici e di contenuto andava attenuando gli ultimi riflessi bizantineggianti, con uno spirito innovatore destinato ad arricchirsi di esperienze. In tal caso, per localizzare l’importante bottega argentaria bisogna convenire che l’artista per trovare i modelli della sua rappresentazione non di una 78
«Deesis», cioè della glorificazione del Cristo, bensì della regalità del «Rex regnantium», dovette rivolgersi a quelli relativi al sommo tra i sovrani del suo tempo, Federico II, il quale proprio a Capua, una delle sue città predilette, aveva voluto fra il 1234 e il 1239 una porta turrita alla maniera di un arco 38. Cfr. P. TOESCA. Il Medioevo cit., ediz. 1965 p. 736 trionfale classico, ammiratissima nel ss.; C. A. Willemsen, Kaiser Friedrichs II Medioevo e durante il Rinascimento, ma Triumphtor zu Capua, ein Denkmal hohenstaufischer Kunst in Süditalien, Wiesbaden 1953; A. LIPINSKY, poi distrutta dal governo vicereale spaLa chiesa metropolitana di Capua ed il suo tesoro cit., gnolo. In essa, tra l’altro, l’imperatore era p. 382. 39. Per la Mitra di Scala cfr.: M. CAMERA, Istoria di raffigurato seduto su un trono simile a Amalfi. Napoli 1836 p. 307, 311; H.W. SCHULZ, quelli esaminati, con uno scettro gigliato Denkmäler der Kunst in Unteritalien, Dresden 1860nella sinistra38. 1866, II, p. 266; D. SALAZARO, Studi sui monumenti dell’Italia meridionale dal IV al XIII secolo cit., p. 31; Il richiamo al famoso monumento, E. BERTAUX, L’esposizione di Orvieto cit., p. 410; Id., nell’individuare un termine «ante quem L’art en Italie méridionale cit., p. 182; M. ROSENBERG, Zellensehmelz cit., fig. 89, tav. III. 13; P. non», apre ogni possibilità per datare le TOESCA, Il Medioevo cit., p. 1118; P. METZ in H. lastre argentee della cassetta capuana fino Th. BOSSERT, Geschichte des Kunstgewerbes aller ai primi anni del regno angioino quando Zeiten und Völker, Berlin 1932, V, p. 307; A. LIPINSKY, Antichi tesori d’arte da chiese e monasteri tra il gusto dell’età sveva, variato nel Sud da Salerno e Sorrento cit., p. 45 ss.; ID., Art treasures of gustose particolarità locali, nonostante i Southern Italy cit., p. 47 ss.; A. MORASSI, Antica Oreficeria Italiana cit., p. 19 ss. e fig. 40; profondi mutamenti culturali dimostrava Y. HACKENBROCH, Italienisches Emails des frühen ancora tenaci sopravvivenze. Il passaggio Mittelalters cit., p. 62 ss., figg. 57-58; A. LIPINSKY, dalle forme romaniche alle gotiche, Arte sacra minore: Il tesoro della Cattedrale di Scala, «L’Osservatore Romano» 13 novembre 1940, p. 3; comune in tutta l’Italia duecentesca, ma ID., Sizilianische Goldschmiedekunst im Zeitalter der in Campania più che altrove condizionaNormannen und Staufer cit., p. 172 ss., n. 20: Die Goldzellenschmelze und Filigrane an Mitra von to dall’antica eredità latina, giunse peralScala, bald nach 1250, figg. 44-46; ID., La mitra, tro a rapida conclusione con Carlo I vescovile di Scala, «Partenope» II (1961), 4, p. 277 d’Angiò, che di fronte al passato norss.; ID., L’arte orafa napoletana sotto gli Angiò cit., p. 207 ss. Per la Mitra di Amalfi cfr.: S. J. PIRRI, Il manno-svevo operò un così netto distacDuomo di Amalfi e il Chiostro del Paradiso, Roma co programmatico da lasciare adito al 1941, p. 102, fig. 75; A. AFELTRA, Splendori d’arte sospetto di larghe rifusioni di oreficerie ed argenterie prodotte durante e dopo il regno di Federico II. Eppure ancora al tempo del primo angioino la regione campana dava capolavori animati, sotto i nuovi modi gotici, di profonda vitalità classica: le mitre delle cattedrali di Scala e di Amalfi, dall’armonica decorazione di gemme, parle, smalti e delicate filigrane39. 79
L’esemplare scalense conserva quasi integra sui due lati e sulle infule (tavv. XXXIXXXII) la stupenda trama di migliaia di perline a motivi floreali che attenua col suo bianco ghiaccio la vivace tonalità rossa del fondo in seta. La decorazione di due fasce normali fra loro, ornate da lastrine polilobate in oro con smalti, tra filari di borchiette d’oro pure smaltate e pietre incastonate, riprende un motivo antico. A schemi bizantini si rifà invece la raffigurazione dello Spirito Santo e degli Apostoli sulle lastrine, eseguita tuttavia da maestranze italiane come indicano le leggende in lingua e caratteri latini. Bizantineggianti appaiono anche gli Angeli delle lastrine a losanga riportate nel campo. Al centro, in basso, venne ricamato lo stemma della cittadina: un leone rampante sulla scala. Precisi elementi cronologici si riscontrano nelle filigrane. Quella delle lastrine, eseguita a filo unico sottile con andamento a spirale, costituisce l’ultimo stadio evolutivo della filigrana ‘a vermicelli’ propria delle officine del palazzo reale di Palermo. L’altra, riportata in una successione di ghiande lungo gli orli obliqui della mitra, presentando un sapiente intreccio mosso da sferette di 40. Per questi tipi di filigrane cfr.: A. L IPINSKY, granulazioni strettamente connesso con Sizilianische Goldschmiedekunst im Zeitalter der quello delle lastrine filigranate e granulate Normannen und Staufer cit. sulla cosiddetta Stola dell’Imperatore, è di fattura posteriore all’età federiciana, durante la quale si riscontra per la prima volta40. Pertanto, anche per le caratteristiche tecniche la Mitra di Scala è prezioso documento del complesso mondo artistico e culturale del Mezzogiorno italiano degli ultimi decenni del Duecento. Posteriore è la Mitra di Amalfi (tav. XXXIV), letteralmente ricoperta dal serrato tappeto di perle orientali che disegnano motivi vegetali nel campo, diviso dalle consuete due fasce perpendicolari fra loro. Sebbene abbia subito nelle secolari vicissitudini della sede amalfitana danni incalcolabili, tra i quali la rottura di alcuni gigli lungo il profilo degli orli obliqui, la perdita di gemme talora insieme ai castoni di riporto, nonché la sostituzione delle pietre maggiori con grossolane paste vitree sfaccettate, la mitra rimane opera di eccezionale significato nella storia dell’oreficeria non soltanto italiana. Commissionata probabilmente da un sovrano angioino - lo indica subito la vistosa decorazione dei gigli - essa conclude la lunga evoluzione della forma del copricapo episcopale nel Medioevo consacrando il tipo bicorne destinato a pervenire fino ai nostri giorni, con le infule pendenti dal piatto posteriore, la guarnizione «in circuitu» e quella 80
«in titulo» risalente alla cuspide. In seguito non comparvero più forme diverse neppure nei territori di tradizione particolare come quello barese soggetto alla diretta influenza bizantina, e quello di Benevento i cui arcivescovi in segno di preminenza della «Ecclesia Beneventana» rivendicavano l’uso del «regnum sive thiara ad modum Summi Pontificis... quod hic camaurum vocatur»41. Di gusto gotico, nella mitra amalfitana, è il disegno a fogliami sottolineato da fili d’oro inseriti tra le perline. Un motivo simile con stilizzazioni di vivace effètto decorativo ricorre sulla Mitra di Sant’Isidoro custodita nel Sacrario di Santo Stefano a Bologna (tav. XXXVII), che può ritenersi opera meridionale di età angioina. Ma l’esemplare bolognese nonostante i complessi ornati a ricamo, i riporti di borchiette tonde e le gemme incastonate, manca delle ricche applica41. Cfr. M. ANDRIEU, Les Ordines Romani du haut zioni in oro della mitra amalfitana, le cui Moyen Âge, Louvain 1956, IV p. 183. Mancano guarnizioni principali sono costituite da purtroppo esemplari della mitra beneventana, peraltro raffigurata nell’Exultet Casanatense 724 una successione di lastre d’oro quadrate, del XII secolo proveniente da Benevento, dove il incorniciate da un filo perlinato e articometropolita ha un camelauco del tipo di quelli pontifici. Da notare che nella città, passata alla lato da cerniere. Al centro di esse una Santa Sede nel secolo XI (Cfr. E. GALASSO, seconda lastra rialzata con cornice a trafoBenevento nel Duecento attraverso i documenti ponro funge da castone per una grossa tifici dell’Archivio Civico in Saggi di storia beneventana, Benevento 1963, p. 3 ss.), l’uso della mitra gemma oblunga trattenuta anche da venne concesso anche all’abate di Santa Sofia (Cfr. quattro grappette. Entro castoni rotondi W. HOLTZMANN, Nachträge zu den Papsturkunden Italiens X, «Nachrichten der Akademie der dal bordo perlinato, agli angoli della Wissenschaften in Gottingen I. Phil.-Hist. Kl.» prima lastra, spiccano inoltre quattro 1962, p. 205 ss., in particolare doc. 20 p. 237, gemme minori alternate con quattro bolla di papa Clemente III all’abate sofiano Guglielmo in data 8 novembre 1189). perle orientali. La complicata decorazione ritorna nella guarnizione inferiore, dove però alcune lastre recano per le gemme un grosso castone circolare circondato da altri minori, tutti con l’orlo perlinato, ripetendo il motivo che appare nel fitto ‘pavé’ di perline ai lati della fascia verticale, entro numerosi giri di filo d’oro per porre in risalto due gemme eccezionali. Durante il secolo XVIII queste ultime furono sostituite con paste vitree sfaccettate ‘a rosetta’ secondo l’uso introdotto alla metà del Seicento, mentre le infule, rifatte, conservarono con illogica disposizione un considerevole numero di gemme in castoni circolari e di lastrine in filigrana d’oro. L’analisi delle tecniche impiegate nella Mitra di Amalfi conduce a conclusioni di 81
notevole rilievo. La prima è che la particolare applicazione delle perle orientali, assolutamente assente in altre opere di gioielleria medioevale ma qui abbinata a tipiche tecniche orafe pregotiche, documenta una fase particolarissima di quell’arte nell’Italia meridionale. Ogni perla poggia entro una corolla di petali smaltata, a sua volta fissata da un perno la cui testata, invece del normale ingrossamento liscio, presenta un minuscolo castone con una pietra preziosa. Le tre sottili fasce d’argento dorato lungo i lati obliqui mostrano poi l’impiego di singolari matrici per la minuta decorazione floreale. Interessantissima è infine la successione di lastrine rettangolari a smalto traslucido con disegni di vegetali stilizzati lungo il bordo interno delle superfici coperte di perline. Esse recano al centro una piccola gemma incastonata e si alternano con lastrine quadrate finemente lavorate a granulazione e riporti di filigrane, che nel disegno si ricollegano alle tradizioni della scuola orafa palermitana tenute vive nell’età sveva. Solo che qui la filigrana si presenta a filo semplice, non ritorto a due o tre capi come nelle principali opere normanne. Immediati riscontri con le filigrane a cupoletta della Mitra di Scala, di netta derivazione palermitana, si trovano anche nelle lastrine delle infule, identiche per fattura a quelle lungo i lati obliqui ma molto varie nell’aspetto, ora esagoni irregolari con una minuscola gemma fermata entro un castone a cappi di filo d’oro, ora quadrilobi di filo attorcigliato, ora soprattutto raffiguranti emisferette a traforo con una goccia di granulazione in cima. La Mitra di Amalfi trova un riferimento adeguato soltanto nella pala con San Ludovico da Tolosa e Roberto d’Angiò del Museo Nazionale di Capodimonte a Napoli, eseguita quasi sicuramente in occasione della canonizzazione del Santo nel 1317. Nel famoso dipinto San Ludovico ha sul capo una mitra nella quale il lavoro dell’orafo, molto simile a quello del capolavoro amalfitano, viene esaltato in maniera evidente dal profilo delle coste oblique allo splendore delle fasce «in circuitu» e «in titulo», al risalto di due tondi con gemme nel campo scompartito delle perline. E il riferimento non appare casuale se si pensa che poco dopo il 1317 anche sulla Mitra di Scala vennero applicate due nuove lastrine con smalti ad incavo raffiguranti San Francesco di Assisi e San Ludovico da Tolosa. Per tale completamento e per la realizzazione del secondo esemplare della costiera non è possibile rifarsi che ad orafi della corte di Roberto d’Angiò, fratello di San Ludovico. Si deve pertanto riconoscere nella mitra amalfitana l’ultima manifestazione di un’arte dalle tradizioni inconfondibilmente campane ricche di tutta la secolare cultu82
ra meridionale rifluita nella regione, anche se la sintesi di linguaggio e tecniche propri, che ne aveva caratterizzata sempre la fisionomia, giungeva alla sua fatale scissione. Al di là dei procedimenti operativi che affondavano le radici nell’inventiva fantasiosa di tante civiltà trascorse, il nuovo gusto muovendo da Napoli si calava in forme di impareggiabite raffinatezza gotica, e di oggetti di oreficeria, estensori e reliquiari in special modo, vennero trattati con un’opera intrisa di scultura. Scompariva così, nella ricerca di levità di trafori e di spazi geometrici, l’emozione suscitata tanto dalle materie preziose quanto dalle policromie iridescenti di derivazione barbarica e orientale, e l’appassionato interesse dell’età normanno-sveva per la costruzione armonica del gioiello, nel segno di un rinnovato classicismo, cedeva alle eleganze di dosaggi coloristico-spaziali sorprendentemente moderni, fondati sulla positiva consistenza della terza dimensione, giottesca senza dubbio eppure di ascendenza assai antica.
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BIBLIOGRAFIA
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TAVOLE
La sequenza delle tavole, pur rispettando la numerazione, segue un impaginazione differente dall’edizione originale. Le tavole a colori seguono alla fine tutte le altre in bianco e nero. 95
RIFERIMENTI FOTOGRAFICI
Allen Memorial Art Museum di Oberlin (Ohio, USA): tav. VI a; Ashmolean Museum di Oxford: tav. VII; Bibliothèque Nationale di Parigi: tav. II b; British Museum di Londra: tav. V b; Germanisches National Museum di Norimberga: tav. XI; V. Gramignazzi Serrone: tavv. II a, III b, c, VIII c, d, IX b, X; E. Galasso: tav IX c; L. Intorcia tav. XX a; E. Parente: tavv. I, IV, Va, XII a, XII, XIV a, b, XV, XVI, XVII a, XVIII a, b, XIX, XXI, XXII, XXIII, XXIV a, b, XXV, XXVIII, XXIX a, b, XXXI, XXXII, XXXIII a, b, XXXIV, XXXVI; Soprintendenza alle Gallerie del Lazio: tav. XXX a; U. Russi: tavv. XXV a, b, c; A. Villani: tav. XXXVI; Walters Art Gallery di Baltimore (Maryland, USA): tav. III a. Da L. Breglia, Catalogo delle oreficerie del Museo Nazionale di Napoli: tav VI c; Cecchelli, La vita di Roma nel Medio Evo: tav. XXX b; Corpus Nummorum Italicorum: tav. XX b; W. Froehner, Collections du Chateau de Goluchow. L’orfèvrerie: tavv. VIII a, b; Lipinsky, Per una storia dell’oreficeria nel reame di Napoli e Sicilia. Le quattro lastre d’argento istoriate della collezione Martin Le Roy: tavv. XXVI a, b, XXVII a, b; Monumenta ad Neapolitani Ducatus historiam pertinentia: tav XVII b; Peroni, Oreficerie e metalli lavorati tardoantichi e altomedievali del territorio di Pavia: tavv. XII b, c; M. C. Ross, Some longobard insignia: tav. VI b; A. Tagliaferri, Le diverse fasi dell’economia longobarda: tav. IX a.
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TAV. I Fibula, anello e crocetta. Da Senise (Seconda metĂ VII secolo). Oro con pietre dure e paste vitree. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.
TAV. IV Anello e orecchini. Da Senise (Seconda metĂ VII sec.). Oro con pietre dure e paste vitree. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.
TAV. VII Fibula di Benevento (Seconda metĂ VII sec.). Oro con cammeo in onice e gemme a goccia. Oxford, Ashmolean Museum.
TAV. X Ori Orilongobardi longobardi(Seconda (Secondametà metàVII VII––primi primiVIII VII sec.). Benevento, Museo del Sannio.
TAV. XIII. Croce del Pantokrator (sec. XI.). Rame dorato con smalti e cristalli di rocca. Gaeta, Museo del Duomo.
TAV. XVI. Stauroteca di Napoli (1139-1154). Oro con perle, gemme e smalti “champlevées”. Napoli, Cappella delle Reliquie del Duomo.
TAV. XIX. Stauroteca di Napoli. Particolare con S. Giovanni Evangelista. Smalto “champlevé” su oro con pietre e gemme. Napoli, Cappella delle Reliquie del Duomo.
TAV. XXII. TAV. XXII. di Alfano, Arcivescovo di Capua (1166-1198). Evangeliario Evangeliario di Alfano, Arcivescovo diOro Capua (1166-1198). Coperta anteriore con Crocifissione. con perle, gemme e smalti. Coperta anteriore con Crocifissione. Oro con perle, gemme e smalti. Capua, Tesoro della Cattedrale. Capua, Tesoro della Cattedrale.
TAV. XXV. Evangeliario di Alfano, arcivescovo di Capua ( 1166-1189). Coperta posteriore con la Deesis. Oro con perle, gemme e smalti. Capua, Tesoro della Cattedrale.
TAV. XXVII. Stauroteca di Cava (XII sec.). Oro. Cava dei Tirreni, Badia della SS. TrinitĂ .
TAV. XXXI. Mitra di Scala (Seconda metĂ XIII sec.). Lato anteriore. Oro con perle, gemme e smalti. Scala, Cattedrale.
TAV. XXXIV. Mitra di Amalfi (Primi decenni XIV sec.). Oro con perle, gemme e smalti. Amalfi, Tesoro della Cattedrale.
TAV. XXVII. Stauroteca di Cava (XII sec.). Oro. Cava dei Tirreni, Badia della SS. TrinitĂ .
TAV. II. a) Lastra (Fine VII - primi VIII sec.). Pietra calcarea locale. Circello, Rione San Nicola, Casa Civetta. TAV. II. b) Fibula di Capua (Fine VII - primi VIII sec.). Oro con pietre dure “cloisonnées”. Parigi, Bibliothèque Nationale, Cabinet des Médailles.
TAV. III. a) Fibula di Comacchio (VII sec.). Oro con pietre dure “cloisonnées”. Baltimore (Maryland, USA), Walters Art Gallery. TAV. III. b) Capitello romano, forse del tempio di Iside di Benevento (88. d.C.). Marmo. Benevento, Cripta longobarda della Cattedrale. TAV. III. c) Capitello longobardo (760). Pietra calcarea locale. Benevento, Chiesa di Santa Sofia.
TAV. V a) Orecchini di Senise (parte posteriore del disco). Lamina con l’impronta del soldo d’oro di Eraclio e Tiberio (659-668). Napoli, Museo Archeologico Nazionale. TAV. V b) Fibula Castellani (Prima metà VII sec.). Oro con perle e smalti “cloisonnées”. Londra, British Museum.
TAV. VI a) Fibula Gutman (VII sec.). Oro con perle e smalti “cloisonnées”. Oberlin (Ohio, USA), Melvin Gutman Collection. TAV. VI b) Crocetta bizantina (VI - VII sec.). Oro con paste vitree. Cleveland (USA), Museum of Art. TAV. VI c) Orecchino romano (I sec. a. C. - 79 d. C.). Oro con perle e pietre dure. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.
TAV. VIII a) Encolpio Dzialynski (Fine VII – primi VIII sec.). Oro con Crocifissione a smalto. Già nel castello di Goluchow (Polonia), Collezione Dzialynski.
TAV. VIII b) Encolpio Dzialynski (Fine VII - primi VIII sec.). Oro con Assunzione della Vergine a smalto. Già nel castello di Goluchow (Polonia), Collezione Dzialynski
TAV. VIII c) Orecchini longobardi (Seconda metà VII sec.). Oro. Benevento, Museo del Sannio.
TAV. VIII d) Frammento di fibula a disco (Seconda metà VII sec.). Oro. Benevento, Museo del Sannio.
TAV IX. a) Crocetta longobarda (II metĂ VII sec.). Oro. Benevento, Museo del Sannio.
TAV IX. b) Umbone di scudo longobardo. Da Ischl. (VI sec.). Bronzo dorato. Monaco di Baviera, Bayerisches National Museum.
TAV IX. c) Monete d’oro beneventane Sicardo principe (832-839), Arechi II duca, poi principe (758-788), Sicone principe (817-832), Liutprando duca (750-758), Gisulfo II duca (742-750), Grimoaldo III principe (788-806), Romualdo II duca (703-729). Benevento, Museo del Sannio.
Arechi II principe Tremisse d’oro. Mantova, Collezione privata (ora Benevento, Museo del Sannio)
TAV. XI. Crocette longobarde. Da Benevento.(Fine VII - prima metĂ VIII sec.). Oro. Norimberga, Germanisches National Museum.
TAV. XII. b) Crocetta longobarda (Fine VII – metà VIII sec.). Oro. Pavia, Musei Cvici.
TAV. XII. a) Crocetta longobarda (VII sec.). Oro. Capua. Museo Provinciale Campano.
TAV. XII. c) Crocetta del Reliquiario di S. Agostino (Prima metà VII sec.). Argento dorato. Pavia, Chiesa di San Pietro in Ciel d’Oro.
TAV. XIV. a) Encolpio con “Cristo tra Angeli” (secc. VII-VIII). Bronzo. Napoli, Museo Nazionale di Capodimonte.
TAV. XIV. b) Encolpio con “Crocifissione” (Secc. VII-VIII). Bronzo. Napoli, Museo Nazionale di Capodimonte.
TAV. XV. Encolpio con la “Vergine” (Secc. VII-VIII). Bronzo. Capua, Museo Provinciale Campano.
TAV. XVII. a) Follaro di Sergio II, duca di Napoli (870-877). Bronzo. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.
TAV. XVII. b) Orecchino bizantino (Sec. VIII). Oro con gemme e paste vitree. GiĂ nella collezione A. G. Sambon.
TAV. XVIII. a) Mitra detta di S. Paolino, vescovo di Capua. Lato anteriore e posteriore (Sec. IX). Tessuto in seta e filo aureo su pergamena. Capua, Tesoro della Cattedrale.
TAV. XX. a) Encolpio di Pietro, Vescovo di Benevento (894-914). Oro con gemme. Benevento, Tesoro del Duomo.
TAV. XX. b) Moneta beneventana dell’interregno del Vescovo Pietro (897-899). Argento.
109
TAV. XXI. Encolpio di Stefano, vescovo di Caiazzo (979-1023). Valva anteriore con Crocifissione. Argento dorato. Caiazzo, Cattedrale.
110
TAV. XXXIII. Encolpio di Stefano, vescovo di Caiazzo (979-1023). Valva posteriore con Mano benedicente. Argento dorato. Caiazzo, Cattedrale.
TAV. XXIV. a) Stauroteca di Gaeta. Da S. Giovanni a Piro (Seconda metà XI sec.). Lato anteriore con Crocifissione. Oro con smalti “cloisonnées”. Gaeta, Tesoro della Cattedrale. TAV. XXIV. b) Stauroteca di Gaeta. Da S. Giovanni a Piro (Seconda metà XI sec.). Lato posteriore con la Vergine. Oro con smalti “cloisonnées”. Gaeta, Tesoro della Cattedrale.
112
TAV. XXVI. a) Annunciazione (Fine XI - primi XII sec.). Lastra d’argento. Già a Parigi, Collezione Martin Le Roy. TAV. XXVI. b) Madonna in Trono col Bambino (Fine XI - primi XII sec.). Lastra d’argento. Già a Parigi, Collezione Martin Le Roy.
TAV. XXVII. a) Predicazione agli Apostoli (Fine XI - primi XII sec.). Lastra d’argento. Già a Parigi, Collezione Martin Le Roy. TAV. XXVII. b) Discesa dello Spirito Santo (Fine XI - primi XII sec.). Lastra d’argento. Già a Parigi, Collezione Martin Le Roy.
TAV. XXIX. a) Stauroteca di Cava. Profilo (XII sec.). Oro. Cava dei Tirreni, Badia della SS. TrinitĂ .
TAV. XXIX. b) Evangeliario di Alfano, arcivescovo di Capua (1166-1189) Particolare della coperta anteriore con S. Tommaso a Beckett e San Luca. Oro con perle, gemme e smalti. Capua, Tesoro della Cattedrale.
TAV. XXX. a) Cristo Benedicente (XI sec.). Rame smaltato. Roma, Museo di Palazzo Venezia. TAV. XXX. b) Fibula di Cassino (MetĂ XII sec.). Oro con gemme. Roma, Museo Nazionale delle Terme.
TAV. XXXII. Mitra di Scala (Seconda metĂ XIII sec.). Lato posteriore. Oro con perle, gemme e smalti. Scala, Cattedrale.
117
TAV. XXXIII. a) Croce processionale. Lato anteriore (XII sec.). Rame dorato con oro, gemme, perle e smalti. Salerno, Museo del Duomo. TAV. XXXIII. b) Croce processionale. Lato posteriore (XII sec.). Rame dorato con oro, gemme, perle e smalti. Salerno, Museo del Duomo.
118
TAV. XXXV. a) Cassetta-reliquiario dei Santi Prisco e Stefano (XIII sec.). Lato anteriore, argento dorato. Capua, Tesoro della Cattedrale. TAV. XXXV. b) Cassetta-reliquiario dei Santi Prisco e Stefano (XIII sec.). Lato posteriore, argento dorato.
TAV. XXXV. c) Cassetta-reliquiario dei Santi Prisco e Stefano. Particolare con San Prisco. TAV. XXXV. d) Cassetta-reliquiario dei Santi Prisco e Stefano. Particolare con Santo Stefano.
TAV. XXXVI. Augustale di Federico II (prima metĂ XII sec.). Oro. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.
TAV. XXXVII. Mitra di Sant’Isidoro (XIV sec.) Tessuto con oro, gemme e perle. Bologna, Sacrario di Santo Stefano.
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INDICE
Prefazione alla prima edizione Mario Rotili
pag. 5
CAPITOLO PRIMO
Oreficeria medioevale in Campania
pag. 13
CAPITOLO SECONDO
La scuola beneventana
pag. 19
CAPITOLO TERZO
La produzione bizantina e campano-bizantina
pag. 46
CAPITOLO QUARTO
Gli ori dell’età normanno-sveva
pag. 63
BIBLIOGRAFIA
pag. 85
TAVOLE
pag. 95
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
pag. 96
finito di stampare nel mese di dicembre 2005
125
FEDERAZIONE ORAFI CAMPANI STORIA DELL’OREFICERIA CAMPANA 1. OREFICERIA MEDIEVALE IN CAMPANIA
FEDERAZIONE ORAFI CAMPANI
126