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Reddito di inclusione sociale (REIS)

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Alleanza contro la Povertà in Italia nasce, all’inizio del 2014, da un’idea del Prof. Cristiano Gori, dell’Università Cattolica di Milano, è promossa dalle Acli e realizzata grazie al contributo delle Segreterie Confederali di Cgil, Cisl e Uil e delle altre Associazioni aderenti. Le realtà sociali fondatrici ed aderenti all’iniziativa sono più di 30; oltre alle ACLI, tra esse figurano l’ANCI, la Caritas, Confcooperative, il Forum Nazionale del Terzo Settore, Save the children, ecc. Alle Acli è affidato il coordinamento politico-organizzativo dell’Alleanza ed il Prof. Gori coordina le attività del gruppo tecnico. L’obiettivo dell’Alleanza è quello di fare in modo che in Italia venga adottata una strategia nazionale di contrasto alla povertà con l’adozione di una misura specifica: il Reddito di inclusione sociale (REIS). Il percorso di questa iniziativa è molto ampio, molteplici sono le iniziative adottate anche a livello territoriale. Il quadro di riferimento è stato molto approfondito e motivato. La proposta avanzata, molto precisa, vuole attivare un intervento strutturale di contrasto alla povertà, in particolare alla povertà assoluta. Dunque una proposta specifica da non confondere con interventi di sostegno al reddito come possono essere gli ammortizzatori sociali, o gli interventi per la non autosufficienza.

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Un intervento che prevede contributi economici ben definiti che camminano congiuntamente con interventi volti all’inclusione sociale ed al superamento della condizione di povertà. Un intervento non più sperimentale ma strutturale, anche se attuabile in modalità graduali pure esse definite.

Il quadro di riferimento Il confronto dei dati sulla diffusione della povertà assoluta, riferiti al 2013, con quelli del 2007, ultimo anno di crescita del Pil prima del periodo di sei anni durante il quale ha prevalso il segno negativo, mostra il cambiamento della situazione di povertà. Nel 2013 sperimentavano tale condizione 6 milioni di persone residenti in Italia, pari all’9,9% del totale, mentre nel 2007 erano 2,4 milioni, cioè il 4,1%. La crisi, dunque, ci restituisce l’esplosione della povertà assoluta nel nostro Paese. Questi sono i numeri da tenere a mente perché meglio di qualsiasi altra cifra aiutano a “toccare con mano” la presenza della povertà nella società italiana. Adottando l’unità di misura dei nuclei familiari, l’aumento - nel medesimo periodo - va dal 4,1%, pari a 0,97 milioni di nuclei, al 7,9%, pari a 2 milioni. Si tratta di persone e nuclei familiari che già ora sono in condizione di povertà conclamata. La crescita delle condizioni di povertà non investe solo le situazioni nelle quali era già radicata (sud, anziani, famiglie con tre figli) ma si amplia a nuovi soggetti anche del centro nord, a famiglie con due figli ed anche a famiglie con componenti occupati, evidentemente in modo parziale o precario.

Che cos’è Il REIS assicura a chiunque si trovi in condizione di povertà un insieme di risorse adeguate per raggiungere condizioni materiali minime e perseguire percorsi di inserimento sociale. Il REIS si rivolge a tutte le famiglie in povertà assoluta. È destinato ai cittadini, di qualsiasi nazionalità, in possesso di un valido titolo di legittimazione

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alla presenza sul territorio italiano e ivi presenti in forma regolare da almeno 12 mesi. Il principio guida è l’universalismo. Ogni nucleo riceve mensilmente una somma pari alla differenza tra la soglia di povertà e il proprio reddito. Il contributo monetario prevede contestualmente l’attivazione di servizi sociali, socio-sanitari, socio-educativi o educativi. Possono essere servizi contro il disagio psicologico e/o sociale, di istruzione, riferiti a bisogni di cura, per l’autonomia o di altra natura. Il REIS viene gestito a livello locale grazie ad un impegno condiviso, innanzitutto, da Comuni e Terzo Settore. Il principio guida consiste nella partnership: solo un’alleanza tra attori pubblici e privati a livello locale permette di affrontare con successo il nodo povertà. Tutti i membri della famiglia tra 18 e 65 anni ritenuti abili al lavoro devono attivarsi nella ricerca di un impiego. Il REIS costituisce un livello essenziale delle prestazioni, il primo tra gli interventi di politiche sociali a diventarlo. Il Reddito d’Inclusione Sociale è introdotto gradualmente, con un Piano Nazionale articolato in quattro annualità. A regime, la misura richiede un investimento pubblico di circa 7,1 miliardi di euro. Ipotizzando di suddividere l’aumento dei finanziamenti in quattro parti uguali, ogni anno la spesa pubblica sarebbe di circa 1,7 miliardi.

Le caratteristiche tecniche Non possono ricevere il REIS le famiglie con un Isee superiore a 12 mila euro (nuovo ISEE dal 2015). Per i nuclei con un Isee inferiore alla soglia sopra indicata, si calcola il reddito familiare disponibile nel seguente modo: si sommano tutti i redditi monetari percepiti dalla famiglia nell’ultimo anno al netto di imposte dirette e contributi, ad eccezione delle indennità di accompagnamento. A questo reddito si sottrae il 75% del canone di locazione (fino ad una riduzione massima di 7.000 euro annui). In questo modo si differenzia il tenore di vita di chi vive in proprietà da quello di chi vive in affitto, tenendo contestual-

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mente conto del fatto che i canoni di locazione differiscono sensibilmente sul territorio. Se tale reddito risulta inferiore alla soglia di povertà presa a riferimento, la famiglia ottiene il REIS e lo riceve nella misura necessaria a colmare la differenza tra il reddito disponibile e la soglia in questione. La soglia di povertà presa a riferimento è pari a 400 euro al mese nel caso di nuclei familiari composti da una sola persona ed aumenta, sulla base della scala di equivalenza del nuovo Isee, per le famiglie con più componenti. Seguendo la logica insita nel nuovo Isee, peraltro, la soglia cresce in misura maggiore per le famiglie numerose con minori. Il meccanismo di valutazione del reddito illustrato sopra fa si che per le famiglie in affitto a questa soglia venga aggiunto il 75% del canone di locazione (sino ad un valore massimo di 7000 euro).

Componenti nucleo

Valore base (da aumentare con 75% canone affitto)

Esempio: canone di 500 euro mensili

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400

775

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628

1003

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817

1192

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985

1451

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1280

1655

Progressione in base ai parametri ISEE (che variano in base alle caratteristiche del nucleo)

Il REIS convive con l’assegno sociale per chi ne ha diritto; nelle situazioni familiari dove il REIS fosse superiore viene erogata la differenza.

I soggetti attuatori La struttura sovra-territoriale è incentrata sul Ministero del Welfare, che sovrintende e dirige il processo di riforma. Coordina i soggetti nazionali, definisce gli obiettivi attuativi della riforma, promuove lo sviluppo degli interventi locali

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con linee guida, monitora l’attuazione del REIS e, più in generale, è responsabile della concreta realizzazione dell’infrastruttura nazionale sopra delineata. L’INPS ha la competenza finale di verificare l’ammissibilità al REIS e di erogare il trasferimento monetario; realizza un sistema informativo adeguato a rispondere alle esigenze conoscitive di tutti gli attori – centrali e locali – coinvolti nella gestione del REIS. Le Regioni hanno un ruolo di raccordo tra lo Stato e i territori e rendono possibile l’infrastruttura nazionale per il welfare locale. Svolgono numerosi compiti: a) programmano in modo integrato con il REIS tutte le altre politiche che concorrono a ridurre l’esclusione (abitative, trasporti, istruzione, politiche attive del lavoro); stabiliscono le eventuali ulteriori misure contro la povertà che si affiancab) no al programma nazionale; c) realizzano il supporto tecnico degli Enti capofila e dei Comuni; d) gestiscono i poteri sostitutivi. Il polo locale del REIS è costituito dai Comuni. La dimensione appropriata per la gestione efficiente ed omogenea del REIS è quella intercomunale dell’Ambito Territoriale Sociale. Sarà ogni Ambito, attraverso la sua Conferenza dei Sindaci, ad individuare l’Ente Capofila del REIS per il proprio territorio. L’Ente Capofila è responsabile per tutti i comuni dell’Ambito Sociale della misura a livello intercomunale e coordina l’intervento dei soggetti partner (CpI, Terzo Settore, distretti sanitari, ecc.). È fortemente impegnato nella pubblicizzazione della misura, in particolare tra le fasce di popolazione meno informate. Ha una parte centrale nella gestione delle porte di accesso e nella fase di presa in carico degli utenti del REIS. È sempre coinvolto nel lavoro di programmazione degli interventi e dei percorsi d’inclusione sociale e lavorativa, nei quali svolgerà un ruolo fondamentale nel fornire i propri servizi. Il Terzo Settore potrà contribuire al monitoraggio e alla valutazione del REIS, assicurando le informazioni richieste per l’alimentazione del sistema informativo nazionale e mettendo a disposizione le risultanze dei propri osservatori.

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Articolazione dei servizi I servizi alla persona facenti parte del Livello essenziale REIS, da garantire in tutto il territorio nazionale, si articolano in porta di accesso, presa in carico e percorsi d’inclusione sociale e lavorativa. Uno sforzo particolare deve essere compiuto per pubblicizzare la misura, con una specifica attenzione a farne conoscere l’esistenza e le modalità per riceverla alle parti più fragili della popolazione. Nel promuovere l’informazione e l’avvicinamento al REIS, insieme allo sforzo comunicativo degli enti pubblici, un ruolo decisivo potrà essere giocato dalle associazioni e dalle realtà del Terzo Settore. La carenza d’informazione danneggia maggiormente chi è più debole. La porta di accesso alla nuova misura viene organizzata, dunque, in modo tale da essere facilmente ed ampiamente raggiungibile dalla popolazione interessata. L’accesso alla nuova misura non è regolato tramite bando, ma avviene “in continuo”, cioè in modo diretto e non contingentato; la domanda può essere presentata in qualsiasi momento dell’anno. Le porte dove presentare domanda per il REIS possono trovarsi presso gli Enti Capofila, le realtà del Terzo Settore, i CAF e i patronati. Presso i soggetti responsabili dell’accesso vengono valutati i requisiti di ammissibilità per usufruire del beneficio, con la presentazione dei documenti necessari per la compilazione della dichiarazione ISEE per la verifica del reddito disponibile. Gli operatori dell’Ente Capofila provvedono al calcolo dell’indicatore di controllo sui consumi, sulla base delle informazioni e delle autocertificazioni fornite. I soggetti responsabili inseriscono nel sistema informativo unico le domande ammissibili, che vengono così messe a disposizione di INPS, Enti Capofila ed eventuali altri per le rispettive verifiche successive. In questo stadio, il ruolo dell’INPS è quello di effettuare verifiche incrociate su tutte le domande presentate, attraverso gli strumenti disponibili (Agenzia delle Entrate, Anagrafe

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Tributaria, eventualmente il Pubblico Registro Automobilistico, etc.), sia per accertare la veridicità delle informazioni economico-finanziarie dichiarate, sia per verificare la presenza dei requisiti di ammissione al REIS. Una volta definiti i nuclei ammessi, l’INPS calcola per ciascuno l’ammontare dell’integrazione spettante e immette nel sistema informativo unico l’elenco dei nominativi. Gli aventi diritto al REIS vengono convocati presso i servizi sociali dell’Ente Capofila per la valutazione multidimensionale delle condizioni del nucleo familiare, delle sue risorse e delle sue criticità. In uno o più incontri, a seconda delle situazioni, sono valutate, oltre alle fragilità e ai bisogni dei componenti del nucleo, anche le concrete possibilità di attivazione. Sulla base di quanto emerso in questi incontri si opera una distinzione (reversibile) fra: 1) persone idonee al lavoro, in vista di un percorso d’inserimento lavorativo; 2) persone candidate all’inserimento sociale, socio-sanitario o socio-educativo; 3) persone che hanno necessità esclusivamente di sostegno economico. Il complesso delle opzioni sintetizza il disegno d’insieme del REIS: assicurare a chiunque sia caduto in povertà un insieme di risorse necessario a condurre una vita decente e - dove possibile e/o necessario - progettare percorsi di inserimento lavorativo o sociale, costruiti in base alle specifiche condizioni individuali. Nell’opzione 3 l’iter termina, mentre in quelle 1 e 2 si procede alla presa in carico. La valutazione multidimensionale dei bisogni, così come la successiva stesura del Patto d’inclusione sono rivolte, in ultima istanza, alla singola persona, con tutte le sue specificità. Infatti, il nucleo familiare è il riferimento idoneo per valutare le condizioni economiche dell’individuo e rappresenta il quadro di contesto imprescindibile nel quale collocare l’approfondimento della sua situazione sociale e relazionale ma l’utente dei percorsi di inclusione è l’individuo. La responsabilità finale della valutazione multidimensionale dei bisogni e delle capacità familiari e della definizione del percorso d’inclusione spetta al personale dei servizi sociali dell’Ente Capofila, dato che questo iter conduce alla decisione su come impiegare risorse pubbliche (quelle destinate ai ser-

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vizi per l’utente in questione). In linea con le buone prassi del lavoro sociale, nell’attività di conoscenza e valutazione della situazione, e della conseguente progettazione sono coinvolte e valorizzate le competenze di reti informali, volontariato, Terzo Settore. Il percorso culmina nella sottoscrizione del patto per l’inclusione, un accordo in forma scritta stipulato fra la persona/famiglia ammessa al REIS e il Servizio Sociale dell’Ente Capofila, col quale si dà formale avvio ai percorsi di reinserimento. Il Patto è costruito dai servizi in modo personalizzato, tenendo cioè conto delle caratteristiche e delle esigenze dell’utente, e stabilisce obiettivi, contenuti, impegni con il coinvolgimento dei destinatari stessi. Una volta sottoscritto il Patto l’Ente Capofila dà il via libera alla liquidazione del contributo e l’INPS provvede ad effettuare il trasferimento monetario alle famiglie. Il Patto per l’inclusione può anche coincidere con il percorso d’inclusione sociale vero e proprio; in questo caso conterrà una specifica definizione del progetto personalizzato, dei suoi passaggi e delle regole di condizionalità applicabili. Il Patto per l’inclusione afferente l’avvio di un percorso d’inclusione lavorativa si definisce attraverso un patto di servizio curato dai Centri per l’Impiego (CpI) in accordo con i servizi sociali. Pare appropriato immaginare una stretta collaborazione fra questi ultimi e i CpI eventualmente coinvolgendo anche i servizi sanitari. Il REIS viene poi erogato, mensilmente e per un anno, con possibilità di rinnovo nell’anno successivo, previa verifica della permanenza dei requisiti di accesso. Il REIS, a differenza della Social Card è un’erogazione diretta di denaro alle famiglie senza vincoli di utilizzo, scelta coerente con quanto accade in tutti i Paesi Europei. D’altra parte, esiste il rischio che fornire denaro contante a persone fragili, devianti o a rischio di devianza conduca ad un suo impiego improprio (ad esempio l’acquisto di alcool o sostanze a scapito del soddisfacimento di bisogni primari quali cibo e abbigliamento, ma anche l’acquisto di apparecchi tecnologici invece dei beni di prima necessità e così via). Come già accade in molti Comuni, in questi casi - che toccano la minoranza degli utenti REIS - gli operatori possono, se lo ritengono opportuno, trasfor-

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mare il contributo monetario in un trasferimento ad utilizzo vincolato o in altre modalità finalizzate di utilizzo delle risorse economiche rese disponibili. Hanno lo scopo di favorire il superamento dell’emarginazione dei singoli e delle famiglie attraverso la promozione delle capacità individuali e dell’autonomia economica. È possibile suddividerli in: 1) percorsi di tipo terapeutico-riabilitativo, rivolti essenzialmente a persone portatrici di problematiche complesse, in condizione di forte disagio sociale ed emarginazione, spesso in condizioni di salute compromesse incompatibili con lo svolgimento di un’attività lavorativa; 2) percorsi di sostegno alle responsabilità familiari riguardanti il supporto ad attività di cura di anziani e minori, interventi di prevenzione e sostegno socio-sanitario e psicologico alle famiglie ed alle coppie; 3) percorsi socio-educativi e di alfabetizzazione, finalizzati a limitare la dispersione scolastica (recupero, sostegno scolastico, servizi a domanda, ecc.), promuovere il rendimento dei minori, agevolare il sostegno alla frequenza a servizi di carattere socio-educativo per la prima infanzia e alla scuola materna, promozione della fruizione del tempo libero dei minori (sport, gioco, ecc.), oltre a promuovere il recupero della scolarità perduta degli adulti e percorsi di alfabetizzazione per cittadini stranieri; 4) percorsi d’integrazione socio-relazionale rivolti all’inserimento dei beneficiari in attività di volontariato presso associazioni e cooperative, mirati ad accompagnare la persona nell’ acquisizione di maggiore autonomia e autostima. La realizzazione dei percorsi richiede la collaborazione tra Servizi Sociali, altri servizi territoriali e Terzo Settore. Si tratta di sinergie in molti casi già presenti, che il REIS consentirà di rafforzare. Un ruolo significativo è anche quello dei servizi socio-sanitari specialistici quali il Dipartimento delle Dipendenze ma anche quello dei consultori familiari e degli istituti scolastici e professionali. Per ciascun percorso viene prevista la figura di un tutor (o case manager), con compiti di coordinamento, accompagnamento e verifica dell’attuazione

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del progetto di attivazione e del rispetto degli obblighi previsti. Si prevede che tale figura si manterrà, per quanto possibile, stabile per tutta la durata del REIS: il programma personalizzato dovrà essere accompagnato e seguito nei suoi esiti nel tempo, attraverso un lavoro di monitoraggio del caso. Il tutor (case manager) è individuato, a regime, fra il personale dell’ente capofila o, in situazioni d’inserimento lavorativo, del Centro per l’Impiego. Nella prima fase del Piano nazionale contro la povertà può essere stabilito, nei contesti che lo rendano necessario, di coinvolgere in questa funzione soggetti del Terzo Settore. Saranno previsti investimenti formativi mirati per sviluppare le competenze necessarie a tale ruolo professionale. I percorsi d’inclusione sociale, in particolare quelli d’integrazione socio-relazionale, sono ispirati ai principi del welfare generativo: si vuole porre la persona aiutata in condizione di contribuire con le proprie capacità ad accrescere la socialità, la solidarietà e la ricchezza della comunità a cui appartiene. Si tratta di trasformare l’aiuto ricevuto con il REIS in ore di impegno che l’interessato offre in attività utili per la comunità e per se stesso. L’utente vede così salvaguardata la propria dignità di persona che può fornire un proprio contributo alla collettività, evitando di essere ridotto a semplice assistito. Le attività possono essere svolte con le associazioni di volontariato, con i soggetti del Terzo Settore e con gli enti pubblici. Analogamente agli attori coinvolti, anche le forme possono risultare le più varie, spaziando dall’impegno orario nel volontariato o negli enti pubblici alla partecipazione a percorsi formativi e ad altre forme individuate dalla creatività locale. La varietà di possibilità sul tappeto é estremamente ampia, tocca tutto ciò che riguarda la conversione dei trasferimenti monetari in altrettante “prestazioni a corrispettivo sociale”. Quello generativo non è un percorso d’inclusione lavorativa perché non prevede - neanche in prospettiva - un rapporto di lavoro. D’altra parte, lo svolgimento di attività volontarie non retribuite, promosse per esempio da organizzazioni del Terzo Settore, permette anche a persone con scarsa occupabilità (per età, condizioni personali o altro) di essere valorizzate in un contesto sociale, nonché di acquisire competenze e abilità spendibili anche, ma non solo, in contesti lavorativi.

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Cosa aspettarsi Il REIS è uno schema contro la povertà, quindi va valutato in primo luogo in questo campo. In effetti, ove si tratti di semplice disagio economico, il problema viene affrontato con l’erogazione monetaria verificandone eventualmente la temporaneità. Ove si accompagni a disagio sociale l’intervento del servizio sociale è molto più complesso tenendo conto che i fattori di successo dipendono dalla qualità dei servizi ed anche dalla disponibilità degli utenti ad entrare in logiche di inclusione e di autopromozione. L’intervento economico non può non accompagnarsi a questa logica anche se non sempre potrà essere un intervento limitato né d’altro canto può essere un rimedio opportunistico. Per la parte di attivazione lavorativa, l’esperienza internazionale mostra che ci si possono attendere effetti positivi quanto al reinserimento dei beneficiari, ma suggerisce di coltivare aspettative moderate e pragmatiche da valutare anche sulla base delle esperienze di altri stati europei. Negli esiti occupazionali vi è però un elemento di forte variabilità, connessa all’implementazione locale. I beneficiari che vivono in Comuni con tassi di attivazione lavorativa maggiori escono più facilmente e più in fretta dal reddito minimo.

*** Non sembra che una proposta così strutturata sia all’ordine del giorno dei prossimi impegni della politica anche se sembra che il tema della povertà possa trovare qualche risposta. Questa proposta resta comunque un termine di confronto rispetto ad iniziative che continuano ad essere parziali con rischio elevato di inefficacia strutturale.

RISORSE WEB

www.

www.redditoinclusione.it

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Attualità

LE RICOSTITUZIONI

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è a tutti noto l’istituto previdenziale della ricostituzione, ovvero il ricalcolo della pensione dall’origine o per fatti sopravvenuti che determinano un diverso importo del trattamento pensionistico. Rientrano in questo ambito - tra l’altro - l’ampia mole di ricostituzioni che effettua l’Istituto a seguito di elaborazione dei modelli reddituali, trasmessi dal CAF o dal pensionato ogni volta che il reddito incide positivamente o negativamente sull’importo della pensione in pagamento. Alla ricostituzione provvede d’ufficio l’INPS per fatti noti o dovuti per legge anche attraverso elaborazioni generalizzate gestite attraverso la propria banca dati. In altre circostanze la ricostituzione deve essere attivata a domanda di parte - dal pensionato di norma attraverso il patronato - allorché si tratta di far valere diritti altrimenti non rilevati. Pertanto la domanda di ricostituzione si inoltra in linea generale: • per contributi anteriori alla decorrenza della pensione; • per maggiorazioni sociali e benefici periodici (cosiddetta 13a e 14a); • per assegno al nucleo familiare; • per rilevanze reddituali (integrazioni al minimo, ecc.); • per eventuali disposizioni normative sopravvenute. Ai fini delle ricostituzioni reddituali, nell’anno di insorgenza del diritto al beneficio, si rileva il reddito dell’anno in corso, presunto se non ancora definitivo, fermo restando la verifica del diritto a consuntivo. Un beneficio iniziale ove riconosciuto su un reddito presunto sarà revocato se il reddito definitivo lo esclude.

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Attualità Per gli anni successivi si considera il reddito dell’anno precedente, ad eccezione dei redditi rilevati attraverso il Casellario centrale dei pensionati (redditi da pensioni o assegni assistenziali) nel qual caso il reddito rilevante è quello dell’anno in corso. In altri termini, dopo varie modifiche, il legislatore ha attestato la normativa sulla rilevanza di tutti i redditi nell’anno di insorgenza del diritto, mentre per gli anni successivi considera nell’immediato i redditi di cui è direttamente a conoscenza col Casellario, utilizzando invece i redditi dell’anno precedente nell’anno successivo quando i redditi non sono noti e debbono essere dichiarati nelle certificazioni fiscali. Continua ovviamente a fare eccezione l’assegno al nucleo familiare per il quale dal luglio di ciascun anno vale il reddito dell’anno solare precedente (da luglio 2015 a giugno 2016 il reddito rilevante è quello del 2014).

RICOSTITUZIONI RICORRENTI Le ricostituzioni sopra indicate sono quelle più ricorrenti che richiedono una verifica ed un controllo assiduo dei certificati di pensione pur nella difficoltà del mancato invio cartaceo dei medesimi. Ma è altrettanto importante controllare il modello di calcolo e di liquidazione della pensione, non essendo scontato che gli elementi acquisiti siano sempre giusti ed aggiornati. Ricordiamo in particolare due situazioni più ricorrenti: Ricostituzioni per contributi da lavoro autonomo Si tratta di contributi non considerati al momento della liquidazione originaria della pensione, perché il relativo conguaglio, collegato al reddito d’impresa superiore al reddito minimale, deve essere versato l’anno successivo, al momento della dichiarazione dei redditi. In qualche caso, l’INPS liquida la pensione in forma provvisoria per trasformarla in definitiva una volta in possesso di tutti i dati; in altri, invece, la liquida già in forma definitiva, lasciando all’interessato l’onere di richiedere la ricostituzione. Anche in questo caso il ricalcolo opera dalla decorrenza della prestazione. Ricostituzioni per variazione dei dati retributivi Si tratta delle retribuzioni relative al periodo di riferimento, utilizzate per il calcolo della pensione: la variazione può dipendere da vertenze conclusesi dopo il pensionamento, da retribuzioni arretrate corrisposte in seguito, da rivalutazione delle retribuzioni di riferimento della contribuzione figurativa accreditata per mobilità, da accrediti figurativi ad integrazione nei periodi di malattia e maternità, ecc.

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Attualità RICOSTITUZIONI PARTICOLARI Al di là dei casi più frequenti di ricostituzione sopra indicati, vi sono alcune ricostituzioni che richiedono particolari verifiche o approfondimenti della vita lavorativa del pensionato e/o delle modalità di calcolo della pensione. Riportiamo una casistica cui è opportuno prestare particolare attenzione. Maternità fuori dal rapporto di lavoro Il Testo Unico sulla maternità e la paternità (art. 25, D.Lgs. 151/2001) dispone che, per le lavoratrici madri, i periodi corrispondenti all’astensione obbligatoria, ancorché intervenuti al di fuori del rapporto di lavoro siano coperti da contribuzione figurativa utile per il diritto e per la misura della pensione. L’unica condizione richiesta è che la lavoratrice possa far valere almeno 5 anni di contribuzione da lavoro dipendente. La Finanziaria 2008 ha dato un’interpretazione autentica di quanto previsto dal decreto del 2001, stabilendo che le disposizioni ivi contenute possano applicarsi solo alle assicurate non ancora pensionate alla data di entrata in vigore del T.U. sopra citato (27 aprile 2001). Vengono tuttavia fatti salvi i trattamenti pensionistici più favorevoli già liquidati alla data di entrata in vigore della legge finanziaria (1° gennaio 2008). Ove durante l’attività lavorativa e nemmeno in sede di richiesta della pensione fossero stati fatti valere questi periodi è possibile chiedere la ricostituzione della pensione, chiedendo il relativo accredito. Trasferimento accredito servizio militare nelle Gestioni Speciali dei Lavoratori Autonomi Sono interessate a questo ricalcolo le pensioni costituite da contribuzione mista, che abbiano decorrenza dal gennaio 1982 in avanti (VOART, VOCOM, VR, IOART, IOCOM, IR, SOART, SOCOM, SR) e che comprendano tra la contribuzione utile la contribuzione figurativa per Servizio Militare. Nella maggior parte dei casi, in mancanza di una precisa indicazione di legge in merito, l’accredito della contribuzione figurativa relativa al Servizio Militare, in presenza di contribuzione mista, veniva effettuato d’ufficio nel Fondo Pensioni Lavoratori Dipendenti. Dopo le precisazioni dell’Ente contenute nel messaggio 4956/2014 è stato stabilito che, per le liquidazioni di prestazioni effettuate dopo il 28 maggio 2014, non sia più possibile variare la gestione di accredito della contribuzione figurativa concessa a copertura dei periodi di Servizio Militare. Infatti da tale data la scelta deve essere esplicitata con la domanda di pensione, e diventa quindi irreversibile. Per le prestazioni liquidate precedentemente a tale data invece resta ancora possibile chiedere il trasferimento dell’accredito. Qualora il valore medio dei redditi d’impresa, utile per il calcolo della misura della quota di pensione retributiva da lavoro autonomo, sia superiore

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Attualità alla media delle retribuzioni pensionabili utili per il calcolo della misura della quota da lavoro dipendente, può risultare più favorevole valutare il Servizio Militare nella Gestione Speciale dei lavoratori autonomi: da qui l’opportunità di chiederne il trasferimento. In linea di massima questa situazione si crea in presenza di contribuzione da lavoro dipendente di scarso rilievo con retribuzioni limitate e lontane a fronte di carriere di lavoro autonomo lunghe e con redditi significativi. In ogni caso i dati reddituali/retributivi sui quali operare il confronto sono di norma contenuti nel provvedimento di liquidazione della prestazione pensionistica (modello TE08), ma laddove ne risulti impossibile il reperimento, ovvero l’esito della richiesta sia incerto, la domanda può ugualmente essere presentata, subordinando l’accoglimento alla condizione che dal ricalcolo scaturisca un importo più vantaggioso appurando anche che l’INPS rispetti questo principio. Trasformazione titolo di pensione delle gestioni autonome Qualunque pensione liquidata nelle gestioni degli Artigiani, Commercianti, Coltivatori Diretti può essere sostituita da quella a carico dell’AGO - Fondo pensioni lavoratori dipendenti, quando risulti perfezionato il relativo requisito con l’esclusione della contribuzione di lavoro autonomo. Si tratta di un vecchio dispositivo legislativo sempre in vigore contenuto nell’art. 2/ter della Legge 114 del 16.4.1974. I contributi accreditati nella gestione dei lavoratori autonomi formeranno oggetto di supplemento nei tempi previsti dalla normativa vigente. Un caso di utilità di questa trasformazione, ferma restando ogni valutazione complessiva personalizzata, può essere rappresentato dal diritto all’assegno al nucleo familiare (non riconoscibile sulle pensioni delle categorie autonome) specie laddove tale assegno possa essere rilevante. Trasformazione titolo sulla pensione conseguita con “opzione donna” Con il medesimo criterio di cui alla Legge 114/74, anche nei casi di liquidazione di una pensione di anzianità attraverso il sistema dell’”opzione donna” (art. 1, c. 9, Legge 243/2004), in una delle gestioni dei lavoratori autonomi (nelle ipotesi nelle quali il requisito è stato raggiunto con quote di contributi presenti in tali gestioni) è possibile ottenere la ricostituzione nella gestione dei lavoratori dipendenti con il calcolo eventualmente più favorevole del sistema retributivo quando è raggiunto il requisito in tale gestione. L’ipotesi più ricorrente si verifica al raggiungimento del requisito autonomo alla pensione di vecchiaia nella gestione dei lavoratori dipendenti in presenza di lunghi e rilevanti periodi di lavoro dipendente, escludendo la contribuzione autonoma. Qualora infatti la contribuzione da lavoro autonomo fosse poco rilevante potrebbe essere conveniente accantonarla per ottenere la riliquidazione

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Attualità nella gestione dei lavoratori dipendenti ai sensi della citata Legge 114/74. La contribuzione autonoma potrà poi essere ripresa come supplemento. è evidente che necessita avere il confronto tra l’importo della pensione liquidata nella gestione e, una volta rilevato il diritto alla riliquidazione, verificare quale sarebbe l’importo con i soli contributi da lavoro dipendente ed il calcolo retributivo. è anche necessario considerare il diritto al supplemento che si consegue con i contributi da lavoro autonomo esclusi nella riliquidazione che - secondo l’INPS - può essere conseguito dopo cinque o dopo due anni dalla decorrenza della nuova pensione, secondo la tempistica di riconoscimento dei supplementi. Riconoscimento inabilità ai fini dell’assegno al nucleo familiare Come è noto la presenza di un componente inabile nel nucleo familiare comporta l’applicazione di tabelle più favorevoli, sia per i lavoratori che per tutte le prestazioni che comportano la fruizione del beneficio, ivi comprese le pensione nelle gestioni dei lavoratori dipendenti. In realtà il riconoscimento viene attivato spesso nelle nostre sedi in presenza di vedova sola, titolare di pensione di reversibilità, nel momento in cui si riscontra il subentro di uno stato invalidante (ad esempio perché viene anche inoltrata una prestazione di invalidità civile o indennità di accompagnamento). è noto che questa è l’unica fattispecie nella qual si matura il diritto all’anf per se stessi oltre a quella dell’orfano minore o maggiorenne inabile. A maggior ragione per i minori e maggiorenni inabili è utile il riconoscimento del carico familiare connesso allo stato di inabilità, in presenza dei genitori, per ogni eventuale successivo e futuro diritto alla pensione di reversibilità. è in ogni caso opportuno tenere presente il diritto all’utilizzo delle tabelle più favorevoli per qualunque componente inabile del nucleo familiare. Il riconoscimento dell’inabilità per i maggiorenni si riferisce al concetto di assoluta e permanente impossibilità di dedicarsi a proficuo lavoro; per il minorenne è verificata la difficoltà persistente a svolgere i compiti e le funzioni proprie della sua età. Lo stato di inabilità è possibile in ogni caso con accertamento dell’Ufficio sanitario dell’INPS, previa presentazione di domanda di autorizzazione corredata dal certificato medico redatto su modello SS3, fermo restando che l’INPS non utilizzi riconoscimenti di altre tipologie di invalidità già accertate previa documentazione di tali stati.

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Attualità Ricostituzione per maggiorazioni in presenza di invalidità Come è noto l’art. 80, comma 3 della Legge 23.12.2000 n. 388 è stata introdotta dal 2002 una maggiorazione di servizio effettivamente svolto dai lavoratori sordomuti o con invalidità civile superiore al 74% o ascritta alle prime quattro categorie della tabella A allegata al DPR 30.12.1981 n. 834. Il periodo massimo riconoscibile è di 5 anni. Il beneficio si applica a pensioni o supplementi decorrenti dal 2/2002 (dal 2.1.2002 per l’INPDAP). I periodi in questione sono validi anche per il perfezionamento del requisito di 18 anni al 31.12.1995 ed anche ai fini del calcolo virtuale della pensione in convenzione internazionale. La maggiorazione si applica ai periodi di attività effettiva con esclusione dunque dei periodi coperti da contribuzione volontaria o figurativa. Secondo l’INPS il dispositivo della maggiorazione non si applica alle quote ovvero alle pensioni del sistema contributivo. Ove in sede di valutazione dei requisiti e di liquidazione della pensione non fosse stata richiesta per vari motivi la considerazione di tali periodi, è possibile provvedere alla ricostituzione della pensione. Ovviamente è necessario documentare la ricostituzione con l’attestazione sanitaria del diritto valido dalla data di riconoscimento delle invalidità predette. Riliquidazione delle pensioni in convenzione internazionale Può accadere che la pensione, pur in presenza di diritto alla liquidazione in convenzione internazionale, sia stata chiesta e conseguita in forma autonoma. La materia merita particolare attenzione per il numero elevato di immigrati, specie dai paesi neocomunitari, per i quali la liquidazione in convenzione internazionale può avere risvolti importanti, ad esempio per far valere la presenza di contribuzione anteriore al 1996 che in Italia può dare diritto ad eventuale trattamento minimo quando il reddito personale e del coniuge e gli importi spettanti lo consentono. Tutto questo a maggior ragione in presenza di requisiti italiani esclusivamente nel sistema contributivo che esclude l’integrazione. Ma i risvolti possono essere di vario tipo e meritano un attento esame dei prospetti di liquidazione ove ci trovassimo in presenza di pensioni già liquidate ed a maggior ragione un attento esame preventivo in caso di prima richiesta della prestazione pensionistica. Possibili dinieghi dell’INPS dovranno essere oggetto di valutazione ed eventuale contenzioso. Prescrizione dei ratei La ricostituzione ha effetto dalla decorrenza originaria della pensione nei limiti della prescrizione quinquennale per gli arretrati. Tale efficacia si definisce ex tunc, cioè “da allora”, vale a dire dal momento di prima liquidazione della prestazione.

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Attualità Per prescrizione quinquennale si veda l’art. 38 del D.L. 98/2011 convertito in Legge 111/2011: al DPR 30.4.1970 n. 639 è inserito l’art. 47 bis “Si prescrivono in cinque anni i ratei arretrati ancorché non liquidati e dovuti a seguito di pronunzia giudiziale dichiarativa del relativo diritto, dei trattamenti pensionistici, nonché delle prestazioni della gestione di cui all’art. 24 della Legge 9 marzo 1989 n. 88 (prestazioni temporanee), o delle relative differenze dovute a seguito di riliquidazioni”. Tale criterio vale a decorrere dal 6.7.2011 per i diritti maturati da tale data. Per i diritti precedenti è previsto un regime transitorio che assicura il precedente termine di prescrizione (vedi i criteri illustrati nel messaggio INPS n. 220/2013) Termini di decadenza triennale per l’azione giudiziaria Per quanto concerne la decadenza triennale dell’azione giudiziaria (ove al termine della procedura amministrativa fosse necessario ricorrere alle vie legali) per ricostituzioni, ricalcoli e riliquidazioni (prestazioni riconosciute solo in parte) relative a pensioni liquidate dopo il 6.7.2011, si veda Bloc Notes 3/2014 ponendo anche attenzione alla casistica che rientra effettivamente in tali termini. Al solo titolo di promemoria si ricorda che l’azione giudiziaria per le prestazioni temporanee decade dopo un anno.

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n Attualità

NASpI: CHIARIMENTI

Dopo la pubblicazione del dossier NASpI, su Bloc Notes n. 2/2015 riprendiamo l’argomento in relazione agli ulteriori chiarimenti forniti dall’INPS con la circolare n. 142 del 29.7.2015. Riprendiamo alcune questioni più rilevanti per la migliore comprensione della vasta casistica che si presenta quotidianamente e per rilevare situazioni di criticità interpretativa.

NASpI e rifiuto di trasferimento Nell’ipotesi di rifiuto del trasferimento del lavoratore ad altra sede della stessa azienda e nell’ipotesi di rifiuto di partecipazione ad iniziative di politica attiva e di non accettazione di un’offerta di lavoro congrua con conseguente cessazione del rapporto di lavoro si applica la disciplina già in vigore per l’ASpI. In particolare non si considera cessazione involontaria del rapporto di lavoro il rifiuto del trasferimento in una sede entro e non oltre i 50 chilometri o comunque raggiungibile mediamente in 80 minuti con i mezzi di trasporto pubblici rispetto alla residenza del lavoratore In caso contrario la risoluzione consensuale non è ostativa al riconoscimento della prestazione di disoccupazione. Tale criterio vale anche ai fini del mantenimento della prestazione in relazione all’offerta di politiche attive del lavoro o di offerta di un congruo lavoro.

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Attualità Licenziamento con accettazione dell’offerta di conciliazione Oltre al diritto alla NASpI nei casi di risoluzione consensuale del rapporto di lavoro intervenuta nell’ambito di procedure di conciliazione (comma 40, art. 1 della Legge 92/2012: se la conciliazione ha esito positivo e prevede la risoluzione consensuale del rapporto di lavoro, si applicano le disposizioni in materia di AspI), sono previste altre fattispecie di diritto alla NASpI. In caso di licenziamento il datore di lavoro, ai sensi dell’art. 6 del D.Lgs. 23/2015 (nuove disposizioni del Jobs Act), può offrire al lavoratore, entro i termini di impugnazione stragiudiziale del licenziamento stesso, un importo che non costituisce reddito imponibile e non risulta assoggettato a contribuzione previdenziale e la cui accettazione da parte del lavoratore comporta l’estinzione del rapporto di lavoro alla data del licenziamento e la rinuncia alla impugnazione del licenziamento. Con un interpello (n. 13 del 2015) il Ministero del lavoro e delle politiche sociali chiarisce che l’accettazione dell’offerta non muta il titolo della risoluzione del rapporto di lavoro che resta il licenziamento e pertanto tale fattispecie è da intendersi quale ipotesi di disoccupazione involontaria conseguente ad atto unilaterale di licenziamento del datore di lavoro. Nel medesimo interpello è stato altresì chiarito che la NASpI può essere riconosciuta ai lavoratori licenziati per motivi disciplinari. Infatti in questa fattispecie il licenziamento è comunque rimesso alla determinazione ed alla valutazione del datore di lavoro, come potere discrezionale e non automatico.

Contribuzione utile e periodi neutri Ai fini del requisito delle 13 settimane nel quadriennio si considerano utili: • i contributi previdenziali, comprensivi di quota DS e ASpI versati durante il rapporto di lavoro subordinato; • i contributi figurativi accreditati per maternità obbligatoria se all’inizio dell’astensione risulta già versata o dovuta contribuzione ed i periodi di congedo parentale purché regolarmente indennizzati e intervenuti in costanza di rapporto di lavoro; • i periodi di lavoro all’estero in paesi comunitari o convenzionati ove sia prevista la possibilità di totalizzazione; • i periodi di astensione dal lavoro per malattia dei figli fino agli 8 anni di età nel limite di cinque giorni lavorativi nell’anno solare.

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Attualità Non sono inoltre considerati utili, in quanto non coperti da contribuzione effettiva, i seguenti periodi coperti da contribuzione figurativa: • malattia e infortunio sul lavoro nel caso non vi sia integrazione della retribuzione da parte del datore di lavoro (ovviamente nel rispetto del minimale retributivo); • cassa integrazione straordinaria e ordinaria con sospensione dell’attività a zero ore; assenze per permessi e congedi fruiti dal lavoratore che sia coniuge con• vivente, genitore, figlio convivente, fratello o sorella convivente di soggetto con handicap in situazione di gravità. La presenza di periodi di questo tipo viene considerata neutra ai fini della individuazione del quadriennio. Il predetto quadriennio viene così ampliato in misura pari alla durata dell’evento neutro. In presenza di una pluralità di periodi neutri - cioè periodi non utili ai fini della ricerca del requisito contributivo e lavorativo - che si susseguono si richiede che almeno il primo evento neutro cominci o sia in corso nel quadriennio di osservazione ai fini della ricerca del requisito contributivo. Se nel quadriennio così ampliato “si rinviene” un ulteriore evento neutro, il quadriennio dovrà essere ulteriormente ampliato in misura pari alla durata dell’evento rinvenuto. Il procedimento di ampliamento si protrae fino alla ricostruzione del periodo di osservazione di 48 mesi (quadriennio) al netto degli eventi neutri. Si chiarisce ad ogni buon conto che i periodi di inoccupazione o disoccupazione non danno luogo a neutralizzazioni ed a conseguenti ulteriori ampliamenti del quadriennio; tuttavia non determinano, di per sé, interruzione della ricostruzione del quadriennio di osservazione.

Riportiamo l esempio fornito dalla circolare 142/2015 Quadriennio dal 15.5.2015 al 15.5.2011, CIG a zero ore per 30 mesi dal 31.5.2011 al 1.12.2008, malattia non integrata dal 20 ottobre al 25 novembre 2008: il requisito contributivo, per effetto dei predetti eventi che determinano l’ampliamento del quadriennio, deve essere ricercato entro l’8.10.2008. Il quadriennio di osservazione sarà pertanto 15.5.2015 - 08.10.2008.

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Attualità Neutralizzazione periodi aspettativa sindacale e funzioni pubbliche elettive A differenza della loro utilità ai fini del diritto e della misura delle pensioni per l’INPS - in relazione all’orientamento della giurisprudenza di Cassazione - i periodi in questione non sono utili per l’accesso alla NASpI. Tuttavia, i suddetti periodi - seppure non utili per il perfezionamento del requisito contributivo - possono essere considerati “neutri” con un corrispondente ampliamento sia del periodo di osservazione (quadriennio) per la ricerca della contribuzione utile alla prestazione di disoccupazione, sia del periodo di dodici mesi precedenti la cessazione del rapporto di lavoro per la ricerca del requisito delle trenta giornate di effettivo lavoro.

Neutralizzazione dei periodi di CIG in deroga Ai fini della determinazione del “quadriennio” per la ricerca del requisito contributivo (minimo 13 settimane) necessario, unitamente agli altri requisiti, per l’accesso alla prestazione di disoccupazione NASpI nonché ai fini della ricerca del requisito delle 30 giornate di lavoro effettivo nei dodici mesi precedenti la cessazione del rapporto di lavoro si osserva che, anche i periodi di CIG in deroga con sospensione dell’attività a zero ore - vista l’analogia di detta prestazione previdenziale di sostegno al reddito con la CIG ordinaria e straordinaria - sono da considerarsi “neutri” con corrispondente ampliamento sia del periodo di osservazione (quadriennio) per la ricerca della contribuzione utile alla prestazione di disoccupazione, sia del periodo di dodici mesi precedenti la cessazione del rapporto di lavoro per la ricerca del requisito delle trenta giornate di effettivo lavoro.

Neutralizzazione dei periodi di lavoro all’estero in Paesi non convenzionati Ai fini della determinazione del “quadriennio” per la ricerca del requisito contributivo (minimo 13 settimane) necessario, unitamente agli altri requisiti, per l’accesso alla prestazione di disoccupazione NASpI nonché ai fini della ricerca del requisito delle 30 giornate di lavoro effettivo nei dodici mesi precedenti la cessazione del rapporto di lavoro, si precisa che i periodi di lavoro all’estero - in Stati con i quali l’Italia non abbia stipulato accordi o convenzioni bilaterali in materia di assicurazione contro la disoccupazione - sono da considerarsi “neutri” con corrispondente ampliamento sia del periodo di osservazione (quadriennio) per la ricerca della contribuzione utile alla prestazione di disoccupazione, sia del periodo di dodici mesi precedenti

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Attualità la cessazione del rapporto di lavoro per la ricerca del requisito delle trenta giornate di effettivo lavoro.

Lavoro domestico Oltre al requisito di 13 settimane nel quadriennio è noto che serve anche un requisito di 30 giornate nell’anno precedente la cessazione del rapporto di lavoro. Per quanto concerne il lavoro domestico non è molto agevole individuare le giornate di lavoro atteso che le modalità di versamento dei contributi prevede l’indicazione delle settimane coperte ed il numero delle ore lavorate settimanalmente. Secondo l’INPS - considerato che per la copertura contributiva di una settimana sono necessarie 24 ore di lavoro - ai fini della ricerca del requisito delle “trenta giornate di lavoro effettivo” nei dodici mesi precedenti la cessazione del rapporto di lavoro per l’accesso alla prestazione di disoccupazione NASpI, il requisito si intende soddisfatto laddove tali assicurati abbiano prestato -nel periodo di osservazione (12 mesi precedenti la cessazione del rapporto di lavoro) - attività lavorativa per 5 settimane con un minimo di ore lavorate per ciascuna settimana pari a 24 ore (24 x 5 cioè minimo di ore per la copertura di una settimana = 120 ore). Per la costituzione del requisito delle trenta giornate di lavoro effettivo occorre pertanto la presenza - nei dodici mesi precedenti l’inizio del periodo di disoccupazione - di un minimo di 120 ore distribuite nella maniera sopra descritta e cioè 24 ore per ciascuna delle cinque settimane. Se ne deduce che in questo modo si vuole limitare il diritto alla NASpI alle sole situazioni nelle quali, nell’anno precedente sia stato maturato un requisito di cinque settimane con almeno 24 ore in ciascuna di esse. Ne conseguirebbe che le colf le quali lavorano per un numero di ore inferiori anche per un numero molto più elevato di settimane, al punto di superare le 120 ore non maturerebbero mai il requisito per la NASpI. Abbiamo ragione di ritenere che l’Istituto rivedrà questa primo orientamento restrittivo.

Domanda di indennità di mobilità o di indennità di disoccupazione NASpI. La circolare di chiarimenti precisa che nell’ipotesi di licenziamento collettivo a seguito di procedura di cui agli art. 4 e 24 della Legge n. 223 del 1991, il lavoratore che abbia presentato apposita domanda di indennità di mobilità accede esclusivamente alla indennità di mobilità ove sussistano i requisiti di

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Attualità accesso a tale prestazione. Pertanto il lavoratore non ha facoltà di optare tra l’indennità di mobilità e l’indennità di disoccupazione NASpI. Nella procedura di trasmissione delle domande di NASpI sarà pertanto inserito un avviso che evidenzierà, in caso di licenziamento collettivo, il diritto alla indennità di mobilità. Tuttavia la circolare richiama un messaggio (n. 1644 del 2015) nel quale è stato chiarito che in caso di reiezione delle domande di indennità di mobilità, sarà cura degli operatori della struttura territoriale inserire - in calce alla comunicazione di reiezione e della relativa motivazione - una nota con la quale si chiede al lavoratore di manifestare espressamente la volontà di trasformare la iniziale domanda di indennità di mobilità in domanda di indennità di disoccupazione. A tal fine si precisa che il lavoratore dovrà manifestare la predetta scelta entro il termine di 30 giorni dalla data di ricezione della comunicazione in argomento. In tale ipotesi, ai fini della decorrenza della prestazione di disoccupazione, si terrà in considerazione l’originaria domanda di indennità di mobilità, successivamente “trasformata” in domanda di disoccupazione. Inoltre, nella procedura informatica di presentazione della domanda di indennità di mobilità si procederà ad inserire l’avviso con il quale si porta a conoscenza dell’interessato che l’indennità di mobilità deve essere richiesta solo se la cessazione del proprio rapporto di lavoro sia avvenuta a seguito di procedura di mobilità, mentre in tutti gli altri casi di cessazione involontaria del rapporto di lavoro occorre presentare domanda di indennità di disoccupazione NASpI. Si richiama l’attenzione sul fatto che, al di fuori di queste procedure agevolative non è comunque possibile rivendicare la domanda di mobilità ai fini della concessione NASpI, a maggior ragione ove fosse trascorso il termine massimo di decadenza per l’inoltro della NASpI.

Lavoro accessorio (voucher) e NASpI Il recente D.Lgs. 15.6.2015 n. 81 (attuativo della delega introdotta col Jobs Act) ha definito il lavoro accessorio quale attività lavorativa che non dà luogo, con riferimento alla totalità dei committenti, a compensi superiori a 7.000 euro nel corso di un anno civile, annualmente rivalutati sulla base della variazione dell’indice ISTAT dei prezzi al consumo per le famiglie degli operai e degli impiegati. Fermo restando il limite complessivo di 7.000 euro, nei confronti dei committenti imprenditori o professionisti, le attività lavorative di cui trattasi possono essere svolte a favore di ciascun singolo committente per compensi non superiori a 2.000 euro, anche essi rivalutati annualmente.

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Attualità Il successivo comma 2 prevede che prestazioni di lavoro accessorio possono essere rese, in tutti i settori produttivi, compresi gli enti locali, nel limite complessivo di 3.000 euro di compenso per anno civile, anche essi rivalutati, da percettori di prestazioni integrative del salario o di sostegno al reddito. L’INPS provvede a sottrarre dalla contribuzione figurativa relativa alle prestazioni integrative del salario o di sostegno al reddito gli accrediti contributivi derivanti dalle prestazioni di lavoro accessorio. Ne consegue che in presenza di NASpI intervallata da lavoro accessorio avremo una contribuzione figurativa NASpI intervallata da contribuzione accreditata nella gestione separata in relazione all’accredito della contribuzione derivante dai voucher. Alla luce della disciplina sopra esposta e delle disposizioni di cui al D.Lgs. n. 22 del 2015 che prevedono la cumulabilità della prestazione NASpI con i redditi derivanti da attività lavorativa, si precisa che l’indennità NASpI è interamente cumulabile con i compensi derivanti dallo svolgimento di lavoro accessorio nel limite complessivo di 3.000 euro per anno civile. Per i compensi che superano detto limite e fino a 7.000 euro per anno civile la prestazione NASpI sarà ridotta di un importo pari all’80 per cento del compenso rapportato al periodo intercorrente tra la data di inizio dell’attività e la data in cui termina il periodo di godimento dell’indennità o, se antecedente, la fine dell’anno come d’altronde avviene in caso di ripresa dell’attività lavorativa dipendente con redditi inferiori a 8.000 euro. Il beneficiario dell’indennità NASpI è tenuto a comunicare all’INPS entro un mese rispettivamente dall’inizio dell’attività di lavoro accessorio o, se questa era preesistente, dalla data di presentazione della domanda di NASpI, il compenso derivante dalla predetta attività.

Effetti del lavoro intermittente sull’indennità NASpI Il contratto di lavoro intermittente (a chiamata), disciplinato dagli art. 13-18 del richiamato D.Lgs. 15 giugno 2015, n. 81, costituisce un contratto di lavoro dipendente che può essere stipulato a tempo determinato ovvero a tempo indeterminato. Tale contratto può assumere una delle seguenti tipologie: 1) lavoro intermittente con espressa pattuizione dell’obbligo di risposta alla chiamata del datore di lavoro e diritto alla indennità di disponibilità; lavoro intermittente senza obbligo di risposta alla chiamata e senza 2) diritto all’indennità di disponibilità.

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Attualità Nel caso in cui il lavoratore già beneficiario di indennità NASpI si rioccupi con un contratto di lavoro intermittente di cui al punto 1 (comprensivo di indennità di disponibilità) si applicano i criteri previsti in caso di rioccupazione facendo riferimento al non superamento degli 8.000 euro annui. In caso di superamento la NASpI viene meno; in caso di mancato superamento si applica la riduzione di un importo pari all’80% del reddito previsto secondo i criteri generali di ripresa dell’attività lavorativa. Nel caso di contratto di lavoro intermittente senza obbligo di rispondere alla chiamata e dunque senza indennità di disponibilità la NASpI resta sospesa per le sole giornate di effettiva prestazione lavorativa. In ogni caso anche in questa situazione vale il riferimento al reddito complessivo annuo di 8.000 euro al di sotto del quale la NASpI è compatibile con l’attività lavorativa ma con la riduzione dell’80% del reddito previsto. In questo senso è necessaria la comunicazione all’INPS entro un mese dalla ripresa dell’attività lavorativa indicando il reddito che si prevede di conseguire. Il lavoratore non già beneficiario di NASpI, che sia nella ipotesi di titolarità di un contratto di lavoro intermittente a tempo determinato o indeterminato per i periodi interni al contratto vuoti di prestazione lavorativa, non ha diritto a chiedere ed a percepire la NASpI al termine della chiamata. Infatti - secondo l’INPS - i periodi di lavoro e di non lavoro costituiscono l’articolazione della prestazione lavorativa della tipologia del contratto in argomento e pertanto i periodi di non lavoro non possono essere assimilati ad una cessazione involontaria del rapporto di lavoro, presupposto per la presentazione della domanda di indennità di disoccupazione. Tuttavia al termine del contratto a tempo o in caso di rescissione del contratto a tempo indeterminato deve essere riconosciuta la NASpI in presenza della maturazione dei requisiti anche con questa attività.

NASpI e servizio civile L’attività svolta nell’ambito dei progetti di servizio civile non determina l’instaurazione di un rapporto di lavoro e non comporta la sospensione e la cancellazione dalle liste di collocamento o dalle liste di mobilità. Agli ammessi compete un assegno per il servizio svolto da qualificare quale reddito di collaborazione coordinata e continuativa ai sensi dell’art.50, lettera c-bis) del TUIR. Dal 1° gennaio 2009 è cessato per tale compenso qualsiasi obbligo contributivo ferma restando la sola possibilità di riscatto ex art. 13 della Legge 1338/62. In questo mutato quadro normativo non si ha più decadenza dal diritto alla disoccupazione né vi è divieto di inoltro della domanda. Trattandosi di un servizio con compensi riconducibili a prestazione di collaborazione coordina-

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Attualità ta e continuativa, pur senza contribuzione, la prestazione di disoccupazione è pertanto cumulabile con il compenso da servizio civile volontario subendo la riduzione pari all’80% del compenso previsto, come avviene in presenza di attività lavorativa di importo inferiore a tale cifra annua. Ciò comporta anche la copertura contributiva figurativa di un periodo altrimenti privo di tutela contributiva ancorché caratterizzato dallo svolgimento di attività a favore della collettività. Poiché il servizio è estraneo alle comunicazioni UNILAV rimane a carico dell’interessato la relativa comunicazione. L’interessato dovrà altresì effettuare all’INPS la comunicazione in ordine all’importo del compenso annuo che questi trarrà dallo svolgimento del Servizio. Le suddette comunicazioni dovranno effettuarsi entro un mese dall’inizio del Servizio Civile se questo interviene nel corso della percezione della prestazione di disoccupazione o entro un mese dalla domanda di prestazione di disoccupazione - presentata a seguito di precedente cessazione di rapporto di lavoro subordinato - se il servizio civile è già in corso di svolgimento.

NASpI e lavoro all’estero In caso di nuova occupazione con contratto di lavoro subordinato a tempo determinato all’estero del soggetto percettore di NASpI, occorre distinguere a seconda che il nuovo lavoro sia intrapreso in uno Stato che applica la normativa comunitaria o in uno Stato non comunitario che sia convenzionato con l’Italia in materia di disoccupazione con previsione dell’esportabilità della prestazione (in linea generale sono situazioni assimilabili) ovvero in uno Stato non comunitario che non sia convenzionato con l’Italia in materia di disoccupazione. Il percettore di indennità di disoccupazione NASpI che si reca in un Paese che applica la normativa comunitaria ovvero in un paese con convenzione bilaterale (art. 7, 63 e 64 del Regolamento (UE) n. 883/2004) con previsione di esportabilità della prestazione NASpI può farlo purchè si iscriva nello stato estero ad un organismo di collocamento fino a che non trovi lavoro nello Stato estero. In questa fattispecie cessa l’iscrizione al centro per l’impiego in Italia e ove trovi lavoro decade dal diritto. Il percettore di indennità di disoccupazione NASpI che lascia l’Italia avendo già un contratto di lavoro in Paese estero che applica la normativa comunitaria o con convenzione bilaterale, l’indennità viene sospesa fino ad una massimo di sei mesi. Al termine del contratto di lavoro all’estero, prima di ripristinare l’indennità sospesa, occorre verificare che l’interessato non si sia iscritto all’ufficio del lavoro dello Stato estero di ultima occupazione e abbia

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Attualità chiesto una prestazione a carico di detto Stato. In tale ipotesi l’indennità NASpI non potrà più essere ripristinata. In caso di percettore di indennità di disoccupazione NASpI, che stipuli in Italia un contratto di lavoro subordinato da eseguire in un Paese che applica la normativa comunitaria, essendo il rapporto di lavoro disciplinato dalla normativa Italiana anche in materia previdenziale, trovano applicazione le disposizioni di cui all’art. 9 del D.Lgs. n. 22 del 2015 e i conseguenti effetti di sospensione, riduzione e decadenza sulla prestazione, come nel caso di percettore di NASpI che si rioccupa in Italia. In caso di percettore di indennità di disoccupazione NASpI, che si reca in uno Stato non comunitario che non sia convenzionato con l’Italia in materia di disoccupazione, se la persona ha già un contratto di lavoro nel Paese in cui si reca l’indennità viene sospesa fino ad un massimo di sei mesi, dopodiché si produce decadenza. Nel caso invece la persona si rechi nell’altro Paese per brevi periodi e per motivi documentati, sia che si tratti di persona di nazionalità italiana ed anche, nella casistica frequente, di lavoratore extracomunitario, si applica quanto già previsto con messaggio n. 367 del 8.1.2009 che potremmo così sintetizzare: • nel caso in cui il lavoratore soggiorni per brevi periodi all’estero ed in particolare per periodi necessitati da gravi e comprovati motivi di salute, personale o di un familiare o da altri motivi familiari (ad esempio lutto, matrimonio) le relative giornate sono da considerarsi indennizzabili purché lo stesso produca idonea documentazione attestante i motivi del soggiorno (certificato medico, certificato di morte, certificato di matrimonio, ecc.); • nel caso in cui il lavoratore soggiorni all’estero per turismo, le giornate corrispondenti sono da considerarsi indennizzabili; • nel caso in cui il lavoratore espatri in via definitiva - per rientro nel paese di origine, per accettazione di un lavoro all’estero - le corrispondenti giornate sono da considerarsi non indennizzabili.

NASpI e diritto a pensione è noto che il diritto all’AspI e MiniASpI decade al raggiungimento dei requisiti per il diritto a pensione. Così era stato illustrato anche nella circolare INPS 180/2014. Con riferimento ai requisiti vigenti prima delle riforma Monti-Fornero si intende maturato il requisito alla prima decorrenza utile per la pensione di vecchia o anzianità (in sostanza all’apertura della “finestra”).

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Attualità Alcune richieste di chiarimento hanno posto il problema della eventuale restituzione di somme di AspI che sarebbe stata percepita indebitamente in caso di adesione al pensionamento di anzianità successivo all’apertura della finestra, con la conseguenza che la restituzione della prestazione temporanea lascerebbe scoperto di disoccupazione e di pensione i periodi di richiesta tardiva (per i più svariati motivi), atteso che la pensione di anzianità decorre comunque dalla data successiva alla domanda. Rientrano per altro in simile fattispecie anche le pensioni del regime sperimentale (opzione donna) e quelle derivante da totalizzazione ex dlgs 42/2006. L’INPS scrive testualmente che sarebbe “impraticabile, dal punto di vista logico ed operativo, la possibilità di respingere le eventuali domande di indennità di disoccupazione ASpI e mini ASpI per le quali la fruizione delle predette indennità dovrebbe decorrere successivamente alla prima decorrenza utile della prestazione pensionistica di anzianità”. Ciò in quanto trattandosi di facoltà esercitabili anche successivamente all’apertura della finestra ma con decorrenza successiva alla domanda, dette facoltà non possono far decadere retroattivamente il diritto all’AspI. Per questa ragioni la circolare conclude in questo modo: “…dopo avere acquisito anche il concorde parere del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, si chiarisce che nei casi in cui l’esercizio di una facoltà di legge (es. opzione per il regime sperimentale donna, totalizzazione, ricongiunzione o totalizzazione di periodi contributivi esteri) comporti il perfezionamento del diritto a pensione ad un momento antecedente all’esercizio della facoltà, ma consenta di ottenere la pensione solo con decorrenza successiva all’esercizio delle predette facoltà, è possibile fruire dell’indennità di disoccupazione ASpI e mini-ASpI e NASpI fino alla prima decorrenza utile successiva all’esercizio delle predette facoltà”.

RISORSE WEB

www.

www.inps.it

Circolare INPS n. 142 del 29.7.2015

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News

I nuovi coefficienti di trasformazione per il calcolo della pensione contributiva dal 2016

Con decreto del Ministero del Lavoro 22.6.2015 pubblicato in Gazzetta Ufficiale n. 154 del 6.7.2015 sono stati pubblicati i nuovi coefficienti di trasformazione per il calcolo delle pensioni col sistema contributivo, che avranno effetto dal 2016. Il calcolo, come è noto, può riguardare l’intera pensione ovvero le quote maturate dal 1996 (meno di 18 anni al 12/95) o dal 2012 (per tutti) in presenza di calcolo misto. Il sistema contributivo prevede la trasformazione del montate contributivo in pensione attraverso coefficienti collegati alle aspettative di vita, vigenti al momento del pensionamento. Ebbene i coefficienti da utilizzare a partire dal gennaio 2016, raffrontati con quelli precedenti, saranno i seguenti: Coefficienti di trasformazione 2013/ 2015 (2)

2016/ 2019

Età

1996/ 2009

2010/ 2012 (1)

57

4,720%

4,419%

-6,38%

4,304%

-2,60%

4,246%

-1,35%

58

4,860%

4,538%

-6,63%

4,416%

-2,69%

4,354%

-1,40%

59

5,006%

4,664%

-6,83%

4,535%

-2,77%

4,468%

-1,48%

60

5,163%

4,798%

-7,07%

4,661%

-2,86%

4,589%

-1,54%

61

5,334%

4,940%

-7,39%

4,796%

-2,91%

4,719%

-1,60%

62

5,514%

5,093%

-7,64%

4,940%

-3,00%

4,856%

-1,70%

63

5,706%

5,257%

-7,87%

5,094%

-3,10%

5,002%

-1,80%

64

5,911%

5,432%

-8,10%

5,259%

-3,18%

5,159%

-1,90%

65

6,136%

5,620%

-8,41%

5,435%

-3,29%

5,326%

-2,00%

66

5,624%

5,506%

-2,10%

67

5,826%

5,700%

-2,16%

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6,046%

5,910%

-2,24%

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6,283%

6,135%

-2,35%

70

6,541%

6,378%

-2,49%

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News (1) Tabella modificata dal comma 14, art.1 della Legge 24.12.2007 n. 247 (2) Tabella introdotta a seguito comma 12 quinquies, art. 12, D.L. n. 78 del 31.5.2010, con

l’aggancio agli incrementi dei requisiti connessi alle aspettative di vita e alla loro cadenza triennale. Considerando anche il diritto a pensione oltre i 65 anni.

ESEMPIO Differenze della pensione maturata con i coefficienti dei diversi periodi. Ipotizziamo un montante contributivo rivalutato di 250.000 € con pensionamento a 65 anni 1996/2009 = 250.000 x 6,136%/13 = 1.180€ 2010/2012 = 250.000 x 5,620%/13 = 1.080€ 2013/2015 = 250.000 x 5,435%/13 = 1.045€ 2016/2019 = 250.000 x 5,326%/13 = 1.024€

La nuova tabella valida dal 2016 avrà efficacia triennale mentre dal 2019 le nuove tabelle avranno efficacia biennale secondo l’ultima disposizione introdotta dalla normativa Monti-Fornero (D.L. 201/2011). è evidente un calcolo più penalizzante proprio perché il montante si distribuisce statisticamente su un arco di tempo maggiore. Le modiche biennali costituiscono un approdo molto diverso dalla Legge Dini (335/95) che prevedeva una revisione decennale, revisione che per altro è stata applicata solo dal 2010. Il risvolto positivo di queste scelte recenti consiste nell’evitare il formarsi di pensioni d’annata con importi molto differenziati tra un decennio e l’altro. Certo è che la longevità ha ora un doppio risvolto negativo nel calcolo della pensione: non solo nella revisione dei coefficienti di trasformazione ma anche nell’incremento dei requisiti per l’accesso alla pensione a tutti noto. è evidente come, chi ha lunghi periodi di calcolo contributivo ovvero montanti contributivi elevati, abbia vantaggio a chiedere la pensione con decorrenza 2015 (avendone ovviamente i requisiti e fatta salva ogni diversa considerazione).

RISORSE WEB www.gazzettaufficiale.it

Decreto Ministero del lavoro e delle politiche sociali 22.6.2015 Gazzetta Ufficiale n. 154 del 6.7.2015 Accedi all’elenco, 2015, luglio

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www.


p News

I NUOVI CONGEDI PARENTALI D.Lgs. n. 80 del 15.6.2015

Con l’approvazione e la pubblicazione del D.Lgs. 80 del 15.6.2015 recante misure per la conciliazione delle esigenze di cura, di vita e di lavoro in attuazione dei principi di delega enunciati nel c.d. Jobs Act1 il Governo ha operato un aggiornamento delle misure a sostegno della maternità e delle forme di conciliazione dei tempi di vita e di lavoro. La mini riforma, introdotta con il Decreto 80 a decorrere dal 25 giugno 2015 - giorno successivo alla sua pubblicazione in Gazzetta Ufficiale - nasce come un insieme di misure sperimentali limitate al solo anno 2015 la cui proroga per gli anni a seguire è stata condizionata dal Governo all’approvazione di successivi atti di legge che ne individuino le coperture finanziarie. Il D.Lgs. 148/2015, uno degli ultimi decreti attuativi del Job Act, riconosce a questo pacchetto di innovazioni una natura strutturale, prevedendo nelle “Disposizioni finanziarie” che gli interventi in materia di maternità e conciliazione introdotti dal Decreto 80 continuino per gli anni a seguire nel rispetto delle risorse economiche messe a copertura. Limitatamente al congedo parentale (cd. maternità facoltativa), l’Esecutivo ha innovato i termini entro cui poterne beneficiare, l’indennizzabilità e le modalità di fruizione, mantenendo invece intatta la parte di disciplina che riguarda la sua durata ed i limiti complessivi ed individuali entro i quali i genitori lavoratori dipendenti possono assentarsi dal lavoro a tale titolo. In base alla nuova normativa, entrata in vigore il 25 giugno scorso ed applicabile da questa data, i genitori lavoratori dipendenti possono astenersi dall’attività lavorativa fruendo del congedo parentale non più entro i primi 1 Legge n. 183 del 10 dicembre 2014

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News otto anni di vita del bambino, bensì nei primi dodici. In altri termini, viene prorogato di quattro anni l’arco temporale entro cui i genitori possono assentarsi dal lavoro fruendo del congedo sia esso indennizzabile o meno. Art.32, comma 1 del TU Maternità D.Lgs. 151/2001 Congedo Parentale Testo in vigore sino al 24 giugno 2015

Testo in vigore dal 25 giugno 2015

Per ogni bambino, nei primi suoi otto anni di vita, ciascun genitore ha diritto di astenersi dal lavoro secondo le modalità stabilite dal presente articolo…..

Per ogni bambino, nei primi suoi dodici anni di vita, ciascun genitore ha diritto di astenersi dal lavoro secondo le modalità stabilite dal presente articolo…..

La proroga trova applicazione anche per i casi di adozione, nazionale e internazionale, e di affidamento. Pertanto dal 25 giugno scorso il congedo parentale può essere fruito dai genitori adottivi ed affidatari, qualunque sia l’età del minore, entro i 12 anni (non più 8) dall’ingresso del minore in famiglia. Rimane fermo che il congedo non può essere fruito oltre il raggiungimento della maggiore età del minore2. Il Decreto lascia invariata la durata massima del congedo che, per i lavoratori dipendenti, ricordiamo essere di 6 mesi per la madre, usufruibili solo dopo che sia trascorso il periodo di congedo obbligatorio, e di 7 mesi per il padre, da poter richiedere già dalla nascita del figlio. La somma dei congedi concessi ai genitori non può in ogni caso eccedere i 10 mesi elevabili a 11 se il padre ne ha fruito per di più di 3 mesi (per arrivare a 11 mesi dovrà quindi aver beneficiato di almeno 5 mesi di congedo). L’Esecutivo ha, inoltre, mutato i limiti temporali di indenizzabilità del congedo: secondo il testo previgente, il congedo parentale era indennizzato al 30% della retribuzione - indipendentemente dalla condizioni reddituali del genitore richiedente - per un periodo massimo di 6 mesi (complessivi fra madre e padre) da fruire entro il terzo anno di vita del bambino. Il nuovo testo modifica questo termine ampliandolo al sesto anno di vita.

2 Art. 36 TU Maternità. Adozioni e Affidamenti

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News Art.34, comma 1 TU Maternità D.Lgs. 151/2001 Trattamento economico e normativo Testo in vigore sino al 24 giugno 2015

Testo in vigore dal 25 giugno 2015

1. Per i periodi di congedo parentale di cui all’articolo 32 alle lavoratrici e ai lavoratori è dovuta fino al terzo anno di vita del bambino, un’indennità pari al 30 per cento della retribuzione, per un periodo massimo complessivo tra i genitori di sei mesi.

1. Per i periodi di congedo parentale di cui all’articolo 32 alle lavoratrici e ai lavoratori è dovuta fino al sesto anno di vita del bambino, un’indennità pari al 30 per cento della retribuzione, per un periodo massimo complessivo tra i genitori di sei mesi.

3. Per i periodi di congedo parentale di cui all’articolo 32 ulteriori rispetto a quanto previsto ai commi 1 e 2 è dovuta un’indennità pari al 30 per cento della retribuzione, a condizione che il reddito individuale dell’interessato sia inferiore a 2,5 volte l’importo del trattamento minimo di pensione a carico dell’assicurazione generale obbligatoria

3. Per i periodi di congedo parentale di cui all’articolo 32 ulteriori rispetto a quanto previsto ai commi 1 e 2 è dovuta, fino all’ottavo anno di vita del bambino, un’indennità pari al 30 per cento della retribuzione, a condizione che il reddito individuale dell’interessato sia inferiore a 2,5 volte l’importo del trattamento minimo di pensione a carico dell’assicurazione generale obbligatoria.

Analogamente, per i casi di adozione, nazionale e internazionale3, l’indennità pari al 30% della retribuzione e dovuta per il periodo massimo di 6 mesi è riconosciuta per i periodi di congedo goduti entro i sei anni dall’ingresso del minore in famiglia (anche in questo caso ampliato rispetto ai 3 anni precedenti). A differenza della disciplina precedente - che prevedeva in ogni caso l’indennizzo al 30% per un periodo complessivo di 6 mesi di congedo parentale fruito fino ai 3 anni di vita del bambino oppure fino a tre anni dall’ingresso in famiglia del minore adottato o affidato - l’attuale disciplina comporta che anche i periodi di congedo fruiti tra il 3 ed il 6 anno - nel rispetto del limite massimo di 6 mesi - siano indennizzati a prescindere dal reddito del genitore richiedente.

ESEMPIO Genitore di un figlio che ha 5 anni, per il quale residuino ancora periodi di congedo parentale. Questi periodi residui, se fruiti successivamente al 25 giugno 2015 danno diritto all’indennità al 30% purché i periodi di congedo fruiti complessivamente da entrambi i genitori non superino i 6 mesi. Se la fruizione dei periodi supera i 6 mesi tra i genitori, il congedo è indennizzabile subordinatamente alle condizioni di reddito. 3 Art. 36 TU Maternità. Adozioni e Affidamenti

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News è di tutta evidenza che, se in precedenza, i genitori avevano un interesse a “consumare” i sei mesi indennizzati a prescindere dalla condizioni di reddito nell’arco di un triennio, oggi questi possono essere gestiti e dosati con più oculatezza nel periodo di tempo più lungo dei 6 anni. Per gli stessi motivi, la riforma del congedo parentale impone ai genitori di valutare con attenzione l’opportunità di avvalersi del bonus per l’acquisto dei servizi per l’infanzia introdotti con la Legge di Riforma del Mercato del Lavoro del 2012. Si tratta del contributo oggi pari a 600 euro mensili da utilizzare per massimo sei mesi negli undici successivi al congedo obbligatorio di maternità. Il legislatore ha, infatti, posto questa misura come alternativa al congedo parentale, motivo per cui la lavoratrice che decida di avvalersene si trova a dover rinunciare ai corrispondenti mesi di congedo. I periodi eccedenti i 6 mesi e goduti entro il sesto anno di vita, come pure quelli rientranti nei sei mesi ma goduti fra il sesto e l’ottavo anno di età del bambino (oppure tra i 6 e gli 8 anni dall’ingresso in famiglia del minore affidato o adottato), possono essere indennizzati solo se il genitore richiedente ha un reddito personale non superiore a 2,5 volte l’importo del trattamento minimo di pensione (6.531,07 euro per l’anno 2015).

ESEMPIO Il genitore di un figlio che ha 5 anni, per il quale l’altro genitore ha già fruito di 6 mesi di congedo parentale, può fruire dei periodi ulteriori (nel limite massimo di 10 o 11 mesi complessivi). Questi saranno indennizzati a condizione che il genitore richiedente rientri nelle condizioni personali di reddito. Il genitore di un figlio che ha 7 anni, per cui non è mai stato chiesto il congedo parentale, può fruire di tali periodi. Questi saranno indennizzati a condizione che il genitore richiedente rientri nelle condizioni personali di reddito.

Diversamente, secondo la nuova stesura dell’art. 34 comma 3, per i periodi di congedo usufruiti tra l’ottavo ed il dodicesimo anno di vita del bambino oppure dagli 8 ai 12 anni dall’ingresso in famiglia del minore adottato o affidato, non è prevista alcuna indennizzabilità.

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News ESEMPIO Genitore “solo” di un figlio che ha già 11 anni di vita, per il quale residuino ancora 10 mesi di congedo parentale. Il congedo è fruibile fino ai 12 anni di vita ma non è indennizzabile.

La modifica dei limiti temporali entro cui poter fruire del congedo parentale comporta una innovazione anche nella particolare misura di sostengo riservata ai lavoratori dipendenti che siano genitori di minori con handicap in situazione di gravità. La legge riconosce, infatti, a questi genitori la possibilità di richiedere il prolungamento del periodo di congedo parentale sino a 36 mesi complessivi, da fruire, in misura continuativa o frazionata, entro i primi 12 anni di vita del figlio. Anche questa misura è stata oggetto di modica per effetto del D.Lgs. 80/2015 che ha ampliato il termine entro cui usufruire del congedo portandolo dai primi 8 anni di vita agli attuali 12 anni. Art.33, comma 1 TU Maternità D.Lgs. 151/2001 Prolungamento del congedo Testo in vigore sino al 24 giugno 2015

Testo in vigore dal 25 giugno 2015

1. Per ogni minore con handicap in situazione di gravità accertata ai sensi dell’articolo 4, comma 1, della Legge 5 febbraio 1992, n. 104, la lavoratrice madre o, in alternativa, il lavoratore padre, hanno diritto, entro il compimento dell’ottavo anno di vita del bambino, al prolungamento del congedo parentale, fruibile in misura continuativa o frazionata, per un periodo massimo, comprensivo dei periodi di cui all’articolo 32, non superiore a tre anni, a condizione che il bambino non sia ricoverato a tempo pieno presso istituti specializzati, salvo che, in tal caso, sia richiesta dai sanitari la presenza del genitore.

1. Per ogni minore con handicap in situazione di gravità accertata ai sensi dell’articolo 4, comma 1, della Legge 5 febbraio 1992, n. 104, la lavoratrice madre o, in alternativa, il lavoratore padre, hanno diritto, entro il compimento del dodicesimo anno di vita del bambino, al prolungamento del congedo parentale, fruibile in misura continuativa o frazionata, per un periodo massimo, comprensivo dei periodi di cui all’articolo 32, non superiore a tre anni, a condizione che il bambino non sia ricoverato a tempo pieno presso istituti specializzati, salvo che, in tal caso, sia richiesta dai sanitari la presenza del genitore.

Per tutto il periodo di congedo parentale a sostegno del bambino portatore di handicap in situazione di gravità è riconosciuta una indennità economica pari al 30% della retribuzione, spettante indipendentemente dalle condizioni

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News reddituali e anche se il bambino è ricoverato a tempo pieno presso istituti specializzati, purché i sanitari richiedano la presenza del genitore. Schema di sintesi: Età/ ingresso del minore in famiglia

0 - 6 anni

6 - 8 anni

Periodo indennizzabile

Condizioni di indennizzabilità

Primi 6 mesi

30% a prescindere dalle condizioni di reddito

Oltre i 6 mesi (nel rispetto del limite complessivo tra i genitori)

30% se il reddito individuale del genitore interessato è inferiore a 2,5 volte TM

Primi 6 mesi

30% a prescindere dalle condizioni di reddito

Oltre i 6 mesi (nel rispetto del limite complessivo tra i genitori)

30% se il reddito individuale del genitore interessato è inferiore a 2,5 volte TM

8 - 12 anni

Nessuno indennizzo: è possibile solo astenersi dall’attività lavorativa, nel rispetto del limite complessivo dei periodi di congedo parentale.

Oltre 12 anni

Nessuna astensione dalla attività lavorativa e nessun indennizzo

Il D.Lgs. 80 è, inoltre, intervenuto sulle modalità di fruizione del congedo rendendo operativa per la generalità dei lavoratori la possibilità di un suo utilizzo su base oraria. Questa particolare modalità di fruizione non rappresenta una novità assoluta: queste è stata, infatti, introdotta nel nostro ordinamento dalla Legge n. 228 del 2012 che ne ha demandato la disciplina compiuta alla successiva contrattazione collettiva. Proprio il rimando alle parti sociali ha fatto sì che, di fronte al mancato o tardivo recepimento della misura, seguisse l’impossibilità per i neo genitori di poter usufruire del congedo parentale ad ore. L’Esecutivo, preso atto dell’empasse, è intervenuto affiancando alla contrattazione collettiva una disciplina di carattere residuale da applicarsi nell’ipotesi di sua mancata regolamentazione. La modalità di fruizione oraria del congedo parentale si aggiunge così a quella su base giornaliera e mensile senza modificare la disciplina dell’istituto che rimane comune per quanto riguarda i termini e le condizioni di indenniz-

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News zabilità, la durata ed i limiti complessivi ed individuali entro i quali i genitori lavoratori dipendenti possono assentarsi dal lavoro a tale titolo. In base alla nuova normativa, i genitori lavoratori dipendenti possono fruire del congedo parentale ad ore in misura pari alla metà dell’orario medio giornaliero del periodo di paga quadrisettimanale o mensile immediatamente precedente a quello nel corso del quale ha inizio il congedo. In altri termini, e diversamente a quanto lascerebbe intendere la denominazione della prestazione, l’assenza dal lavoro non potrà essere per singole ore, ma per una durata pari alla metà del’orario medio giornaliero rapportato alle quattro settimane (o un mese precedenti): la lavoratrice con 8 ore giornaliere potrà dunque assentarsi nella giornata lavorativa per 4 ore senza poter chiedere un periodo di durata diversa (1,2,3 ore). Poiché la durata del congedo su base oraria è rapportata alla meta dell’orario medio giornaliero, i giorni di congedo conteggiati saranno la metà dei giorni di calendario. In altri termini, la lavoratrice che usufruisce, ad esempio, del congedo parentale su base oraria per 10 giornate lavorative, ai fini del contatore, si avvale di 5 giorni di congedo parentale. Si segnala agli operatori di Patronato che l’INPS nelle istruzioni a corredo della procedura telematica di invio riporta la seguente indicazioni: il/la richiedente nella domanda dovrà: - specificare il numero di giorni di congedo parentale da fruire ad ore; esempio: voglio fruire di ore di congedo parentale nelle seguenti 4 giornate: 20, 22, 24 e 28 luglio 2015, per un totale di 2 giorni di congedo parentale. Nella domanda devo indicare n. 2 giorni di congedo parentale; non va invece indicato il numero delle giornate di calendario (nell’esempio 4 giornate) in cui si verifica l’assenza oraria. - indicare il periodo entro il quale intende fruire del congedo parentale frazionato ad ore; nell’esempio quindi il periodo da indicare è dal 20 al 28 luglio 2015. Per ogni mese solare occorre presentare apposita domanda; quindi se si vuole fruire di congedo parentale orario in due mesi, esempio nel mese di luglio e nel mese di agosto, è necessario presentare una domanda per luglio ed una per agosto.

La riforma prevede che il congedo parentale su base oraria non sia cumulabile con altri permessi o riposi legati alla maternità, ad esempio i riposi per allattamento, e che la normativa non sia applicabile al personale del comparto sicurezza e difesa e a quello dei vigili del fuoco e soccorso pubblico.

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News Con la circolare n. 152 l’INPS ha precisato che i genitori lavoratori dipendenti potranno fruire del congedo parentale nelle diverse modalità loro consentite anche alternando giornate o mesi di congedo parentale con giornate lavorative in cui il congedo parentale è fruito in modalità oraria. Nella stessa circolare l’Istituto ha inoltre comunicato di aver reso disponibili le procedure online per l’invio delle domande chiarendo che, nella fase transitoria, la richiesta all’Istituto dovrà essere presentata avvalendosi di una procedura specifica diversa dalla quella in uso per le richieste di congedo parentale giornaliero o mensile. Per tale motivo, se in un determinato arco di tempo, il genitore intende fruire del congedo parentale in modalità giornaliera e/o mensile ed in modalità oraria, dovrà utilizzare le due diverse procedure di invio on line. Da ultimo, il legislatore ha modificato il termine minimo entro cui il genitore è tenuto ad avvisare il datore di lavoro: non più 15 giorni, ma 5 giorni, ridotti a 2 in caso di fruizione del congedo su base oraria, salvo diversa disciplina prevista dal contratto collettivo di riferimento.

RISORSE WEB

www.

www.normattiva.it D.Lgs. n. 80 del 15.06.2015 “Misure per la conciliazione delle esigenze di cura, di vita e di lavoro, in attuazione dell’articolo 1, commi 8 e 9, della Legge 10 dicembre 2014, n. 183.”

www.inps.it Messaggio n. 4576 del 6 luglio 2015 “Congedo parentale. Elevazione dei limiti temporali di fruibilità del congedo parentale da 8 a 12 anni ed elevazione dei limiti temporali di indennizzo a prescindere dalla condizioni di reddito da 3 a 6 anni. Modalità di presentazione della domanda nel periodo transitorio.” Circolare n. 139 del 17 luglio 2015 “D.Lgs. n. 80 del 15 giugno 2015 in attuazione dell’art. 1, commi 8 e 9 della Legge delega n. 183 del 2014 (Jobs Act). Congedo parentale. Elevazione dei limiti temporali di fruibilità del congedo parentale da 8 a 12 anni ed elevazione dei limiti temporali di indennizzo a prescindere dalle condizioni di reddito da 3 a 6 anni.” Circolare n, 152 del 18 agosto 2015 “D.Lgs. n. 80 del 15 giugno 2015 in attuazione dell’art. 1, commi 8 e 9 della Legge delega n. 183 del 2014 (Jobs Act). Fruizione del congedo parentale in modalità oraria.” L’INPS comunica, ultime circolari.

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News

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Disciplina dei contratti di lavoro D.Lgs. n. 81 del 15.6.2015

Il 25 giugno scorso è entrato in vigore il D.Lgs. 81/2015, attuativo dell’articolo 1 comma 7 della Legge 183/2014, il cosiddetto Jobs Act. Intorno a questo decreto si erano create molte aspettative, in quanto esso doveva rappresentare, ed in effetti rappresenta, uno dei capisaldi dell’intera riforma del mercato del lavoro. In particolare, mettendo insieme da un lato le disposizioni contenute nel decreto 23/2015 che ha introdotto il contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti (vedi Bloc Notes 3/2015), modificando l’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori e dall’altro le norme contenute nel decreto 81, il legislatore ha disegnato un nuovo quadro normativo in materia di contratti di lavoro. Il decreto 81 rappresenta ora una sorta di testo unico dei contratti di lavoro: con esso infatti vengono abrogate tutta una serie di norme, alcune delle quali molto importanti, e si accorpano in un unico testo le principali regole riguardanti il lavoro a tempo parziale, il lavoro a termine, l’apprendistato (che erano fino ad ora regolamentati da normative specifiche), con quelle riguardanti le principali tipologie di contratti di lavoro di tipo subordinato. Il decreto 81 passa in rassegna le seguenti tipologie contrattuali: il lavoro a tempo parziale, il contratto di lavoro a chiamata, il lavoro a termine, la somministrazione di lavoro, l’apprendistato, il lavoro accessorio, le collaborazioni; vengono contestualmente abrogati l’associazione in partecipazione con apporto di lavoro ed il lavoro ripartito. Lo stesso decreto inoltre va a modificare l’articolo 2103 del Codice Civile, che disciplina le mansioni del lavoratore ed in particolare il mutamento delle stesse e la possibilità per il datore di lavoro di assegnare il lavoratore a mansioni corrispondenti a un livello di inquadramento inferiore.

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News Il lavoro a tempo parziale Gli articoli dal 4 al 12 del D.Lgs. 81/2015 ridisegnano il lavoro a part - time, apportando alcune modifiche alla normativa previgente. Contestualmente viene abolito il D.Lgs. 61 del 2000, che lo disciplinava fino ad ora. In particolare: • viene confermata la richiesta della forma scritta ai fini della prova e l’obbligo di indicazione nella lettera d’assunzione della collocazione temporale della prestazione lavorativa: in sostanza deve essere determinata la distribuzione dell’orario di lavoro in relazione ai giorni della settimana, o ai mesi; viene abolita la distinzione fra part - time verticale ed orizzontale; • è prevista la possibilità per il datore di lavoro di richiedere prestazioni di lavoro supplementare, dunque superiori all’orario contrattuale. Se il lavoro supplementare non è regolato dal contratto collettivo, esso non può essere di ammontare superiore al 25% dell’orario di lavoro concordato. Dette prestazioni vanno retribuite con una maggiorazione del 15%. In ogni caso il lavoratore, a fronte di documentate esigenze familiari o di salute può rifiutare di svolgere le ore supplementari; • viene abolita la distinzione fra clausole elastiche e flessibili, che consentono al datore di lavoro di variare la collocazione temporale della prestazione lavorativa: si parla ora solamente di clausole elastiche, che vengono normate secondo quanto previsto dalla riforma Fornero e viene conferito al lavoratore, a fronte di particolari esigenze, il potere di revocare il consenso già prestato a tali clausole; • viene esteso il diritto di trasformazione del rapporto di lavoro da tempo pieno a tempo parziale per determinate categorie di lavoratori. Ora tale diritto spetta ai malati oncologici, alle persone affette da gravi patologie degenerative ingravescenti, ai malati destinati a seguire delle terapie “salva vita”. I lavoratori appartenenti a queste categorie hanno diritto, una volta che ne facciano richiesta, di trasformare il proprio rapporto di lavoro nuovamente a tempo pieno; • è inoltre previsto un diritto di precedenza nella trasformazione dei rapporti da tempo pieno a tempo parziale per i lavoratori familiari di malati affetti da patologie oncologiche o cronico degenerative; • una novità viene inserita per quanto riguarda i congedi parentali: il lavoratore infatti, per una sola volta, ha la facoltà di scegliere, in luogo del congedo parentale, di trasformare il suo rapporto da tempo pieno a tempo parziale per un periodo corrispondente alla fruizione del congedo. A differenza di quanto accadeva prima, dunque, il congedo può essere fruito anche su base oraria; • gli assegni al nucleo familiare spettano ai lavoratori a tempo parziale per l’intera misura settimanale, a condizione che la prestazione lavorativa sia pari almeno a ventiquattro ore settimanali.

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News Lavoro intermittente La regolamentazione del lavoro intermittente (detto anche a chiamata) è disciplinata dagli articoli dal 13 al 18 del decreto 81 e rimane invariata rispetto a quanto in vigore fino al 2015 attraverso gli articoli dal 33 al 40 del D.Lgs. 276/2003 (Legge Biagi), ora integralmente abrogati. Si tratta di una forma particolare di lavoro subordinato, caratterizzata da prestazioni lavorative discontinue. Con il lavoro intermittente in sostanza, un lavoratore si rende disponibile a svolgere una determinata attività nei confronti di un datore di lavoro, che deciderà quando utilizzare la prestazione nei limiti e secondo alcune condizioni fissate dalla legge. La retribuzione viene corrisposta dal datore di lavoro per le prestazioni effettivamente prestate, a meno che il lavoratore non si vincoli anticipatamente a rispondere a qualsiasi chiamata del datore di lavoro. Il lavoro a chiamata è destinato a persone con meno di 24 anni di età o con più di 55 appartenenti a tutti i settori, oppure, indipendentemente dall’età, a particolari tipi di lavoro definiti discontinui ai sensi del Regio Decreto 2657/1923. Il lavoro a chiamata è ammesso per ciascun lavoratore e con il medesimo datore di lavoro per un periodo complessivamente non superiore alle 400 giornate nell’arco di tre anni solari, ad eccezione dei settori del turismo, dei pubblici esercizi e dello spettacolo. Nel caso in cui sia superato questo periodo, il rapporto di lavoro intermittente si trasforma in un rapporto a tempo pieno e indeterminato.

Lavoro a tempo determinato Il lavoro a tempo determinato era regolato fino all’entrata in vigore del decreto 81 dal D.Lgs. 368 del 2001, che era stato già profondamente modificato sia nel corso del 2012 dalla riforma Fornero, sia nel corso del 2014 con l’abolizione delle causali necessarie per poter sottoscrivere un contratto a termine. Ora il D.Lgs. 368/2001 viene completamente abrogato ed il lavoro a tempo determinato viene disciplinato dagli articoli che vanno dal 19 al 29 del decreto in trattazione. Le principali caratteristiche del lavoro a tempo determinato, dopo le profonde modifiche apportate alla normativa nel corso degli ultimi 2 anni, sono le seguenti: • Il limite massimo per un contratto a termine è di 36 mesi (comprensivi dei periodi lavorati in somministrazione) con lo stesso datore di lavoro e per lo svolgimento di mansioni di pari livello, indipendentemente dai periodi di interruzione fra un contratto e l’altro. Il limite di 36 mesi può essere superato per un massimo di 12 mesi unicamente da un contratto stipulato presso la Direzione Territoriale del Lavoro.

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News • • • • • •

è vietata la stipula di un contratto a termine per sostituire lavoratori in sciopero, o lavoratori sospesi, o in aziende nelle quali siano stati fatti dei licenziamenti collettivi di lavoratori adibiti alle stesse mansioni, nei sei mesi precedenti; il termine del contratto può essere prorogato (senza soluzione di continuità), indipendentemente dal numero di contratti, per un massimo di 5 volte nell’arco di 36 mesi; per poter rinnovare un contratto a termine dopo la sua scadenza (stipulare un nuovo contratto) deve trascorrere un intervallo minimo di 10 o 20 giorni, a seconda che la durata iniziale del contratto sia inferiore o superiore a 6 mesi; nel caso di prosecuzione del rapporto di lavoro oltre il trentesimo giorno (cinquantesimo nel caso di rapporti superiori a sei mesi) il contratto si trasforma a tempo indeterminato; il numero massimo di contratti a termine stipulabili da parte di un’azienda (fatta eccezione per alcune deroghe) non può essere superiore al 20% del totale dei lavoratori a tempo indeterminato. In caso di superamento di detti limiti, è prevista per il datore di lavoro una sanzione di tipo pecuniario; è previsto un diritto di precedenza nelle assunzioni a tempo indeterminato per i lavoratori che abbiano prestato attività a termine per almeno sei mesi nella medesima azienda. Tale diritto di precedenza ha una durata di 12 mesi dalla fine del rapporto a tempo determinato e il lavoratore che intende far valere la priorità deve manifestare per iscritto la propria volontà in tal senso; per quanto riguarda l’impugnazione di un contratto a termine, il lavoratore ha tempo 120 giorni dalla cessazione del contratto stesso.

Somministrazione di lavoro Si parla di somministrazione di lavoro a tempo determinato o indeterminato quando un’agenzia di somministrazione mette a disposizione di un utilizzatore un proprio dipendente, che per tutta la durata della missione, svolge la propria attività sotto la direzione dell’utilizzatore e lavorando con l‘applicazione del ccnl previsto dall’utilizzatore. Il contratto di somministrazione si è molto sviluppato negli anni con le agenzie interinali e più volte il legislatore è intervenuto nella materia. Fino al 2015 il lavoro in somministrazione era regolato dagli articoli dal 20 al 28 del D.Lgs. 276/03 (noto come Legge Biagi), che ora sono stati completamente abrogati; il D.Lgs. 81/2015 dedica al lavoro in somministrazione gli articoli che vanno dal 30 al 40. Le principali novità introdotte riguardano l’eliminazione delle causali che consentono la stipula di un contratto di somministrazione a tempo indeterminato (staff leasing) e l’introduzione di un limite del 20% di lavoratori utilizzabili con tale tipologia contrattuale presso l’utilizzatore.

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News Apprendistato L’apprendistato nel corso degli ultimi decenni è stato più volte definito dai governi che si sono succeduti come “la porta d’ingresso principale nel mercato del lavoro”. Nei fatti però, i numeri dei contratti di apprendistato stipulati rappresentano una realtà diversa da quella auspicata e l’istituto non ha mai preso realmente piede per quello che si voleva che fosse. A livello normativo inoltre, la situazione è stata sempre piuttosto complessa e talvolta disarticolata, fino a quando il legislatore ha redatto nel 2011 il D.Lgs. 167, ovvero il testo unico che doveva regolare tutta la materia. Già l’anno seguente la riforma Fornero è intervenuta su quel testo, così come ha fatto il governo Renzi, a meno di un mese dalla sua nascita, con il Decreto Legge 34/2014. Ora, a distanza di soli 4 anni dalla sua nascita, il testo unico dell’apprendistato viene completamente abrogato e riscritto, con parecchie novità rispetto alla sua formulazione originaria, dagli articoli 41-47 del D.Lgs. 81. L’intento dichiarato dal legislatore è sempre il medesimo, ovvero fare di questa tipologia contrattuale lo strumento principale di ingresso nel mercato del lavoro per i giovani, affiancando al lavoro in azienda, una dimensione formativa importante (si parla di contratto a causa mista); a dire il vero, nel corso del 2014 erano stati eliminati alcuni dei baluardi della dimensione formativa dell’istituto, come l’obbligo di frequenza dei corsi di formazione presso la scuola pubblica (rendendo tale partecipazione facoltativa e scelta dal datore di lavoro), e il libretto formativo, che ora sono stati reinseriti, anche in seguito ad una denuncia alla Commissione Europea presentata dall’Associazione Nazionale Giuristi Democratici. L’apprendistato è diviso in tre tipologie, ciascuna con delle norme specifiche: • apprendistato per la qualifica e il diploma professionale, il diploma di istruzione secondaria superiore e il certificato di specializzazione tecnica superiore (15 - 25 anni); • apprendistato professionalizzante (18 - 29 anni); • apprendistato di alta formazione e ricerca (18 - 29 anni). Dal punto di vista generale, ai sensi del D.Lgs. 81, l’istituto presenta le seguenti caratteristiche: • ha una durata compresa fra 6 mesi e 3 anni (a seconda delle tipologie e dei settori produttivi); • prevede la predisposizione per l’apprendista di un piano formativo ed un minimo di ore annue di formazione obbligatoria da erogare a carico dell’azienda o dell’istituzione pubblica; • è un contratto a tempo indeterminato, con la possibilità di recesso al termine del periodo di apprendistato;

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prevede la possibilità di inquadrare il lavoratore fino a due livelli inferiori rispetto a quello spettante in applicazione del contratto collettivo nazionale di lavoro ai lavoratori addetti a mansioni che richiedono qualificazioni corrispondenti a quelle al cui conseguimento è finalizzato il contratto; agli apprendisti si applicano le norme generali sulla previdenza e assistenza sociale obbligatoria e pertanto assicurazione contro gli infortuni, assicurazione contro le malattie, assicurazione contro l’invalidità e vecchiaia, maternità, assegno familiare, assicurazione sociale per l’impiego; sono fissati dei limiti massimi in merito all’assunzione di apprendisti per un datore di lavoro, in rapporto al numero complessivo dei dipendenti; è inoltre previsto un limite all’assunzione di nuovi apprendisti in relazione alla prosecuzione a tempo indeterminato degli apprendisti precedentemente assunti; viene prevista (novità assoluta del presente decreto) la possibilità di assunzione con contratto di apprendistato, senza limiti di età, di lavoratori disoccupati percettori di una indennità di disoccupazione. Tale possibilità si affianca a quella già esistente, di assumere alle medesime condizioni, lavoratori in mobilità.

Lavoro accessorio Il lavoro occasionale di tipo accessorio, col sistema dei voucher, ha fatto la comparsa nel nostro ordinamento nel 2003, con il D.Lgs. 276, attuativo della Legge 30, conosciuta come legge Biagi. Questa tipologia di lavoro aveva l’obiettivo, secondo il legislatore, di ridurre il lavoro nero creando uno strumento di facile utilizzo e privo di particolari vincoli burocratici, al fine di invogliare alcune particolari tipologie di datori di lavoro, a regolarizzare dei rapporti di lavoro che solitamente venivano svolti in nero da soggetti che avevano difficoltà ad entrare nel mondo del lavoro o che ne erano a forte rischio di esclusione. Gli articoli del D.Lgs. 276 che regolamentavano il lavoro accessorio sono stati più volte modificati, a partire dal 2005 e i numerosi provvedimenti che si sono succeduti in questi 12 anni hanno di fatto stravolto la natura dell’istituto, che è passato dall’essere “residuale e riservato a particolari tipologie di lavoratori e di lavori”, all’essere “universale”. Ciò nonostante, le polemiche e le critiche all’istituto sono state continue, in quanto in molti casi il lavoro accessorio ha continuato a mascherare forme di lavoro dipendente da un lato, e ad offrire compensi spesso molto bassi, non essendo fissato il valore orario della prestazione. Il singolo voucher del valore di 10 euro, infatti, non aveva fino al 2012 un riferimento alla durata della prestazione. Ora il decreto 81/2015 abroga completamente gli articoli 70-73 del D.Lgs. 276/2003 e disciplina l’istituto con tre articoli, il 48, il 49 ed il 50.

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News L’attuale normativa dunque permette a tutti (compresi gli enti pubblici) di essere committenti e a tutti di essere prestatori (disoccupati, inoccupati, lavoratori autonomi, subordinati, a tempo pieno o parziale, studenti, percettori di prestazioni a sostegno del reddito), nel rispetto di alcuni vincoli: il compenso massimo da lavoro accessorio percepibile da un singolo datore di lavoro non può superare i 2.020 euro netti (corrispondenti a 2.693 euro lordi); inoltre, il compenso complessivo percepito dal singolo lavoratore da parte della totalità dei committenti nell’arco di un anno civile non deve superare i 7000 euro netti (9.333 lordi); Per quanto riguarda i percettori di prestazioni a sostegno del reddito o integrative del salario (disoccupati, cassa integrati, ecc.), è prevista la possibilità di effettuare prestazioni di lavoro accessorio in tutti i settori produttivi, compresi gli enti locali, nel limite di 3.000 euro complessivi (4000 lordi) nell’anno civile. Detto limite si intende riferito al singolo prestatore e non al compenso erogato da ciascun committente. Il pagamento viene fatto attraverso i voucher, con i quali il committente retribuisce e contemporaneamente assolve all’obbligo contributivo nei confronti di INPS ed INAIL. Ciascun voucher ha il valore di 10 euro. Per un’ora di lavoro può essere corrisposto al lavoratore uno o più voucher. Al valore nominale di € 10, devono essere sottratti 2 euro che corrispondono ai contributi, più un importo per le spese di gestione pari ad un importo che verrà fissato con decreto dal Ministero del lavoro. Il compenso è esente da qualsiasi imposizione fiscale e non incide sullo stato di disoccupato o inoccupato del lavoratore accessorio.

Superamento del contratto a progetto L’articolo 52 del decreto 81 abroga completamente le disposizioni contenute dagli articoli dal 61 al 69 bis del D.Lgs. 276/2003, ovvero tutta la normativa riguardante il lavoro a progetto. Tale provvedimento mette fine a 12 anni in cui questa tipologia contrattuale si è sviluppata a livelli numerici elevatissimi, in moltissimi casi ha mascherato rapporti di lavoro dipendente, è stata oggetto di numerose rivisitazioni normative, di centinaia di cause di lavoro, di battaglie politiche e sindacali, di prese di posizione a favore o contro. Di fatto l’articolo 52 del decreto 81 sancisce il fallimento del lavoro a progetto. Questo non significa che in Italia non possano più essere stipulati dei contratti di collaborazione coordinata e continuativa, disciplinati ai sensi dell’articolo 409 del Codice di procedura civile. L’argomento, vista la sua complessità, verrà approfondito in un prossimo numero.

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News Superamento dell’associazione in partecipazione con apporto di lavoro L’articolo 53 del decreto 81 va a modificare l’articolo 2549 del Codice Civile, eliminando la possibilità di stipulare dei contratti di associazione in partecipazione con apporto di lavoro. Alla luce di questo dunque, possiamo intendere ora l’associazione in partecipazione come “un contratto nel quale una persona (l’associante) attribuisce ad un’altra persona o soggetto giuridico (l’associato) una partecipazione agli utili della sua impresa o di uno o più affari verso il corrispettivo di un determinato apporto che non può essere lavorativo”. In seguito a questa novità normativa pertanto, l’associazione in partecipazione esce definitivamente dall’alveo dei contratti di lavoro.

Disciplina delle mansioni Come detto in introduzione, un’importante modifica ad uno dei capisaldi del diritto del lavoro è stata fatta dall’articolo 3 del decreto 81: con esso viene riscritto l’articolo 2103 del Codice Civile, introducendo nel nostro ordinamento la possibilità, in occasione di particolari circostanze, di demansionare un lavoratore. L’attuale novella dell’articolo recita così: “in caso di modifica degli assetti organizzativi aziendali che incide sulla posizione del lavoratore, lo stesso può essere assegnato a mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore purché rientranti nella medesima categoria legale. Il mutamento di mansioni è comunicato per iscritto, a pena di nullità, e il lavoratore ha diritto alla conservazione del livello di inquadramento e del trattamento retributivo in godimento, fatta eccezione per gli elementi retributivi collegati a particolari modalità di svolgimento della precedente prestazione lavorativa”. Quest’ultimo, come molte altre cui abbiamo accennato, è un importante cambiamento normativo, la cui approvazione è stata accompagnata da polemiche e contrapposizioni a livello politico e sindacale. In più di un’occasione i pareri (consultivi e non vincolanti) delle commissioni Lavoro di Camera e Senato avevano proposto delle modiche al testo del presente decreto ed in diversi casi le proposte non sono state accolte al Governo. Le polemiche probabilmente sono destinate a proseguire, come è inevitabile quando vengono modificate, in maniera anche profonda, e nell’arco di soli sei mesi, normative sulle quali per decenni ci sono stati confronti, dibattiti e contrapposizioni anche molto forti.

RISORSE WEB www.normattiva.it D.Lgs. n. 81 del 15.6.2015

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