Cantico dei cantici

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n. majel – cantico dei cantici

CANTICO DEI CANTICI


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ANNALISA DELL’OMO BIANCHI

Lettura e commento del

CANTICO DEI CANTICI

Corso Biblico 2009-2010 presso la Domus Alexandrina S. Alessandro in Colonna Bergamo

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INTRODUZIONE

“Non c’è nulla di più bello del Cantico dei Cantici” ha affermato lo scrittore austriaco del ‘900 Robert Musil. Queste parole testimoniano l’ammirazione incondizionata che da sempre incontra questo libretto biblico di soli 117 versetti. Esso ha meritato appunto il titolo ebraico di “Cantico dei cantici”, un modo semitico per esprimere il superlativo: il “Cantico” per eccellenza, il “canto sublime” dell’amore e della vita. Il massimo teologo protestante del XX secolo Karl Barth non ha esitato a definire questo poemetto “La Magna Charta dell’umanità”. Eppure questa “Charta” del nostro essere uomini capaci di amare, di godere, di piangere non è stata sempre letta in modo uniforme, perché le sue letture e le sue interpretazioni sono state varie e molteplici sin dai tempi più antichi fino a quelli moderni. Esegeti, scrittori, critici, psicanalisti, poeti e mistici hanno cercato di affrontare il testo per svelarne il mistero. Tutte le perplessità ad accettare il Cantico come testo ispirato si sono basate sul fatto che il suo contenuto lascia trasparire un intenso erotismo e che si parla dell’amore sessuale umano proclamandone la legittimità ed esaltandone il valore. E’ un libro interamente dedicato all’amore di due giovani che con semplicità, naturalezza e calore esprimono la loro passione amorosa e la loro intimità. Il libro è una grande visione e una vera e lunga lezione sull’amore, che non deve ignorare la sessualità, l’eros. Sesso, eros e amore nel Cantico sono annodati in un’unica continua esperienza. Proprio per questa sua dimensione erotico-sessuale e per il fatto che non vi si parla mai di Dio la canonicità del Cantico è stata oggetto di discussione finchè un grande e

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venerato maestro rabbinico RABBÎ AQIBÀH (morto martire, fatto a pezzi dai Romani, nel 135 d.C.) ha pronunciato una frase che è la migliore presentazione del Cantico: “Nessuno in Israele ha mai dubitato che il Cantico dei Cantici possa sporcare le mani … Tutto il mondo non vale quanto il giorno nel quale è stato dato al popolo di Israele il Cantico. Tutti gli scritti sono santi, ma il Cantico dei Cantici è il santo dei santi”. E’ evidente che Rabbî Aqibàh era consapevole della “qualità sacramentale” iscritta nel Cantico: la sessualità è segno di una realtà che la trascende, quella dell’amore di Dio, sposo geloso e amante appassionato del suo popolo. Un secolo dopo, uno dei massimi esponenti dell’esegesi cristiana del III secolo, ORIGENE, gli faceva eco, iniziando così le sue omelie sul Cantico : ”Beato chi comprende e canta i cantici delle sacre scritture. Ma ben più beato chi canta e comprende il Cantico dei Cantici”. Così il testo è stato accolto nel canone ebraico e successivamente in quello cristiano. Nella Bibbia ebraica il Cantico fa parte dei cinque Rotoli (Meghillot) letti nelle sinagoghe durante le grandi celebrazioni dell’anno liturgico: “Cantico” nella festa di Pasqua, “Ruth” a Pentecoste, “Lamentazioni” per commemorare la caduta di Gerusalemme, “Qohelet” durante la festa delle Capanne, “Ester” per celebrare la festa di Purim. Il Cantico è legato all’Esodo e letto nella festa di Pasqua, perché nella vicenda Pasquale il Signore ha manifestato il suo grande amore, liberando il popolo dalla schiavitù. Solo il linguaggio appassionato dell’amore è in grado di celebrare il senso profondo della Pasqua. Il Cantico raccoglie il gioioso dialogo di due persone che si amano, che si chiamano per trentun volte dodî, “amato mio”, un vezzeggiativo simile a quei nomignoli che gli innamorati coniano segretamente per chiamarsi.

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Per comprendere il senso fondamentale di questo libro meraviglioso in cui Dio parla il linguaggio degli innamorati è necessario usare la chiave nuziale. Il Cantico parla infatti di un amore sponsale, non del libero amore tra due giovani, e gli sposi esprimono tutta la freschezza e l’intensità di una relazione che essi stanno vivendo e sperimentando attraverso l’eterno miracolo dell’amore. E’ una relazione intima e personale, costruita sui pronomi personali e sui possessivi di prima e seconda persona io/tu, mio/tuo, noi/nostro. E la sigla spirituale del Cantico è in quella folgorante esclamazione della sposa: “il mio amato è mio e io sono sua” (Cantico 2,16) che esprime perfettamente la donazione totale dell’amore e la più profonda comunione interpersonale. Questa perfetta intimità passa attraverso tre gradi. 1° - Conosce la sessualità che, come si dice nella Genesi (1,31), è molto buona (bella), cioè creata da Dio e adatta all’uomo. Dio ha creato l’uomo e la donna per favorire la loro unione. Ma la sessualità da sola è cieca, fisica, animale. 2° - L’uomo può salire ad un grado superiore intuendo nel sesso l’eros cioè il fascino della bellezza, l’estetica del corpo, l’armonia della creatura. Ma con l’eros i due esseri restano ancora un po’ “oggetto”, esterni uno all’altro. Sesso ed eros da soli possono generare il “desiderio” e la “seduzione” smembrando però la persona desiderata e rendendo i due amanti bramosi solo di quegli aspetti che appagano. Si può prendere il corpo e dimenticare l’anima; cercare il piacere senza la gioia, il sesso senza la tenerezza, l’emozione erotica senza l’affetto; sognare un abbraccio solo per spremere sensazioni violente dove la persona scompare. 3° - E’ solo con la terza tappa, quella dell’amore (agape) che scatta la comunione piena, che illumina e trasfigura la sessualità e l’eros. E’ solo con l’amore che la persona desiderata appare in tutta la sua bellezza esteriore ed

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interiore. Ed è solo l’uomo, tra tutti gli esseri viventi, che può percorrere tutte e tre queste tappe giungendo alla perfezione dell’intimità, del dialogo, della donazione d’amore totale. L’atto sessuale quando scatta tra due persone innamorate diventa una grande parabola completa dell’amore. Il Cantico è quindi prima di tutto la celebrazione dell’amore che sa raggiungere la perfezione nell’intimità. In questo amore il poeta biblico intravede quasi un seme dell’amore eterno e perfetto con cui Dio ama la sua creatura. Perciò il primo piano di lettura che dobbiamo adottare per percorrere questo incantevole poemetto è quello della celebrazione dell’amore umano che ha come fine il matrimonio, naturalmente con tutti i colori e i simboli dell’oriente. Infatti l’autore intende riflettere sull’unione monogamica e indissolubile della coppia, recuperandone l’ideale secondo il piano divino e canta la relazione sessuale proprio perché essa venga vissuta e compresa nel significato autentico che le ha dato il Dio creatore. In Genesi 2 Dio ha benedetto il matrimonio inteso più come legame affettivo e stabile dell’uomo e della donna che come mezzo di procreazione, e ha voluto la sessualità come strumento e vertice della comunione tra gli sposi. Nel Cantico si celebrano le nozze monogamiche (in una società generalmente propensa alla poligamia e al concubinato), ma anche le nozze libere, frutto di un amore che non tollera costrizioni esterne, e si rivendica la piena libertà nella scelta del partner (Ct 1,6 – 8,10) (e anche qui dobbiamo pensare ad una società in cui il matrimonio era combinato dalle famiglie e lo sposo pagava una dote, il mohar, al padre della sposa). Il cuore del poema è infatti l’amore nella sua donazione e nella reciproca appartenenza dei due innamorati, un amore legato unicamente alla libera scelta

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di cuore dei due innamorati, un amore puro e naturale per una sola persona, un amore che ha per fine il matrimonio. Per Lei esiste solo Lui, per Lui solo Lei. Per la ragazza Lui è “unico” e “inconfondibile” (Ct 2,3) e, cosa ancora più sorprendente, per il giovane Lei è “unica”. In due canti specifici è evidente che Lei è la sposa e Lui lo sposo: infatti nel Cantico la ragazza è chiamata dall’innamorato per sei volte kallah (4,8-12;5,1) tradotto con “sposa”, ma propriamente alla lettera è “fidanzata” - finchè dimora nella casa del padre, ma giuridicamente già sposa a tutti gli effetti, perché il patto nuziale è già stato concluso davanti a testimoni. Il giovane è chiamato dall’amata per 31 volte dodî, “amato mio”, “amore mio”. Anche l’unione sessuale è una libera donazione reciproca. Nessuno dei due partner commette pressione o imposizione brutale sull’altro. L’amato e l’amata si desiderano e questa è l’essenza dell’amore. E’ un desiderio esclusivo che neutralizza in partenza l’adulterio. C’è una frase nel Cantico, uno dei vertici del messaggio dell’autore, che vede l’istinto sessuale come una realtà positiva. E’ la donna che senza nessun imbarazzo evoca il desiderio del suo uomo: “Io sono per il mio diletto e la sua brama è verso di me” (Ct 7,11). Questa frase ci riporta inevitabilmente al testo di Genesi 3, 16, quando Dio pronuncia queste parole: “Verso tuo marito sarà la tua brama, ma egli ti dominerà”. Per l’autore questo desiderio sessuale appare qualcosa di donato da Dio e se si confronta Cantico 7,11 con Genesi 3,16 si vede che, mentre in Genesi l’impulso della donna verso l’uomo a causa del peccato acquista un connotato negativo e diventa solo desiderio brutale, cieco, possesso dell’uomo verso la donna, nel Cantico la consapevolezza di essere così ardentemente desiderata dallo sposo serve ad aumentare il piacere e la gioia di donarsi. Ed è passione reciproca , mutua donazione dei corpi,

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esperienza paritaria del possesso totale, che è propria dell’amore sponsale. Nel Cantico questo amore sponsale è cantato sotto diverse prospettive, in particolare il desiderio ardente prima dell’unione, la passione inebriante, la gioia dell’unione che coinvolge la globalità dei due amanti. Viene celebrato un amore insaziabile, capace di superare ogni ostacolo, un amore reale, sensuale, carico di eros, ma senza mai la pur minima sbavatura pornografica. Anche tutte le invocazioni d’amore tra i due amanti sono appelli ai liberi sentimenti di Lui e di Lei e vogliono solo allargare lo spazio alla libera risposta d’amore. E’ importante che questo libro si trovi nella Bibbia e resti per tutti i cristiani “parola di Dio”, perché il messaggio che contiene vuole restituire agli uomini la gioia dell’amore coniugale in tutte le sue manifestazioni, perché esso è dono del Dio creatore, voluto da Lui stesso (primo capitolo di Genesi: Dio ha creato l’uomo e la donna perché fossero uniti anima e corpo in piena armonia) e perchè nel libro c’è un chiaro rifiuto ad ogni isolamento della sola sessualità cieca, istintuale e possessiva che sia a svantaggio dell’amore personale e dell’affettuosità tra i due esseri. Sembra che il Cantico abbia voluto continuare il racconto di quel tempo felice che Adamo ed Eva hanno trascorso nel Paradiso, quando erano ancora uniti gioiosamente e in pace tra loro e con Dio. Si ripete nel poema l’eterna avventura dell’amore, che la Genesi ha rappresentato per l’uomo di tutti i tempi. LUI e LEI del Cantico ripetono la stessa meraviglia dell’amore di IS e ISSAH (in ebraico è usato lo stesso nome: uno al maschile e l’altro al femminile). Questo amore, secondo l’autore del Cantico, è grande, invincibile, eterno perché è “fuoco di fiamma divina” ed è “più forte della morte”, perché ama la fedeltà tra due persone che sono “uniche” l’una per l’altro e perché

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abbraccia l’intera persona dei due sposi. E’ un amore che naturalmente chiede di essere custodito, protetto, fatto crescere dalle attenzioni e dalle tenerezze reciproche, persino capace di un perdono ricreatore e di trasformare l’infedeltà, i momenti di lontananza, di freddezza, di smarrimento in uno stupendo amore rinnovato. C’è nel Cantico una reciprocità dell’amore, che non consente ai momentanei smarrimenti di Lui o di Lei di compromettere seriamente il loro rapporto. Questo amore puro e concreto è la rappresentazione di ogni amore giovane e primaverile presente non solo nella coppia bella di due giovani sposi (come quelli del Cantico), ma anche nell’immutata e indistruttibile tenerezza di una coppia anziana ancora innamorata. Questo amore nuziale rimanda per sua natura all’amore supremo e appassionato di Dio per il suo popolo, testimoniato lungo tutta la storia della salvezza. La tradizione giudaica e cristiana ha trovato un forte nesso tra l’amore umano della coppia e l’amore divino per l’umanità. Nell’interno dell’amore umano dobbiamo cogliere un segno ulteriore, quello dell’amore di Dio per gli uomini. Per gli Ebrei l’amore umano è diventato il riflesso dell’amore sponsale tra Jahvé ed Israele, metafora nuziale/erotica per indicare il rapporto tra Dio e il suo popolo. Pensiamo ad OSEA, GEREMIA, EZECHIELE, che si sono serviti di vocaboli come matrimonio – fidanzamento – adulterio per indicare il rapporto tra Dio e Israele, un rapporto simile per coinvolgimento, impegno, benefici al rapporto che c’è tra l’uomo e la sua donna. Per la Chiesa l’amore del Cantico è diventato simbolo dell’amore tra Cristo e la Chiesa. Per i mistici simbolo dell’amore tra Dio e l’anima. Non c’è comunque contraddizione tra una prospettiva di lettura letterale del Cantico e una prospettiva allegorica, anzi l’ interpretazione letterale è aperta a

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quella spirituale, tanto è vasta la capacità simbolica dell’amore tra uomo e donna descritto nel Cantico. Ma niente indica che nel Cantico bisogna per forza applicare una cornice per dargli decoro e leggervi oltre il senso che sgorga naturalmente dal testo e che celebra l’amore umano, reciproco e fedele, suggellato dal matrimonio. Il fatto comunque che il poemetto sia finito nel canone biblico, nonostante non si parli di Dio, sta ad indicare che l’autore ha riflettuto sull’amore sponsale a partire non solo dai racconti della creazione, cioè da un discorso sapienziale sull’amore umano, ma anche prenda ispirazione dalla teologia profetica dell’alleanza sponsale tra Dio ed Israele. Tanto è vero che l’amato e l’amata vengono continuamente qualificati con richiami alla Terra promessa e alla storia della salvezza (Gerusalemme, giardino dell’Eden, Davide, Salomone …). Israele prima e la Chiesa poi si sono avvicinati al mistero dell’amore di Dio attraverso le sue analogie con l’amore umano. L’amore fisico e spirituale dell’uomo per la donna è diventato pertanto trasparenza dell’amore appassionato e geloso di Dio per l’umanità. E’ autentico quell’amore dove ci si ama come ama Dio, cioè con un amore totale, profondo, fedele, rispettoso, colmo di pazienza e di tenerezza.

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STRUTTURA DEL CANTICO DEI CANTICI

L’opera è composta da pochi fogli: sono solo otto capitoli che alcuni studiosi hanno diviso in cinque poemi per suggerire gruppi possibili di unità (quasi il Pentateuco dell’amore) preceduti da un prologo e seguiti da due appendici. Ma il Cantico non è un poema unitario, è una raccolta di poesie, di canti d’amore, forse canti nuziali antichi e nuovi, senza una struttura unitaria: sono testi che non sono conclusivi in sé, ma si richiamano continuamente a vicenda. L’unità se mai è lirica e il soggetto unico è l’amore sponsale cantato sotto diverse prospettive in diversi luoghi, in tutte le sue manifestazioni. L’autore è un poeta originale e un letterato abile del post-esilio, che era certamente a conoscenza dei canti d’amore antichi (canti nuziali della Mezzaluna fertile, canti d’amore di tipo egiziano risalenti al 1200 a.C.) e dei canti nuovi palestinesi (vedi Salmo 45). Forse si è ispirato a questi usando il linguaggio d’amore e le immagini. Lo sviluppo del poemetto è dialogico, perché l’amore è dialogo. C’è l’amata, l’amato e un coro come sottofondo. La presenza di altre persone ricorda che l’amore di una coppia non è fuori dal tempo e dalla storia, ma deve confrontarsi con la società, si irradia nell’umanità. L’originalità dell’autore è presente nella brevissima sezione finale del Cantico 8,6-7b. Questi versi sono unici nel libro e rappresentano il messaggio essenziale sull’amore sponsale cantato come irresistibile e quasi fatale, un potere creativo e quasi divino, che unisce un uomo e una donna in una esclusiva e duratura relazione. L’autore esprime qui la sua tesi e la sua riflessione di tipo sapienziale e lancia il messaggio più importante di tutto il libro “a tutte le coppie della storia che ripetono il

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miracolo dell’amore” (A. Schökel). L’amore è cantato come “più forte della morte, tenace come gli inferi, le cui vampe sono vampe di fuoco, una fiamma del Signore”. Si potrebbe pensare che l’amore degli amanti del Cantico si esaurisca in se stesso, si giustifichi in sé, neghi il resto. Non è così, perché è eterno, fuoco che viene da Dio, e passa anche al di là della morte, perché riesce a trascinare verso Dio, che è l’amore per eccellenza, l’Amore vivente in assoluto. La coppia non è più formata, come nella Genesi 2,23 dall’uomo (‘ish) e da colei che porta il suo stesso nome (‘isha); nel Cantico è formata da Shelomo Salomone e Shulammit Sulammita, nomi che derivano dalla stessa radice di Shalom, che nella Bibbia è sinonimo di pace, benedizione, riposo, felicità, comunione, salvezza, vita: l’uomo della pace e la donna della pace. La Pace, che i due custodiscono nel loro nuovo nome come se fosse una natura nuova e un nuovo destino, li abilita ad amarsi vicendevolmente come Dio ama l’umanità. Nella più profonda unione corporale e interpersonale, che li fa essere “una sola carne”, i due sposi trovano e diffondono la pace, che è il dono di Dio per eccellenza, dono poi di Gesù (Gv 14,27;20,19) e frutto dello Spirito (Gal 5,22). Ma la pace di Dio è anche un dono escatologico verso cui il cammino dell’amore sponsale deve condurre, perché la sua tensione avrà tregua solo nell’Eterno.

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L’AMORE SPONSALE NELL’ ANTICO TESTAMENTO

Per ritrovare la forza d’amore del Cantico dobbiamo percorrere altre pagine della Bibbia, dove il soffio dell’amore umano e divino gioca un ruolo importante, molto più di quanto si crede. Ci sono molti esempi. Pensiamo all’affresco meraviglioso della creazione nella pagina antica della tradizione Jahvista di Genesi 2 (X sec a. C.), celebrazione dell’amore dell’uomo per la sua donna: Allora il Signore Dio fece scendere un torpore sull'uomo, che si addormentò; gli tolse una delle costole e rinchiuse la carne al suo posto. Il Signore Dio plasmò, con la costola che aveva tolta all'uomo, una donna e la condusse all'uomo. Allora l'uomo disse: «Questa volta essa è carne dalla mia carne e osso dalle mie ossa. La si chiamerà ‘Iššah (donna) perché da ‘Iš (uomo) è stata tolta».

(Gn 2,23-24)

Nel contesto del racconto si ricorda che l’uomo si sente sperduto e solo sulla faccia della terra: Il Signore Dio disse: “Non è bene che l’uomo sia solo” (Gen 2,18) La solitudine dell’uomo viene superata in due tappe. La prima è affidata al fascino dell’universo materiale e vivente (gli animali) nel quale l’uomo penetra con la sua intelligenza e il suo lavoro. “Imporre il nome agli animali”

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nel linguaggio biblico significa questa conquista e questo possesso. Eppure l’uomo si sente ancora solo e incompleto. Ecco allora la tappa decisiva: l’incontro con il suo simile. Dio trae la donna dalla costola dell’uomo (Gen 2,21-22): è una splendida parabola per dire che l’uomo e la donna si appartengono vicendevolmente, sono fatti l’uno per l’altro, hanno la stessa natura, una identica composizione, esistenza. La donna cancella ogni solitudine; i dolori, le gioie, le ansie, gli interrogativi dell’uomo ora si trasfonderanno nel cuore di un’altra creatura “un aiuto che gli stia di fronte”. Ormai l’uomo e la donna sono insieme e questo incontro è anche un incontro sessuale, che porta finalmente pace e gioia all’uomo. L’unicità assoluta della donna, la complementarità dei due sessi e il rapporto d’amore sono celebrati con lo stupore eterno dell’uomo innamorato, che canta la prima canzone d’amore dell’umanità: «Questa volta essa è carne dalla mia carne e osso dalle mie ossa». “Questa volta” indica che l’uomo sa finalmente di aver realizzato se stesso; carne ed ossa, per la Bibbia, rappresentano l’esistenza, non solo una parte della fisicità. I due nomi sono nell’ebraico altamente suggestivi: ‘Iššah-donna è il femminile di ‘Iš-uomo. Tra i due c’è omogeneità, una quasi identità, una comunione così profonda da renderli un’unica esistenza, un solo nome, “una sola carne” (Gen 2,24). Due persone necessarie l’una all’altra, due esseri che si incontrano e celebrano l’amore uniti nell’atto sessuale.

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Ma c’è un altro testo della Genesi, che potremmo considerare prototipo del Cantico: Genesi 1, 26-28.31: E Dio disse: «Facciamo l'uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza, e domini sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo, sul bestiame, su tutte le bestie selvatiche e su tutti i rettili che strisciano sulla terra». E Dio creò l'uomo a sua immagine; l’ebreo è invitato a non fare statue di Dio o pitture, ma cercare nel volto del fratello il volto stesso di Dio a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò. Dio li benedisse e disse loro: «Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra; soggiogatela e dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente, che striscia sulla terra». Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa “molto buona” (tôv). il vocabolo tôv in ebraico indica tutto quanto è splendido, meraviglioso, buono, gioioso, felice. Lo stile solenne della Tradizione sacerdotale (VI sec a.C.), che ha costruito questa pagina della settimana della creazione, ci introduce nel più solenne gesto creativo di Dio. Al termine del sesto giorno l’uomo appare in tutta la sua grandezza ed eccellenza. Non è una “cosa buona” come tutte le altre creature, l’uomo è “cosa molto buona” (v. 31). E lo splendore dell’uomo è proprio nell’essere “maschio e femmina”, in qualche modo partecipe, attraverso la

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generazione, della potenza creatrice di Dio di cui egli è “immagine”. L’autore vede nella coppia che genera il riflesso più alto di Dio. L’uomo attraverso la relazione d’amore ha la possibilità di essere come il creatore. Così l’uomo e la donna nella creazione sono chiamati ad incontrarsi nel libero dono di sé all’altro. E la relazione sessuale matrimoniale, come è stata voluta dal creatore, spinge l’uno a cercare l’altro, perché l’altro è promessa di gioia, di pace e di vita. E’ solo con il peccato che l’armonia si rompe. Il pudore, come imbarazzo e inibizione, “Mi sono nascosto, perché sono nudo” (Gen 3), giunge solo come conseguenza della loro infedeltà nei confronti di Dio e della sua parola. La concupiscenza, la violenza sessuale, il dominio dell’uomo sulla donna è conseguenza del peccato, non dimensione del progetto creativo di Dio sulla coppia. Altri accenni sul rapporto d’amore tra l’uomo e la donna li troviamo in: Gen 24,67 “Isacco si prese in moglie Rebecca e l’amò e così trovò conforto dopo la morte della madre”. Gen 29,20 Giacobbe riscattò con sette anni di schiavitù presso Labano l’amore per Rachele, ma “i sette anni gli sembrarono pochi giorni tanto era il suo amore per Rachele”. 1 Sam 1,8 Elkana consola sua moglie Anna che era sterile dicendole: “Perché piangi? Non sono io per te forse meglio di dieci figli?” 1 Sam 18,20 Mikal, figlia di Saul, è innamorata di Davide e l’amore nasce dall’iniziativa di lei.

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Dt 20,5-7 definisce l’amore tra i due sposi più importante della guerra: “C’è qualcuno che sia fidanzato con una donna e non l’abbia ancora sposata? Vada, torni a casa, perché non muoia in battaglia e altri la sposi” Qo 9,7-9 Qohelet dirà che le gioie dell’amore, come il pane e la gioia che viene dal vino, appartengono ai doni che Dio ha elargito agli uomini in questo mondo di vanità: “Va, mangia con gioia il tuo pane, bevi il tuo vino con cuore lieto, … godi la vita con la sposa che ami” Il matrimonio è cantato in un altro straordinario carme nuziale, il Salmo 45, dedicato alla celebrazione delle nozze regali e usato dalla tradizione giudaica nella liturgia del matrimonio: Tu sei il più bello tra i figli dell'uomo, sulle tue labbra è diffusa la grazia, ti ha benedetto Dio per sempre. Le tue vesti son tutte mirra, aloè e cassia, dai palazzi d'avorio ti allietano le cetre. Figlie di re stanno tra le tue predilette; alla tua destra la regina in ori di Ofir. … al re piacerà la tua bellezza. Egli è il tuo Signore: pròstrati a lui. Da Tiro vengono portando doni, i più ricchi del popolo cercano il tuo volto. La figlia del re è tutta splendore, gemme e tessuto d'oro è il suo vestito. È presentata al re in preziosi ricami; con lei le vergini compagne a te sono condotte; guidate in gioia ed esultanza entrano insieme nel palazzo del re. (vv. 3.9.10.12-16)

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IL CORPO NEL CANTICO

Il corpo nella storia d’amore del Cantico è il vero protagonista. Viene esaltato e apprezzato in tutto il suo valore sia il corpo dell’amato, sia il corpo dell’amata. Per l’uomo della Bibbia infatti il corpo è un grande segno di comunicazione, di rapporto, di relazione, segno anche dell’interiorità della persona, non come per noi occidentali, che o lo idolatriamo, o lo disprezziamo. Per questo nel Cantico viene dato molto risalto al linguaggio del corpo, perché l’amore per l’uomo e per la donna vuol dire amore per l’uomo e per la donna nella sua totalità. Vivere con serenità l’amore significa anche poter vivere con gioia il linguaggio del corpo, perché il corpo è trasparenza, è luogo di rivelazione della persona che si ama, è quindi un mezzo di arricchimento reciproco per realizzare un’autentica unione dei corpi e dei cuori. Il Cantico è quindi un invito a riconciliarci con la sessualità e la materialità dell’amore contro ogni lassismo e contro ogni incubo, perché il corpo è la strada per comunicare l’intensità del sentimento e l’ammirazione per chi si ama. L’autore dà largo spazio sia al linguaggio muto e nel contempo eloquentissimo dei gesti d’amore, che sono sempre espressione di desiderio di incontro, di comunione, di fusione con l’altro, sia al dialogo tra i due innamorati. I due innamorati conversano molto e amabilmente tra loro e il dialogo è il racconto della reciproca ammirazione, è descrizione del corpo dell’altro come passione per quella persona unica, irripetibile, insostituibile, che l’amore ha scelto. La frase che meglio di tutte riesce a racchiudere tutto il significato dell’amore e che potrebbe essere una specie di

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sigla generale del Cantico è : “Il mio diletto è per me ed io per lui”, meglio tradotta: “Il mio amato è mio ed io sono sua” (Ct 2,16). Questa è la formula dell’alleanza dell’amore, della mutua appartenenza, che sottolinea la dinamica che fonda la coppia. Ognuno dei due è per l’altro, con l’altro, totalmente, sempre. La formula richiama da vicino quella dell’alleanza tra Jahvè e il suo popolo: “Jahvè è il nostro Dio e noi siamo il suo popolo” (Dt 26,17-18 e 29,12-13), “Io sarò il loro Dio ed essi il mio popolo” (Ger 31,31). Nel Cantico l’autore sa inoltre leggere il mondo e il corpo umano con gli occhi di Dio come una specie di “paradiso”, di terra promessa. Tutta la bellezza della creazione viene evocata dalla fantasia degli sposi, quando a vicenda contemplano il corpo dell’amato e lo cantano: montagne, alberi, animali, frutti, prodotti umani. per questo il poeta non teme di proporre allusioni erotiche anche alle parti più intime del corpo femminile “giardino chiuso “ (Ct 4,12) o “pozzo sigillato”, “monte degli aromi” (Ct 2,17) Anche i gesti dell’amore che coinvolgono gusto (5,1), vista, udito, tatto, olfatto giocano un ruolo veramente essenziale nella comunicazione degli amanti, colorando e vivificando l’incontro d’amore. Moltissime sono le scene in cui aromi, profumi, sapori e bevande significano l’intensità, la forza e la dolcezza dell’amore. Le immagini usate sono tipicamente orientali, ma l’enfasi sul corpo è sempre al servizio di un preciso messaggio; il corpo celebrato è segno della persona nella sua singolarità e unicità. L’estasi dei due amanti si esprime quindi nella contemplazione estetica e coinvolge ogni dimensione della corporeità e sensibilità umana. Tatto: l’unione fisica è data da molteplici gesti d’amore; dal bacio, agli abbracci, alle carezze, alle tenerezze reciproche (Ct 2,6 e 8,3 l’amato tiene il braccio sinistro sotto il capo dell’amata e con il destro

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l’abbraccia), il riposare dell’innamorato sul petto di lei come se fosse un sacchetto di mirra (Ct 1,13) Gusto: cibi, bevande (vino, miele, latte) concorrono alla comunicazione amorosa e riassumono il godimento. Il vino è simbolo dell’ebbrezza e dell’estasi. Il miele, simbolo tradizionale dell’amore. Olfatto: in tutto il libro è ricorrente il motivo dei profumi che inebriano l’amore, penetrano dentro. Vista: anche la potenza dello sguardo è espressa più volte e con diverse sfumature. Il linguaggio degli occhi rapisce il cuore, lo ferisce (Ct 4,9). Gli occhi dell’amata soggiogano e avvincono (Ct 6,5). Udito: anche l’udito gioca un ruolo rilevante. La voce del diletto è segno della sua presenza (Ct 2,8). L’amato chiede all’amata di fargli sentire la sua voce (Ct 8,13).

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LETTURA CAPITOLO 1 Titolo

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Cantico dei cantici, che è di Salomone. Cantico dei Cantici è un superlativo ebraico per dire il Cantico per eccellenza, il Cantico più bello. Che è di Salomone vuole indicare l’autore, ma è una finzione letteraria, che vuole attribuire il poema a Salomone, il sapiente e il poeta per eccellenza che, per tradizione ( 1 Re 5,12) aveva composto dei canti. Prologo

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Mi baci con i baci della sua bocca! Sì, le tue tenerezze sono più dolci del vino. Per la fragranza sono inebrianti i tuoi profumi, profumo olezzante è il tuo nome, per questo le giovinette ti amano. Attirami dietro a te, corriamo! Mi introduca il re nelle sue stanze: gioiremo e ci rallegreremo per te, ricorderemo le tue tenerezze più del vino. A ragione ti amano!

Questi versetti costituiscono una specie di prologo, che già ci offre la sintesi dei poemi che seguiranno. E’ la donna a parlare per prima e ad annunciare alcuni temi che domineranno l’intera raccolta, come il desiderio d’amore, il possesso reciproco, la contemplazione della persona amata. Lei, Lui, il coro sono i protagonisti. Già dall’esordio si comprende come l’amore nel Cantico sia inebriante passione, esaltante esperienza, realtà che coinvolge la globalità della persona.

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Le prime parole della donna sono, in realtà, baci appassionati: mi baci (o mi bacerà) con i baci della sua bocca. Il bacio è, secondo la tradizione ebraica, il gesto della massima comunione. E’ l’effondersi dell’interiorità e intensità dell’amore in un gesto di intima unione. La gioia con cui essa esprime l’impazienza di unirsi al suo uomo sembra essere la risposta alla stessa gioia espressa dall’uomo nel suo canto d’amore di Genesi 2,23: “Questa volta essa è carne dalla mia carne e osso dalle mie ossa”. Non si può non cogliere la forza del desiderio della donna che con un’ardente dichiarazione d’amore esplode in un elogio del fascino dell’amato, ammirato anche dalle altre ragazze, e in un caldo invito al possesso: “Attirami dietro a te, corriamo!” (v. 4) L’ebbrezza che nasce dall’incontro d’amore non nasce solo dai baci appassionati che inebriano come il vino o come un profumo intenso, ma anche da una fitta trama di atti d’amore: “Le tue tenerezze sono più dolci del vino” (v. 2). Il simbolo che domina è il vino, simbolo associato all’ebbrezza della passione amorosa, dell’estasi, della felicità di un abbandono completo. Anche i profumi (le essenze profumate erano molto preziose, tanto che il re le conservava insieme all’oro e all’argento) concorrono a stordire e a conquistare persino le giovani donne del coro. Profumo olezzante è il tuo nome: si può tradurre con “la tua persona è come se fosse il mio profumo”, “sei il mio profumo più affascinante”, “la tua presenza è profumo”. Ogni innamorato sa riconoscere e amare il profumo personale del suo partner. Il termine ebraico “shem” “nome” significa l’essenza di una cosa, cioè l’essere stesso di chi porta il nome. Qui equivale alla persona stessa di Lui, alla sua realtà profonda, che l’amore rende presente a Lei intimamente. Se il “nome” è la persona stessa, qui diventa il corpo del

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suo uomo che si comunica nell’unione sessuale e che fluisce come “olio profumato” sul corpo dell’amata. Mi introduca il re nelle sue stanze (v. 4): la stanza è la stanza dell’amore. L’amato è presentato spesso come un re e la sua donna come una regina, anche sulla base di usanze popolari che, durante le nozze, attribuivano alla coppia un profilo simbolico e rituale di tipo regale. Fin dal suo esordio è espressa la piena parità della donna con l’uomo, cosa che costituisce una rarità nel mondo arabo, egiziano e mesopotamico, che era soprattutto maschilista. Nelle liriche d’amore del Cantico c’è invece parità di sentimenti e di espressioni d’amore nel cuore e sulla bocca di Lei e di Lui. E’ passione reciproca che spinge l’uno verso l’altra. PRIMO POEMA

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Bruna sono ma bella, o figlie di Gerusalemme, come le tende di Kedar, come i padiglioni di Salma. Non state a guardare che sono bruna, poiché mi ha abbronzato il sole. I figli di mia madre si sono sdegnati con me: mi hanno messo a guardia delle vigne; la mia vigna, la mia, non l'ho custodita. Dimmi, o amore dell'anima mia, dove vai a pascolare il gregge, dove lo fai riposare al meriggio, perché io non sia come vagabonda dietro i greggi dei tuoi compagni. Se non lo sai, o bellissima tra le donne, segui le orme del gregge e mena a pascolare le tue caprette presso le dimore dei pastori. Alla cavalla del cocchio del faraone

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io ti assomiglio, amica mia. 10 Belle sono le tue guance fra i pendenti, il tuo collo fra i vezzi di perle. 11 Faremo per te pendenti d'oro, con grani d'argento. 12 Mentre il re è nel suo recinto, il mio nardo spande il suo profumo. 13 Il mio diletto è per me un sacchetto di mirra, riposa sul mio petto. 14 Il mio diletto è per me un grappolo di cipro nelle vigne di Engàddi. 15 Come sei bella, amica mia, come sei bella! I tuoi occhi sono colombe. 16 Come sei bello, mio diletto, quanto grazioso! Anche il nostro letto è verdeggiante. 17 Le travi della nostra casa sono i cedri, nostro soffitto sono i cipressi. E’ ancora la donna che domina la scena di questo primo incontro d’amore durante un pomeriggio assolato. Nella prima scena (vv. 5-6) la donna si presenta nella sua quotidianità, si autodescrive in maniera orientale e, rivolgendosi con ironia alle “figlie di Gerusalemme” (le ragazze nobili), che rappresentano i canoni consueti della bellezza, e, restando all’ombra della città, hanno conservato la carnagione chiara, protesta la propria bellezza con una punta di civetteria: “Bruna sono, ma bella”, con la carnagione abbronzata dal sole, con un colore simile alle tende beduine. La donna è raffigurata come una delle ragazze palestinesi, che popolavano la campagna. Il suo uomo è invece un pastore, che spesso cambia luogo con il suo gregge. Questa ragazza del popolo è stata mandata dai fratelli a curare la vigna nei campi ( i fratelli avevano una vera e propria funzione di sorveglianza sulle sorelle in molte aree dell’antico medio oriente). Essa sente la nostalgia dell’amato, abbandona la vigna (che in realtà

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può anche essere il simbolo della femminilità, che deve essere tutelata per essere consacrata tutta allo sposo), incurante del controllo e dell’opposizione della famiglia e corre a cercarlo, attraversando le carovane per raggiungere la tenda del suo uomo. E’ un viaggio alla RICERCA DELL’AMORE, dunque, con il rischio anche del disonore, di essere considerata una prostituta o una persona disperata. Il suo amore è tale che le fa superare le convenzioni del perbenismo. Nella seconda scena (v. 7-11) un gruppo di pastori (il coro) le indica la strada nel deserto; ma prima che essa riesca a raggiungere la tenda del suo amato, questi l’ha già vista da lontano e comincia il suo canto d’amore, che è un saluto fortemente orientale, che paragona la giovinezza e la bellezza della sua donna, il suo entusiasmo, il suo incedere a quelli di una cavalla superba “alla cavalla del cocchio del faraone” (v.9) Agli occhi dello sposo la sposa è bellissima e il suo volto è tratteggiato con grande delicatezza: è incorniciato da gioielli, che mettono in risalto una bellezza purissima. Terza scena (vv. 1,12 – 2,7). Si apre con la terza scena un intenso duetto d’amore tra Lei e Lui, che si sono finalmente incontrati. E’ il momento dell’abbraccio che è felicità e abbandono. Qui il poeta in piena libertà descrive l’entusiasmo e l’effervescenza dell’incontro. In questo momento le immagini si accavallano, domina l’elemento “profumo” (nardo, mirra, cipro), profumo intensissimo che più di tutto è capace di suggerire il mistero dell’unione sessuale e il piacere che procura questa unione. Ma ci sono anche sguardi, parole, il corpo umano, coinvolti fino all’abbraccio d’amore. L’amato è spesso nel Cantico chiamato “dodî”, un vezzeggiativo che equivale a “mio amore” “mio caro”. Risuonano frasi: “come sei

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bella (v. 15), come sei bello (v. 16), sono malata d’amore” (v. 2,5); sono le parole eterne dell’amore, che dimostrano come la via estetica sia la più bella in assoluto. La donna per il suo uomo è sempre bella e, viceversa, è la bellezza singolare e unica di coloro che si amano. Nell’unione appassionata il luogo dell’incontro è immaginato come se fosse vissuto non nel deserto, ma in un’oasi verdeggiante sulla riva ovest del Mar Morto (Engaddi) (v. 14) o in uno splendido palazzo fatto di cedri e di cipressi (che ricordano per altro il Tempio fatto costruire da Salomone). L’amore trasforma tutto e tutto trasfigura. E’ il miracolo dell’amore.

CAPITOLO 2

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Io sono un narciso di Saron, un giglio delle valli. Come un giglio fra i cardi, così la mia amata tra le fanciulle. Come un melo tra gli alberi del bosco, il mio diletto fra i giovani. Alla sua ombra, cui anelavo, mi siedo e dolce è il suo frutto al mio palato. Mi ha introdotto nella cella del vino e il suo vessillo su di me è amore. Sostenetemi con focacce d'uva passa, rinfrancatemi con pomi, perché io sono malata d'amore. La sua sinistra è sotto il mio capo e la sua destra mi abbraccia. Io vi scongiuro, figlie di Gerusalemme, per le gazzelle o per le cerve dei campi: non destate, non scuotete dal sonno l'amata, finché essa non lo voglia.


La natura nel Cantico ha un grande rilievo: riflette quasi le emozioni dei due protagonisti. Il dialogo d’amore tra Lui e Lei prosegue infatti nella cornice della natura che offre le immagini per dipingere il profilo dei due innamorati, E’ una collezione di immagini che toccano il gusto, la vista, l’odorato, sono colori e profumi e tutto l’insieme. La donna si paragona a un “narciso” (2, 1) o a un “giglio” palestinese, che di solito ha un colore rosso. Lui è un “melo” possente, simbolo della fecondità creativa, alla cui ombra la donna può sedersi “per riposare e godere”. Si passa poi con libertà ai simboli di cibo, “pomi”, “focacce d’uva” (che forse erano considerati alimenti afrodisiaci) e “vino”. (V. 4) “Mi ha introdotto nella cella del vino”: il dialogo d’amore ha come meta l’unione appassionata. “La cella del vino”, con l’allusione al simbolo del vino, che esprime l’ebbrezza, l’estasi, potrebbe alludere al luogo dell’incontro dove si sprigiona la passione amorosa “Sono malata d’amore”. (V. 6) Nel verso 6 c’è un piccolo ritratto, che meglio di tutti denota la tenerezza, l’affetto e il senso di protezione dell’amato verso l’amata, “la sua sinistra è sotto il mio capo e la sua destra mi abbraccia”, uniti in un abbraccio d’amore. (v. 7) L’invito del verso 7 a non disturbare l’amata (in altre traduzioni c’è “l’amore”), che si è addormentata nell’abbraccio dell’estasi , è un invito a rispettare i tempi e il silenzio dell’incontro. L’amore non è cosa artificiosa o calcolata: ha il suo tempo. Vengono evocate “le gazzelle e le cerve” perché simboleggiano la bellezza e la libertà dell’amore.

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SECONDO POEMA

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Una voce! Il mio diletto! Eccolo, viene saltando per i monti, balzando per le colline. Somiglia il mio diletto a un capriolo o ad un cerbiatto. Eccolo, egli sta dietro il nostro muro; guarda dalla finestra, spia attraverso le inferriate. Ora parla il mio diletto e mi dice: «Alzati, amica mia, mia bella, e vieni! Perché, ecco, l'inverno è passato, è cessata la pioggia, se n'è andata; i fiori sono apparsi nei campi, il tempo del canto è tornato e la voce della tortora ancora si fa sentire nella nostra campagna. Il fico ha messo fuori i primi frutti e le viti fiorite spandono fragranza. Alzati, amica mia, mia bella, e vieni! O mia colomba, che stai nelle fenditure della roccia, nei nascondigli dei dirupi, mostrami il tuo viso, fammi sentire la tua voce, perché la tua voce è soave, il tuo viso è leggiadro». Prendeteci le volpi, le volpi piccoline che guastano le vigne, perché le nostre vigne sono in fiore. Il mio diletto è per me e io per lui. Egli pascola il gregge fra i gigli.


17 Prima che spiri la brezza del giorno e si allunghino le ombre, ritorna, o mio diletto, somigliante alla gazzella o al cerbiatto, sopra i monti degli aromi. Questo nuovo canto è un piccolo capolavoro lirico. Vi si intrecciano le più belle descrizioni sulla primavera dell’Antico Testamento, con le espressioni d’amore di Lui e di Lei. Alle spalle c’è un inverno uggioso, che qui diventa il simbolo dell’assenza dell’amato; ora è giunta la primavera, stagione privilegiata per le nozze e per l’amore, la stagione che fa da fondale costante dell’opera. Il giovane sta per giungere alla casa dell’amata, che è con i suoi genitori in città. Una voce inconfondibile la risveglia sul fare del mattino. L’amato è corso come un “cerbiatto” sulle balze dei colli che lo dividono da lei e arriva al muro della casa e occhieggia dietro le finestre. Egli lancia alla donna un invito particolarmente intenso a immergersi nella natura che sta rinascendo: tutto è felicità, gioia; la campagna si riempie di colori e di voci. I vv. 11 e 13 sono una stupenda descrizione della primavera: il fico e la vite sono spesso associati alla fecondità femminile. Ed ecco esplode l’invito dell’innamorato all’abbandono totale dell’amore (v. 13) “Alzati amica mia, mia bella, e vieni!”. Lei e Lui sono di fronte l’uno all’altro e lo sposo comincia a descrivere lo splendore dell’amore attraverso la sua donna, che egli paragona a una “colomba” (animale consacrato alla dea dell’amore) simbolo della dolcezza, dell’affetto, dell’intimità. Le immagini degli animali, che per noi sono più faticose, per l’orientale appartengono al discorso dell’amore. Per l’orientale

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l’animale è sempre segno di un mistero positivo o negativo. Ma all’improvviso nel canto c’è come una rottura: si insinua un’ombra nella scena luminosa finora descritta. V. 15 “Prendeteci le volpi … che guastano le vigne”. Nella vigna in fiore, simbolo del corpo della ragazza, si può insinuare il Male, incarnato dalla “volpe/sciacallo”. E’ un simbolo animale per rappresentare l’attacco che può essere sferrato da forze ostili all’amore e alla sua purezza. La purezza va difesa e custodita da ciò che la può far degenerare: la lussuria, la violenza, l’odio. L’uomo invita il coro a creare una specie di difesa intorno alla vigna. L’amore non cancella del tutto la paura della fragilità. VV. 16 e 17. Ma la scena torna ad essere serena e la donna esprime tutta la sua fiducia nell’amato, che solo può unirsi a lei. “Egli pascola il gregge fra i gigli “ allude ad una unione sessuale. La sposa pronuncia la frase che può essere la sigla generale di tutto il Cantico e che esprime il significato dell’amore sponsale: “Il mio diletto è per me e io per lui”, che meglio andrebbe tradotta con “Il mio amato è mio e io sono sua”. E’ la formula della reciproca appartenenza (allusione alla formula dell’alleanza tra Dio e il suo popolo). che consacra i due sposi, uno per l’altro, per sempre. E’ un’affermazione sulla certezza dell’amore e del possesso reciproco, quando uno può veramente dire di non possedere più se stesso, perché possiede anche l’altro. E’ la riedizione, questa volta da parte della donna, del primo ed eterno inno d’amore di Adamo e di ogni uomo sulla terra quando incontra la sua donna e si unisce a lei “in una carne sola” (Gen 2, 23-24). V. 17 Si sta avvicinando il tramonto e l’amato è assente. La donna attende che ritorni, per un abbraccio amoroso. “Ritorna, o mio diletto, sopra i monti degli

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aromi”: si allude a una forte carica erotica, dove “i monti” stanno per il corpo dell’amata.

CAPITOLO 3 Al tema della nascita dell’amore fa seguito quello dell’esilio dell’amore.

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Sul mio letto, lungo la notte, ho cercato l'amato del mio cuore; l'ho cercato, ma non l'ho trovato. «Mi alzerò e farò il giro della città; per le strade e per le piazze; voglio cercare l'amato del mio cuore». L'ho cercato, ma non l'ho trovato. Mi hanno incontrato le guardie che fanno la ronda: «Avete visto l'amato del mio cuore?». Da poco le avevo oltrepassate, quando trovai l'amato del mio cuore. Lo strinsi fortemente e non lo lascerò finché non l'abbia condotto in casa di mia madre, nella stanza della mia genitrice. Io vi scongiuro, figlie di Gerusalemme, per le gazzelle e per le cerve dei campi: non destate, non scuotete dal sonno l'amata finché essa non lo voglia.

Il terzo capitolo è il primo notturno d’amore. Le tenebre, che fanno da sfondo alla scena, sono espressione della “ricerca” appassionata e sofferta dell’innamorata che si conclude con la gioia dell’”incontro”. E’ sviluppato il tema della “ricerca” e del “ritrovamento” e infatti i due verbi continuamente ribaditi sono “cercare” e “trovare”. Nonostante la lunga attesa del suo ritorno, l’amato non è tornato e l’assenza si prolunga per varie notti (notte in

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ebraico è al plurale). E’ ormai notte fonda e la donna è sola nel suo letto, sente il desiderio della presenza del suo uomo; lo cerca, ma vede che non c’è. Ella non può resistere e, presa dall’ansia, abbandona il letto e decide di sfidare i rigidi condizionamenti orientali, uscendo da sola per la città che è avvolta nel silenzio della notte. Una donna non poteva mai uscire sola. La ricerca è insistente: “l’ho cercato e non l’ho trovato”. Passano le sentinelle e anche a loro chiede: “Avete visto l’amato del mio cuore?” Il poeta non registra nessuna risposta: c’è solo questo inquieto “cercare”. Alla fine ecco la sorpresa del ritrovamento. L’audacia della ricerca e la volontà di non lasciar partire l’amato sono prove di un amore appassionato. C’è l’espressione dell’amore totale nell’insistenza con cui la donna definisce l’uomo “l’amato del mio cuore”. Con questa scena notturna il poeta vuole creare l’idea che un amore conquistato non è mai conquistato in maniera definitiva, può arrivare il momento della prova, della solitudine, del dolore, dello smarrimento. Si possono intravedere tre tappe. Prima di tutto c’è la scoperta della SOLITUDINE: il letto è vuoto, la sposa è sola e disperata. Poi c’è la RICERCA AFFANNOSA: si comincia a camminare affannosamente per le strade, si trovano persone che possono anche far paura; ma non ci si arrende. Alla fine c’è l’INCONTRO: è una stretta tenera con l’amato che scioglie la paura e crea l’abbandono dell’amore. La scena in negativo del capitolo 3 (così come quella del capitolo 5), che introduce elementi di silenzio, di oscurità, di timore vuole celebrare anche la fragilità dell’amore: l’amore è delicatissimo, difficile, estremamente impegnativo, esige una continuità e una fedeltà che sfidano tutte le altre continuità e fedeltà. La scelta che si fa di una persona conosce anche momenti

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difficili, strazianti, che il Cantico non ci vuole nascondere. Anche le nozze, una volta celebrate, non proteggono automaticamente dalle prove, dalle cadute, dalle crisi dell’amore. Ma i momenti difficili, se superati, possono anche rinnovare l’amore, dice il Cantico. L’amore cioè non muore con un istante di gelo o di smarrimento, non muore col silenzio, può celebrare di nuovo la vittoria e anche crescere per raggiungere il livello più alto. L’amore va cercato ed inseguito, superando gli ostacoli di ogni giorno, le sue crisi, le cadute. L’amore vero supera le difficoltà ed è conquista perenne. Gli innamorati possono anche “smarrirsi”, ma sono invitati ad apprendere la sublime lezione del “ritrovarsi” in un incontro d’amore sempre nuovo o rinnovato. Dopo il ritrovamento c’è un solo desiderio, quello di ritrovare l’intimità. E l’abbraccio che si conclude “in casa di mia madre, nella stanza della mia genitrice” (v. 4) potrebbe essere un’immagine per esprimere il matrimonio, il desiderio di condividere cioè la propria esistenza con l’amato oppure un modo per non dimenticare l’origine da cui la coppia proviene (eco di Gen 2,23-24): “l’uomo abbandonerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una carne sola” E’ ancora la donna che ha nel Cantico il primato e si sottolinea fortemente la femminilità come protagonista della ricerca amorosa. E’ lei che decide di condurre il suo uomo “nella casa della madre”, mentre la prassi giuridica normale voleva il contrario (era l’uomo che conduceva la sposa nell’alcova della madre) (Gen 24,67). Là avrebbero consumato il loro amore. La scena è chiusa ancora dal ritornello che invita a non disturbare l’amore (v. 5) cioè a rispettare i tempi e i momenti.

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TERZO POEMA

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Che cos'è che sale dal deserto come una colonna di fumo, esalando profumo di mirra e d'incenso e d'ogni polvere aromatica? 7 Ecco, la lettiga di Salomone: sessanta prodi le stanno intorno, tra i più valorosi d'Israele. 8 Tutti sanno maneggiare la spada, sono esperti nella guerra; ognuno porta la spada al fianco contro i pericoli della notte. 9 Un baldacchino s'è fatto il re Salomone, con legno del Libano. 10 Le sue colonne le ha fatte d'argento, d'oro la sua spalliera; il suo seggio di porpora, il centro è un ricamo d'amore delle fanciulle di Gerusalemme. 11 Uscite figlie di Sion, guardate il re Salomone con la corona che gli pose sua madre, nel giorno delle sue nozze, nel giorno della gioia del suo cuore.

Questo canto è proclamato da una voce fuori campo. E’ la voce del coro, o forse del poeta, che intona un canto nuziale, “un epitalamio regale” sul tipo di quello che si legge nel Salmo 45. La descrizione evoca le nozze di un re, addirittura quelle di Salomone con la figlia del Faraone (1 Re 9, 16). Al centro c’è un corteo nuziale dominato dalla lettiga di Salomone che sta per condurre lo sposo regale, forse a Gerusalemme, attraverso il deserto.

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Il poeta contempla il corteo, scortato da una poderosa guardia del corpo (“sessanta prodi”), prima da lontano, mentre avanza nella steppa, poi fa un’accurata descrizione della portantina in tutto il suo splendore (v, 9 e 10). Alla fine si parla anche della “corona nuziale” che verrà imposta allo sposo-re da sua madre nel giorno delle nozze. Ci sono rimandi a usi e costumi dell’Antico Vicino oriente, cortei festanti che avanzano con strumenti musicali incontro alla sposa (ma anche oggi nei matrimoni ortodossi agli sposi viene imposta la corona). La finzione letteraria celebra una profonda verità: nel giorno delle nozze ogni uomo è re. Nell’amore vi è una dignità regale che deve essere riconosciuta.

CAPITOLO 4

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Come sei bella, amica mia, come sei bella! Gli occhi tuoi sono colombe, dietro il tuo velo. Le tue chiome sono un gregge di capre, che scendono dalle pendici del Gàlaad. I tuoi denti come un gregge di pecore tosate, che risalgono dal bagno; tutte procedono appaiate, e nessuna è senza compagna. Come un nastro di porpora le tue labbra e la tua bocca è soffusa di grazia; come spicchio di melagrana la tua gota attraverso il tuo velo. Come la torre di Davide il tuo collo, costruita a guisa di fortezza. Mille scudi vi sono appesi, tutte armature di prodi. I tuoi seni sono come due cerbiatti, gemelli di una gazzella,

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che pascolano fra i gigli. Prima che spiri la brezza del giorno e si allunghino le ombre, me ne andrò al monte della mirra e alla collina dell'incenso. Tutta bella tu sei, amica mia, in te nessuna macchia. Vieni con me dal Libano, o sposa, con me dal Libano, vieni! Osserva dalla cima dell'Amana, dalla cima del Senìr e dell'Ermon, dalle tane dei leoni, dai monti dei leopardi. Tu mi hai rapito il cuore, sorella mia, sposa, tu mi hai rapito il cuore con un solo tuo sguardo, con una perla sola della tua collana! Quanto sono soavi le tue carezze, sorella mia, sposa, quanto più deliziose del vino le tue carezze. L'odore dei tuoi profumi sorpassa tutti gli aromi. Le tue labbra stillano miele vergine, o sposa, c'è miele e latte sotto la tua lingua e il profumo delle tue vesti è come il profumo del Libano. Giardino chiuso tu sei, sorella mia, sposa, giardino chiuso, fontana sigillata. I tuoi germogli sono un giardino di melagrane, con i frutti più squisiti, alberi di cipro con nardo, nardo e zafferano, cannella e cinnamòmo con ogni specie d'alberi da incenso; mirra e aloe con tutti i migliori aromi. Fontana che irrora i giardini, pozzo d'acque vive e ruscelli sgorganti dal Libano.


16 Lèvati, aquilone, e tu, austro, vieni, soffia nel mio giardino, si effondano i suoi aromi. Venga il mio diletto nel suo giardino e ne mangi i frutti squisiti. In questo canto abbiamo un genere letterario del Vicino Oriente chiamato dagli studiosi “wasf”: è un termine arabo usato nella poesia erotica che equivale a “descrizione”. Si tratta di ritratti amorosi degli sposi o degli innamorati i cui lineamenti fisici sono paragonati alle realtà più affascinanti del creato. Prese alla lettera queste descrizioni traccerebbero un’immagine grottesca dell’amata o dell’amato. In realtà questi testi non “descrivono”, ma allineano metafore mutuate dal regno della natura fisica, animale e vegetale e traducono sentimenti di ammirazione, di gioia o di piacere per la persona amata. Nell’intimità della tenda è l’uomo ad intonare il suo canto, lodando la bellezza della sua donna con colori vivacissimi. E’ il canto che celebra il corpo, che nella storia amorosa del Cantico è il vero protagonista, perché è espressione d’amore, di interiorità, di perfezione. Si inizia con il canto del corpo puro: dagli occhi si scende lungo tutto il corpo in un profilo di grande intensità, sensualità, purezza. Lo sguardo dell’amato si posa con grande tenerezza sul corpo dell’amata, che si presenta a lui velata. La fidanzata era velata quando veniva presentata allo sposo. Inizia la contemplazione: gli occhi sono come colombe, dolci e tenere; i capelli della donna sono folti e morbidi come il vello delle pecore migliori, quelle degli allevamenti delle regioni del Galaad; i denti sono candidi come un gregge di pecore tosate; le labbra rosse come porpora; la guancia è come la melagrana, un frutto diffuso nella terra d’Israele e considerato simbolo della

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fertilità per i suoi molti chicchi; il collo rievoca la torre di Davide a cui erano appesi scudi di eroi; i seni liberi sotto la veste rimandano ai cerbiatti o a due gazzelle, animali cari al cantico come segno d’amore e di libertà. Più avanti il canto si fa contemplazione e abbandono (4, 8-11). C’è la celebrazione della bellezza totale della donna con quell’esclamazione “Tutta bella sei amica mia, in te nessuna macchia” (v. 7) (che diventerà il “Tota pulchra” cristiano applicato a Maria, madre di Gesù). Questa contemplazione del corpo è contemplazione della persona, che attraverso il corpo si rivela, si comunica, si dona. Questa contemplazione del corpopersona fa nascere nell’amato il desiderio dell’amore, il desiderio di unirsi alla sua amata. “Me ne andrò al monte della mirra e alla collina dell’incenso”: sono allusioni alle parti intime femminili e il riferimento ai profumi indica la stretta vicinanza dell’uomo all’amata nell’abbraccio amoroso. L’erotismo è comunque delicato, appena accennato (nei versi 5-6), è un erotismo che non conosce volgarità, insistenza, malizia, ma neppure ipocrisia. Nel verso 8 c’è un improvviso cambiamento di scena: la donna sembra venire da lontano e appare nella cornice di monti remoti del settentrione, alcuni noti come il Libano e l’Ermon, altri meno noti. Sembra un invito all’amata ad abbandonare paesi difficili per raggiungere l’amato e diventare sua. Egli ne è totalmente conquistato, anche solo attraverso la forza, la tenerezza e l’intensità d’uno sguardo: “Tu mi hai rapito il cuore … con un solo tuo sguardo, con una sola perla della tua collana” (v. 9). Nell’amato il desiderio di unirsi alla sua donna si fa intenso sino alla follia (v. 8-11). Infatti il cuore per gli ebrei era la sede dell’intelligenza, del pensiero, non dell’affetto per cui “Tu mi hai rapito il cuore” equivale a “mi hai fatto impazzire d’amore”. L’amato è estasiato dagli sguardi, dalle carezze della sua fidanzata (v.9), dal gusto dei suoi baci, dal profumo dei suoi vestiti (v. 11).

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Nell’ultima strofa (v. 12-16 e 5,1) lo sposo paragona la sposa ad un “giardino chiuso” e la chiama “sorella mia”. “Sorella” nel linguaggio egiziano e, in generale, in quello orientale, è un vezzeggiativo usato per indicare la donna di cui si è innamorati, ma anche perché il rapporto di fraternità è visto in oriente come segno di totalità, riassume in sé tutte le relazioni interpersonali. Viene in mente il coinvolgimento totale dei rapporti di parentela a cui Gesù accenna a proposito di una vita radicata nell’ascoltare e vivere la Parola: “Chi fa la volontà di Dio questi è mio fratello, mia sorella, mia madre” (Mc 3, 35). La donna amata è per l’uomo sorella, madre, amica, figlia, sposa perché concentra in sé tutte le potenzialità dell’amore. L’amata è un “giardino” lussureggiante, una specie di “paradiso” (il giardino è immaginario e riunisce in sé alberi aromatici rari, che non possono vivere insieme e, ad eccetto del melograno, non crescono in Palestina). Il giardino è irrorato da una fontana, da un pozzo d’acqua viva e popolato da una decina di alberi fruttiferi e odorosi. E soprattutto è un “giardino chiuso, fontana sigillata”: l’immagine è trasparente e vuole rimandare al corpo della donna, al suo sesso. E’ una allusione discreta alla verginità e al dono della fedeltà ed esclusività dell’amore coniugale. L’intimità non deve essere violata, ma solo donata per amore. Il giardino suggerisce l’idea del piacere che regna nell’unione sessuale tra i due amanti, ma ancor più allude alla benedizione divina sull’amore tra l’uomo e la donna, perché esso rimanda al progetto del Creatore su di loro nel paradiso terrestre. Anche l’immagine del “pozzo d’acqua” rimanda a uno dei simboli più cari alla Sacra Scrittura, poiché la sua acqua sgorga dai misteri della terra, disseta, dà vita e distribuisce fertilità. Intorno al pozzo ci sono stati incontri d’amore: Isacco e Rebecca, Giacobbe e Rachele ed era

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considerato il luogo ideale per combinare matrimoni (Genesi 24 e 29) (V. 16) “Lèvati, aquilone, e tu, austro, vieni,” L’amata risponde al desiderio dell’amato invocando il soffio di questa passione, che porta all’appagamento dell’amore (i venti sono simboli dell’amore perché l’amore, come il vento del nord, travolge e devasta come forza irresistibile e, come il vento del sud, riscalda col suo calore). Il giardino è chiuso fino al momento in cui la sposa non lo aprirà al suo sposo nell’amplesso dell’amore.

CAPITOLO 5

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Son venuto nel mio giardino, sorella mia, sposa, e raccolgo la mia mirra e il mio balsamo; mangio il mio favo e il mio miele, bevo il mio vino e il mio latte. Mangiate, amici, bevete; inebriatevi, o cari.

(5,1) Lo sposo risponde all’invito della sposa con le espressioni trionfanti di colui che si è unito alla sua sposa, suo possesso inalienabile, e ha assaporato le gioie dell’amore. “Son venuto nel mio giardino, …mangio il mio favo e il mio miele,bevo il mio vino e il mio latte.” Egli è ora nel giardino dell’amore. Come è evidente, tutto questo canto d’amore è affidato ai simboli, perché con essi si riesce ad illustrare il mistero dell’intimità e dell’unione. Il tema del “corpo” che domina il Cantico assume l’intera creazione come scenario e simbolo. Alonso Schökel così commenta: “La fantasia contempla il corpo come emblema e somma delle bellezze naturali: montagne, alberi, animali. La bellezza totale e multiforme

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della creazione risiede nel corpo che viene contemplato e cantato: gazzelle, daini, cerbiatti, colombe, corvi, agnelli, cavalla; anche melograni, gigli, palme e cedri, e un mucchio di grano, e cisterne d’acqua, e i monti del Carmelo, il Libano. Quasi saremmo tentati di parafrasare così: quando gli amanti vedono la bellezza del corpo amato, scoprono che il mondo è molto buono, come in un tripudio genesiaco” Il Cantico ci mostra come nell’atto amoroso l’uomo e la donna trovano la sorgente più vera della rappresentazione del mondo.

QUARTO POEMA

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Io dormo, ma il mio cuore veglia. Un rumore! È il mio diletto che bussa: «Aprimi, sorella mia, mia amica, mia colomba, perfetta mia; perché il mio capo è bagnato di rugiada, i miei riccioli di gocce notturne». «Mi sono tolta la veste; come indossarla ancora? Mi sono lavata i piedi; come ancora sporcarli?». Il mio diletto ha messo la mano nello spiraglio e un fremito mi ha sconvolta. Mi sono alzata per aprire al mio diletto e le mie mani stillavano mirra, fluiva mirra dalle mie dita sulla maniglia del chiavistello. Ho aperto allora al mio diletto, ma il mio diletto già se n'era andato, era scomparso. Io venni meno, per la sua scomparsa. L'ho cercato, ma non l'ho trovato, l'ho chiamato, ma non m'ha risposto.

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Mi han trovato le guardie che perlustrano la città; mi han percosso, mi hanno ferito, mi han tolto il mantello le guardie delle mura. Io vi scongiuro, figlie di Gerusalemme, se trovate il mio diletto, che cosa gli racconterete? Che sono malata d'amore! Che ha il tuo diletto di diverso da un altro, o tu, la più bella fra le donne? Che ha il tuo diletto di diverso da un altro, perché così ci scongiuri? Il mio diletto è bianco e vermiglio, riconoscibile fra mille e mille. Il suo capo è oro, oro puro, i suoi riccioli grappoli di palma, neri come il corvo. I suoi occhi, come colombe su ruscelli di acqua; i suoi denti bagnati nel latte, posti in un castone. Le sue guance, come aiuole di balsamo, aiuole di erbe profumate; le sue labbra sono gigli, che stillano fluida mirra. Le sue mani sono anelli d'oro, incastonati di gemme di Tarsis. Il suo petto è tutto d'avorio, tempestato di zaffiri. Le sue gambe, colonne di alabastro, posate su basi d'oro puro. Il suo aspetto è quello del Libano, magnifico come i cedri. Dolcezza è il suo palato; egli è tutto delizie! Questo è il mio diletto, questo è il mio amico, o figlie di Gerusalemme.


E’ un altro momento oscuro, nel quale dominano la solitudine e la paura, proprio come era accaduto in 3,1-5. Qui però si capovolge la situazione perché è la sposa che vanifica l’incontro. Poi segue la ricerca. E’ notte fonda. La donna nella sua casa sta dormendo, ma il suo cuore non cessa di amare. “Io dormo, ma il mio cuore veglia” Si coglie nella forza di questa espressione l’intensità di un amore, che non cessa di ardere persino durante il sonno. All’improvviso una voce che risuona all’esterno fa balzare la donna nel risveglio. E’ l’amato, instancabile ricercatore dell’amata, che giunge alla casa di lei e chiede che sia lei ad aprirgli e ad accoglierlo. Egli viene dalla fredda e umida notte orientale e il suo capo è impregnato di rugiada. Bussa e attende di gustare il calore del letto e del corpo dell’amata. Ma l’amata, pur avendo udito la voce che la chiama appassionatamente, esita ad alzarsi e accampa scuse banali per non aprire. Nella donna c’è un momento di freddezza, di stanchezza e di pigrizia. Si fa desiderare, mostrandosi indifferente, nonostante il cuore le balzi in petto quando sente la mano del suo uomo armeggiare al chiavistello della porta. Nonostante l’ardore della passione che è dentro di lei, la donna conserva zone d’ombra e di rifiuto alla donazione d’amore. L’amore umano conosce anche momenti di oscurità, di noia. La donna non è ancora pronta al dono assoluto di sé. La sua è mancanza d’amore. Quando alla fine decide di alzarsi ecco l’amara sorpresa: l’uomo è già partito lasciando solo il profumo delle sue mani attaccato alla maniglia della porta. L’amore mancato o perduto va cercato di nuovo. Non ci si deve mai stancare di rincorrere l’amore. Inizia allora una corsa frenetica per le vie della città deserta e ostile nella notte. La donna viene avvistata dalle guardie della ronda notturna e forse scambiata per una prostituta, La reazione è brutale. La inseguono, la spogliano, la

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violentano, la feriscono. Umiliata, la donna non perde però il desiderio di ritrovare l’amato. L’amore vero supera le difficoltà ed è conquista perenne. Lei lancia un appello al coro delle”figlie di Gerusalemme” (alle compagne damigelle del corteo nuziale) perché l’aiutino nella ricerca dell’amato, comunicandogli un unico messaggio: “Che sono malata d’amore” (v. 8). Questo dialogo con il coro, che chiede una specie di identikit dell’innamorato per riconoscerlo, permette alla donna di disegnare il ritratto dell’amato, proprio come quest’ultimo aveva fatto per lei. Abbiamo quindi un altro wasf o descrizione, che ora ha per soggetto l’uomo, nella sua bellezza e vigoria. Il suo corpo ricorda le statue regali delle grandi civiltà antiche, ornate di materiali preziosi. L’esaltazione è ricca di allusioni erotiche. La contemplazione del corpo è anche qui al servizio di un preciso messaggio: il corpo è celebrato come passione per quella persona, nella sua singolarità e irripetibilità, ed è considerato come segno di intimità, di dialogo e d’amore. Come Lei è “unica” per Lui, così Lui è davvero “unico” per Lei perché “riconoscibile fra mille e mille” (v. 10). Anche qui le immagini usate sono tipicamente orientali, ma esprimono ammirazione, stupore, fascino, attrazione. L’amato è rubicondo, con i capelli corvini, simili all’intreccio delle palme, con occhi teneri come colombe (uccello caro al Cantico, simbolo d’amore e di fedeltà), con una dentatura candida, con le guance dalla barba profumata, con le labbra calde come i gigli rossi di Palestina, con le mani ornate di anelli. Anche il petto ha il colore dell’avorio ed è ornato di pietre preziose (allusione ai genitali) e le gambe sembrano due solide colonne. Infine si loda lo stesso palato perché è segno del linguaggio, ma anche sede dei baci. Insomma conclude la sposa: l’amato “è tutto delizie”, cioè è la sintesi della bellezza e del desiderio.

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CAPITOLO 6

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Dov’è andato il tuo diletto, o bella fra le donne? Dove si è recato il tuo diletto, perché noi lo possiamo cercare con te? 2 Il mio diletto era sceso nel suo giardino fra le aiuole del balsamo a pascolare il gregge nei giardini e a cogliere gigli. 3 Io sono per il mio diletto e il mio diletto è per me; egli pascola il gregge tra i gigli.

6,1-3 “Dov’è andato il tuo diletto, o bella fra le donne?” La domanda delle amiche è ancora un espediente letterario per introdurre il breve frammento in cui l’amata canta il ritrovamento dell’amato che in Lei trova un piacere struggente. La ricerca ha contribuito a rendere più vero, più profondo e splendido l’amore. nella cornice del “giardino”, che, come si è visto, è simbolo della donna, l’amato è presente (v. 2), “sceso a pascolare il gregge e cogliere gigli”, e nell’intimità dell’abbraccio lei gli dichiara il suo amore con quella formula di mutua donazione e appartenenza che già era stata usata in 2, 16 “Io sono per il mio diletto e il mio diletto è per me” (v. 3). Una formula che, per molti esegeti, è allusiva della cosiddetta formula dell’alleanza tra Jahvè e il suo popolo: “Jahvè è il nostro Dio e noi siamo il suo popolo”. La donna esprime così le gioie dell’amore consumato e proclama orgogliosamente l’adesione all’unico, di cui l’amore monogamico è il sacramento. L’amato è lì, sempre e tutto suo, con Lei sempre e tutta sua. Ognuno dei due è con l’altro e per l’altro, totalmente, sempre. L’importante è non arrendersi al silenzio, al gelo dell’assenza, all’inferno della disperazione e del fallimento.

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QUINTO POEMA

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4 Tu sei bella, amica mia, come Tirza, leggiadra come Gerusalemme, terribile come schiere a vessilli spiegati. 5 Distogli da me i tuoi occhi: il loro sguardo mi turba. Le tue chiome sono come un gregge di capre che scendono dal Gàlaad. 6 I tuoi denti come un gregge di pecore che risalgono dal bagno. Tutte procedono appaiate e nessuna è senza compagna. 7 Come spicchio di melagrana la tua gota, attraverso il tuo velo. 8 Sessanta sono le regine, ottanta le altre spose, le fanciulle senza numero. 9 Ma unica è la mia colomba la mia perfetta, ella è l'unica di sua madre, la preferita della sua genitrice. L'hanno vista le giovani e l'hanno detta beata, le regine e le altre spose ne hanno intessuto le lodi. 10 «Chi è costei che sorge come l'aurora, bella come la luna, fulgida come il sole, terribile come schiere a vessilli spiegati?». 11 Nel giardino dei noci io sono sceso, per vedere il verdeggiare della valle, per vedere se la vite metteva germogli, se fiorivano i melograni. 12 Non lo so, ma il mio desiderio mi ha posto sui carri di Ammi-nadìb.

Dopo l’elogio dell’amato, ecco il parallelo delle lodi di Lui alla sua donna.

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E’ ancora un solenne canto del corpo dell’amata, ma questa volta l’elemento di novità è l’insistenza sull’unicità. La sua donna è bellissima “unica” tra mille; Lei sola può saziare il suo desiderio d’amore del suo uomo, Lei sola può colmare il suo cuore. E’ paragonata alla città più bella del nord, Tirsa, e a quella del sud, Gerusalemme. Orgogliosa di una bellezza che trafigge, il suo sguardo fa di Lei una terribile incantatrice; gli occhi non sono più dolci come colombe, ma comunicano un potere che soggioga. I capelli sono folti, i denti bianchi come un gregge, le guance rosse come un melograno. All’innamorato non interessa un harem ricco di spose e concubine, come quello di Salomone, egli non ha dubbi sull’unicità della sua donna. Al fasto di un harem immenso, preferisce la dolce intimità del corpo della sua donna dove trova vita e fecondità: (v. 11) “Nel giardino dei noci sono sceso … per vedere se la vite metteva germogli … se fiorivano i melograni”. In Siria le noci sono frutti associati al culto della dea Astarte per ottenere la fecondità. La vite e il melograno sono simboli di fecondità. Solo la sua donna riesce a riassumere quanto Lui desidera e attende. E Lei è “l’unica” e “la preferita” non solo per sua madre, ma anche per lui. Questo canto è una mirabile esaltazione del progetto originario di Dio sulla coppia che Egli volle monogamica e fedele. Viene quindi sottolineato il valore monogamico del matrimonio. Nel verso 10 è il coro femminile che intona un canto di lode della donna bella, splendente e fiera. Viene paragonata all’aurora con il suo delicato brillare, alla luna incantevole, al sole sfolgorante, mentre sulla terra la donna è paragonata ad armate ebraiche vittoriose con i vessilli spiegati. Il verso 12 è un po’ oscuro: “Non lo so, ma il mio desiderio mi ha posto sui carri di Ammi-nadìb” potrebbe

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alludere alla passione amorosa dell’innamorato, che lo porta a un particolare stato di ebbrezza espresso con l’immagine dei carri di Ammi-nadìb. Non lo so in ebraico vuole significare “non mi riconosco più”, “sono fuori di me”. Se Lei è “malata d’amore” (5,8) Lui è pazzo d’amore e grida la sua follia d’amore per l’unica, la perfetta colomba, l’insostituibile, l’indimenticabile.

RIFLESSIONE Sesso e fecondità nel cantico Il Cantico ci offre spunti preziosi per una “Teologia del piacere”: l’eros quando è bene inteso ha qualcosa dell’esperienza religiosa perché è traccia della parola di Dio che l’ha fondato. La sessualità, come è stata voluta da Dio, non è mai solo istinto, ma è espressione di desiderio dell’altro nella sua vicinanza corporea, perché l’altro è promessa di piacere, di senso, di vita. Nel Cantico si esalta il piacere e l’amore della coppia, ma si allude discretamente anche alla promessa di “fecondità” di cui la donna amata è depositaria. Certo l’autore esalta la comunicazione-comunione interpersonale dei due sposi più che la generazione, ma il tema della fecondità è continuamente sottinteso, anche se non esplicitato come nei testi di Genesi. Per esempio l’ammirazione per il risveglio della natura, la donna amata che viene paragonata ad una vite con i germogli, a un pozzo d’acqua viva (l’acqua è fonte di vita); l’accenno alle mandragore (considerate come un rimedio contro la sterilità), al melograno (frutto a cui la Bibbia attribuisce capacità eccitanti e fecondatrici), al noce (simbolo caro ai culti della fertilità). Più significativa ancora è la descrizione del ventre dell’amata, che offre il paragone con una coppa ripiena di

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vino e di grano, che sono sempre stati simboli del piacere e della fecondità. Il Cantico quindi celebra un amore che non si chiude in se stesso, ma partecipa alla grande corrente della vita. Un vero rapporto d’amore non può non collocarsi nell’ordine della creazione e della fecondità.

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«Volgiti, volgiti, Sulammita, volgiti, volgiti: vogliamo ammirarti». «Che ammirate nella Sulammita durante la danza a due schiere?». «Come son belli i tuoi piedi nei sandali, figlia di principe! Le curve dei tuoi fianchi sono come monili, opera di mani d'artista. Il tuo ombelico è una coppa rotonda che non manca mai di vino drogato. Il tuo ventre è un mucchio di grano, circondato da gigli. I tuoi seni come due cerbiatti, gemelli di gazzella. Il tuo collo come una torre d'avorio; i tuoi occhi sono come i laghetti di Chesbòn, presso la porta di Bat-Rabbìm; il tuo naso come la torre del Libano che fa la guardia verso Damasco. Il tuo capo si erge su di te come il Carmelo e la chioma del tuo capo è come la porpora; un re è stato preso dalle tue trecce». quanto sei bella e quanto sei graziosa, o amore, figlia di delizie! la tua statura rassomiglia a una palma

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e i tuoi seni ai grappoli. Ho detto: «Salirò sulla palma, coglierò i grappoli di datteri; mi siano i tuoi seni come grappoli d'uva e il profumo del tuo respiro come di pomi». «Il tuo palato è come vino squisito, che scorre dritto verso il mio diletto e fluisce sulle labbra e sui denti! Io sono per il mio diletto e la sua brama è verso di me. Vieni, mio diletto, andiamo nei campi, passiamo la notte nei villaggi. Di buon mattino andremo alle vigne; vedremo se mette gemme la vite, se sbocciano i fiori, se fioriscono i melograni: là ti darò le mie carezze! Le mandragore mandano profumo; alle nostre porte c'è ogni specie di frutti squisiti, freschi e secchi; mio diletto, li ho serbati per te».

Introdotta da un invito del coro, formato da fanciulle e giovani, amiche di Lei e amici di Lui, il Cantico ci offre una “danza nuziale”, o “danza a due schiere”, simile a quella nota in Oriente come “danza delle spade”, che avrebbe la funzione di vincere gli spiriti del male ostili alla coppia e alla sua fecondità. L’amata, che adesso è chiamata con il termine di Sulammita (allusione al termine Shalom (=pace), come per Salomone), è invitata a danzare. E così si offre allo sposo l’occasione di proseguire con un nuovo ritratto della sua donna e della sua maestosa bellezza. Ancora una volta il corpo è protagonista del canto e, poiché la donna danza freneticamente , la descrizione

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parte dal basso, dai piedi avvolti nei sandali e sale lungo tutto il corpo, fino alla testa. Le immagini sono molteplici e danno valore alle varie parti del corpo femminile, che è contemplato con passione dall’amato, ma anche con serenità e rispetto, senza complessi. I piedi, i fianchi torniti, l’ombelico, il ventre, i seni, il collo, gli occhi, il naso, i capelli sono accompagnati da comparazioni diverse. Molte sono comprensibili, altre rimandano a elementi geografici della Terra Promessa, noti al poeta o al lettore ebreo. L’intero profilo della donna evoca una palma snella, slanciata. Numerosi sono anche i simboli che alludono alla fecondità: coppa rotonda, grano, gigli,vino. Il canto termina con un’appassionata dichiarazione d’amore di Lui, che aspira a possedere l’amata con la piena libertà dell’amore sponsale. Per esprimere l’ebbrezza finale dell’unione si ricorre ancora all’immagine della vigna con i grappoli d’uva e al profumo (v. 7,8,9) : “salirò sulla palma e coglierò i grappoli di datteri …” ecc. . V. 10 Con pari libertà l’amata canta ora la sua totale dedizione all’amore per Lui. I due si ritrovano nell’abbandono gioioso ed esaltante dell’amore: i baci e le dolci parole d’amore che lo sposo mormora alla sposa la inebriano come vino. Il v. 11 “Io sono per il mio diletto e la sua brama è verso di me” è uno dei vertici del messaggio del Cantico, ed esprime la reciproca e paritaria esperienza del possesso totale, propria dell’amore sponsale. Nel Cantico la donna riconquista il proprio posto e la propria dignità pari a quella dell’uomo e l’amore ritrova il suo vero significato di mutua donazione dei corpi, di reciproco desiderio dei due innamorati. La donna afferma coscientemente non solo di amare, ma anche di essere amata, desiderata, attesa dal suo uomo. La parità delle due persone, la certezza del loro mutuo possedersi sono

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ormai la celebrazione di un amore matrimoniale maturo e genuino. Il testo rimanda spontaneamente al testo di Genesi 3, 16 che parla della brama della donna verso l’uomo, effetto dello scadimento originale “Verso tuo marito sarà il tuo istinto (brama), ma egli ti dominerà”. Entrambi i testi Gn 3,16 e Ct 7,11 parlano dell’amore sessuale come di qualcosa donato da Dio, voluto da Dio; ma mentre in Genesi a causa del peccato l’impulso della donna verso l’uomo appare come un desiderio insopprimibile, quasi cieco, che si scontra con il desiderio di dominio e di prepotenza del maschio, nel Cantico la consapevolezza di essere così ardentemente desiderata da Lui serve soltanto all’aumento della passione e del desiderio sessuale, perché sono alimentati e trasformati dall’amore autentico. La passione allora perde ogni traccia di egoismo ed esprime la purezza della donazione e il piacere dell’unione non resta cieco, ma gioioso ed aperto alla vita. Il v. 12-14 sembra aprire un altro brano. Sullo sfondo la campagna immersa nella freschezza della primavera, stagione dell’amore. Con un invito delicato e tenero, ma ardente, così come aveva fatto l’amato in 2,10-14, la donna conduce per mano il suo uomo in campagna, nelle vigne, tra lo sbocciare dei fiori e dei melograni, lasciandosi avvolgere dai colori e dai profumi e cibandosi (v. 14) “di frutti squisiti freschi e secchi”. E’ un invito all’amore che deve essere sempre rinnovato. Si menziona la mandragora, considerata un afrodisiaco (ricordiamo l’episodio in cui Rachele, la sposa prediletta di Giacobbe, richiede a Lia, la sua rivale, proprio questo arbusto per ottenere la fecondità (Gen 30,14-16).

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CAPITOLO 8

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Oh se tu fossi un mio fratello, allattato al seno di mia madre! Trovandoti fuori ti potrei baciare e nessuno potrebbe disprezzarmi. 2 Ti condurrei, ti introdurrei nella casa di mia madre; m'insegneresti l'arte dell'amore. Ti farei bere vino aromatico, del succo del mio melograno. 3 La sua sinistra è sotto il mio capo e la sua destra mi abbraccia. 4 Io vi scongiuro, figlie di Gerusalemme, non destate, non scuotete dal sonno l'amata, finché non lo voglia.

Dalla campagna l’obiettivo del poeta si sposta verso la città, ove i due innamorati non possono ancora liberamente presentarsi in pubblico con effusioni spontanee. Il Cantico non segue una storia ininterrotta di fidanzamento e nozze, ma continua a oscillare tra quadri diversi, ora al presente, ora avvolti nel passato, ora protesi sul futuro. La donna sembra qui abbandonarsi a una specie di sogno; se il suo amato fosse suo fratello di sangue o di latte, appartenente allo stesso clan, ella incrociandolo per le strade della città potrebbe baciarlo e nessuno malignerebbe. Il forte desiderio della donna di vivere una piena comunione con il suo uomo la spinge ad immaginare, dopo averlo incontrato, di accompagnarlo subito “nella casa di mia madre” per vivere la grande avventura dell’amore. Le parole del v. 2 sono tutte allusioni ad un amore consumato. Introdotto l’amato nella casa materna,

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la donna si offre alle sue mani sapienti: “mi insegneresti l’arte dell’amore”, cioè l’uomo la inizierebbe all’amore. Ma la donna sa anche che lo stesso innamorato avrebbe molto da ricevere da lei: cioè l’ebbrezza della bellezza femminile. Il corpo della donna è come vino aromatico e come succo del melograno che inebria ed esalta. Il sogno della donna termina con l’abbraccio dell’amato nella più completa unione (v.3). Il v. 4 ripete il ritornello con l’invito al silenzio intorno al mistero dell’amore. Epilogo

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Chi è colei che sale dal deserto, appoggiata al suo diletto? Sotto il melo ti ho svegliata; là, dove ti concepì tua madre, là, dove la tua genitrice ti partorì. Mettimi come sigillo sul tuo cuore, come sigillo sul tuo braccio; perché forte come la morte è l'amore, tenace come gli inferi è la passione: le sue vampe son vampe di fuoco, una fiamma del Signore! Le grandi acque non possono spegnere l'amore né i fiumi travolgerlo. Se uno desse tutte le ricchezze della sua casa in cambio dell'amore, non ne avrebbe che dispregio.

Questo brano è la vetta ideale dell’intero poema. In nessuna parte il Cantico aveva ancora definito l’amore. Lo fa qui l’amata: con termini molto forti e bellissimi descrive la sua forza invincibile, il suo carattere ineluttabile, il suo valore senza pari.

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E’ un inno alla “divinità” dell’Amore. Infatti solo qui per la prima e unica volta nel Cantico appare il nome sacro proprio del Dio di Israele, Iahvè. E’ un inno che celebra la potenza e la gioia dell’amore, la realtà più grande che l’uomo possegga. E la convinzione del poeta sacro è che nulla può distruggere l’amore, né può piegarlo, perché partecipa della forza stessa di Dio, essendo di sua natura vita, come Dio che è per eccellenza il Vivente. Nell’al di qua dell’amore umano si gusta già la primizia della vita indistruttibile di Dio. 8, 5 Il canto inizia con due frammenti indipendenti: 1° Sullo sfondo appare una coppia che viene nel deserto: la fanciulla è appoggiata al suo amato. 2° Nel secondo frammento si celebra l’amore matrimoniale, che non è solo amore sessuale, ma è anche aperto a una nuova creazione. Al centro c’è “il melo”, l’albero dell’amore, alla cui ombra la sposa si è addormentata. L’uomo la risveglia e la riporta al desiderio dell’unione d’amore. Nei versi 6-7 il poeta canta la sua “teologia dell’amore sponsale”, voluto da Dio, creato da Dio e mette sulle labbra della donna i versi che sono una riflessione generale sull’amore, tipica della letteratura sapienziale, culmine del suo messaggio religioso. L’amore umano parla di Dio, è dono di Dio, segno del suo amore. L’amata esplode in un canto che esalta la natura dell’amore, tutto il suo mistero e tutta la sua forza. 8, 6 “Mettimi come sigillo sul tuo cuore, come sigillo sul tuo braccio” Questo comando di essere portata come “sigillo”, che si portava appeso al collo (Gen 38,18-25) o adagiato sul petto o infilato nel dito di una mano (Gen 41,42), esprime il desiderio ardente ed impetuoso di vicinanza fisica e di unità indissolubile ed eterna. Anche la legge di Jahvè doveva essere legata alla mano come segno, posta come pendaglio tra gli occhi e

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scritta sugli stipiti delle porte delle case o meglio messa nell’anima e nel cuore (Dt 6,8; 11,18). Come “il sigillo” l’amata vuole essere lo stesso io del diletto, la sua carta di identità “la stessa carne” (Gen 2,24). L’intelligenza, la volontà, l’affettività, l’azione, la personalità intera devono diventare dono, regalo reciproco assoluto. L’amore sponsale tende a una pienezza di comunione, comunione che è desiderio di eternità “perché forte come la morte è l’amore tenace come gli inferi è la passione” La congiunzione “perché” introduce la motivazione dell’amore come tale, in assoluto, non più solo un riferimento all’amore di Shelomo e Shulammit. E’ il messaggio teologico del redattore. L’amore vero, la comunione tra gli sposi sfida la morte perché è vita, perché desidera l’eternità. E’ la sfida che la comunione degli innamorati lancia alla stessa morte e ad ogni avversario. Neppure l’avversaria della vita, la MORTE, può paradossalmente infrangere l’AMORE, neppure le acque del caos, del nulla. L’amore con la sua passione ardente riesce a sopravvivere. E a tutto questo c’è una sola spiegazione: “le sue vampe sono vampe di fuoco una fiamma del Signore!” La forza dell’amore è dirompente e inarrestabile come è la forza del fuoco. L’amore che spinge con forza misteriosa l’uomo verso la donna, la donna verso l’uomo, l’amore che li spinge ad un’unione completa è un fuoco acceso dal Dio creatore, viene da Dio poiché “Dio è amore” (1 Gv 4,8-16). Per questo il vero amore vince la morte, è eterno ed è un amore santo perché ha tutta la bellezza e la purezza della creazione divina. E’ un amore costante, fedele, tenerissimo, persino capace di rinnovarsi dopo momenti

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di crisi. Esso non ha niente di impuro, di peccaminoso, di contrario alla volontà di Dio: diventa disordine e peccato solo quando degenera in sfrenata bramosia, che mortifica anziché far crescere. Ma il paragone con la fiamma di Jahvè allude anche al mistero dell’amore come rivelazione del mistero stesso di Dio. Ecco perché anche i profeti hanno privilegiato la metafora sponsale per parlare dell’amore di Dio per il suo popolo. Osea cap 1-3; Isaia cap 54; Geremia cap 30-31; Ezechiele cap 16 e 23 si sono serviti di immagini nuziali per parlare del rapporto d’amore tra Dio ed Israele. I profeti non si sono solo limitati a ritenere sacro il matrimonio per la sua origine (vedi Gen 1,27 dove l’ordinamento dei sessi è voluto e ordinato da Dio creatore e Gen 2,18 dove è Dio che procura la compagna all’uomo), ma hanno colto nel matrimonio, nella conoscenza tra i due sposi, fatta di intimità, di dono reciproco, di unione dei corpi e dei cuori, un segno chiaro dell’amore di Dio, di quella unione che Dio vuole stringere con noi. Un’unione così intima che può essere detta solo con il vocabolario che Israele usava per l’unione sessuale. Questo per dire che l’unione sessuale tra i due sposi, l’eros che li congiunge ha qualcosa di divino in se stesso. L’ultima parte di 8,7 ci riconduce alla vita quotidiana. Ci viene ricordato che l’amore non ha prezzo, soprattutto non si vende, né si compra perché è dono gratuito e il suo valore è inestimabile. L’amore è legato unicamente alla libera scelta dei due giovani. “Se uno desse tutte le ricchezze in cambio dell’amore non ne avrebbe che dispregio” Le parole che l’autore pone in bocca alla donna vogliono dire che una grossa dote (“mohar”), anche l’intera fortuna di un uomo non gli assicurerebbe l’amore della fanciulla.

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Chi pensa di poter vivere l’amore come merce di scambio, lo umilia e riduce l’incontro amoroso al commercio sessuale con una prostituta, dove si perde sicuramente qualsiasi ricchezza dell’eros, dove il corpo non esprime più l’impegno della libertà nella donazione, ma piuttosto lo offusca.

APPENDICI

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Una sorella piccola abbiamo, e ancora non ha seni. Che faremo per la nostra sorella, nel giorno in cui se ne parlerà? 9 Se fosse un muro, le costruiremmo sopra un recinto d'argento; se fosse una porta, la rafforzeremmo con tavole di cedro. 10 Io sono un muro e i miei seni sono come torri! Così sono ai suoi occhi come colei che ha trovato pace!

Questi tre ultimi frammenti sono forse canti in miniatura, piccole poesie d’amore, recuperate dal redattore e inserite nel contesto del Cantico. Nel primo frammento entrano in scena i fratelli della sposa, che sembrano opporsi al matrimonio della sorella, volendone tutelare la verginità in vista di future nozze, che essi credono di poter combinare (v 8-9) La ragazza reagisce rivendicando la sua piena libertà di scelta dell’amore, dichiarando di essere in grado da sola di difendersi, ma soprattutto affermando di essere “shalom” cioè “pace” per il suo amato.

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L’amore dà pace non solo a chi ama, ma anche a colui che è amato. Abbiamo qui l’unico esempio dell’A.T. dove proprio dalla bocca di una donna si protesta contro il costume di un amore imposto. Il poeta canta l’amore vero, che si fonda sulla libera scelta del cuore anche da parte della donna.

8 11 Una vigna aveva Salomone in Baal-Hamòn; egli affidò la vigna ai custodi; ciascuno gli doveva portare come suo frutto mille sicli d'argento. 12 La vigna mia, proprio mia, mi sta davanti: a te, Salomone, i mille sicli e duecento per i custodi del suo frutto! Penultimo frammento di canto amoroso. E’ lo sposo che canta la sua donna con l’immagine della “vigna” e la paragona ad una vigna di proprietà dello storico re Salomone, molto ricca. L’amato alle favolose ricchezze di un re e al corrispettivo “harem” di donne, preferisce la sua piccola vigna, la sua donna, suo unico e supremo bene, che gli procura la pienezza dell’amore.

8 13 Tu che abiti nei giardini - i compagni stanno in ascolto fammi sentire la tua voce. 14 «Fuggi, mio diletto, simile a gazzella o ad un cerbiatto, sopra i monti degli aromi!».

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Nel terzo e ultimo frammento l’avventura dei due amanti viene quasi riportata all’inizio. L’amato infatti invoca l’amata perché gli faccia sentire la sua voce (v 13) Ed è la donna a pronunciare le ultime parole, che sono un invito all’uomo amato perchè fugga, ritorni (v. 14) “sopra i monti degli aromi”, cioè verso l’ebbrezza dell’amore con desiderio sempre più crescente di raggiungere orizzonti più ampi. E’ un modo per ricordarci che l’amore non è mai possesso definitivo, l’amore autentico è sempre ricerca l’uno dell’altro, è un punto di partenza per esperienze sempre nuove ed arricchenti. E’ un itinerario di ricerca e di conquista mai definitivo, che conosce crisi e smarrimenti. L’autore del Cantico ci dice che l’amore unico e indissolubile è un atto di fede “difficile”, ma “possibile” perché “forte come la morte è l’amore, tenace come gli inferi è la passione”, perché è “fiamma del Signore”, perché viene da Dio che è Amore. La sua avventura deve continuare sulla strada del tempo, sempre, in un cammino che avrà fine solo nell’Eterno. D. Lys, un commentatore del cantico, a proposito di questa finale dice: “Il Cantico non conduce l’avventura dell’amore a un lieto fine, a un punto finale, ma l’avventura continua … L’essenziale è che gli sposi continuino a volersi bene l’un l’altro, giorno dopo giorno, come si sono voluti bene il primo giorno”.

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Come dare senso a un amore sponsale crocifisso? (Da: Valerio Mannucci Sinfonia dell'amore sponsale) Il Cantico dei Cantici, che pur non dimentica le fatiche, le sofferenze e gli smarrimenti di cui è intessuta la dinamica dell'amore sponsale in una quotidianità non sempre facile ed esaltante, sembra non avere niente da dire a quei coniugi che si trovano a vivere situazioni ben più drammatiche. C'è nel Cantico una reciprocità dell'amore che non consente ai momentanei smarrimenti o anche tradimenti di Lui e di Lei di infrangere e compromettere seriamente il loro rapporto. D'altronde ci sono coppie che hanno imparato, dalla loro stessa esperienza, la sublime lezione del «ritrovarsi» dopo essersi «smarrite». Ma cosa dire quando questa reciprocità non esiste più? quando l'ansia della ricerca e la disponibilità al dono d'amore permangono in uno solo dei due partner? quando Lui o Lei non riconoscono più il volto dell'altro, non si accorgono più della sua presenza e non ascoltano più la sua voce e il suo richiamo? quando un muro di incomprensione, d'indifferenza e di tragico silenzio si erge tra i due e l'amore di chi ancora ama sembra diventare un pesante e inutile fardello, in ogni caso una realtà che il cuore e le mani custodiscono ma appare ormai inservibile e incomunicabile? Quale parola della Rivelazione biblica può dare senso a un amore che, umanamente parlando, sembra nient'altro che una condanna? La Rivelazione biblica di Dio non si esaurisce nel Cantico dei Cantici e neppure nell'Antico Testamento. In definitiva soltanto in Gesù Cristo si trovano il compimento

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e la pienezza della divina Rivelazione. È Lui che offre alla coppia crocifissa l'evento e la parola capaci di conferire significato e fecondità insperata a ciò che, umanamente parlando, ha l'amaro sapore di un'assurda sofferenza e di un fallimento. Dire con il Cantico che « forte come la morte è l'amore..., le sue fiamme sono una fiamma di Iahvè » (Ct 8,6c) significa affermare e credere che l'amore supera ogni negazione, che l'amore è invincibile perché è dono di Dio, di un Dio che « è amore ». Ma questa « Bella Notizia » del Cantico (cf Ct 8,6c-7b) rimane una notizia parziale e incompiuta, se non la leggiamo alla luce dell' Evangelo-Bella Notizia che è Gesù Cristo. L'amore di Dio, infatti, in niente e in nessuno si è rivelato come nella Croce di Gesù Cristo, che è il segno eminente dell'amore di Dio per gli uomini e dell' amore di Cristo per il Padre e per i fratelli. Allora l'esauriente risposta di senso all' amore sponsale crocifisso, appena adombrata nel Cantico che inneggia all'amore della coppia sul modello dell'Alleanza di amore tra Dio e Israele, discende dalla Croce di Cristo per coloro che la sanno guardare e accogliere con i gli occhi della fede. L'infinito amore di cui Cristo dà prova con il dono totale di Sé abbraccia ogni uomo e donna, anche se incontra la quasi assoluta incomprensione dell'altro. Cristo non muore come un eroe, sostenuto dall'ammirazione e dal plauso dei suoi seguaci. Sale sul Calvario da solo e vi muore crocifisso come uno che agli occhi del mondo ha fallito e sbagliato tutto, come uno che non ha saputo difendere nè se stesso, nè la causa per la quale aveva lottato. Dunque, sembra un sacrificio inutile, compiuto nella solitudine e nell'abbandono.

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Ma la Croce non è l'ultima parola, e il cristiano credente lo sa. La notte dell'agonia e della morte prelude all'alba della Risurrezione, il cui Annuncio sta là a provocare la nostra fede e a dirci che niente è andato perduto di quell'amore crocifisso dall'infedeltà degli uomini. L' amore nudo di Gesù è accolto dal Padre celeste e viene profuso sull'umanità intera, ricreandola all'amore. Nel racconto giovanneo della Passione (cf Gv 19,28-37) l'ora della Croce è l'ora del compimento salvifico: l'ultimo respiro di Gesù è già «trasmissione dello Spirito» (Gv 19,30b), e dal fianco trafìtto del Crocifisso «escono sangue e acqua» (Gv 19,34), simbolo della salvezza che risana e ricrea. Gesù muore come il Nuovo Adamo che nel suo sonnomorte (cf Gn 2,21-23) genera la Nuova Eva, ovvero la Chiesa come comunione d'amore. Così, se leggiamo il messaggio del Cantico alla luce di Cristo morto e risorto, anche l'amore sponsale umano, crocifisso perché incompreso o non accolto, trova risposta alla sua richiesta di senso. Sul sofferto cammino di un amore che giorno dopo giorno è costretto a vivere nella solitudine, nell'indifferenza o addirittura nell'abbandono, si erge Cristo crocifisso e poi Risorto. La speranza che sostiene l'amore sponsale tradito è speranza che si affida a Dio e dalla Grazia di Dio, che sostiene con la sua indefettibilità il povero amore umano, attende con fiducia un compimento e una pienezza altrimenti insperabili. E non è detto che tutto debba essere rinviato all'al di là. Non uno solo ma molti potrebbero testimoniare e raccontarci di un ultimo tempo — fosse anche una settimana, un giorno o addirittura un attimo — in cui le mani tornano a stringersi forte, gli occhi a incrociarsi luminosi, segno di una comunione d'amore «ritrovata», capace di riscattare una lunga «via crucis» e per la quale, dunque, valeva la pena di vivere.

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INDICE

Introduzione ………………………………………………….....5 Struttura del cantico dei cantici ……………………13 L’amore sponsale nell’Antico Testamento ….….15 Il corpo nel cantico ………………………………….……..20 Lettura : Capitolo 1 …………………………………………….…….23 Capitolo 2 …………………………………………………..28 Capitolo 3 ………………………………………….………33 Capitolo 4 ……………………………………………..…..37 Capitolo 5 ………………………………………..…..……42 Capitolo 6 ………………………………………..…..…..47 Sesso e fecondità nel Cantico ……………….…..…50 Capitolo 7

…………………………………………...….51

Capitolo 8

……………………….….…………..….….55

Epilogo ….………………………………………………...56 Appendici .………………………………….…………...60 Come dare un senso a un amore sponsale crocifisso? ……………………....………….……………..…63

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Bibliografia

G. Ravasi Il Cantico dei Cantici, cantico degli sposi San Paolo 1987

V. Mannucci Sinfonia dell’amore sponsale Elle Di Ci 1983

P. Rota Scalabrini Cantico dei cantici, la primavera dell’amore Scuola della Parola Diocesi di Bergamo 1998

A. Schökel Cantico dei cantici in: La Bibbia parola di Dio scritta per noi Vol. 2 Marietti Torino 1980

A. Chouraqui Il Cantico dei Cantici Città nuova 1980

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Il Cantico dei Cantici è una serie di poesie liriche sul tema dell’amore tra l’uomo e la donna. Il poema è tutto vibrante di passione e di gioia per l’amore umano. L’ambiente è pastorale, le poesie abbondano di immagini agresti desunte dall’orizzonte palestinese e la vicenda si svolge in primavera, che è la stagione privilegiata dell’amore. Probabilmente queste poesie liriche erano una serie di canti da usarsi nelle nozze, che duravano una settimana e vogliono celebrare la bellezza e il miracolo dell’amore umano. Vi è una gioia schietta e aperta nell’attrazione fisica per sottolineare il fatto che Dio vuole che l’uomo e la donna godano l’amore fisico entro i limiti delle leggi da lui stabilite. L’autore vuole risalire all’unione monogamica e indissolubile della coppia, recuperandone l’ideale secondo il piano divino e canta la relazione sessuale proprio perché essa venga vissuta e compresa nel significato autentico che le è stato dato da Dio creatore, cioè come strumento e vertice di profonda comunione e donazione reciproca fra l’uomo e la donna che si amano.


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