Montesole

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Montesole. Fedeli a Dio, fedeli alla storia. La mia ricerca, sin dal principio, si è mossa nell'orizzonte ecclesiale, ho cercato Dio nell'ambito della Chiesa. La mia non è mai stata una ricerca privata, intesa come anelito individuale a Dio e neppure come aspirazione di un piccolo gruppo elitario più o meno separato, ma si è posta in sinu ecclesiae con immediatezza e totalità sino ad assumere come suo punto di partenza, e come costante condizione del suo esito, il rapporto di obbedienza rigorosa a un vescovo e quindi il rapporto effettivo con l'intera sua Chiesa. Questa nota della mia ricerca è rimasta sino ad oggi, non ha mai – per grazia di Dio – subito incertezze e flessioni, anche quando la persona del vescovo è mutata (per ben tre volte) e certe condizioni ecclesiali si sono fatte meno favorevoli […]. Non ho avuto la tentazione di rifugiarmi sotto le grandi ali protettrici di un ordine monastico, come si dice, esente. Ero ben consapevole dei vantaggi che questo mi avrebbe potuto garantire: cioè una tradizione provata e sicura, una matrice spiritualmente tutta monastica e perciò pregiudizialmente a me più omogenea. Ma proprio di questo ho avuto in certo modo paura: di un eccesso di garanzie e ancora di una linea spirituale troppo già data, meno aperta ad altri doni percepibili e comunicabili soltanto in un ambito più lato – ripeto non sociologico – ma di comunione e di carismi. Non ho avuto paura della clausura, anzi tutt'altro, ma della possibilità che un monastero, anche di fedele e rigorosa osservanza, pur essendo di certo per questo nel cuore della Chiesa universale, non sempre risentisse l’influsso delle vicende vissute e dei doni in concreto elargiti al popolo di Dio nel suo complesso e nelle sue articolazioni […]. Perciò fin dal principio – non per scelta mia, ma per pura grazia – ho cercato il «nome incomunicabile» (Sap 14, 21) «in mezzo all'assemblea», in mezzo alla grande Chiesa: non in una chiesuola ritagliata con le forbici secondo il mio gusto, e neppure solo nel segreto intimo, che sarebbe divenuto intimistico, della mia anima. Certo sempre lontano dalla gente e dai rumori mondani, ma sempre dentro a un popolo (cfr. Lc 23, 27) che aveva come punto di attrazione il Crocifisso (cfr. Gv 8, 28 e 12, 32) e che il Crocifisso, proprio dall'alto della croce, cominciava a purificare e unificare effondendo su questo popolo il suo Spirito (cfr. Gv 19, 30) (Don Giuseppe Dossetti, L’esperienza religiosa. Testimonianza di un monaco, in La Parola e il silenzio, pp. 109-112). Forse è giusto che l'itinerario per raggiungere i fratelli e le sorelle di Montesole non sia troppo agevole. Con la fine, a metà della salita su per l’appennino tosco-emiliano, della strada asfaltata, la Comunità probabilmente desidera proteggere la propria pace o forse sono i segni di un territorio che è rimasto abbandonato e maledetto per lunghissimi anni. Per orientarsi, i punti di riferimento non sono le segnalazioni stradali abituali, ma le testimonianze di una storia ancora recente ed angosciosa. Si


intravedono, da lontano, i resti di chiese e di case, si passa vicino alla chiesa di Casaglia, quasi interamente distrutta dopo le bombe a mano e l’incendio dei nazifascisti, e al piccolo Cimitero dove furono assassinate, il 29 settembre del 1944, decine e decine di persone, per lo più donne e bambini. Dove ieri c’erano campi, vigne e boschi ordinati, oggi ci sono rovi e alberi cresciuti ovunque. Il silenzio avvolge questi luoghi oramai disabitati e li riveste di una sacralità che ha i contorni dei volti degli innocenti trucidati senza ragione. Istintivamente, ti vengono in mente le ultime righe di un libro di Wiesel, il lucido testimone della Shoà: congedando i suoi personaggi, i morti evocati, dice che “il silenzio, più della parola, rimane la sostanza e il segno di ciò che fu il loro universo e, come la parola, il silenzio s’impone e chiede di essere trasmesso”. Forse per questo, il mandato della Chiesa bolognese, a firma del cardinal Biffi, a metà degli anni Ottanta, ha voluto che dei credenti, uomini e donne, vigilassero sui morti, richiamassero i vivi alla verità e alla giustizia, esercitassero, nello spirito e nella storia, la diaconia della memoria. E forse non a caso ha voluto che su quei luoghi si impiantassero fratelli e sorelle di una realtà ecclesiale nata nel 1955 con la stesura della Piccola Regola (prime professioni perpetue, nelle mani del cardinal Lercaro, il giorno dell’epifania del 1956), da una delle figure più significative del cattolicesimo italiano del Novecento: don Giuseppe Dossetti.

Con Dio, nella storia Giuseppe Dossetti nasce a Genova nel 1913. Nello stesso anno i genitori si trasferiscono a Cavriago, dove il padre gestisce una farmacia; qui compie i primi studi, per trasferirsi qualche anno dopo a Reggio Emilia a frequentare il liceo cittadino. Si iscrive all’Università di Bologna e dopo la laurea (1934) si sposta all’Università Cattolica di Milano per perfezionarsi. Dal 1942 è docente universitario di diritto ecclesiastico a Modena. A Reggio torna ogni fine settimana e sulle orme di un santo prete impara ad amare la liturgia e gli emarginati, a Milano ha modo di conoscere il gruppo che sarà detto dei “professorini”: Lazzati, Fanfani, La Pira ecc., con i quali si interrogherà sulle risposte della società civile al dramma e alle urgenze della povertà. Allo scoppio della seconda guerra mondiale si intensificano le ricerche e gli studi per un nuovo modello di società e di Stato. Durante la Resistenza Dossetti partecipa senza mai portare armi alla lotta clandestina, prima in pianura, poi in montagna. Sarà una esperienza decisiva. Dopo il 25 aprile è chiamato a Roma, cooptato dalla Democrazia Cristiana. Si ritrova vicesegretario della DC di De Gasperi. E’ deputato alla Costituente e alla Camera. Sono anni di intensa lotta politica. Dossetti cerca una via politica originale: la costruzione di una democrazia “sostanziale”. Lo scontro all’interno della DC è inevitabile. Nel 1947 fonda il quindicinale Cronache Sociali che sarà un riferimento delle migliori energie del partito democristiano e fucina di tantissimi quadri politici. Sul finire del 1951, dinanzi all’impraticabilità della sua proposta politica, si ritira dal Parlamento e dal partito. Si trattava per lui di lavorare profondamente per un rinnovamento della Chiesa che solo avrebbe consentito una diversa qualità della politica in Italia.


Decisivo è l’incontro con il cardinale Giacomo Lercaro. Si dedica alla ricerca storico teologica fondando il Centro di Documentazione e poi dà vita alla comunità monastica Piccola famiglia dell’Annunziata (1955; dal 1960 casa madre a Monteveglio, dal 1985 a Monte Sole). Dopo una breve esperienza – per obbedienza al cardinale – nel Consiglio comunale di Bologna, riprende la vita di semplice monaco e nel 1959 viene ordinato sacerdote. Durante il Concilio Vaticano II è collaboratore di Lercaro e poi fatto pro-vicario a fine Concilio. L’allontanamento di Lercaro dal soglio episcopale di Bologna coincide con il ritiro di Dossetti nella sua comunità. Da lì, Dossetti è uscito negli ultimi anni della sua vita come una sentinella ad alzare l’invito alla vigilanza. Ha visto nelle nostre città, nella situazione politica e morale dell’Italia, nelle manovre per sovvertire la costituzione, l’avanzare di una pericolosa disattenzione ai valori civili ed etici che fondano il patto sociale e politico e di un preciso progetto di accentramento del potere. Ha visto in pericolo la “sacra” Costituzione che custodisce i valori più preziosi della città, le norme fondamentali da cui tutto discende. L’aggettivo riecheggia un po’ una polemica sostenuta da don Gianni Baget Bozzo nel 1994 che accusava Dossetti di aver considerato la Costituzione più intoccabile della Eucaristia. È invece evidente da tutti i discorsi di Dossetti che la costituzione non è intangibile e monolitica. La sua difesa della Costituzione punta a difendere questo patto fondamentale da meccanismi di riforma illeciti, posti in atto con colpi di mano e forza mediatica. I suoi interventi insistono a ricordare che la Costituzione fissa al suo interno le regole per la propria correzione. Le modifiche, alcune delle quali anche per Dossetti necessarie o auspicabili, devono passare sempre attraverso l’articolo 138. Nel 1994, a 81 anni, pronuncia per la commemorazione di Lazzati un discorso di vigilanza politica che percorre in pochi giorni tutta l’Italia. E proprio a Monteveglio, ancora nel 1994, costituisce i Comitati in difesa della Costituzione. Già segnato dalla malattia in molte circostanze, con l’estate del 1995 vi si immerge pienamente per percorrere quello che sarà l’ultimo tratto della sua strada, senza mai perdere la voglia di vivere ma sprofondandosi sempre più nel suo Dio. Muore a Monteveglio, il 15 dicembre 1996. Ora che è morto, il suo corpo riposa nel piccolo cimitero di Casaglia di Marzabotto, luogo dell’eccidio della comunità martire. È lui stesso ad averlo chiesto: “Anzitutto per segnalare a tutti quanti mi hanno conosciuto il significato, ora più che mai valido, della morte gloriosa e feconda delle vittime di Monte Sole; e in secondo luogo per confermare ai miei figli, in modo visibile, la consegna di una vita di grande continuità e stabilità nel silenzio e nella preghiera per i vivi e per i morti” (Discorso al Consiglio comunale di Marzabotto, 18 maggio 1993. In G. Dossetti, La parola e il silenzio, Il Mulino, Bologna 1997, p. 382). Nessuno vi era stato più sepolto, dopo le vittime della strage.

Una comunità di semplici fedeli, di cristiani “Non siamo una comunità propriamente religiosa, in senso canonico, e anche se (per una convenzione molto empirica) non rifiutiamo il titolo di comunità monastica, tuttavia ci sentiamo anche un po’ traditi da quel titolo e preferiamo per noi quello di una comunità di semplici fedeli, di cristiani, tendenti semplicemente a una vita di lavoro e preghiera. Vorremmo lasciar cadere ogni particolare distinzione (il vestito stesso non vuole essere una divisa, ma solo un abito molto povero e un rimedio, sia


pure inadeguato, per non subire abiti mondani troppo conformistici e spesso dissacranti): insomma, puntiamo su una vita in certo senso qualunque, purché possa restare vita seriamente laboriosa e molto raccolta tanto quanto è necessario per dare precisamente il massimo spazio – massimo quantitativo e qualitativo – alla familiarità operosa con le Divine Scritture” (Lettera all’assemblea dei gruppi biblici, 6-7 nov. 1979, in La Parola di Dio, seme di Vita e di Fede incorruttibile, EDB, Bologna 2002, p. 124). Così Dossetti cercava di spiegare la singolarità di questa esperienza. A raccontarmela, in una splendida giornata di sole, è Paolo Barabino, un giovane monaco di origini genovesi che, con squisita disponibilità, mi ha accompagnato durante la visita. Paolo dice che la Piccola Famiglia dell’Annunziata – dal 1986 Associazione pubblica di fedeli - da sempre coltiva la convinzione del primato della vocazione e consacrazione battesimale e perciò della vocazione alla santità di tutto il popolo di Dio. Questo spiega una caratteristica singolare, che mi ha molto colpito: la presenza, accanto a fratelli e sorelle che vivono pienamente la vita monastica, di sposi accomunati dallo stesso fine. A loro è chiesto di vivere, dentro la propria condizione di vita e abitando nelle proprie case, la cura della Parola, la preghiera e l’Eucarestia (possibilmente quotidiana). Gli sposi, dopo un cammino di discernimento, entrano a far pienamente parte della Piccola Famiglia e non sono un Terz’ordine. L’adesione alla comunità si motiva solo come espansione e approfondimento del matrimonio, e dunque non deve contrapporsi ad esso o creare presupposti di frizione tra i coniugi; la scommessa si gioca tutta sulla complementarietà dei carismi. Matrimonio e verginità consacrata si fondono così mediante la condivisione degli elementi propri di ognuno, le diverse esperienze di vita e attività, e il cammino ormai consolidato mostra quanti elementi essenziali per lo sviluppo spirituale della Famiglia provengano dall’apporto del carisma nuziale. Celebrazioni eucaristiche e riunioni di vario genere segnano periodicamente il ritmo degli incontri comuni, anche se il terreno diretto dell’impegno ecclesiale delle famiglie sono le parrocchie di residenza. Gli sposi partecipano al Capitolo Generale che si tiene un paio di volte l’anno (in estate e durante le vacanze natalizie) e assumono ruoli e impegni all’interno della Comunità. Oggi, ventitrè fratelli, oltre cinquanta sorelle e una quarantina di famiglie compongono questa comunità particolare che è presente in diversi luoghi: anzitutto a Monteveglio, per molti anni il centro originario della comunità, posto nella Valle del Samoggia, a venti chilometri da Bologna; poi in Calabria, vicino a Paola, diocesi di San Marco Argentano, dove vive una comunità di sorelle e, dal 1984, su richiesta della Diocesi di Bologna, a Montesole, a piangere le ferite indimenticabili della guerra e a testimoniare la forza di riconciliazione che ha la Parola di Dio. Due sorelle sono a Roma, mentre le famiglie sono più distribuite: oltre ai luoghi dove è presente un monastero, anche a Bologna città, Modena, Reggio Emilia, Parma, Verona… La Piccola Famiglia si insedia in Terra Santa dal 1972 a Gerico e Gerusalemme per poi divenire responsabile, dal 1983, su invito del Patriarca Latino di Gerusalemme, della parrocchia di Ma’in in Giordania e, dal 1988, della parrocchia di Ain Arik, vicino a Ramallah. Queste comunità, per fedeltà alla scelta di pieno inserimento nella Chiesa locale, officiano tutta la Liturgia in arabo.

Comunione con l’Eterno e con la storia


“Qual è il cuore della vostra esperienza?”, chiedo a Paolo. “Certamente la meditazione amorosa e costante della Sacra Scrittura e, insieme, la centralità dell’Eucarestia. C’è un primato nella vita spirituale e questo primato è quello della grazia, perché chi agisce per primo è sempre Dio. All’uomo spetta la risposta, con tutta la responsabilità di questo, ma solo la risposta. Per questo la chiave di volta della nostra esperienza è l’immersione nel flusso della grazia, nel dono dello Spirito Santo, e la fonte sicura dalla quale lo si attinge primissimamente è il mistero della messa, nell’unità di Parola e Sacramento, fonte e culmine di ogni giornata. Gli stessi voti sono intesi come un segno dell’abbandono a questo mistero, che viene incastonato in un contesto di preghiera, silenzio e lavoro. La Piccola Regola lo dice in modo bellissimo e sintetico: “La vita che non abbiamo scelto noi, ma per la quale da Misericordia siamo stati scelti, non può essere che questo: ogni giorno, per tutto il giorno, lasciarci prevenire dallo Spirito Santo a contemplare ed accogliere in noi il Mistero della Messa, che opera in ciascuno la morte della creatura e la risurrezione e glorificazione del Verbo Incarnato”. Della Regola dice suor Maria, una delle prime cinque sorelle: “A mio parere il suo pregio non è l’originalità, ma il suo contrario. La Piccola Regola è il distillato molto limpido e puro di ciò che di più universale e sicuro ha maturato l’esperienza millenaria della Chiesa nella sequela del suo Signore. C’è un senso fortissimo di adorazione e di gratitudine, l’essere e la vita sono puro dono dell’infinita misericordia di Dio. C’è un senso acuto del niente dell’uomo e insieme della gloria alla quale è chiamato se acconsente al dono e ad esso si abbandona con umile risolutezza […] non da solo, ma nella Chiesa, quella porzione di Chiesa nella quale più direttamente è posto a vivere e nella grande Chiesa del cielo e della terra, in comunione con tutti gli uomini di tutte le generazioni” (M. Gallo, Una comunità nata dalla Bibbia, Queriniana, Brescia 1999, pp. 10-11).

Una Parola che segna la giornata La passione per la Scrittura – e il desiderio di pregare sui testi originali – porta i fratelli a imparare il latino e il greco. Molti studiano l’ebraico mentre l’arabo è parlato da tanti, segno del passaggio prolungato nelle case in Medio Oriente. Al centro della giornata c’è dunque la celebrazione eucaristica e lì, dove la Scrittura viene proclamata e si fa Presenza, il contatto della comunità con la Bibbia raggiunge tutta la sua pienezza. Lì la Famiglia si ritrova unita, lì è il luogo del dialogo e del confronto biblico, lì la Scrittura diviene intercessione comunitaria per la Chiesa e per il mondo, lì si adora e si comunica al mistero di Cristo, centro della Rivelazione. Ma il rapporto con la Parola di Dio segna tutta la giornata del monaco. Ogni giorno c’è un brano di pochi versetti che si offre alla sua attenzione secondo l’antico metodo, comune nella Chiesa dei primi secoli, della Lectio continua. “Ogni libro biblico – continua a raccontarmi Paolo - è letto dall’inizio alla fine, secondo una suddivisione in piccoli brani giornalieri, e dove oggi finisci domani riprenderai. Questa lettura corsiva – che ci è stata permessa e che interrompiamo solo nelle domeniche, nelle solennità e nei tempi più forti dell’anno liturgico – è predisposta perché si mediti integralmente in un anno un libro dell’Antico Testamento, un vangelo e alcuni testi apostolici. L’incontro con l’Eucaristia viene così preparato da ogni fratello e sorella con due ore di lectio divina: alla sera e al mattino presto, prima della messa, tutti


meditano il passo biblico del giorno. Scopo della comunità non è la formazione di esegeti ma di uomini di preghiera; le due ore di orazione personale sono per tutti ricerca di comprensione del mistero di Dio, intercessione per il mondo e tensione all’adorazione della gloria della Trinità”. Non c’è un metodo fisso per accostare i testi; ogni fratello e sorella, ogni sposo (anche gli sposi condividono la lettura del passo biblico giornaliero, anche se non nella misura di tempo del monastero), ognuno trova un suo modo e una sua misura nella lectio divina. C’è così chi affronta il testo con molti strumenti linguistici e intellettuali, chi ne fa una lettura semplice intercalata da preghiere tradizionali o spontanee, chi ancora per capire meglio accosta con grande naturalezza un passo biblico ad altri che sente paralleli; ma tutti poi si torna al testo, perché la Scrittura va letta, letta e riletta, per poterla comprendere e amare, senza cedere alla tentazione di scavalcarla in nome dello studio teologico o dello slancio emozionale, oppure per pratiche devozionali.

Il Vangelo sine glossa Diceva ancora Dossetti, nel suo ultimo discorso pubblico, benché occasionale: “Che i preti e i laici, senza differenze quasi, s’immergano nel Vangelo. Questo lo dico con una particolarissima e specifica insistenza, anche quantitativa: leggerlo, leggerlo, leggerlo, leggerlo, formarvi su di esso, sul Vangelo letto infinitamente, mille volte al giorno se fosse possibile, sine glossa, il più possibile in lettura continua. Leggete il Vangelo, turandovi le orecchie e sradicando i pensieri, per così dire; e ci pensa poi Lui a sradicarli ancora più profondamente. Ma deve essere un rapporto continuo, personale, vissuto, creduto con tutto l’essere: e sapendo di accogliere la parola di Dio come Gesù l’ha seminata quando andava per le strade della Galilea. Ascoltare il Vangelo così com’è, senza glossa, come diceva S. Francesco, continuamente, in modo che raschi il nostro cervello, veramente lo raschi completamente, e invece vi plasmi lo spirito […]. Il Vangelo e i Salmi, continuamente alternati [… ]. E poi bisogna immergersi nella storia, conoscerla, non superficialmente, ma profondamente. Non potete fare a meno di conoscerla, di studiarla. E di studiare non solo la storia della Chiesa, ma anche la storia della civiltà e della società civile, della società e della civiltà profana, di quella che noi chiamiamo “la storia mondana”. Perché il mondo c’è; è una componente essenziale dell’opera del Creatore e Redentore. E quindi bisogna averne il senso” (Discorso ai preti foggiani, Montesole 21 giugno 1996, in La Parola di Dio, seme di Vita e di Fede incorruttibile, EDB, Bologna 2002, pp. 217. 219) . “La preghiera – prosegue Paolo – è un cardine della nostra esperienza. Don Giuseppe ce lo ripeteva spesso che ritirarci su un monte non doveva essere una fuga. Se ci ritiriamo dal mondo e se in qualche modo non ci assumiamo delle responsabilità dirette ed immediate, questo ci obbliga ad un approfondimento della intercessione e della solidarietà dello spirito con tutti i sofferenti. Intercedere per il mondo, ricordare per nome i luoghi di guerra e i dolori più profondi del nostro tempo. Lanciare il cuore oltre gli angusti confini del nostro io e del nostro piccolo mondo attorno per farlo compagno di strada dell’umanità. La vita in monastero è anche vita di obbedienza, a volte dura e faticosa, sempre da riconquistare, però la posta in palio è proprio la liberazione dall’io, come dice il rito della Professione, dopo l’espressione dei voti: “Se, confidando solo nella fedeltà di


Dio, consegnerai tutto te stesso a questa comunità … potrai sperarne l’umiltà che è puro dono di Dio, la purificazione della mente, la piena libertà da te stesso, la dilatazione del cuore per la pienezza della carità verso il prossimo e per l’adorazione pure del Dio vivente”.

Il Rosario sui luoghi della strage Paolo si appassiona mentre mi racconta tutto questo. “L’anima deve lasciare emergere lo Spirito Santo che l’abita e che geme in lei a nome di tutta la creazione, e viceversa attirare l’amore di Dio che aspetta solo di riversarsi su ogni creatura che lo accoglie. Chiedere a Dio, a nome di ogni uomo, di abbattere ogni nostro ostacolo e chiusura, di riversare la sua presenza pacificante e benedicente su tutti. La separazione dal rumore delle città deve diventare in noi occasione di accoglienza più profonda dell’uomo. E sono tante le persone che poi bussano concretamente al monastero in cerca di una parola buona o di una confessione sacramentale, che in qualche modo arrivano quassù ed entrano in chiesa. Senza cercarle e senza declinare dall’esigenza radicale di una vita di silenzio, esse sono però un segno e una verifica di questa apertura. Ogni sera recitiamo il Rosario sui luoghi della strage e facciamo memoria dei piccoli, dei senza storia. Non sali a Montesole per staccarti dalla città ma per comprendere che la tua preghiera nasce da una terra insanguinata. Cuore, mente e preghiera per assumere i drammi della storia e imparare a leggerli e a leggerti con gli occhi di Dio. Ma la preghiera è difficile, a volte arida, e noi siamo piccoli. Se la comunità ha avuto in don Giuseppe un gigante, adesso vive di persone modeste, che devono ogni giorno riacquistare il primato di Dio e vincere le loro miserie. Sto pensando a noi fratelli: la stessa sterilità, la fatica nell’avere nuovi ingressi non è solo via di umiltà ma anche di umiliazione. Ma lo sforzo è quello di volerci bene e di custodire una fede vera: anche questo non è bellissimo? Al resto provvederà il Signore”.

Vivrai del lavoro delle tue mani Come provvedono i fratelli e le sorelle alla vita della comunità? Girando per le due casa della comunità lo comprendo subito. La Regola vuole che si viva del lavoro delle proprie mani. Così i fratelli e le sorelle fanno lavori artigianali di tradizione monastica come l’iconografia, la tessitura di abiti sacri, il lavoro del rame, il mosaico, e si impegnano nel campo della produzione editoriale. La scriptorium antico è ora un laboratorio informatico che produce traduzioni da lingue antiche e moderne, lavori originali biblici e patristici, composizioni di vario genere. Ci sono poi collaborazioni a progetti di salvaguardia del patrimonio culturale, mirati alla conservazione e consultazione digitale di testi antichi, e attività di assemblaggio per conto terzi, come


la suddivisione di migliaia di cerotti in scatole da otto pezzi… Ma la crisi del lavoro si sente anche in monastero e il voto di povertà, mi dice Paolo, viene messo alla prova.

La grande Regola è l’Evangelo A suggerire e ravvivare continuamente la vita descritta è la “Piccola Regola” della Comunità ma, dice un paragrafo finale, la Grande Regola va ricavata “dall’assidua e amorosa meditazione dell’Evangelo” e l’osservanza delle poche norme comunitarie “non è la santità ma la via per arrivarci”. Cosa vuol dire in concreto? “La Piccola Regola vuole essere cioè tutta strumentale al Vangelo e all’operazione dello Spirito, e mira a inquadrare una vita dove la Parola di Dio abbia l’egemonia. Se non si conoscono le Scritture come si può conoscere Gesù? E se non si conosce Gesù come si può amarlo? La Piccola Regola vuole aprire la via per giungere alle nozze e alla trasparenza pura dell’anima all’azione dello Spirito di Cristo. Non ci si può fermare a un’osservanza delle direttive, a un’obbedienza a regolamenti e consuetudini che non custodisca la tensione verso l’incontro con lo Sposo, il Vivente. Questo bisogna capirlo, altrimenti si può credere a una vita un po’ grigia, chiusa e faticosa. Invece la concentrazione su Cristo e sulla Parola di Dio non chiude, anzi spalanca orizzonti spirituali e concreti. La stessa storia della Famiglia lo mostra, perché la sete per il Vangelo ha portato fratelli e sorelle a studiare i Padri dei primi secoli – quando i credenti hanno posto le fondamenta della riflessione su chi era Gesù e cosa la Chiesa –, a cercare l’unità della Chiesa – ora vivendo a lungo in monasteri della Grecia, ora volgendosi alla Riforma, ora frequentando la Chiesa copta del Cairo –, a cercare Israele da cui proviene il Cristo – andando nella sua Terra e nelle sinagoghe –, a desiderare il contatto con l’Islam e l’estremo oriente – cioè con le grandi culture apparentemente impermeabili alla rivelazione della vita trinitaria e dell’incarnazione fino alla morte di croce –. Dice suor Agnese, sorella della prima ora e madre superiora: “Ma non siamo partiti subito per l'India! Sapevamo che, se avessimo affrontato direttamente quel mondo, senza un'adeguata preparazione, saremmo andati facilmente incontro a due pericoli: o di accostarlo in modo molto esterno, quasi di turismo spirituale; o di esserne, se avessimo fatto molto sul serio, spiritualmente inghiottiti” (Intervento al convegno "La vita consacrata a 20 anni dal Concilio", 5 settembre 1986). “Bisogna radicarsi nella fede e in Cristo, e poi andare, con umiltà, spogli di tutto e ricchi solo del nome di Gesù. Le strade fisiche sono solo una traccia delle strade spirituali, degli spazi dove l’anima è sospinta e può correre. È una vita bellissima. L’amore per Cristo non fa appassire le personalità ma le spalanca. Così questo amore ha spinto don Giuseppe e la Famiglia per mille vie, e se ne avessimo le forze ci sarebbero ancora tante frontiere a cui guardiamo”.

Quattro santi a custodia della comunità Sui muri della piccola cappella vi sono i quattro santi della comunità citati dalla Piccola Regola. Quattro santi che fanno da riferimento essenziale: S. Ignazio di Antiochia, vescovo e martire, S. Benedetto, S. Francesco e S. Teresa di Gesù Bambino. Il loro magistero spirituale ha profondamente influito sulla vita della


comunità. S. Ignazio per la fortissima cristologia e l’ecclesiologia, il valore della Chiesa locale e la comprensione del martirio come piena dimensione del discepolato. S. Benedetto per la vita monastica, il senso della comunità come famiglia sovrannaturale vivificata dalla divina Liturgia e il valore dell’obbedienza filiale e reciproca; s. Francesco per l’amore assoluto per Cristo e il Vangelo, da cui consegue il desiderio ardente della povertà personale e comunitaria, l’umiltà e la sottomissione a tutti per conformità al crocifisso. S. Teresina per la ricerca di Dio solo e lo spirito di abbandono infantile al suo amore misericordioso e preveniente, anche nella prova della fede, quando il Cielo è chiuso e non si sente più niente.

Una vita germinata Sono curioso di sapere come e dove la Regola è stata assunta fuori dalle comunità monastiche. E’ ancora Paolo che mi risponde: “La Regola si limita a indicare esigenze così fondamentali da poter poi connotare stili di vita molto diversi nel loro svolgersi minuto. Incontriamo regolarmente persone attirate dai fondamenti della nostra vita che, per vari motivi, cercano di riattualizzarla in un loro contesto. Lo stesso don Giuseppe, riconoscendo i carismi delle persone, ha voluto che venissero avviate esperienze fuori dalle nostre Comunità. E questo è un segno, tra i tanti, della sua grande libertà e attenzione all’opera di Dio sulle anime. Penso, per esempio, a don Giovanni Nicolini (Famiglie della Visitazione) che vive la Regola in un contesto parrocchiale e di lavoro anche esterno, o a don Giorgio Scatto vicino a Venezia (Piccola famiglia della Risurrezione), o alla comunità di Rimini (Piccola famiglia dell’Assunta), a Montetauro, dove ogni fratello e sorella vive con una carità stupefacente insieme a uno o più handicappati gravi, ma anche a diverse altre sparse qua e là. Non ci sentiamo né defraudati né male interpretati, è una ricchezza vedere i tanti modi in cui può rifrangersi il primato della Scrittura e dell’eucaristia ed è una consolazione incontrarsi ogni anno nella Festa della Regola (8 settembre). La fede nuda e pura Quanto vi manca don Giuseppe? chiedo, alla fine della giornata, a Paolo. “A noi manca molto. Manca la sua profonda libertà, la sua capacità di discernimento sui singoli e sulla storia, l’intuizione, profonda, di legare, indissolubilmente, fede e storia, passione di Dio e passione per l’uomo. Certamente egli era un uomo e un credente singolare. Per un certo verso, si è portato dietro tutto: la giovinezza e gli studi canonistici, la lotta partigiana e l’esperienza politica, la formazione teologica… Per altri aspetti, se ne è anche spogliato: molto presto lascia la politica, dà vita al Centro di Documentazione perché, dice, ‘avevo capito che non si poteva riformare la vita civile italiana se non si riformava la Chiesa’ e avvia un rinnovamento del pensiero teologico che riparta dalle fonti (la Bibbia e i Padri) con attenzione a quanto si muove all’estero (siamo negli anni cinquanta!). Quando nasce la Comunità abbandona il progetto del Centro e si concentra interamente sulla Scrittura quasi trascurando una certa mediazione culturale e di riflessione teologica che pure, invece, ha ben presente. Da un lato, con il passare degli anni, si è ristretto attorno ad alcuni elementi che ha ritenuto essenziali e, dall’altro, non ha mai rinnegato niente. Se pensi alla sua lotta, negli anni finali della vita, a difesa della Costituzione…” Sì, è vero. Ho anch’io sotto gli occhi l’immagine di questo vecchio monaco, stanco e ammalato, nel


suo abito scolorito e sdrucito, capace di levare la voce (“Sentinella, quanto manca all’aurora?”) per difendere quelle intuizioni di libertà e di giustizia che gli pareva venir meno nell’Italia della cosiddetta Seconda Repubblica. Come non essere d’accordo con il cardinal Biffi che nell’omelia funebre ha detto: “Sentiamo di aver perso una luce. Sentiamo tutti che le nostre strade si sono fatte più buie. Don Giuseppe si lasciava illuminare senza resistere dalla Parola di Dio, perciò dallo specchio terso della sua coscienza poteva riverberarne su di noi lo splendore salvifico”? Occorre andare avanti, senza la tentazione della nostalgia e del rimpianto, oltre il rischio del rifugio sotto la calda coperta della memoria. Per le sue comunità, in cammino sulle strade del mondo e per noi, che con lui ci pare esser terminata la stagione del cattolicesimo democratico. In fondo, don Giuseppe l’aveva già prefigurato: “in futuro non avremo più il conforto dei piccoli nidi sociali, delle ultime nicchie che facevano un certo tepore. Di fronte alle difficoltà dovremo esclusivamente contare sulla Parola del Signore, sull’Evangelo riflettuto, meditato, assimilato. Siamo destinati a vivere in un mondo che richiede la fede pura e nuda….” State sempre lieti, pregate incessantemente, in ogni cosa rendete grazie; questa è infatti la volontà di Dio in Cristo Gesù verso di voi. Non spegnete lo Spirito, non disprezzate le profezie; esaminate ogni cosa, tenete ciò che è buono. Astenetevi da ogni specie di male. Il Dio della pace vi santifichi fino alla perfezione, e tutto quello che è vostro, spirito, anima e corpo, si conservi irreprensibile per la venuta del Signore nostro Gesù Cristo. Colui che vi chiama è fedele e farà tutto questo! (1Ts 5,16-24) (Lettura della messa della domenica Gaudete, giorno della morte di Dossetti)

L’eccidio di Marzabotto La strage di Marzabotto del 29 settembre 1944 fu la tragica tappa finale di una “marcia della morte” che era iniziata in Versilia. L'esercito alleato indugiava davanti alla Linea Gotica e il maresciallo Albert Kesserling, per proteggersi dall'«incubo» dei partigiani, aveva ordinato di fare “terra bruciata” alle sue spalle. Kesserling fu il mandante di una strage che nessun'altra superò per dimensioni e per ferocia e che assunse simbolicamente il nome di Marzabotto anche se i paesi colpiti furono molti di più. L'esecutore si chiamava Walter Reder. Era un maggiore delle SS soprannominato “il monco” perché aveva lasciato l'avambraccio sinistro a Charkov, sul fronte orientale. Kesserling lo aveva scelto perché considerato uno “specialista” in materia. Al comando del 16° Panzergrenadier “Reichsfuhrer”, il “monco” iniziò il 12 agosto una marcia che lo porterà dalla Versilia alla Lunigiana e al Bolognese lasciando dietro di sé una scia insanguinata di tremila corpi straziati: uomini, donne, vecchi e bambini. In Lunigiana si erano uniti alle SS anche elementi delle Brigate nere di Carrara e, con l'aiuto dei collaborazionisti in camicia nera, Reder continuò a seminare morte. Gragnola, Monzone, Santa Lucia, Vinca: fu un susseguirsi di stragi immotivate. Nella zona non c'erano partigiani: lo dirà anche la sentenza di condanna di Reder: “Non c'erano combattenti. Nei dirupi intorno al paese c'era soltanto povera gente terrorizzata...”. A fine settembre il “monco” si spinse in Emilia ai piedi del monte Sole dove si trovava la brigata partigiana “Stella Rossa”. Per tre giorni, a


Marzabotto, Grizzana e Vado di Monzuno, Reder compì la più tremenda delle sue rappresaglie. A Casaglia i nazisti irruppero nella chiesa dove erano radunati i fedeli e don Ubaldo Marchioni a recitare il rosario. Non fu don Ubaldo a raccogliere la gente, ma la trovò già raccolta e terrorizzata mentre stava dirigendosi a Cerpiano per celebrare la festa degli arcangeli. Furono tutti sterminati a colpi di mitraglia e bombe a mano. Nella frazione di Castellano fu uccisa una donna coi suoi sette figli, a Tagliadazza furono fucilati undici donne e otto bambini, a Caprara vennero rastrellati e uccisi 108 abitanti compresa l'intera famiglia di Antonio Tonelli (15 componenti di cui 10 bambini). A Marzabotto furono anche distrutti 800 appartamenti, una cartiera, un risificio, quindici strade, sette ponti, cinque scuole, undici cimiteri, nove chiese e cinque oratori. Infine, la morte nascosta: prima di andarsene Reder fece disseminare il territorio di mine che continuarono a uccidere fino al 1966 altre 55 persone. Complessivamente, le vittime di Marzabotto, Grizzana e Monzuno furono 1676: uccisi dai nazifascisti 955 , deceduti per cause varie di guerra 721 (Marzabotto. Quanti, dove e chi, a cura del Comitato regionale per le onoranze di Marzabotto, Ponte nuovo, Bologna 1995 – II ediz. ampliata e corretta). Fra i caduti, 95 avevano meno di sedici anni, 110 ne avevano meno di dieci, 22 meno di due anni, 8 di un anno e quindici meno di un anno. Il più giovane si chiamava Walter Cardi: era nato da due settimane. Dopo la liberazione Reder, che era riuscito a raggiungere la Baviera, fu catturato dagli americani. Estradato in Italia fu processato dal Tribunale militare di Bologna nel 1951 e condannato all'ergastolo. Dopo molti anni trascorsi nel penitenziario di Gaeta fu graziato per intercessione del governo austriaco. Morì pochi anni dopo in Austria senza mai essere sfiorato dall'ombra del rimorso. Per inquadrare la vicenda delle comunità martiri di Marzabotto, insuperabile resta il testo di Luciano Gherardi, un prete della Diocesi di Bologna, sepolto anch’esso nel piccolo cimitero di Casaglia: Le querce di Monte Sole, Il Mulino. Il testo, documentato e rigoroso, con una splendida e intensa introduzione di don Giuseppe Dossetti, presenta la storia dei paesi e, in parallelo, quella dei parroci che hanno sostenuto e accompagnato, con fede e passione, la vita degli uomini e delle donne loro affidati.

Accoglienza L’accoglienza prolungata è “misurata” sia per i pochi posti a disposizione (tre dai fratelli e altrettanti dalle sorelle) sia per la precisa scelta di non accogliere all’interno gruppi numerosi. I fratelli sono disponibili, comunque, a seguire gruppi che intendono passare una giornata – senza il pernottamento – presso la Comunità. Per contatti: Piccola Famiglia dell’Annunziata Via Casaglia, 5/7 40043 Marzabotto (Bologna) Tel. 051/6775303


Da leggere         

G. Dossetti, La Parola e il silenzio, Il Mulino, Bologna 1997 G. Dossetti, Per una “chiesa eucaristica”, Mulino, Bologna 2002 G. Dossetti, Scritti politici, a cura di G. Trotta, Marietti, Genova 1995 Luciano Gherardi, Le querce di Montesole, Il Mulino, Bologna 1986 Gallo M., Una comunità nata dalla Bibbia, Queriniana, Brescia 1999Trotta G., Giuseppe Dossetti. La rivoluzione nello Stato, Camunia, 1996 Giuseppe Dossetti, I valori della Costituzione, S. Lorenzo, Reggio E. 1995 M. Torcivia, Guida alle nuove comunità monastiche italiane, 2001, Piemme pp.400, Euro 23,24 Leopoldo Elia, Pietro Scoppola, A colloquio con Dossetti e Lazzati. Intervista (19 novembre 1984), 2003 Il Mulino, pp. 161 Euro 11,50

Come arrivare a Montesole Sull’Autostrada A1, uscire a Sasso Marconi. Andare verso il paese e seguire le indicazioni per Marzabotto. Attraversare il paese e arrivare a Pian di Venola, poco dopo il distributore Esso girare a sinistra per Sperticato, seguire il cartello per Casaglia, e dopo 3 chilometri, passato il parcheggio, a sinistra girare per Via Casaglia.

Orari della comunità. Feriali. 3.15 Levata 3.40 Mattutino. 4.45 Preghiera personale 6.00 Lodi 6.30 Messa Colazione 8.10 Lavoro 12,15 Ora Sesta Pranzo 14.20 Ora Nona 14.30 Lavoro 16.50 Vespri 17.30 Lectio divina 18,35 Rosario sui luoghi della strage Cena 19.40 Compieta Festivi. 3.45 Levata 4.15 Mattutino 5.50 Preghiera personale Colazione 8.15 Lodi 9.00 Messa 10.30-12.00 Adorazione 12.15 Ora Sesta Pranzo 14.40 Ora Nona 15.0017.15 Adorazione 17.30 Vespri Cena 19.15 Compieta


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