Guida operativa per le integrazioni possibili

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Facilitare, sostenere, sviluppare le integrazioni possibili

una guida operativa per politiche locali

Bergamo, luglio 2013


Presentazione

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La guida è uno strumento snello, scritto con stile sintetico per offrire a tutti gli interessati, italiani e stranieri, spunti, suggerimenti ed orientamenti affinché i processi di integrazione progrediscano. Una guida in tempi di crisi economica? Certo, anche in tempo di crisi, perché se è vero che la crisi economica ha colpito i requisiti dell’integrazione (lavoro e casa) questa non si è arrestata per tutti. Inoltre, i ritardi nell’elaborazione ed applicazione sono tanti e tali che anche in questo difficile momento, una bussola serve. In questi ultimi anni, oltre all’attenzione ossessiva per gli ingressi, è stata decisa ed applicata una politica che ha coniugato sicurezza ed immigrazione. In questo modo sono aumentati i filtri, le frenate, gli ostacoli: il contrario di quello che è necessario fare. Guida operativa? Sì, perché abbondano testi e manuali non facili da tradurre in pratica. Inoltre, l’Agenzia ha già pubblicato un suo testo che permette di chiarire l’impostazione del lavoro fin qui svolto. Chi ha bisogno di orientamenti più precisi può leggere prima il capitolo dedicato al tema dell’integrazione.


Scegliere

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Prima di procedere bisogna fare una scelta. Svoltare a sinistra se si pensa che gli immigrati sono una popolazione a parte per la quale c’è bisogno di politiche dedicate o speciali. Questa guida, al contrario, si basa sulla convinzione che gli immigrati sono parte della popolazione tutta ed occorrono politiche specifiche. Per questo si va a destra.


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Superare il Noi - Loro

Se si osserva ed interpreta la realtà sociale con gli occhiali “Noi – Loro” si commette un errore, perché si considera il Noi come realtà omogenea, in contrapposizione a Loro, visto allo stesso modo. Tutte e due le realtà non sono omogenee: le differenze e le diversità sono forti ed evidenti. Progettare quindi in modo indifferenziato, avendo come destinatari gli immigrati o gli italiani, riduce l’efficacia delle azioni ed in alcuni casi comporta uno sperpero di soldi. noi - loro noi – noi

loro - loro

loro - noi

Occorre quindi, nell’individuare i destinatari, analizzare bene condizioni sociali, comportamenti, differenze di età, genere, tempo della permanenza, ruoli, livello di organizzazione ecc..


Immigrati a vita?

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Immigrati a vita? Progetti, rogetti, azioni singole o coordinate verso gli immigrati, prendono in seria considerazione la domanda posta con il titolo? A giudicare dall’esperienza, no. Eppure ci sono persone arrivate in Italia (e a Bergamo) negli anni ’70, ’80 e ’90 e tutte continuano ad essere considerate immigrate. E’ necessario individuare una soglia temporale oltre alle condizioni già indicate. La nostra proposta è quella di prendere in considerazione il superamento del quinto anno di permanenza. pe Quindi, anche se sul passaporto è possibile leggere una diversa nazionalità, c’è bisogno di politiche per chi è arrivato da poco e per chi è qui da alcuni anni ed ulteriori differenze vanno tenute presenti per chi è arrivato qui molti anni fa. fa Come? Cominciamo dalle statistiche, sottraendo dai totali (che si basano sul dato giuridico della nazionalità) chi è arrivato nei decenni passati. Questo ragionamento è ancor più valido per i figli di immigrati nati qui o arrivati da piccoli.


Per chi è arrivato in Italia da anni, allora bisogna pensare alla specificità dei bisogni e delle attività che svolgono o ruoli che ricoprono, evitando di pensarli immigrati e basta. Due esempi. Il primo. Gli immigrati che diventano imprenditori, vanno considerati come imprenditori e non imprenditori etnici e quindi a parte. Il secondo. Gli immigrati che hanno figli vanno coinvolti in iniziative in qualità di genitori e non di immigrati – genitori e quindi a parte. Non si tratta di eliminare le differenze nei modi di essere imprenditori e genitori, ma di affrontarle come specificità di una popolazione altamente diversificata.


Seconde generazioni?

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L’attenzione per i figli degli immigrati è aumentata nel tempo, anche perché molti temono che si possano verificare conflitti o deviazioni di stampo religioso. I timori però non aiutano a chiarire le idee e le politiche, ma spingono a rafforzare difese sia tra gli italiani che tra gli immigrati.

I figli di immigrati non sono la seconda generazione dell’immigrazione, perché sono nati qui o cresciuti in questo paese. Lo sanno e lo dicono in tutte le occasioni e lo sanno i genitori che li vedono diversi da loro. Ma operatori, decisori pubblici ed esperti continuano ad usare un’espressione che etichetta, dibattono di identità senza tanti riscontri, ancorano i figli alla condizione sociale dei genitori. Non sarà la cittadinanza a cambiare le cose, perché questa registrerà una realtà già evidente oggi. Una politica che guardi avanti non dovrebbe inserire nelle politiche migratorie i figli degli immigrati. Anche in questo caso se ne devono occupare i decisori impegnati nelle politiche giovanili, scolastiche, ricreative ecc. In questo modo si rafforza una cittadinanza reale, che diventerà anche giuridica. La prima è nelle decisioni di amministratori e dei genitori, la seconda nelle mani delle istituzioni nazionali.


Welfare e immigrazione

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Fino ad oggi il tema immigrazione è stato sempre abbinato ai servizi ed ai decisori pubblici del welfare.

In particolare, va evidenziato che sono stati gli Assessori e gli assessorati ai servizi sociali e/o politiche sociali ad occuparsi degli immigrati. Questo abbinamento ha dato i suoi frutti negli anni ’90, ma non può essere l’unico modello di azione politico – amministrativa. Perché un commerciante di origine straniera deve avere come riferimento l’assessorato ai servizi sociali, invece dell’associazione di categoria e della Camera di Commercio e relative attività? Perché un imprenditore, che ha alle dipendenze anche italiani, ha come riferimento l’assessorato ai servizi sociali e non l’associazione di categoria e relativi servizi? Perché per organizzare tornei di calcio si chiedono incontri con gli Assessori ai servizi sociali? Una scelta utile in passato è diventata un’esclusiva senza argomenti validi a sostegno. Andare avanti così sembra una replica frutto di pigrizia politica ed amministrativa con danni per tutti. Gli immigrati che hanno bisogno dei servizi del welfare, per perdita di reddito, difficoltà a pagare bollette o altro, vanno ai servizi del welfare. Non tutti.


Servizi dedicati o per tutti?

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In molte realtà italiane e nella provincia di Bergamo fin dagli anni ’90 sono stati creati sportelli dedicati agli stranieri. Costituiti perché non si sapeva come rispondere a nuove domande (in primo luogo la condizione giuridica e relativa documentazione) e a richiedenti che utilizzavano lingue diverse, con il tempo si sono moltiplicati e sono diventati parte integrante del sistema di accoglienza.

L’utilità è stata innegabile, ma con il tempo sono diventati i servizi per gli immigrati, sgravando quelli per tutti e creando le condizioni per un servizio a parte. Negli ultimi anni si sono moltiplicate le sperimentazioni per il passaggio ai Comuni (Uffici anagrafe) di questa attività. Le resistenze sono tante con l’effetto di consolidare servizi ad hoc, con il canale per gli italiani e quello per gli stranieri. La strada da seguire è il passaggio graduale all’amministrazione locale pubblica di queste funzioni, con la valorizzazione delle risorse umane competenti maturate sul campo. Gradualità ed opportunità vanno tenute nella massima considerazione, ma la direzione non può che essere quella di servizi generali, più competenti ed adeguati ai cambiamenti della società.


Assessori alla cultura o alle culture?

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Se si afferma ad ogni occasione che la società è cambiata ed uno dei motori del cambiamento è rappresentato dall’immigrazione, allora bisogna non solo prenderne atto, ma valutare gli effetti e fare delle scelte.

Il titolo vuole essere la domanda che ogni assessore dovrebbe porsi, non solo perché la globalizzazione è penetrata ampiamente, ma anche perché tra i residenti di un comune o di una città vivono persone che hanno riferimenti culturali diversi. La diversificazione culturale, da molti considerata erroneamente una novità, è aumentata e chi amministra non può non tenerne conto. Attenzione, però, perché bisogna evitare di pensare a fare una somma delle diverse culture, perché il contatto, lo scambio, la conoscenza e la permanenza spingono a mix culturali oltre che a differenziazioni nel modo di mangiare, nei generi musicali, nel modo di comportarsi in convivenza ecc.. Questo discorso è valido per italiani e stranieri, è valido per chi amministra, per chi è responsabile di associazioni ecc.. E bisogna essere consapevoli che oltre all’incontro culturale, c’è anche il conflitto, che richiede competenza, capacità di mediazione e finalità comuni. Un lavoro impegnativo per tutti.


Le fedi religiose aumentano

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Anche in questo caso la globalizzazione e l’immigrazione hanno provocato un importante cambiamento. Ma anche in questo caso si tratta di amplificazione e diversificazione.

Fedeli e fedi diverse sono praticate, ma non tutte hanno gli spazi per farlo e non tutte sono guardate con benevolenza. In alcuni casi, va registrata distanza diffidenza ed ostilità e sempre in alcuni casi queste dinamiche prendono forma anche tra i praticanti di fedi diverse. La figura geometrica proposta in precedenza vale anche in questo caso. La Costituzione della Repubblica Italiana tutela la libertà religiosa. Questo il punto di partenza e di osservanza. Sul piano locale, invece si registrano discriminazioni basate sul potere di concedere l’uso di spazi o sul cambio di destinazione di immobili oppure in nome della quiete pubblica o dell’ordine pubblico. Le leggi comuni vengono utilizzate per opporre un diniego. In questo modo si prepara il terreno per conflitti artificiosi che danneggiano tutti gli abitanti dei comuni e delle città.


Occorre operare per favorire la diffusione di tolleranza e di politiche di apertura, di dialogo e di ricerca di soluzioni che non possono che essere locali. Ai leader religiosi il compito di rendere effettivo il dialogo tra le fedi. Alle istituzioni nazionali il compito di elaborare e varare una legge specifica in materia.


Politiche urbane attente

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La popolazione delle città e dei paesi ha retto grazie agli immigrati. Ne hanno beneficiato anche le aziende, le scuole, la fiscalità generale ed il mercato della casa. L’immigrazione, ed ora la crisi economica, ha anche evidenziato che il mercato della casa italiano è squilibrato: prevalgono le case in proprietà; le case in affitto sono una piccola percentuale e gli affitti sono alti. Insomma la casa come bene sociale non ha spazio.

Si può continuare in questo modo? Gli amministratori ed i decisori pubblici devono incrementare l’offerta della casa come servizio e la costruzione di case a canone moderato. Il mercato però ha avuto anche un altro effetto: ha attirato chi ha redditi bassi in zone in cui la spesa per gli affitti era accettabile. Il rischio è quello di registrare concentrazioni che andrebbero evitate non facendo aumentare le distanze tra chi vive in città in base al reddito e nello stesso tempo evitando di ricorrere alla demolizione quando per tanti anni non si è fatto niente. Aumentare le quote di case in affitto e come servizio e nello stesso tempo evitare divisioni lasciando creare zone desiderate ed indesiderate.


La storia delle migrazioni conserva una lunga teoria di queste vicende. Si sente il bisogno di replicare?


Le lingue parlate sono tante

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Il plurilinguismo non è una novità. L’Italia ha vissuto già questa esperienza nella sua storia linguistica, anche recentissima. Il numero delle lingue parlate è però certamente aumentato ed il contatto è diventato multiplo.

Lo sanno nelle scuole, nelle aziende, negli ospedali e nei servizi. Interpreti e mediatori sono le “nuove” figure, che hanno permesso di ridurre ostacoli ed incomprensioni nei luoghi di vita e di lavoro. Ma ciò non è sufficiente. Lo spazio linguistico è più affollato di quando era abitato da dialetti e lingua nazionale. Successivamente è arrivato l’inglese che ora contende all’italiano corsi di laurea in molte università italiane. Per gli immigrati l’apprendimento della lingua italiana è necessario ed un compito da non evitare. Ma, negli ultimi anni la competenza in italiano da leva per l’integrazione è diventata obbligo, come previsto per l’ottenimento della “carta di soggiorno”, e condizione per la permanenza, come stabilito dall’accordo di integrazione. E nelle scuole, il bilinguismo non è considerato un vantaggio, ma un problema, perché la competenza linguistica in italiano è l’unica strada per andare avanti. Intanto, sul versante degli immigrati, le loro lingue ricevono un’attenzione diversificata: l’arabo ed il suo insegnamento da parte dei figli degli


immigrati, infatti, è visto con sospetto, mentre il cinese è richiesto nelle scuole superiori. La lingua non deve essere motivo di discriminazione, implicita o esplicita. Mentre le amministrazioni locali devono prestare attenzione a questa nuova realtà, l’Università ed i Centri di ricerca hanno un lavoro impegnativo e chi governa un nuovo campo di azione.


Associazioni di immigrati a parte?

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Gli immigrati creano gruppi ed associazioni. Sono diverse per grado di organizzazione e rappresentanza, capacità operativa, livello di democrazia reale, differenza di spazio di azione per le donne ecc. . Nonostante questa diversificazione, ampia e significativa, sono tutte accomunate dall’attributo “etnico”. E’ un’etichetta che lascia il segno, pesa sul fare associazione e tiene a parte. Gli stessi attori di questa realtà, gli immigrati, la condividono. E’ invece un modo per tenere a parte, un universo a cui far riferimento quando si realizzano iniziative relative all’immigrazione.

Occorre cambiare rotta: spingere affinché le associazioni di immigrati aderiscano pienamente alle organizzazioni di servizi per l’associazionismo e poter godere degli stessi benefici e condividere gli stessi impegni.


Sui luoghi di lavoro e nei sindacati

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La domanda di manodopera avanzata dagli imprenditori è stata la leva più importante dell’immigrazione, anche se non la sola.

L’inserimento nel mondo del lavoro ha avuto, con tempi diversi, l’effetto di aumentare il numero degli iscritti stranieri ai sindacati e la formazione di nuovi leader in questo ambito. Poche ricerche ci dicono cosa succede sui luoghi di lavoro: qualità e densità delle relazioni, significatività, presenza/assenza di vicinanza per nazionalità o per mansioni. A differenza della vita sindacale che ha visto la costituzione di coordinamenti ad hoc e quote dedicate. Superare i muri invisibili della nazionalità, accomunare per le funzioni che si svolgono e per le posizioni che si occupano, considerare coordinamenti e quote passaggi e non orizzonti di lavoro: questa è la direzione da seguire.


Discriminazioni

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Le discriminazioni non sono una novità generata dall’arrivo degli immigrati, ma sono certamente aumentate e si sono diversificate. Silenziose o urlate, implicite o esplicite, singolari o multiple: questo l’attuale panorama, che si moltiplica secondo le direttrici del quadrilatero. In altre parole, anche se con responsabilità diverse, intensità diverse ed effetti diversi le discriminazioni richiamate si manifestano all’interno dei gruppi e tra gruppi avendo come vittime singoli e gruppi stessi.

Essere attenti per identificarle ed agire per ridurle: questa la direzione di lavoro. E’ un impegno che richiede organizzazione, ma anche un più elevato senso civico della società. Gli strumenti normativi non mancano, i riferimenti nazionali ci sono (UNAR) e la cultura della mediazione si aggiunge al bagaglio di chi opera in questo ambito. Gli incentivi però scarseggiano.


Mediatori e mediazione

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I mediatori da anni operano nel campo dell’immigrazione, facilitando la comunicazione tra servizi, operatori ed immigrati (singoli e famiglie). Svolgono un’attività che con il tempo è diventata sempre più complessa, perché si è passati da una traduzione di informazioni semplici (cibo, abitudini, orientamento ed accesso ai servizi) a relazioni impegnative sul piano della comunicazione, delle culture di riferimento e delle condizioni fisiche e psicologiche delle persone coinvolte: si pensi ai colloqui in psichiatria e/o nei reparti di trapianto delle aziende ospedaliere.

Nonostante un riconoscimento diffuso, il mediatore non ha un profilo professionale normato: quindi niente albo professionale, formazione e requisiti per l’accesso. In varie parti d’Italia, ed anche a Bergamo, sono stati redatti Registri di mediatori interculturali per assicurare un rapporto più qualificato tra domanda ed offerta. Il legislatore nazionale è lento o fermo. Mentre alcune Regioni ne hanno riconosciuto la validità attraverso atti formali. I mediatori nati e formati nell’ambito di progetti e politiche dell’immigrazione non devono essere una figura a parte, ma parte integrante della “famiglia” dei mediatori e conciliatori, perché di essa


rappresentano una specificità , che con il tempo può diventare risorsa per tutte le forme di mediazione e conciliazione che coinvolgono italiani e stranieri.


Promuovere l’apprendimento della lingua italiana

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La conoscenza della lingua del paese di arrivo e permanenza per gli immigrati è una competenza indispensabile ed uno strumento o leva che facilita l’integrazione. Per i genitori è ancora più utile perché possono seguire e comprendere i propri figli soprattutto se nati in terra di emigrazione.

Fatta questa affermazione scontata, occorre prestare attenzione alle persone in carne ed ossa, alla provenienza (urbana o rurale) al livello di istruzione raggiunto (in molti casi assente) e all’uso che della lingua italiana e della sua conoscenza viene fatta dalla normativa in vigore: la lingua italiana viene usata come filtro e sanzione, invece di essere promossa e garantita con una capillare offerta sul territorio. Il test per la “carta di soggiorno” e la verifica al termine dei due anni del “permesso a punti” sono filtri, che, soprattutto nel caso di donne analfabete o quasi, mettono il diritto (le leggi nazionali) contro i diritti (quelli stabiliti dalla Dichiarazione universale del 1948). La lingua non può essere usata come una clava, ma la sua conoscenza va promossa e gli immigrati hanno il dovere di acquisirla. Sul versante dell’offerta c’è bisogno di più mezzi e di un’alleanza tra pubblico e privato sociale; sul versante della domanda si devono adottare tutti gli strumenti di comunicazione e persuasione per aumentare


l’accesso ai corsi di lingua italiana ed il raggiungimento dei livelli di competenza necessari per lavorare e vivere adeguatamente. Nella scuola la competenza linguistica in italiano è necessaria e lo è ancor di più per i neoarrivati, cioè i familiari che si ricongiungono. Investire di più su questo fronte è necessario, ma bisogna anche prestare attenzione e contrastare l’aumento del tasso di ritardo e di dispersione scolastica, basata sul livello di competenza in italiano.


Diritto di voto

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Agli inizi degli anni ’90, l’Unione Europea invitava gli Stati aderenti ad estendere agli immigrati il diritto di voto alle amministrative. Nell’ordinamento italiano non c’è traccia; solo la cittadinanza lo consente, estendendo il diritto – dovere alle elezioni politiche ed ai referendum.

Si può iniziare assicurando questo diritto ai possessori della “carta di soggiorno”. La parola alle istituzioni nazionali.


Da dove cominciare?

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E’ una domanda che spesso rivolgono coloro i quali intendono prendere contatto con gli immigrati. Per le associazioni di immigrati ed i loro leader il discorso è diverso: il riferimento è l’amministrazione e il più delle volte l’assessore ai servizi sociali. Il contatto con le associazioni è necessario, ma è solo il primo passo. Un buon inizio può prevedere iniziative, organizzate insieme, centrate sullo scambio di conoscenze. Il cibo e le “tradizioni” possono costituire il primo ponte. Tornei sportivi e momenti ludici possono consentire d continuare il tentativo. Le condizioni locali, le rispettive volontà, l’interesse reciproco sono i fattori necessari.

L’orizzonte deve essere , però, l’ampliamento e consolidamento della “società civile” e non la somma di italiani ( e rispettive organizzazioni) e stranieri (e rispettive organizzazioni). E vale per tutti.


Ma l’integrazione cosa è?

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Per la maggior parte degli analisti ed esperti, ma anche dell’opinione pubblica, l’orizzonte di lavoro è l’integrazione degli immigrati. I distinguo e le critiche si registrano sul come, sui livelli, sui tempi, sul chi, sulle norme ecc.. E’ una visione che considera gli immigrati una popolazione a parte, venuta dall’esterno, che la maggioranza ha il compito di integrare. Il come fa la differenza: c’è chi intende farlo basandosi sul riconoscimento ed il rispetto e chi punta in primo luogo sul rispetto dei doveri, cui far seguire la concessione di diritti (es. la cittadinanza).

La guida si basa su un’idea diversa. Infatti, se si pensa alle persone in carne ed ossa ed alla loro vita quotidiana allora bisogna prendere atto che è un mix conflittuale o meno di vicinanza, distanza, conoscenza, assimilazione, originalità, passività. La complessità ne è il tratto costitutivo. Ne discende che la differenziazione in due universi (italiani e stranieri: i primi integrati ed i secondi da integrare) è artificiosa, abita i pensieri e modelli di esperti, analisti ed opinione pubblica, ma non nella realtà. Una visione diversa è quella di guardare e pensare all’Italia come ad una società multiculturale, multireligiosa e plurilinguistica, che richiede scelte, pensieri e politiche adeguate, evitando di continuare a parlare di politiche multiculturali o di politiche di sicurezza. Ci vuole una “via italiana”


all’integrazione, basata su relazioni di buona convivenza, che sappia gestire anche conflitti facendo non solo ricorso alla legge ma anche alla cultura della mediazione. E’ un compito di tutti da concretizzare in modi e con responsabilità diverse. La guida, pertanto, non poteva essere un ricettario o un prontuario per rispondere ad ogni domanda. Indica la strada e le scelte di fondo. Sta agli interessati avere la volontà di sperimentare con forte aderenza alle specificità locali. Perché questa è una delle caratteristiche del Paese Italia. Non ci sono certezze, ma solo possibilità: per questo integrazioni possibili. Al legislatore il compito di saper ascoltare e comprendere, perché è ormai maturo il tempo di andare oltre la normativa in vigore, vecchia ed inadeguata per una società ormai cambiata.

*Ringraziamo per l’utilizzo delle foto e delle immagini fatta senza scopo di lucro.


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