21 fiorini - Salvatore Sottile

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Tavole di Dino Vaccaro

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Il mantello di Baruch, come la tonda cupola del cielo, se disteso ricopre il mondo. Si tratta di ventuno racconti, stazioni, o snodi, a cui si aggiungono un introito ed epilogo, che se da un lato mimano i 21 fiorini che occorsero per comprare, alla sua morte, il mantello di lana grezza appartenuto a Baruch Spinoza, dall'altro scandiscono ventuno passaggi nel destino dei giorni di un uomo. Qualunque uomo. E, perciò, di ognuno di noi. Bambino, felice ed ignaro; poi, man mano, dubbioso, dolorante ed infine 5


sconfitto. A far da intermezzo epifanie, refe che cuce a mano, luce ferma che non può tentennare e che come una tavola da surf sull'oceano sorregge il brulichio e ogni passo che tende all'inciampo. Pure, l'una non sarebbe senza l'altro, dacchÊ la rosa, che sempre fiorisce, non lascia mai sole due piccole lepri in amore. Salvatore Sottile

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Piume, tra i ferri. E il blindato va. Piume o neve?

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Prologo de i “21 fiorini” di Salvatore Sottile

l’orizzonte tra balzi salti e voli tra i verdi rami delle nuvole saltellando m’aggrappo agli aghi dei fichidindia inesistente avanzo libero mi volgo alla croce seduto sopra d’essa mirando e rimirando ad occhi chiusi ciò che m’appartiene dentro l’anima

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Il XVII secolo vede due grandi figure stagliarsi all’interno del mondo del pensiero. D’un canto Cartesio s’avvia al percorso meccanicista, alla nascita delle scienze nella ricerca dei miglioramenti tecnici per favorire la vita dell’uomo. Nasce l’”ego” nel “cogito” del vero soggettivismo; da qui la collettività è tale in seno al soggetto. Altra figura di non poco conto fu Spinoza, con “Etika” come opera postuma. L’opera si presenta come sintesi tra la metafisica con i nuovi orizzonti tecno-scientifici cartesiani e il carattere di identificazione panteistico di Dio e natura, dove “Deus sive natura”, in un ordine geometrico del mondo. Spinoza rifiuta la visione Giudaico-Cristiana della divinità, impostando il proprio carattere sull’indagine filologica. Individua così i propri studi filosofici nel condurre l’uomo alla felicità, o all’identificazione del volere umano con la visione universale divina e naturale. 10


Il lavoro che ci propone Salvatore Sottile “21 fiorini” è un percorso intriso di miti. L’introduzione ci presenta il dialogo-storia tra Augusto e Afrodite, dove l’amore personificato sembrerebbe essere l’ultima ed unica meta raggiungibile, e non solo un mero ipotetico personaggio che dialoga. Ben altre figure mitiche formano i tasselli della strada da percorrere secondo l’autore. Strada che in ultima analisi vede stagliarsi Spinoza con il suo mantello costato “21 fiorini”. Dunque, i miti sono i cardini per raggiungere una meta ragionata dei loro significati, attraverso l’aspetto filologico dei vissuti sociali. Meta che inevitabilmente Sottile, coniuga con l’immersione nello spirito di natura. “Tu piccolo uomo o ti allinei alla necessità di natura di Anankè, oppure sarai perso” dice Platone. La natura si pone immutabile eterna sopra gli dei e gli uomini. Regola il “ cyclos” della vita degli uo-

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mini con “Sustene e Astene” e con l’equilibrio che da essi deriva. Ma ecco cosa sono i miti, le loro allegorie, se non la razionale ricerca di un allineamento allo spirito di natura e alle sue necessità. Questo è ciò che propone Salvatore Sottile, e la felicità non è utopia. Il 21mo° fiorino attraverso le mitiche figure di Parmenide, Platone e Aristotele ci immerge nel nulla. In esso vi è la mancanza di valori. Ogni epoca ha visto sostituire un valore ad altro, come nel Rinascimento dove la visione Antropocentrica sostituisce la visione Teocentrica. Come l’Illuminismo in cui la visione laica e antireligiosa, sostituisce la radicale religiosità; ma ora nel “Nichilismo”, come anticipato centotrenta anni addietro da Nietzsche, il vortice del nulla non porta alcun valore. L’ontogenesi parmenidea come il principio d’identità e di non contraddizione di origine platonicoaristotelica, da cui scaturisce la civiltà occidentale, 12


esaurisce il compito. Tuttavia può ancora il lupo travestirsi da agnello? Chiede al lettore Salvatore Sottile. Quale arma? Le mani. Le mani antiche della Teknè dell’arte. Ciò che in potenza l’uomo trasforma istantaneamente in atto. Ma qui non esiste sottomissione o sopruso. Arte e teknè si fanno. Non si può sostituire il lupo all’agnello nella vera “Praxis”. Questo avviene con “Teoresys” che sub-entra e diviene “Doxa”. “ La terra è ancora aperta e libera per i magnanimi. Ancora sono vuote le residenze fatte per gli eremiti solitari e sdoppiati, che sono avvolte dal profumo di mari silenziosi. Una vita libera è ancora possibile e aperta ai magnanimi. In verità, colui che poco possiede è tanto meno posseduto: sia lodata la piccola povertà! Là dove lo stato finisce, comincia l’uomo che non è superfluo: là comincia il canto della necessità, la melodia unica e insostituibile. Là dove lo stato finisce-guardate, guardate 13


fratelli! Non vedete l’arcobaleno e i ponti del superuomo?” Da “Cosi parlò Zaratustra”. Nietzsche

francesco taormina

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INTROITUS

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Alle dieci, al solito bar. Ti spiegherò ogni cosa. Afrodite. Il messaggio è arrivato come una saetta, in sincrono con uno squillo querulo che finisce come il risucchio di una pietra gettata nel fango, plof! Poi più niente, nella stanza ancora buia; è una brutta giornata di marzo, ha piovuto per tutta la notte e tira un vento cattivo. Niente di meglio che starsene a letto, pensa l’uomo che dorme di un sonno leggero; al plof!, difatti, ha avuto un sussulto, ha esitato, forse un braccio avrebbe voluto stendersi fino al comò per raccogliere il telefono, poi ha ceduto al molle richiamo delle coltri ed è ripiombato giù. Alle dieci l’uomo è al bar dove deve essere. Non ha fatto colazione perciò chiede un cappuccino, un croissant e un caffè; raccoglie dal tavolo accanto al suo il giornale e aspetta. Si guarda intorno, la strada oltre la vetrata, i clienti di quella strana mattina, i discorsi sul tempo, una radio accesa con la solita insopportabile musica. Non è tranquillo, l’incontro che lo aspetta, non sa perché, lo preoccupa, comincia a sfogliare ner19


vosamente il giornale mentre gli servono la colazione. Sta guardando le pagine della cronaca, è quasi per lasciar stare, nell’altra mano la tazza del caffè fumante, a mezz’aria, quando nei necrologi gli sembra di riconoscere una foto. La bocca, socchiusa per lo stupore, resta com’è, ci mancherebbe solo che fischiasse, e lo sguardo d’improvviso gli si offusca. Riesce a leggere poche parole, poi si fa buio. La foto del giornale ha fatto finta di niente, beffarda, ma ha visto l’uomo che sbirciava, bevendo un caffè. Gli è sembrato familiare, quel ghigno; leggero incresparsi delle labbra e occhi chiudentesi, prima di poter pensare e, eventualmente, proferire parole; che in questo caso sarebbero improperi, tanto ogni cosa, là, strillava un’intima disapprovazione, come ora manifesta platealmente quel diniego del capo, il pollice verso all’indirizzo del barista che ha chiamato, la brodaglia servita, caffè. Eccole il suo caffè, signore! Non che per una foto stampigliata malamente su di un giornale sia verosimile saper dire della qualità di un caffè; pure, il 20


riconoscimento è avvenuto. Da una parte e dall’altra. Quanto vi è di non simmetrico, nel riconoscimento, riguarda un cuore che ha appena alterato le pulsazioni, mentre per il viso raffigurato non v’è niente, non ne sappiamo niente, se non per dire, Io! Oh! L’uomo, al tavolo appartato che ha scelto, è indispettito. Dico io, rovinarmi la giornata così!; e guarda di malanimo il barista, un omone pingue dagli occhi slavati. Eppure, non decidendosi sul da farsi, avrebbe potuto alzarsi di scatto, senza dimenticare la bella borsa di cuoio, andare al bancone e dire, La beva lei questa schifezza!; invece lancia lo sguardo oltre la vetrata, in strada, poi passa ai pochi avventori, per lo più al bancone a chiacchierare con colui che, non v’è dubbio su questo, non ha alcuna idea di che cosa sia un caffè. Non decidendosi, rimane al suo posto, addirittura beve la schifezza imbevibile, ripone il giornale capovolgendone la parte che sembra riguardarlo, mette tempo in mezzo, alla scoperta, se scoperta v’è stata e, per non rischiare che 21


qualcheduno arrivi lì a chiedergli, Posso?, riferendosi al giornale, vi mette le mani sopra, come a dire, innanzitutto a se stesso, lasciatemi riflettere! Per la foto, così, e per quanto v’è raffigurato, s’è fatto buio, lo stesso buio di prima d’ogni nascita, di quando ancora non si è che semplice poltiglia calda che, piano, bolle, si raggruma, sgrana, prima d’irrompere alla luce; luce che, Luce!, solo a quel punto ritaglierebbe i bordi, dapprima informi, creerebbe contrasti e farebbe comparire il mondo dentro l’ovale di un viso; tutto affinché qualcuno, un giorno, da qualche parte, magari sbirciando distrattamente seduto al tavolo di un bar, possa dire, Guarda come gli assomiglia! È tutto suo padre! Ma è ancora buio; e al buio s'addice il silenzio e al silenzio il sonno. L’uomo, svegliatosi di soprassalto mentre fuori è ancora buio, dapprima si erge a mezzo sul letto, ha il cuore in gola, teme d’essere in ritardo, il metrò, l’ufficio; poi, un dubbio, il soave sospetto che non sia 22


così. È domenica! Così si gira sull’altro fianco e, beatamente, si rimette a dormire. È, perciò, nuovamente catapultato dinnanzi ad un caffè imbevibile e ad una foto di un giornale che gli assomiglia. Sopra la foto c’era un titolo e sotto di quella un articolo, poche righe, così l’uomo capovolge il giornale e, Afrodite, il viso raffigurato dalla foto che lo attendeva nasce di nuovo. Stanza da letto. Notte. Con un sorriso che sembra un ghigno, Augusto si sveglia. È la terza volta che quest’uomo si sveglia, avrà il sonno leggero o un’ansia, come un mare, lo bagna. È tutto sudato. Trema. Si mette a sedere sul letto. Si guarda intorno. Fuori è buio. Nella stanza è buio. Poi allunga una mano e accende l’abat-jour. Ben svegliato, Augusto! (Sorpreso e spaventato) Tu? ... Io! Camera da pranzo. Notte. L’uomo e la donna siedono uno davanti all’altra e si guardano. Vedo che nonostante il tempo passato mi riconosci, fa lei suadente. Come potrei averti dimenticata, da ragazzo tenevo 23


tue immagini dappertutto, in camera, tra i libri, sembravano santini; ho passato un’estate in Grecia per cercarti…, risponde piccato, quasi furente, Augusto. Lo so, lo so, nemmeno io ti ho mai perso di vista, mi piacciono questi amori impossibili che non finiscono mai… Impossibili? Oh, sì, impossibili, anche se veri. Più ti sembravo a portata di mano più mi facevo irraggiungibile… Uhm… Non ti convince? Non so… e, poi, cambiando registro, cosa dovevi dirmi? Cosa c’è da spiegare? Non mi offri un caffè? Vuoi un caffè?, incredulo. Te l’ho appena chiesto…, lei, sardonica. Così, altro tempo in mezzo, nell’imbarazzo crescente, mentre la giornata - ma non era notte? -, non promette nulla di buono. Piove ancora e il buio resiste. Devo dirti che si muore, fa poi Afrodite, cogliendo Augusto, come un agnello alla gola, alle spalle. Peggio di una coltellata. Devo spiegarti perché, conclude. Augusto, la moka ancora da avvitare nelle mani, non crede a quello che ha sentito. Si gira, istintivamente mette le spalle al sicuro, si appoggia al bordo del la24


vello e, poi, cercando di essere sarcastico, Che si muore, lo sapevo già e sul perché… S’interrompe, Sul perché credo che non lo sai nemmeno tu. Finisce con la moka e accende il fuoco. Torna a sedersi. Afrodite aspetta che gli sia ben davanti e che la guardi, poi spara, Davvero? Lo sai?... Augusto, incredulo, non sa più quello che dice e che tono prendere, che razza di conversazione sia quella, chi sia questa donna che si fa chiamare Afrodite e che gli è seduta davanti, che gli assomiglia, potrebbe essere la sorella che non ha mai avuto… Certo che lo so…, si sente dopo un’eternità. È il mio lavoro… Tu? Io! Ma tu sei Afrodite, il nome, almeno, è della dea dell’amore… Ah, di nomi ne ho davvero tanti, e anche di occupazioni, se così si può dire… Non sapevi che si muore anche d’amore? Ma che dici, perdio? Non c’è bisogno di chiamare in causa dio, ci sono già io. Non ti basta?, dice la donna mentre fatica a trattenersi dal ridere. Ma Augusto ha di tutto voglia tranne che di ridere, così approfitta del gorgoglio del caffè per alzarsi. Versa il caffè 25


in una tazza e lo offre alla sua ospite. Tu non ne prendi?, fa lei premurosa. Non ne ho voglia, ma grazie per il pensiero. Perciò la notizia è… Che sei morto, conclude Afrodite. Sì. Oggi. Alle dieci in punto. Eri seduto a bere un caffè in un bar… Vedi, hai ancora le macchie sulla camicia, te lo sei versato addosso, mentre cadevi. Poi…, e amorevolmente lo guarda, poi io ti ho raccolto. Perché tu? Dico, perché proprio tu, ora… Ho capito benissimo, caro, perché io invece del signore incappucciato con la falce, o della signora… Non avete le idee chiare, su questo. Vi sbagliate, sempre, voi umani… Non volevo dire questo…, ribatte Augusto combattuto dalla voglia di domandare a proposito dell’errore degli umani, come ha detto lei; ma poi cerca di tenersi stretto al punto che l’attanaglia, è già difficile così, la testa sembra che gli scoppi, o s’espande?; non è il mio solito mal di testa, pensa fra sé, comunque sì, il senso era quello… Perché tu mi hai amata…, risponde Afrodite. Ricordi? Augusto, sempre più sbalordito, è nella situazione che sarebbe burlesca in un’altra 26


occasione, di dover dare risposte a un personaggio mitologico che sa, di lui, meglio di lui stesso; e per quanto una parte di sé tenti di puntare i piedi le parole che dice gli sgorgano da sole dalla bocca, e gli sgorgano quiete, assennate, senza ombra di quell’ansia in cui, in qualche fondaco misterioso di sé, lui ha idea di ribollire. Sì, ti ho amata, mi sei sempre piaciuta quando ti studiavo, ho anche scritto delle cose su di te… Lo so, fa lei, per questo sono qui. Mi è piaciuto quel che scrivesti di me, c’era qualcosa che hai perso, cogli anni… Cosa ho perso? Il riso, l’allegria hai perso, la poesia… Ero giovane…, l’interrompe l’uomo, Eri innamorato, ribatte la dea. Ero innamorato, conferma Augusto. Avrei voluto essere come te… Lo so, per questo ti ho fatto somigliante… Somigliante a te? E a chi, se no? Eri innamorato dell’amore, quindi non potevi che somigliare a me, Afrodite. Poi, cambiando argomento e tono, Ci tenevo, sai?... Ci tenevi a cosa?, sbotta Augusto sempre più prostrato da quello sdoppiamento multiplo. Ci tenevo ad accompagnarti nell’ultimo tratto, a cosa se no? 27


Afrodite, d’improvviso, si corruccia, come volesse solo per quella mimica dare peso alle parole che dice, pietre al posto dei fiori di prima, pece invece dell’oro dei riccioli che le fanno ombra sugli occhi. Non so se hai capito chi sono, Augusto, e cosa sono venuta a fare…, e strizza gli occhi come non ci vedesse, a sollecitare un’intesa. Sì, sì, fa Augusto, l’ultimo tratto. Sì. E si rabbuia anche lui, mentre l’altra riacquista lineamenti che potrebbero dirsi marmorei, tanto abbagliano. Non rammaricarti, fa lei, non è poi gran cosa morire. Per te, forse, ma per me… Per te è come per me, non c’è differenza fra noi, non ti sei accorto quanto mi assomigli? Cosa vuoi dire? Quello che ho detto. Nient’altro che quello che ho detto. Il vento, fuori, non cessa d’accanirsi contro le persiane che, senza il padrone in casa a calare il fermo nell’incavo, sbattono, mentre l’orologio della cucina segna sempre la medesima ora. È ora, dice Afrodite, andiamo. Augusto la guarda. Mi hai detto che si muore, resta da spiegare perché…, e sem28


bra più sereno di quando s’è svegliato nel cuore della notte tutto in subbuglio. È ora, ripete Afrodite, vieni, non avere paura. E gli offre le mani, cerca le mani, gliele prende e invita l’uomo ad un abbraccio. Augusto, sempre meno se stesso, lascia fare, ed è come se una nuvola lo avvolgesse, una nuvola tiepida che odora di mare. Piange. Cantiamo, sente dire, sbalordendo un’altra volta, ancora. Cantiamo?... Sì, cantiamo insieme; ricordi quel che scrivesti di me? Oh!, fa l’uomo. Oh! Esita. Sì… Nasce dall’onda…, e si ferma, gli occhi lucidi persi dentro la nuvola bianca che sempre più odora di sale. Così, d’incalzo, Afrodite, Schiuma… E poi, insieme, Afrodite che ride… Nasce dall’onda, schiuma, Afrodite che ride…

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UNO

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Dapprima nasce il mondo. Cerchio esile, sui bordi, sembra esile, color uovo, che si imprime sulla tela a più riprese, come volesse convincere se stesso, posare il sandalo sulla pista del sentiero, sabbia polverosa del deserto su cui è disceso, emerso, fattosi. FIAT LUX. All'ombra feconda dell'albero totem, l'emergere del cerchio dalle acque crea scompigli. Il gallo, lì daccanto, salta su cercando d'impossessarsi del primo passo, l'imprimatur, sgambettando allegro sul cerchio ancora caldo, sul mondo ancora in forse, sul colore che rasciuga alla calura dell'agosto. Esili aste a perpendicolo segnano ora l'uovo, come a dire che l'esistenza è contagiosa e che procede per salti e per reticoli. Circoscritto l'asse di ciò che è, si sviluppano fughe verticali, color dell'acqua, che dall'uovo ancora caldo s'allontanano verso il cielo, che è blu. Pesante colare di rigagnoli che amerebbero rimanere a covare le tracce dell'appena nato, e che invece vengono stirati come un caucciù fino allo spasimo. E là, dove lo sforzo vira verso il viola, 33


s'accennano due profili, specchiantesi, a dire della fatica dell'uno, dello sguardo e dell'identità. Riccioli, ha uno, cranio secco l'altro. Il corpo fonde verso il basso, incontro all'uovo a cui s'avvita e radica. E il gallo canta. E il cerchio è un buco. E l'azzurro cola. E il mondo venne. Viene. Erbe strappate al bosco, dal diluvio, a macerare nella polla, striano di torba secca, muschio, il nido del serpente. Cresce, cresce, ciottolo su ciottolo la montagna, la forra, il vento piega il salice, mentre il verme nasce e il bue pasce. Velo su velo la terra muta, ingrassa, si spacca al sole, finché dorati láminano. É il concrescere flessuoso, in fra il tutto, che s'acquatta, vuole il colle, il pianoro, la savana. Nel tabernacolo del mondo l'oro si mischia al nero, mentre il criniere aspetta il vento. L'ombra cresce mentre il sole dardeggia, ma sotto l'albero tutto è sospeso. Ora, il cinabro cola, sul corpo che si forma, a scacchiera riflette la mano che si flette, col fiore 34


in pugno, segue un pensiero, una voce, che dice dell'uovo e dell'azzurro. Sudore, mentre l'erba cresce con strani artigli, inzucchera ogni tendine, fa rovo. E l'uccello si posa in cerca delle bacche. Rosso. Sangue vermiglio fuoriesce dalle vene, fra l'erbe secche, tanto che la mano si ritrae, atterrita. Un ultimo tocco, leggero, un punto, e dentro il triangolo batte una palpebra. O è una farfalla? Poi l'occhio s'apre, maculato rosso oro e dice, Ora! Dio? No, la tigre generosa.

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Fa capolino sul pendio, tra i rovi, solo. Non si cura che di sé; non dei rovi, non delle pietre o del vento che, più alto, gioca coi rami. É tutt'uno con la terra, vola basso, temerario ed esposto. Se non fosse per quel lilla, di cui son fatti i petali, sarebbe un rovo fra i tanti, uno stelo d'erba, una pagliuzza nel vento. Un piccolo fiore. Germoglia, che è Marzo, prima dei tanti che presto verranno, dà la voce che il tempo è venuto, il tempo di spingersi fuori, apparire, scrollarsi di dosso l'ultimo sputo di terra, fare ombra al moscerino che viene, dar conto all'ape che sugge, alla pioggia che lava. Dà la voce, più forte, chiama ogni cosa come se stesso, calore del sole e luce delle stelle, chiama da quando, custodito nel grembo del tempo che viene della zolla sotterra, ora appare alla luce del tempo che è, senza dimenticare o scartare alcunché. Un mondo perfetto, un piccolo fiore, un 36


sole attorno a cui ogni cosa fa preciso il suo giro, alba e tramonto, vita e morte, eternitĂ delle piccole cose.

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DUE

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Lo trova il bambino, un mattino, mentre lo scuolabus è già in strada che l'aspetta. Apre la porta e, Welcome, a confondere lo stopposo benvenuto di saggina steso per terra, raggomitolato sullo zerbino dell’ingresso, c’è una palla di pelo, immobile. Il bambino, dapprima, fa un balzo all'indietro poi, come fosse la cosa più consueta del mondo trovare un cucciolo di cane alla porta d’ingresso, volge la testa all’indietro, verso l’interno della casa e, con quanta voce ha in corpo grida; all’indirizzo della madre, grida, che non lo sente presa com’è dagli sbuffi caldi della doccia; scappando via, grida, saltando l’ingombro, L’hotrovatoio! Grida ancora, prima di sparire dentro la scatola gialla dello scuolabus, stavolta rivolto a chi di una doccia avrebbe urgente bisogno, alla massa di pelo ancora immobile sullo zerbino ma dalla quale sono emersi un muso nero e grandi occhi languidi. Grida, Aspettami! E quello l’aspetta. Ha girovagato, indolente, tutto il mattino per le aiuole dei giardinetti di quella via poco trafficata fino a che, dal 43


fondo del viale, non spunta l’attrezzo colorato con le ruote dal quale, dopo pochi attimi, ridiscende il bambino. Il cane gli corre incontro, come non facesse altro da anni, strusciandogli il naso umido sulle gambette nude. Il bambino gli accarezza la testa e, come fa con i suoi compagni di classe, lo invita in casa. Qui, la madre, già indaffarata in cucina, strabuzza gli occhi dopo aver creduto di star affettando una cipolla andata a male, tale è la zaffata di odore umido che viene dal cane. L’hotrovatoio!, urla il bambino scaricando per terra lo zaino. Guarda che bello! Ha così inizio il calvario. Vecchi maglioni trasmigrano dagli armadi verso un cesto di vimini sufficientemente ampio da contenere la massa di pelo maleodorante e, per servire il primo pasto all’ospite, viene recuperato un sottovaso dalle piante della terrazza. Ci vuole anche dell’acqua, suggerisce il bambino, come fosse avvezzo ad avere animali per casa, cosa che non è mai accaduta se si esclude un canarino dalla vita troppo breve per poter essere ricordata. La 44


madre, non entusiasta del trambusto che già immagina, recupera una ciotola per l’acqua e, poi, sarcastica, E adesso, signor principe? Adesso dobbiamo trovargli un nome, risponde serio il bambino, incurante del tono sfottente della madre. Lamiadisperazione!, dice, pronta, lei. E ridono.

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Per quanto ci piaccia credere il contrario, si cresce sempre a piccoli passi.

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TRE

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Tutte le estati s'andava in villeggiatura; anzi, in liveggiatura, come diceva la povera signora Bucceri, moglie del pio bove che presto lui imparò a chiamare Muso Bianco. Perché? Che aveva mai questo villano sul muso? Ma niente, che aveva; e non scoprì mai i motivi di quell'insolito appello. Ad alcuni, sui cuori infetti, s'appendono cavalierati e monili, mentre altri s'accontentano di ingiurie affettuose e metafore semplici. Quel che ricorda, lui, è che in questa famiglia di zappatori, la donna, piccola e nera, deteneva un potere reale benché invisibile, di sicuro le public relations quando mostrava a fianco di sé una bacchetta di uomo magro e scavato di ossa, uomo il quale, pur non difettando del santo dono della parola, non spiccicava quasi mai frase. Perfetto esempio di riservatezza non anglosassone ma di stirpe di invasi. Insieme a questi, nelle formidabili estati che ricorda infuocate, lui ha trascorso le sue giornate più belle. Il tenue velo di cittadino ed agreste, di chi cioè viveva la campagna come svago disgiunto dal lavorare e 51


quanti, invece, lì ci sudavano giorno per giorno, quella schermaglia di pampini si dissolveva subito coi primi caldi, almeno tra i ragazzi, lui e il figlio maschio di quelli, Franco, nel vorticare dei giochi. Lì, nei lavori, scortato dal suo alfiere non più grande di lui, si intrufolava scoprendo l'afrore dei suini, le sbeccate del gallo, la schiena sudata e terribile di carne viva del mulo. La prima volta che ha montato una cavalcatura fu in quel tempo ed in quelle occasioni, sentendo il disagio e le vertigini acute, nonché il solletico delle setole dure dell'animale sulle sue scarne gambe sbucciate. Ma più d'ogni altra cosa, più dell'avventura delle vette e della carne del mulo, fu memorabile quella volta che, chiusi lui e Franco nel granaio, impararono non capendola l'arte del mondo, il segreto delle parole, le bocche secche del tempo, il sì vs no dei teoremi, camminando e disparendo entro montagne di chicchi dorati, ti vedo non ti vedo, e il senso del comico, l'urlo di risa, cammino ed annego. Era la felicità. Che volere di più? Perché 52


non si è rimasti ad annegare nel grano? Vecchia, tediosa, stupefacente e stupefatta domanda. Ora, a dimostrare l'insensatezza di quel domandare, la donnacapa non c'è più, se ne andò non molti anni dopo che se ne partì lui per un irrisolto teorema dei seni; Franco, nube di scherno e furetto da corsa, inconsultamente agguanta e forse aggiusta motori in città, faticando non meno di prima e di certo turbato dal non poter, nei ritagli di tempo e della memoria, danzare ed annegar nei bulloni; mentre lui, sparuto fantasma che parla di spettri, è qua a sudare per compitare volti dai vapori azzurrini che non tornano più. E Muso Bianco? Il d'Artagnan dal gesto nobile e lento, dall'enigmatico nome? Non sa. E lo spaventa l'idea di chiamarlo. Mussu Biancu! E il fantasma venne! Non ho altro da dire, signor giudice.

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Suono fesso di campano, belati, luci; e insieme a queste, a coronare il battistero in fiore, le grida alte del pastore imberbe, o giĂ sfiorito. Quando avveniva tutto ciò, incredulo pei pochi anni e lo spettacolo inconsueto, lui correva tra le pietre, terra fine come acqua tra le dita, incontro a ciò che gli pareva festa. Che processione, anche se insolita; che cori, pur se incomprensibili; quanta genia di parole nuove. Stupefacenti litanie d’imprechi, sguaiataggini, grumi di voce, bestemmie insaporite. Belato di capraio che mima il capro, sputa suoni a mozziconi, chiama, invita, prr, e con la lingua lancia pietre. Tripudi di una lingua arcaica, versi solforosi, onomatopee che neppure i cani.

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E quando, nel tripudio, arrivavano pietre, pietre vere, il gioco era alla fine e le greggi, pure loro pietre, se immobili, nel paesaggio, s’avviavano al riparo. Fuori, anche per quella notte, avrebbero digiunato i lupi.

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QUATTRO

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Finiti gli esami di diploma decise di partire. Non ne poteva più. Il tempo di fare lo zaino, uno di quelli leggeri, ed era già in strada diretto alla stazione. Aveva i pochi soldi racimolati dall’ultima notte al bar, qualche libro e un cambio di biancheria. E due vasetti della marmellata di Adele fatte poco prima che se ne andasse in Islanda. Bye Bye! Si sentiva leggero, Augusto, anche perché non sapeva dove sarebbe andato. Nessuna destinazione e nessuna aspettativa. Lasciamo fare al caso, si disse mentre entrava nella stazione che sembrava un suck. Il primo treno in partenza era per Venezia. E lui ci salì. Calcolando le ore necessarie per il viaggio era urgente predisporre quanto occorreva per recuperare i soldi del biglietto, multa compresa, una volta che fosse giunto il bigliettaio. Guardò i suoi compagni di viaggio, nello scompartimento che gli era toccato in sorte. Fiutò l’aria, scrutò i visi, quasi cercasse la sua Adele di sicuro già in vista di Akureyri, la cittadina nel nord dell’Islanda dove era diretta. 59


C’era una signora, con un libro in mano, davanti alla quale un posto era libero... Gli piacque, sembrava serena nonostante la ricercatezza nel vestire e gli occhiali coi brillanti. Le andò incontro, col suo zainetto e i sandali, ancora indeciso se cominciare da lì. Quando le fu davanti la signora alzò gli occhi dal libro e, gli occhiali scivolati sul naso, sorrise. Affare fatto. Si sedette ringraziando per l’accoglienza. E tirò subito fuori il suo Epicuro. Doveva ancora sistemarsi a dovere sul sedile che la donna aveva già sbirciato di che si trattava. E un’altra volta sorrise. Domandò cosa studiasse. Si meravigliò del fatto che qualcuno intorno ai vent’anni si portasse in treno un libro di filosofia. Sembrava sua madre. Lui le disse che la filosofia semplicemente gli piaceva, Epicuro in particolare. Lei annuì. Poi gli disse che scriveva libri di cucina e che scendeva a Verona. Il momento giusto, ritenne Augusto. Senta, signora, cominciò, ho appena terminato con gli esami e mi sono regalato questo viaggio. Solo che… Solo che… ripeté lei, Solo che intendo farlo con la forma del baratto. Niente soldi, se non è proprio neces60


sario. Interessante, disse ancora lei. E cosa ha da scambiare? Vedo che ha pochi bagagli, oltre al niente che ha in dosso. Sveglia, la donna. Avrei due barattoli di marmellata fatti dalla mia fidanzata…, disse lui temendo che gli avrebbe riso in faccia. Marmellata, ehm… disse lei tra sé. Non è granché, lo sa vero? Augusto annuì, anche se per lui non si trattava di semplice marmellata, ma di Adele. Sì, capisco... continuò lei come gli avesse letto nel pensiero, sì, le ha fatte… Come ha detto che si chiama la sua fidanzata? Adele!, rispose Augusto. E si ammutì. Non era sicuro che non lo si stesse prendendo per i fondelli. Certo, certo, Adele. E come mai non è qui con lei, la sua Adele?, incalzante la donna. È andata in Islanda. E come mai ci è andata da sola… Ma, mi scusi, disse poi subito, mi scusi davvero. Non sono certo affari miei… Non lo erano, difatti. Pure, Augusto avrebbe voluto che continuasse, tanto da dargli la possibilità di parlare di lei. Non lo fece. Così gli restò tutto nel gozzo. E cosa intende scambiare con le sue marmellate di Adele?, riprese lei come parlasse col finestrino. Augusto la guardò. 61


Gli sembrava allo stesso tempo troppo facile e troppo inaudito. Il biglietto per Venezia, sparò. E guardò anche lui fuori dal finestrino. Care, queste marmellate, rispose la donna dopo qualche attimo che sembrò lungo come i binari sui quali stava correndo il treno. Devono essere buone. E lo guardò bonariamente sarcastica. Facciamo così, caro amico, le prendo io le sue marmellate e, come d'accordo, pagherò il biglietto con la multa…, e facendo un'altra volta scivolare gli occhiali sul naso guardò Augusto come a dirgli che non era lui l’imbonitore che vinceva coi suoi dadi truccati, pagherò il biglietto con la multa ma soltanto fino a Padova. Perché solo Padova?, si domandò da sola. Perché lei deve allenarsi, al baratto, caro amico, e il Padova-Venezia se lo dovrà guadagnare. Per le marmellate… Scrivo libri di cucina, come le ho detto, e non mi sarà difficile usarle. Alla memoria di Adele… L’increspatura che siamo scese a Verona. Era piaciuta ad Augusto l’osservazione della signora, sparata lì, tra un silenzio e l’altro, 62


come un meteorite piovuto dal cielo, …La realtà, amico mio, è un flusso profondo di cui noi, tutti, siamo increspature improvvise. Comprese le sue marmellate. L’aveva detta così, come parlasse tra sé, mentre tirava fuori due libri da una borsa che teneva di fianco. Ecco, questi sono per lei, mio caro amico. E glieli porse, uno per mano. Sono due aspetti della mia vita, ne tenga conto. Il libro di cucina, con la sovraccoperta lucida e la sua foto in quarta, e un tomo più grosso, coi bordi slabbrati e la sovraccoperta tagliuzzata in più parti. Augusto capovolse quest’ultimo e lesse, Spinoza, Etica. Lei lo guardò, per vedere che effetto gli facesse, poi disse, Quello che per lei è Epicuro per me è stato Spinoza. Ma è giunto il momento di dargli aria e, credo, lei sia l’aria giusta. Perché proprio io? rispose Augusto un po' intimorito. Crede che, altrimenti, ci sarebbe stata quest’assurda pochade fra di noi? Crede che sarebbe capitato su questo vagone e che, fra tanti, mi avesse scelto ma, soprattutto, che le avrei barattato le sue marmellate di Adele? Poi, prima di dirigersi all’uscita, E questo è per 63


il suo pranzo di oggi. Tortellini con carne d’asino… Li faccio io. E porgendogli un fagotto avvolto in carta stagnola si preparò scendere. A Padova, in cambio del biglietto fino a Venezia, Augusto si offrì d’accompagnare un distinto signore inglese con una valigia troppo ingombrante. Che accettò. Non capì bene ma accettò. Lo squadrò, dapprima, sarebbe dovuto sembragli un barbone ma qualcosa smentiva quell'impressione e, poi, cosa decisiva, il ragazzo parlava un inglese troppo forbito per preoccuparlo. Stramberie di noi anglosassoni, avrà pensato. Venezia era come l’immaginava, brume che andavano e venivano, e quell’odore di marcio o, se vogliamo continuare a fingerci anglosassoni, di alghe andate a male. Giovani, tanti visi giovani, di tutte le razze, zaini e cappellini colorati. Giapponesi. Sempre più piccoli e sempre più giapponesi. Un altro luogo comune si disse Augusto mentre lasciava che una decisione maturasse in lui. Che era venuto a fare a Venezia? Continua64


vano a girargli in testa, interferendo con le eventuali decisioni da prendere, le parole di suo padre, Pensa bene a cosa vorrai fare da grande. Con la filosofia non si mangia…; l’asino che, suo malgrado, era da presumere facesse saporiti i tortellini e le increspature di quel flusso di cui eravamo fatti. Augusto rivide il viso della signora di Verona che gli sorrideva. Giunse le mani e la ringraziò. Si lasciava andare, cominciava a mollare la presa, si acconciava all’indeterminatezza, allo sguardo quieto posato leggero su quella faccenda strana che chiamiamo realtà, ai pensieri senza proseguo, galleggianti, all’aria forte che il vento dal mare portava fin là. La sola cosa sulla quale non ammetteva fluttuazioni era la regola dalla quale era partito quel viaggio, il baratto. Niente soldi. Solo scambio. Lasciamo che gli atomi cadano secondo il loro proprio clināmen, si disse Augusto, e si sedette sulla gradinata prospiciente la stazione. Tirò fuori uno dei suoi toscani e cominciò a fumare. Guardava, uno sguardo posato leggero sul mondo, mentre vortici si formavano e s’inseguivano dentro e fuori di lui. 65


L’ora ardua della mattina generava un altro flusso, su e giù per i gradini della stazione, chi veniva e chi andava, voci, saluti, un ragazzo che baciava sul collo la donna che l’accompagnava. Molti, come lui, sembrava abitassero, da più tempo di lui, su quella scalinata. Forse attendevano, forse sognavano, forse erano lì semplicemente in attesa che il loro particolare universo perpendicolare, come De Witt aveva definito la fisica epicurea, si mostrasse loro per decidere che farne. Poi, dal gruppo, si staccò un ragazzo, alto, barba rossa, capelli arruffati e gli si sedette accanto. Hai un sigaro?, chiese. E lui glielo offrì. L'accese, in silenzio, quasi assorto a gustarne il peso ed il gusto, e solo dopo che aveva espulso la prima nuvola di fumo denso, si presentò. Sono Marco, disse, e gli tese la mano. Augusto rispose lui. Sempre l’Impero… commentò quello ellittico. Piuttosto greci, ribatté Augusto. E cominciò a parlargli di Epicuro. Marco, in silenzio, si godeva il suo sigaro, la luce tersa della mattina e ascoltava. Quando il raptus finì, com’era cominciato, senza preamboli e senza apparente giustificazio66


ne, Marco si alzò, guardò Augusto e gli disse, Io devo andare. Domani alla fattoria avrò tre scolaresche e devo preparare un po' l'ambiente, strigliare gli asini... Asini? L'interruppe Augusto che quasi gridava. Sì, ho degli asini alla fattoria. Sono le mie star. È per loro che vengono a farmi visita. Oh!, disse Augusto. E nient’altro. Ma barbarossa era sveglio, tanto che sparò, Vuoi venire con me? Mi farebbe comodo una mano. Sì! disse Augusto senza neanche pensarci. E si tirò su. Tornarono indietro su un furgoncino che aveva fatto le barricate del ‘68, un miracolo che camminasse ancora. La fattoria di Marco era sui Colli Berici, d’attorno a Vicenza. Non appena imboccarono l’autostrada, Marco tirò fuori da una sacca una bottiglia di vino già aperta e gliela offrì. Lo faccio io. Cabernet delle mie colline. E più niente, mentre tentava di riaccendere quel che gli era rimasto del sigaro. Bevve un gran sorso, Augusto, era buono e lui non mangiava dalla mattina. Come gli avesse letto nel pensiero, dalla stessa sacca, venne fuori 67


una caciotta di formaggio che, acrobaticamente, Marco spezzò in due. Marco passò il formaggio e Augusto restituì il vino. In ragione delle capre da cui era sortito quel formaggio e delle viti di quelle colline, giunsero a destinazione satolli e felici, pronti per andare a dormire. Alla fattoria, dopo i saluti arruffoni di un cagnone più barbuto del padrone, Marco accompagnò Augusto in casa indicandogli quella che sarebbe stata la sua camera. Cella da monaco, più che camera, ma che si confaceva perfettamente al suo stato d’animo. Prima che ogni luce della casa si spegnesse, Marco tornò da lui per domandargli se gli mancasse qualcosa; e al suo considerarsi beato, gli augurò la buona notte recitando, La morte non è niente per noi; ed infatti quel che si è dissolto è insensibile e quel che è insensibile non è niente per noi. Era perciò arrivato a Vicenza non trasgredendo il patto del baratto. Ora, alla fattoria di Marco, avrebbe scambiato lavoro con ospitalità. Domani, si disse Augusto mentre una lama di luce che passava sghemba dal68


la finestra tagliava il letto in due e il quadrifarmaco d’Epicuro l’accompagnava al sonno, domani incontrerò quell’increspatura meravigliosa, dalle orecchie lunghe, che si chiamano asini. Puntuali, serrati entro un manipolo di veicoli gialli, le scolaresche arrivarono. E fu subito caciara. Era evidente che non era la prima volta e che la faccenda, per le animelle delle elementari, non assomigliava per niente ad un giorno di scuola. Concesso qualche momento agli inseguimenti e agli agguati, ci si raccolse sotto una grande tettoia di panche e tavoli di legno. Lì sarebbe stata impartita la prima lezione di non si sa bene che materia. Di cui Marco era il professore. A mo' di preambolo, assai educatamente, Augusto venne presentato e collocato nella categoria professionale degli assistenti, poi fu ripreso un discorso tutto loro. Come prima cosa…, lanciò Marco, Andiamo a metterci gli stivali, rilanciò un coro assordante, festoso; così, nuovamente, tutti giù dalle panche, urtandosi e gareggiando a chi arrivava primo, mentre Augusto 69


faceva onore al suo nuovo ruolo e assisteva. Si arrivò così ad un locale basso e arcuato, non lontano dalla casa, dove oltre agli attrezzi consueti e ad un trattore, su una panca svettava, perfettamente allineata e lucida, una lunga teoria di stivali in gomma multicolori che sarebbero stati ben calzati dai sette nani. Baraonda infernale, con mocciosi che, nell’acrobazia necessaria alla bisogna, stramazzavano al suolo subito seppelliti da altri. Ce ne sono per tutti, ripeteva inutilmente Marco, state tranquilli. Come un ordinato esercito in cui solo i generali avevano fattezze umane, la truppa essendo fatta da pigmei piedirossi, partirono tutti verso le stalle. Marco davanti e Augusto in fondo. All’entrare in uno dei tre locali che s’aprivano più in su sulla collina, alle spalle della casa, qualcuno disapprovò, Che puzza! E tutti a ridere. Non era puzza, ma lezzo d’orina impastato con sana merda delle sei mucche che, ancora ignare del pericolo che arrivava, se ne stanno placide a passarsi tra i denti il fresco fieno della mattina; lezzo che prendeva le narici come un 70


forcipe ma che, nello stesso tempo, apriva i polmoni. Qualcuno tossì, difatti. Entrarono. Ed ecco la prima lezione. Fattosi largo tra le mucche, Marco ne isolò una, controllando, a vista, che tutt’attorno potesse stare senza pericoli l’esercito dei pigmei piedigialli; poi fece cenno ad Augusto d’avvicinargli uno sgabello e un secchio che stavano verso le balle di fieno, in fondo al locale. E nel disporre il secchio sotto le mammelle della mucca, come solo succede sul podio, ad un concerto, quando il direttore alza lento la bacchetta nell’aria, si fece un silenzio perfetto. Si sentiva il bolo formarsi in bocca alle mucche rimaste alla mangiatoia; si sentiva un secco frinire di insetti sulle travi del tetto; si sentiva il silenzio. Allora, signori, attaccò Marco quasi avesse rubato ad Augusto l'idea del concerto, fate bene attenzione. Ora vedrete da dove viene il latte che le vostre mamme vi servono ogni mattina a colazione. Oh!, fece la truppa come non ce la facesse più a star mutola. Marco guardò Augusto, mentre le sue mani sapientemente andavano alle mammelle, e ci andavano lente, come volesse che quel 71


gesto passasse bene per gli sguardi pigmei, lo guardò e sorrise. Poi cominciò a spandere schizzi bianchissimi nel secchio di latta. Oh! Lunghi sorsi del latte appena munto, caldo, andò giù per il gargarozzo dei pigmei piediverdi, e non per diventare grandi ma per mandar giù l’emozione di quella lezione. Poi venne lasciata loro un’ora d’aria. Al suono del fischietto tutti sotto la tettoia, urlò Marco. E ora smammate. E i pigmei smammarono, con un curioso rumore di vuoto d’aria ai piedi. Non a tutti le improvvisate calzature calzavano. Così si appartarono, Augusto, Marco e le tre giovani insegnanti, a bere un caffè e a preparare la seconda lezione, la magister. Che facciamo con gli asini…, disse Marco rivolto alle donne. Avete niente in contrario a far cavalcare qualcuno dei pigmei? Le donzelle si guardarono; erano giovani, bionde, e non molto propense a rispondere sì. Non da soli, disse una. Il che vuol dire, continuò Marco, che il mio assistente cavalcherà con loro. Lui? Il fischietto risuonò, così tutti arrivarono ad uno slargo sulla collina sul qua72


le tre asini pascolavano liberi. Piccoli, baj, bellissimi. Grandi musi, occhi come laghi, infinite orecchie appuntite. Impossibile tener fermi i pigmei, vibravano della stessa agitazione di cui vibrava Augusto. Quasi quasi mi iscrivo alla tribù dei piedirossi, pensò. Marco era innanzi a tutti e chiamava un nome, Orestea. Al che uno dei tre asini, volse il capo e gli si avvicinò. Questa è la mamma, stava dicendo Marco alla tribù, e si chiama Orestea. Altro Oh!, ma stavolta più eccitato di quello alla stalla. Gli asini erano quieti e continuavano con le loro occupazioni, pure tutt'attorno era un unico fremito. Le insegnanti sorridevano, le bocche semiaperte. Adesso, cominciò Marco, adesso vi chiederò una cosa. Siete pronti? Un boato, come risposta, Sì! Vi chiederò se qualcuno di voi vuole fare una passeggiata con Orestea. Una passeggiata… Come una passeggiata?, disse uno della tribù dei piedigialli. In groppa ad Orestea…, lasciò cadere Marco. Oh! Poi, da un punto impreciso del gruppo, da un pigmeo più pigmeo di tutti, si sentì, piano, Io! La preparazione fu laboriosa soprattutto a causa delle istruzio73


ni che Marco doveva passare ad Augusto facendo finta di niente. Era inteso, difatti, che nessuno dovesse capire quanto l'amico fosse esperto di cavalcature. Venne stesa una coperta sulla groppa cenere di Orestea che, placida, attendeva che quella buffonata finisse. Finché non fu necessario cavalcare. I piedi di Augusto quasi toccavano terra mentre l'altro, il compagno davanti, piccolo com'era faceva un osso di più sopra il collo dell'asina. Così nacque una cosa che prima non c'era, asina con gobba o ippogrifo dalle ali piegate, mentre una gobba più grande, ansante, alle spalle della prima s'insaccò furlaccamente dando ad intendere d'aver preoccupazioni per il pigmeo. Marco sorrideva, poi toccò l'asina con una mano e fece, Ah!! E Orestea, placida, si mosse. Sembrava d’essere su una piroga sulle rapide, all’inizio, poi il passo ritmato dell’asina permise perfino di sorridere. Il pigmeo esultava e ad Augusto veniva quasi da piangere.

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Rosa. Rosa d'inverno, rosa matta fuori stagione, estatica. Se la trova davanti, d'improvviso, svoltato l'angolo del muricciolo che dà inizio al sentiero, gli toglie quasi il berretto di lana che ha in testa, con uno spino, spavalda. Eccomi qua! Meraviglia del cielo, paziente chiazza di sole, cunicolo buio, serra botanica che pare una chiocciola, pietruzze, sabbia e ragni traslucidi. Che ci fai qua rosa matta d'inverno? Non vedi com'è, tutto il mondo com'è, distesa gelata che non si vede un cespuglio, alberi radi, solo una lepre, là, che si strugge cercando un compagno? La rosa, senza far niente, accarezza quegli occhi già spenti, li accende del suo rosso vermiglio, li riscalda del sole nascosto, l'inebria di una gioia inattesa. Non son'io, si sente tra gli arbusti del viottolo, non son'io rosa matta d'inverno a far vivido il mondo, ma i tuoi occhi cavi che vedono una rosa dove non c'è, riflettono un 75


cielo che è tutta una là mina, danno vita alla distesa di ghiaccio e, là , a due lepri che saltano. Non son belle?

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CINQUE

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Il soldato alza il braccio sul quale s’inerpica una mano appallottolata, chiedendo di parlare. Tutti, nel cerchio disseminato sulla veranda della baita, l’hanno visto, ma la signora che parla continua a parlare. Non che questo voglia dire granché, forse la signora ha solo voglia di concludere un discorso, dare soddisfazione ad un pensiero natole lì per lì, tra un’occhiata cieca al panorama che le si apre di sotto e il caffè che ha ordinato ma che non le è ancora stato servito. Sa, signora, c’è molta confusione oggi, è ferragosto, ha idea di quanti caffè scodelliamo, caldi no, perché è già caldo di suo, freddi, quasi ghiacciati, acqua colorata zuccherata, a essere sinceri; oh, signora, in questa bailamme, lei che fa?, lei ordina un caffè caldo, scombinando tutta la servitù, pardon, le maestranze al bancone del bar, uno si deve assentare per lei, signora, azionare lo stantuffo che non sa più a cosa serve, dato il poco uso che se ne fa in giornata, come le ho detto, signora, è caldo, e il caffè ghiacciato lo facciamo a litri, è più 79


comodo, il giorno prima, o di notte quando s'aspetta la confusione come c’è oggi. La signora, perciò, sta parlando del camoscio del cui avvistamento le hanno raccontato poco prima, quando basterebbe alzarsi dalla sdraio e muovere qualche passo, per vederselo da sola, il camoscio, evitando così di sentirselo raccontare con tanti oh!, povero camoscio che non c’entra niente, quello se ne stava beatamente a dissetarsi al fiume e questi a fare oh!, ah!, e forza con le foto, forza che, tornati in baita, lo raccontiamo a tutti. Il soldato ha ancora il braccio alzato, ha avuto la tentazione di abbassarlo, come una corda cui, d’improvviso, venga meno la tensione necessaria e perciò s’affloscia, ma ha pompato nuovo nerbo, il soldato, è forte, il soldato, così è ancora là a dar spettacolo, tutti lo guardano facendo finta di niente, ma cosa avrà mai di così urgente da dire?, valli a capire questi soldati, è arrivato da poco e già vuole parlare, bella faccia tosta. 80


Il caffè che arriva sul tavolo dirimpetto alla signora scombussola la platea, non si sa se si zittirà per berselo, quel caffè tanto desiderato, e se sì che succederà; vuoi vedere che il soldato s’intrufola e parla? Ma la signora a tutto pensa tranne che al caffè; verrebbe da dirgli, signora, è stata tanta la fatica che è costata, il trambusto al bancone, il conciliabolo dei garzoni per quella stronza che con questo caldo vuole un caffè caldo, è stato tanto tutto, su da brava, se lo beva almeno, e invece quella continua mentre l’uditorio, fin qui cortese, comincia a dare segni di nervosismo, smania, s’è stufato della storiella di Bambi che s’abbevera. Ma lei non beve, no. Così, segretamente, la platea che non sa d’esser tale comincia a incitare il soldato che, ora, riappropriatosi del braccio che cominciava a formicolarglisi pare interessato alle montagne. Beva il suo caffè, qualcuno s’azzarda, lo beva prima che si freddi. Ma a me piace freddo, quella, subito tornando alla storiella che l’ammalia, ed è un obice da quaranta sparato a bruciapelo quando 81


arriva alle orecchie del cameriere; le piace freddo?, dice che le piace freddo?; stai calmo, calma, se no mi perdo anche questo lavoro, vado là e la strozzo, signora damigella dei miei camosci! Di tutto questo, sdraiato sul limite estremo della veranda lui non sa niente, così, d’improvviso, sfilatosi una delle cuffie dalle quali ascoltava Glenn Gould e le variazioni di Bach, urla, Ecco, lì, lì, un camoscio! E il soldato può finalmente chiedere dov’è il bagno.

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All’ora in cui gli uccelli apprestano mimesi tragiche per la fienagione di un giaciglio, nella cavea dell’albero totem, le anime del bosco - presenti silenti non viste - tendono braccia in conforto a quanti lo richiedono, come s’offre una tavola a chi annega o il colpo di grazia a chi se lo merita. Eccolo il lievito che cola sulle montagne, la foschia d’anime, il denso riverbero del grano che fu, tutto è a tralucere in altro, sembra niente, offre ciglia di un mare fatto a conchiglie, pietre leggere che se le tocchi come valve si aprono, sapienza d’ogni cosa che si sporge e sorregge ogni cosa, dal muschio che regge l’urto del sole e s’acquatta nella pietra, s’acquieta s’incava, all’esplodere secco, che pare un petardo, del viola del glicine. Tutto cresce concresce in un sensibile tattile, e spinge sostiene si colora ravviva, vive tanto che il vento s’impenna, lancia alti stendardi pagani, nel cielo, e poi trapassa tracima osserva curioso quanto avviene tra le maglie di un periplo dove ogni cosa 83


s’espande che pare una pozza, sconfina in cerchi che paion scomposti, secanti, suadenti, e che ti prendono come in un tango.

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SEI

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Si sveglia all'alba. Non s'è ancora mostrato il sole, dalle guglie dei monti a mezzaluna disposte alle sue spalle, ed Augusto esce dalla baita. È voluto tornarci un'altra volta, ma non è più estate e lui non è più soldato. Si sente a un bivio nella vita, ha appena concluso il concorso che avrebbe deciso che farne, degli studi intrapresi, e ha deciso che non si muoverà da lì finché non si sapranno i risultati. La montagna, che non conosce, gli piace, soprattutto perché consente una solitudine che a lui pare densa di presenze ed un silenzio espanso. Come le cose che ha amato nel volto degli dèi e della filosofia greca. Ha comprato un paio di scarponi ed un piccolo zaino leggero, che ha voluto rosso, fatto che l'ha incuriosito scoprendosi inusitatamente di buon umore; e questa è tutta l'attrezzatura. Non conosce quasi nulla di quelle montagne, ma non teme; non sapendola leggere ha pure messo via, stipata in fondo allo zaino, la carta dei sentieri che il venditore gli ha regalato; e ora è lì, a respirare forte, impaziente che il bar della 89


baita apra per fare colazione e poi partire. Partire. È molto affollata questa solitudine e un po' troppo chiacchierone questo silenzio. Mussu Biancu, Adele, la signora di Verona, un cane nero, Marco, Orestea... Fa un cenno con la mano, Augusto, come salutasse i campanili dei paesini sparsi nella valle, o le nebbie, a cumuli, che dense salgono verso la baita. E quelli, tutti insieme, rispondono procurandogli fitte al petto, come gli urgesse espellere qualcosa, un grido, uno sputo, una parola; ma non gli viene niente. Solo dagli occhi, un po', cola qualcosa, ed è per questo che li protegge con la mano ora che la signora della baita l'ha raggiunto. Mattiniero, eh? Non c'è nessuno sul sentiero che s'inerpica a perpendicolo della guglia più alta, a forma di una mano a cui mancano due dita. L'ora ardua genera profumi densi, brina sui pini, luce che cade e che è come bevuta, franta, rimbalzata tra le fronde e i sassi. Macigni, più che sassi, sparsi a caso, che rimbombano il murmure dell'acqua, che 90


non si intravede ma che scroscia, nascosta in qualche anfratto. Cammina, Augusto, passo dopo passo, scansa, salta, scivola e s'appende al ramo. L'aria è fresca, pungente, e lo zaino da cui ha appena tratto la bottiglia d'acqua, bagnato. Si ferma a respirare. Guarda in giù, ed ora il tetto della baita brilla come i campanili di prima; sorride, Augusto, sorride ora che sa cosa sono gli specchietti per le allodole. Saluta anche quello e fa per girare la testa in su quando la mano di pietra, immobile, lo chiama, con quelle dita mozze che ne fanno una cabala da decifrare, l'invita a farsi avanti, a fare presto, a non tentennare coi ricordi, giacché non manca molto. Vorrebbe sapere a cosa, non manca molto, si chiede perfino perché è lì, dubita, Augusto, dubita e tira avanti. Arriva sull'altopiano, ansante, sembra essere sgusciato fuori da un tunnel, catacombe, tanto lì lo spazio s'apre e la luce esplode. La mano mozza è sempre tesa, segna una direzione, punta in alto. E allora Augusto guarda il cielo, cupola di blu perfetta che pare tremi. Ma no, non è 91


da lì che viene la risposta e la mano inganna. Non sa, Augusto, perché pensa così, benché ne sia sicuro. Una certezza insensata, dura come la roccia che lo sovrasta. Si accoccola sull'erba, nello spiazzo, tra le pietre che sembrano cippi, steli, segnali morse. Cerca uno spazio e si lascia andare, steso, un morto che respira piano. Qualcosa sta parlando, tutto mormora e lui non capisce ancora. Un falco, una nube, nugoli neri sugli steli. Qualcosa frigge, matura, e lui chiude gli occhi. Il vento. Solitudine sempre più affollata, ma non più nella sua testa; non più visi, nomi, età; bensì aliti, ammicchi, carezze che somigliano a tremori. Improvvise paure, tanto che la schiena scatta e Augusto balza in piedi. Un gregge, in lontananza, una processione per un viottolo stretto tra le rocce. Nient'altro. Pure Augusto trema. Qualcosa sta passando, dunque, l'acqua filtra nel setaccio, trapassa e tocca i nervi, i muscoli, prima che il cervello. La mano mozza è sempre lì ad ingannare gli sprovveduti, pensa, poi apre lo zaino e prende da mangiare. Gli è venuta una fame urgente, improvvisa, tanto che 92


s'avventa sul suo pane come un lupo farebbe sul gregge che, frattanto, è sparito. Dov'è finito? Ombre. Nuvoloni arrivano da nord e scivolano via, leggeri, come su slitte. Ci manca solo che piova, dice mentre il pane gli si sbriciola tra le mani e la bocca è arsa. Beve. Beve tanto che la borraccia è quasi vuota. Ecco, si dice, bisogna far così, così come?, avere fame e spezzare il pane, una mano si tende ed un'altra le va incontro; ma allora dar da mangiare agli affamati, andar verso gli offesi, non è carità ma legge, penso di sì, legge del mondo, battito d'ali, piume perse nel vento. Sì. Piove.

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I luoghi mandano segnali, hanno ricordi... I ricordi, però, non sono ciò che è stato per il fatto che or ora la lepre scorrazzava tra l’erba o l’alta aquila afferrava il suo topo, perché la roccia è memore e la terra e le radici dei lecci sanno di loro in un modo che non evita nulla. Così le acque sono pacificate e pacificata è la terra, questa terra di cui io sono bosco.

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SETTE

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Interno. Camera da pranzo che s’affaccia su di un giardino. Giornata che alterna un sole pallido a un vento capriccioso. Lui: (sarcastico) buongiorno, amore mio… Lei: uhm… Buongiorno… Non ti riesce di essere dolce nemmeno dandomi il buongiorno, a quanto vedo. Non sei per niente un uomo semplice… Lui: no, difatti. E non sai le complicazioni che me ne vengono. Lei: ma perché, dico… Lui: è che non riesco a crederci… Dietro la facciata della semplicità si spalancano abissi… E io li vedo tutti. Lei: uhm… Lui: diffido, ecco. Diffido quando qualcosa si presenta pianamente, ci vedo un inganno, qualcuno non la sta raccontando tutta. È la nostra storia, mi sembra… Lei: uhm… Lui: non è di questo che si tratta? Perché, se no, saremmo qui a dirci addio? Lei: stiamo facendo questo? Lui: tu che ne dici? Lei: eppure ti amo. Lui: ah! Se è per questo non c’è stata donna che se ne sia andata perché non mi amava. È che, con me, la vita diventa insopportabile… Me ne rendo conto e non te ne faccio colpa. Lei: eppure hai lasciato l'altra, per me. Lui: 101


l'ho lasciata..., mi ha mandato via, perché era diventato impossibile prendere quell’amore disarmato e senza sbocco… L’ho lasciata per farla vivere… Lei: vuoi dire che stai facendo lo stesso con me? Lui: così è messa troppo semplicemente… Lei: e siamo daccapo. Lui: siamo sempre daccapo. Silenzio. Ho letto quel che stai scrivendo. Manca l'età felice, dice lei. Uhm, fa lui mentre si accende da fumare. C'è la fanciullezza e quel che viene dopo, continua lei, l'orientamento, provare a immaginarsi grandi; ma qui, proprio qui dove stiamo noi dovrebbe esserci l'età felice, visto quel che sospetto verrà dopo. L'età felice non si racconta, fa lui, se è felice. Scorre. Non lo sapevi? È quando fai fatica a respirare che t'accorgi di respirare. Non credi? Vuoi dire che scrivere, raccontare, è segno di un intoppo? Qualcosa che non scorre?, domanda lei. Interroghi, dice lui, ellittico, come seguisse altri pensieri. E se lo fai sei necessariamente sospeso, fuori, è come ti appartassi dal treno dove stai che, intanto, continua la sua cor102


sa. Detta così non sembra una gran cosa, timidamente, lei. È come non vivere... È la maniera umana di vivere, pensare, che fa da velo, dice lui. E non credo sia grande o poca cosa. È quel che è. Adesso mi lasci in pace? O vuoi che smetta? Viene il bello, adesso, conclude. Viene il bello perché sei affascinato dalla morte, lei, sarcastica. Non scrivi d'altro che di morte, d'altronde. Mai l'età felice, sì, lui, ironico. È che la felicità è noiosa, non succede mai niente. Invece coi tormenti..., lei. Coi tormenti, come dici tu, risponde lui mentre sorride, ci si diverte perché è tutto in farsi, un'anguilla che ti si dibatte tra le mani. Una partita dove fino all'ultimo non si sa mai chi la spunterà. Mah!, dice lei mentre rassetta una tovaglia. Silenzio. Lui: il deserto che siamo. Come lo attraversiamo... Lei: che? Lui: che lo siamo, un deserto, non è da discutere. Anche se pochi sarebbero d’accordo. Lei: difatti, io non lo vedo, io non lo credo. Lui: so bene, cara, giacché io stesso ho sempre creduto nei deserti degli atlanti, o che s’attraversano 103


nei viaggi, là fuori, e t’assicuro che ce n’è voluto prima che lo scoprissi in me, da me, nonostante me. Lei: che c’è voluto? Lui: c'è voluto vivere, questo ci vuole. C’è voluto il banalissimo fatto che ogni cosa è se stessa e che, per esempio, l’acqua scopre d’esserlo, non so come, bagnando, e l'albero fruttificando e le nuvole... Il deserto, perciò, ha scoperto se stesso tramite me che non sono altro che lui. Lei: una vertigine… Lui: sì, una vertigine… Ogni cosa, difatti, non può che arrivare là dov’è, prima o poi… Lei: prima o poi… (sporgendosi verso il giardino dov’è ora l’uomo e alzando la voce) Lui: a volte mai, a dire il vero, nel senso che manca il tempo, che non si danno tutte le condizioni necessarie, e allora il gioco finisce prima d’impararne le regole, e sulla tomba occorrerebbe scrivere, Sconosciuto! Lei: sconosciuti a se stessi… Lui: esatto. Sempre, la conoscenza ha a che vedere con se stessi, perché se non è questo è altro, enciclopedia, fotografia… Lei: non abbiamo detto della cosa più importante… Lui: quale? Lei: che intendi per deserto? Lui: ah! Quello che sei, quello che c’è… Lei: 104


e cosa c’è? Lui: uhm!… Cosa c’è? Silenzio. Lui: che vada così, il mondo, ci sembra normale. Lei: che vada come? Lui: che le cose essenziali accadano a nostra insaputa, di nascosto e senza un nostro decisivo intervento. Lei: di che parli, santo di un uomo? Lui: che le cose essenziali accadano a nostra insaputa, di nascosto e senza un nostro decisivo intervento. Lei: ma mi stai a sentire quando ti parlo? Lui: certo che ti sento… Ma mi chiedo com’è che al mio uomo riesca quel che non riesce a me… Lei: forse perché quel tuo uomo è di carta? Lui: il mio uomo, dici… Il mio uomo di carta… (Declamando) Era da un po’ che tornava, incosciente, a quel tema, aiutato dal sogno, forse perché si trattava di questioni dove occorreva il minimo impegno e, nello stesso tempo, il massimo defilarsi, lasciare il passo, lanciare il sasso e nascondere la mano. (Smettendo di fare teatro). Non abbiamo mai capito che il sasso sa perfettamente dove colpire e che, se sbaglia, è perché siamo di troppo. Lei: buona questa del sasso che sa dove andare, mi sembra buo105


na, dà un’idea anche sul deserto di cui parlavi prima.. Lui: forse… Lei: forse? Non ne sei convinto? Lui: no, proprio perché ti è piaciuta l’idea, e così credi d’esserti avvicinata a ciò che non capivi… Lei: non capisco… Lui: è il sasso che sa, non quel che ne capisco per via della sua esattezza. Lei: ah! È per questo che raramente cogliamo il bersaglio e il deserto, se a lui vogliamo tornare, non è nessuna delle cose che ne sappiamo o ne immaginiamo… Lui: sì! Lei: sì, cosa? Lui: sì che non è come potrebbe essere secondo noi, e che se lo sappiamo, se crediamo di saperne qualcosa, è certo il caso che lì ci sbagliamo. Lei: uhm! Silenzio. Qualcuno rifletteva o qualcosa doveva trovare il proprio spazio. Lui: è come con i lapsus, parole esatte che ci sfuggono e che non avremmo mai dette. Lei: l’inconscio? Lui: non credo… Lei: perché no? Lui: perché dicendo Inconscio crediamo d’aver sistemato le cose. Lei: e com’è, allora? Lui: è un sottrarsi… Sottrarsi a se stessi, farsi lo sgambetto da soli, darsi appuntamento e non presentarsi, mettersi in scacco. In in106


cognito. Lei: uhm! Lui: che c’è? Lei: non ti seguo più. Lui: ma neanche io mi seguo, se è per questo, ed ecco perché il deserto s’è presentato. Ho smesso da un bel po’ di seguirmi… Lei: sai che mi viene in mente? Lui: non dirlo, il Tao? Lei: come lo sai? Lui: lo so perché non sono diverso da te... Lei: in che senso? Lui: lascia perdere, crederesti d’aver capito chi sei… Il Tao… È la stessa trappola di sempre, e credo sia questo il punto. Di qualunque cosa si tratti, dopo aver profuso metodo, sudore e studio, crediamo d’aver capito, mentre la cosa, quella cosa, non è più lì da tempo e ha cambiato mille volte pelle. Il Tao che si può dire non è il vero Tao. E il deserto, frattanto, è probabilmente diventato un giardino fiorito. Silenzio. Si mettono a tavola. Lui stappa e poi versa del cabernet, lei serve una coloratissima insalata dove i gialli e i rossi dei peperoni fanno un gran chiasso. E, tra un boccone e l’altro, sfoglia un giornale. Lei: senti questa, Bisogna essere maturi per accettare d’essere amati. Che ne dici? Lui: mah! 107


All’inizio si è in balia. Alga che freme con l’onda, all’onda, e che non può opporsi. Ma neppure s’arrende. Non è male essere in balia così. In un certo punto dell’esistenza è necessario e naturale, ma anche dopo, non è male. Peccato che non duri. Lei: non hai risposto alla mia domanda… Lui: mah! Qui, la cosa di qualche interesse, più che quella melassa della maturità, è l’accettare d’essere amati. Cambia la prospettiva. Ci vuole saggezza a essere in balia, e l’alga s’erge d’orgoglio... Silenzio. Lui: la questione è che crediamo nel mondo non come possibile ma come esistente. Ci si confonde, da secoli, su questo. Niente è dato, invece, poiché niente è immobile, ma tutto fluttua, vira, vibra, assume ora questa identità e forma, ora quest’altra, un tramonto, un uomo che scrive, un sasso. È attimo per attimo, perciò, che scegliamo e decidiamo di sostare in quella che poi chiamiamo nascita, finché dura. Ogni cosa converge, piega, ripiega, s’avvita, si scioglie, si fa altro, pur richiamando l’origine. Che è, sempre, mobile, pur non mancando d’esse108


re originaria. Lei: non ti seguo… Lui: così, se prendiamo Augusto… Lei: chi è ora questo Augusto? Lui: Augusto è uno che parte e, nel partire, come accade sempre, si perde… Lei: una metafora? Lui: non so, non credo, diciamo che Augusto sei tu… Lei: io? Lui: perché no? Augusta parte, lasciamola partire, e siccome ama l’alga s’abbandona. Crede di tornare, o di andare in un posto preciso, la sua città perduta, per esempio, o un mondo nuovo, il vecchio amore, un pianeta inesplorato, pure, segue il vento, letteralmente, e un incontro, un incidente, un sospetto, la fanno deviare, anche se di poco. A proposito: è bene avere dei sospetti; decidere, partire dunque, ma sospettosamente, come sempre ci s’ingannasse, come sempre si equivocasse. Anche perché, vedendo le cose dalla stazione d’arrivo, è esattamente quel che succede. Equivochiamo sempre, soprattutto sugli amori… Lei: stai parlando di noi? Lui: mah… Lei: se stai parlando di noi, è triste… Lui: è un gran bel gioco, invece. O, almeno, può esserlo. Silenzio.

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Lei: perché mi guardi così? Lui: come ti guardo… Lei: sembra che indaghi… Lui: ti guardo… Lei: perché? Lui: perché cosa, scusa? Lei: perché sembra che tu non veda niente, guardandomi… Lui: ah! Lei: ah cosa? Lui: adesso capisco la domanda… Lei: e allora? Lui: e allora non c’è risposta… Non la risposta che vorresti tu, almeno. Lei: e che risposta vorrei io… Lui: che ti guardo perché ti amo… Lei: perché, non mi ami? Lui: sì, certo, almeno credo… Lei: cos’è che credi? Lui: il dubbio sta nel fatto che guardandoti io vedo tutto… Lei: tutto? Lui: guardandoti vedo l’amore che c’è e la fine di quell’amore… Lei: la fine?… Lui: sì… Lei: ma come puoi… Lui: le due cose non sono separate… Lei: ma se c’è una cosa come può esserci anche l'altra... Lui: c'è... Almeno io la vedo... Lei: e questo che significa? Lui: niente, significa... È solo quello che c’è. Silenzio. Prima dell’arrivo degli ospiti, prima perciò d’ogni discussione e dell’eterna restituzione delle chiavi, lei gli aveva domandato cosa fosse la paura. Cos’è, per te, la paura? Lui 110


aveva alzato gli occhi dal tavolo dove sfogliava una rivista, e l'aveva guardata. Guardarsi dentro e non trovare niente, risponde sovrappensiero. Oh, sì, continua, sembra tutto molto vivo e affollato, ma come è affollato lo schermo su cui si proietta un film. Ombre. Paura è, perciò, richiede lei, il niente dell’ombra? Uhm… Che bisogno c’era di aggiungere un niente all’ombra? Non erano discorsi da domenica pomeriggio, quelli. Anche se, al momento, non si conoscono le ragioni per cui erano state aperte le danze. Silenzio. Preparati, dice lui, non manca molto al tuo treno. E la guarda, spiandone l’umore. Sa bene che quello è il momento delle recriminazioni, Sono sempre da sola, e quando ci vediamo tu pensi alle ombre. Avrebbe dovuto chiederle il perché di quella domanda sulla paura, ma ricaccia con la mano l’intenzione, come una mosca l'insidiasse. Sospetta dove si vuole arrivare. E se non partissi?, spara lei. Come? Mi prendo dei giorni per me… Non aveva sospettato abbastanza e adesso non sapeva cosa dire. Poi, 111


Se è questo che vuoi… Tu no, vero? Eccole le recriminazioni della domenica pomeriggio. Un filo morbido che si sfilacciava ogni giorno di più, ecco cos’era diventata quella storia iniziata un anno prima. Teniamoci all’ombra e vediamo perché fa paura.

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A guardare i tuoi occhi, i miei occhi, vien voglia di dirti di non essere triste. Ma non è a te che dovrei dirlo, ma ai tuoi occhi ai miei occhi, che capirebbero.

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OTTO

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Vieni quest'estate? Quest'estate vado in Islanda. Figurarsi, col caldo che c'è lì. Non gli piaceva l'estate; e non avrebbe saputo dire se era sempre stato così. Non era la prima volta, d'altronde, che gli veniva rimproverato lo stesso misfatto, quasi avesse impiccato qualcuno, Ma come, uno che è nato in quell'isola meravigliosa! Non gli piaceva l'estate; o non gli piaceva più quell'isola meravigliosa? Anche sua madre, con la quale aveva appena chiuso la conversazione, se ne era fatta una ragione. Allora a Settembre... Vieni a Settembre? Aspettiamo l'autunno, sì, rispose. Dov'è che vai?, richiese lei cambiando itinerario e pensiero. ISLANDA, aveva scandito lui, il posto più fresco che c'è. Chiusa la conversazione e col telefono ancora in mano, lui s'ingarbugliò. Non era solo il caldo che non gli piaceva più; forse si trattava della sua vita di prima che stava tentando di annegare nella calura di quei giorni. A vent'anni se ne era andato e, per qualche motivo, ora eruttava in lui quell'astrusa estraneità per le proprie origi119


ni. Certo, la solitudine era un boccone amaro da ingoiare e la calura di quei giorni non aiutava; pure, quell'idea di essere in trappola, una trappola che si era confezionato da solo, perfezionata negli anni e precisa come una pistola senza sicura, non mollava. Andò in bagno a sciacquarsi la faccia e, visto che c'era, mise la testa coi radi capelli direttamente sotto il getto dell'acqua, calda pure essa. Si godette quegli attimi di fasullo refrigerio, felice per quei rivoli che, dalla zucca, gli correvano sul viso per precipitarsi dal mento. Non si asciugò nemmeno, tanto ci avrebbe pensato qualcos'altro, tra pochi minuti. Tornò in salotto, un'occhiata al telefono inerte che lampeggiava, ma cosa aveva mai di così urgente da dire?, poi gli venne voglia di un caffè e si diresse in cucina. Non sarebbe andato nemmeno in Islanda, probabilmente; e questo dava l'idea dell'inferno nel quale si trovava. Ingarbuglio poteva essere un vezzo professionale per lui che, fin da ragazzo, aveva amato studiare e, per vivere, gli era persi120


no riuscito di studiare ancora di più, ancora meglio, insegnando filosofia al liceo. E, difatti, eccolo nuovamente dove lo abbiamo lasciato, il telefono nuovamente serrato nel pugno quasi avesse un gladio, deve telefonare a qualcuno?, incapace di muoversi perso com'era in quella calda poltiglia che gli sguazzava nella testa. Si alzò, un'altra volta abbandonò il telefono sul divano come un osso spolpato, recandosi in studio. Cercava un libro, a vedere l'andirivieni lungo gli scaffali e l'agitazione, come un cane che di quell'osso avrebbe urgente bisogno, poi allungò la mano e, dalla seconda fila di un'intera parete ricolma, trasse un volume consunto fin sulla copertina dall'età e dalla luce. Gli soffiò sopra perché la polvere, lì, usava fare il comodo proprio, strato su strato e giorno per giorno, un comodo del resto mai disturbato in quella casa davvero troppo grande, davvero troppo vuota, se si escludeva lui; mai qualcuno che passasse compassionevole un panno tra i ripiani, mai che in quelle stanze perennemente in penombra si cantasse a squarciagola con le finestre aperte; gli soffiò sopra e l'aprì. E il 121


dottor Ingravallo si presentò. Presentarsi è certo un modo di dire giacché quel che principiò lì, tra libri, tavoli ingombri, pile di giornali e riviste che come dolmen svettavano sghembe dal pavimento, fu un'amabile conversazione fra due vecchi amici. Come stai?, chiese Ingravallo in un borbottio che si sentì appena. Come vuoi che stia, ribatté lui, stai certo meglio tu. Io? Dici che si sta meglio chiuso tra le pagine impolverate di un libro, per di più collocato in seconda fila? Sai il caldo? Tornava di nuovo la calura. Del resto, pur non essendo nella Roma dell'amico, anche nella città dove l'uomo viveva, più a nord, quell'estate non scherzava. Ti pesa la collocazione?, chiese lui premuroso; e senza aspettare risposta, sai bene che è lì che tengo i libri che amo; gli altri, quelli che stanno dove vorresti stare tu, li uso per lavoro. E chi ti ha detto che vorrei stare in prima fila?, ribatté Ingravallo, ho detto così, tanto per dire. Certo, un panno umido ogni tanto non guasterebbe. Meno male che non soffro d'asma. E, di nuovo, come 122


stai? E qui, lui, invece di rispondere si alzò, il libro sempre tra le mani, e si avvicinò alla finestra. Sembrava pensare stesse lì la matrice del proprio malessere, lì dove?, fuori, si suppone, in quel mondo che l'uomo da troppo tempo non riconosceva più. Sto bene, disse poi, almeno credo. Credi? Mah, stavo riflettendo... Cosa... Parlavo prima con mia madre, e per dirle che non sarei andato a trovarla mi sono scoperto a riflettere sul perché senta di dover cancellare le mie origini, quasi volessi seppellire la lunga teoria di passi che mi ha portato ad essere come sono ora. Capisco, disse Ingravallo. Capisci?, ridisse lui. Veramente? Spiegamelo, allora, perché io ci sto diventando matto. Ingravallo sospirò, sembrava perplesso, come non volesse aprire un discorso che poteva trasformarsi in un ginepraio. È come la mia laboriosa digestione, disse poi. E si zittì. Dette tempo all'amico di sfilarsi, cosa che non accadde. Riprese. È come la mia laboriosa digestione; laboriosa sì, ma digestione senza dubbio. Capisci? Sentiamo 123


dove vuoi andare a parare. Del resto, sei famoso per scovare dappertutto i tuoi punti di depressione ciclopica... Non prendermi in giro... Se capissi la scienza del mondo come l'ho capita io, adesso non staresti qui a parlare con un fantasma... Sei un fantasma? Sono quello che tu vorrai farmi essere; ma lo stesso è per il tuo groviglio, diciamo così. Torniamo alla tua digestione, disse lui. Sì, torniamoci. Che la digestione, tua o mia, sia laboriosa oppure no, poco importa; conta che dal processo sortisca sangue nuovo e vita. Una volta digerito, difatti, quel che hai ingurgitato non c'è più; pure, tu sei fatto di quello, in qualche modo. Stai dicendo che non importa cosa io pensi del mio passato, che me ne faccia del sentiero che mi ha condotto fino a qua, tanto io sono quello? In qualche modo, ammise Ingravallo, in qualche modo. Che vuoi dire, esattamente? Esattamente che è sì ma anche no, e che non ha senso intestardirsi a spaccare il capello in quattro della peperonata che ti è rimasta sullo stomaco. Non c'è più, una volta digerito, laboriosamente oppure no. Stai dicendo che il 124


mio problema è fasullo? Sì e no, rispose Ingravallo con un ghigno. Sì e no. Il tuo passato che così ti angustia vive solo se lo vuoi tu; altrimenti tu sei semplicemente quello. Più qualcosina... Quel che seguì fu un lungo silenzio. Ora l'uomo caracollava in circolo per la stanza, scansando gli ingombri meditabondo. Forse Ingravallo s'era finalmente accesa quella sigaretta che gli penzolava eternamente dalle labbra, perché a lui parve di sentire odore di tabacco. Se ho capito bene ho sbagliato domanda, disse infine. Uhm... attese Ingravallo. Se ho capito bene non è sul mio passato che si debbono aprire le indagini, ma su me stesso. Non sulla peperonata ma su colui che è anche quella peperonata. E cosa c'è oltre la peperonata?, spronò Ingravallo. Cosa sei d'altro che non sia il tuo passato? L'uomo si lasciò cadere come un sasso sulla poltroncina di pelle rossa che stava giusto al centro della stanza. Cosa sono d'altro... Sono te, per esempio. Certo, disse Ingravallo, certo. Tant'è che son qui e ti parlo. Ma non avrai dimen125


ticato chi sono, vero? Meglio, chi non sono, dal momento che la mia vita sta tra le pagine di un romanzo. Si avvicinava l'ora del pranzo, così l'uomo mise via il libro che aveva ancora fra le mani e si recò in cucina. Cosa mangiamo oggi?, chiese al frigo mentre l'apriva. Dalle finestre, chiuse e pesantemente schermate da tendaggi che non sarebbero stati fuori posto a Istambul, entrava una luce densa come burro nonostante il condizionatore pompasse aria fredda. Si creava così una nebbia, nella stanza, come vapore rappreso, che sembrava rendere faticoso perfino respirare. Questo sarà il tuo pranzo di oggi, monaco questuante, stava dicendo l'uomo a chissà chi, e non si trattava d'altro che di un vasetto di tonno. Poi pomodori, grossi, ovali; pane nero di segale; infine arrivarono sulla tavola un bicchiere e una bottiglia di vino, un cabernet che l'uomo si faceva portare direttamente dalle vigne di un amico. Poi, l'uomo, la testa rivolta alle altre stanze, gridò: Ingravallo, dove sei? Accomodati, è tutto pronto. Bada, però, che non 126


ho peperonata. Dire che gli si andava annebbiando la vista sarebbe inesatto, tanto il mondo, l'aria della stanza che stava ora attraversando, erano nebbia essi stessi, purissima lattiginosa appiccicosissima nebbia. Poteva essere un incubo; e forse lo era. Era sicuro di aver parlato con sua madre, stamattina? Da dove era sbucata quella peperonata, peraltro buonissima, sulla tavola da pranzo? Ingravallo? Ingravallo!? Ci mancherebbe solo che il condizionatore si rompesse, tirato com'è giorno e notte, disse poi guardando quelle povere alette da libellula impazzita far su e giÚ, senza senso. Non dirlo, sentÏ; non pensarlo nemmeno, anche le macchine son vive, in qualche modo... Non porta bene. Ingravallo?, chiese lui. SÏ, sono io. Ma dove ti eri cacciato, ti ho chiamato per il pranzo... Ho fatto una pennichella, credo... Credi? Beh, ammetterai che è un po' difficile, per un nome stampigliato sulla pagina di un romanzo, saper bene cosa ha fatto. Hai dei dubbi anche tu, che sei vivo... Che stai insinuando... Beh, qualcosina da 127


dire ci sarebbe, e proprio vivo vivo, bah! Hai preparato tu la peperonata?, chiese lui lasciando perdere le valutazioni sul suo grado di vitalità. Sì, e vedo che ti è piaciuta... Ne volevi? Ma no, che vai a pensare, quando mai s'è visto un fantasma mangiar peperonata... Se è per questo, nemmeno parlare... Sì, certo, bofonchiò Ingravallo con l'aria di voler concludere. Laboriosa digestione oppure no, il dopopranzo fu quieto. Fuma pure, se vuoi, disse l'uomo all'amico mentre si sistemava sul divano ben sotto il getto d'aria fredda che scendeva dal soffitto. Ma non ci fu risposta. A dire il vero non c'era stata nemmeno una domanda alla quale poteva corrispondere una risposta, evidente ormai era il caso di un uomo che, al meglio, ed a voler essere generosi, era preda di particolarissime allucinazioni. Capita che si chiacchieri coi morti, gli angeli, i marziani; ma con un nome, un personaggio di romanzo... Bah! Più che odore di tabacco, non passò molto e aleggiò un altro odore nella casa, soave 128


profumo avrebbe detto lui, un profluvio che aveva la sua origine in cucina, caffè?, dal gorgoglio si direbbe proprio. Caffè, sì. Ingravallo si presentò al capezzale dell'amico a piccoli passi, sembrava strisciasse sulle assi della vecchia casa, così si accorse che era a piedi nudi, se li guardò e gli piacquero, i suoi bei piedi nudi, non si era mai sentito tanto a proprio agio, in un colpo solo riempiendo la casa di quanto vi mancava, donne felicità canto, panno per spolverare; si fermò un attimo per guardare l'amico, e lo guardò con una mistura indefinita di indifferenza ed intimità, guardò quel corpo sul divano come fosse il proprio, quegli occhi chiusi, le linee sulla faccia che tracciavano una mappa, a modo loro, disegnavano un mondo, poi gli avvicinò la tazzina al naso. Non dovette far altro che sostare, un attimo, e lui aprì gli occhi, sorpreso, si tirò su, commosso ora che accettava quel che gli veniva offerto. Oh, amico, disse poi. E cominciò a bere dalla tazzina ricolma. Fece schioccare le labbra, radioso, sembrava 129


rasserenato, guardò Ingravallo come lo vedesse per la prima volta, poi, di colpo,Verresti in Islanda con me?

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Scende suadente sera, ora che è maggio, e sorprende l’erbe col vento che qui fanno un mare, dove è tutto pietre. Ti ho atteso a lungo, oggi, all’incrocio dei tendini, all’imbocco delle giugulari, ma sei venuto solo nei pensieri, dolcemente, a mostrarmi le mani secche e gli occhi tumefatti di colori. Troppa luce in questi spazi di silenzio, così l’attesa si fa vomere d’osso che si scheggia. Seduto sul cippo che ti elegge, accartocci lamine votive per farne fuochi, batti l’acqua nei mortai per farne acciai e, all’alba, eccitato corri a dormire. Resiste il nero lavagna che strappa sogni alla carta, ierogrifi che s’avvieranno ai crocevia, lesti. Questa attesa è così densa che può sostenere il mondo, guidare le galassie, riempire i lacelli e i pori d’ogni pelle. Essuda, a volte, quando esubera, e accoglie - grembo antico - ogni amico che non viene, nel dì di festa. 131


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NOVE

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L'uomo si svegliò che non era ancora l’alba, non riuscendogli di riprendere sonno. Non si sentiva particolarmente agitato solo perché era furente. Scavare e scavare, quel suo, incongruo, voler fare il minatore che non era gli stava mandando in pappa il cervello, come a quelli veri, minatori in Belgio, aveva sfatto i polmoni. Che diavolo avrò da scoprire?, si urlò mentre gettava all’aria le coltri che lo ricoprivano e saltò giù dal letto. Si buttò addosso qualcosa perché la casa era fredda, fuori era freddo, il suo cuore e le sue lacrime erano fredde, e scese dabbasso. Le luci, che via via accendeva e non spegneva al passaggio come era solito fare, davano a chi ancora non l’avesse capito il gradiente dell’umore dell'uomo in quell’occasione. Era perciò chiaro, alle suppellettili del bagno e ora al frigo che apriva, che era meglio non aprir bocca. Anche Mercoledì, il vecchio cane peloso che viveva con lui, dopo un accenno di confidenze se ne tornò a dormire. Questa non è semplice insonnia, disse l'uomo rivolgendosi al bicchiere di latte che teneva alto al livello della bocca, e quello acconsentì e spavaldo ri135


lanciò, E se non è insonnia, che cos’è? Già, se non è insonnia, che cos’è? Diede un sorso di quel latte, e lo diede come fosse un morso, tanto aveva la mascella contratta e la gola secca, ma la domanda appena formulata non ottenne risposta, Se non è insonnia… Aver rifiutato l’incontro con la donna che lo aveva lasciato doveva aver agitato le acque e, ora, l’ombra di se stesso non voleva saperne di scivolare nel sonno come un lichene nell’acqua e, come un otre gonfio d’aria, lo sbalzava di sopra, rimandandolo a galleggiare in quel mare senz’onde, un’acqua putrida il cui olezzo immancabilmente lo risvegliava. Sì, aveva una sorta di odore pungente quel risveglio, come gli fosse stato infilato nel naso una cipolla strizzata. Un guazzabuglio, disse l'uomo, e si lasciò cadere su di una sedia. Cosa c’è, là sotto, che mi respinge? Ecco, lentamente, tornare l’idea dello scavo, dei minatori veneti in Belgio e dei sotterranei ai quali gli era impedito l’accesso. Di chi dirigesse quegli scavi. Andrò a farmi visitare, disse 136


l'uomo rivolgendosi a Mercoledì, tanto sapeva che non sarebbe andato da nessun medico, così alta era la disistima che nutriva verso quella casta sacerdotale senza un briciolo di sacro. Piuttosto, continuò, piuttosto dovrei trovare una fattucchiera come si deve, che forse ne capirebbe di più. Ipotesi per ipotesi, si disse ancora, meglio divertirsi con un po’ di teatro prima di finire triturato dai laboratori di analisi. Tu che ne dici? Ma Mercoledì non disse nulla, gli sbadigliò in faccia come a confidargli che lui non capiva quegli affanni notturni, quel mordere un osso che non c’era. Ma non era dell’umore giusto neppure per il sarcasmo, l'uomo, così lasciò perdere. Si distese sul divano del salotto stringendosi a Mercoledì, subito entusiasta del permesso di stare più comodo, invece che sulla solita stuoia logora, ma quanto a consolatore, il cane, valeva ben poco. Era caldo, però, e questo aiutava, era vivo e questo era essenziale. Si coprì con un plaid fin sopra quegli occhi gonfi e quel dolore inspiegabile, quell’affanno per niente e quella ca137


tastrofe senza avvenimenti. Quella solitudine… Si fermò, perché la casa gli alitava addosso, forse c’era uno spiffero da qualche parte, un velo denso che non era solo il freddo, non era solo la notte, come si trovasse nella pancia di un Polifemo e, da lì, lo sentisse deglutire, o sbadigliare, lo sentisse vivere. Forse erano quegli occhi stanchi e quel cuore in subbuglio, ma le pareti della stanza non gli sembravano ferme, come di solito sono o dovrebbero essere, gli pareva che ondeggiassero, lievemente, come a stropicciare un cartone fra le mani, mutando le prospettive dei mobili, dei quadri appesi, e gli specchi, oh gli specchi, gli specchi mandavano bagliori. Ha chiesto una fattucchiera ed eccolo servito. Ora, oltre all’insonnia, ha pure le traveggole, sente i muri come fossero ventri respiranti e, fra poco, c’è da scommetterci, fra poco avrà le visioni. Strano uomo, davvero, questo uomo, che al cuore di leone si è trapiantato quello di un coniglio; strana 138


storia, questa che ci racconta. Il sonno appartiene ai giusti, dovrebbe saperlo, ha studiato per questo, altrimenti perché scrivere i libri che ha scritto e i diplomi, le tesi; e invece eccolo a masticare rabbia e a sognare magie. Non è come dici, amico mio, non è così che funziona un cuore intelligente, e mai niente che vive ha soltanto una faccia. Il sonno è dei giusti, dici, solo che dovresti aggiungere chi è il giusto e quale l’ingiustizia. Quell’ingiustizia, per esempio, che il giusto cova nel suo grembo prima che gli imbecilli come te dicano, Ecco l’uomo della giustizia, ecco il giusto. Dimenticando le pene e i pianti che hanno amalgamato la crosta di quell’uovo, e gli errori e il dolore che lo hanno riempito. Chi cerca, come te, la soluzione limpida, la cosa chiara, è un presbite che vede solo la fine di un processo, la stazione ultima di chi ha percorso mille strade, strade, nessuna esclusa, che si sono rivelate vicoli ciechi. Per uscire da un vicolo cieco bisogna subito prenderne un altro, è questa la vita degli uomini. Tu inve139


ce ti fermi prima d’aver cominciato e, presa una strada, fantastichi sulle meravigliose sorti progressive, sei come un bambino che pensa che la sua mamma sia la più bella mamma del mondo. Si fermò, l'uomo, preso dai brividi. Vide il fiato addensarglisi davanti alla faccia e gli occhi restavano umidi. Il cuore dell’uomo è cavo, continuò, è come una caverna nella montagna, reticoli di gallerie che mai conducono all’aperto perché l’aperto è già lì, è quello l’aperto, l’aperto è il cavo, il cubicolo che i sapientoni dicono ventricolo ma che in verità è ventriloquo, parla mille lingue, è dappertutto, di sopra e di sotto, di dentro e di fuori, perché solo allora la vastità come un eco rimbalza, risuona, incanta e ammutisce. Schianta. La cavità schianta, bello mio, senza condurre mai oltre se stessa, l’aperto a cui pensi è il sogno, l’altra vita che hai, oltre questa, la vita che va in parallelo e che proprio per questo non incontrerai mai. Ecco perché ci vuole un profumo, ecco perché contano le sfumature e perché ogni tentativo di fare il paradiso in 140


terra è l’inferno. La contraddizione è il sale di questo peregrinare che conduce dove si è, sale da spargere a piene mani sulle ferite, le proprie, e se non te la senti sono fatti tuoi. Ci fu uno strano silenzio ora che l'uomo sembrava essersi appisolato mentre Mercoledì vegliava guardandolo e le cose rientravano là dove sempre erano state. Gli stessi specchi che prima mandavano bagliori erano opachi, nella luce incerta dell'alba, opaco come di solito è il mondo, opaco e spento finché un lumino non l'accende. Era così anche per lui, ora che era solo un corpo infreddolito disteso su un divano, inerte, uno specchio spento fra i tanti. Poi suonò la sveglia, È l’ora!, e l'uomo saltò giù dal divano, come prima dal letto, per ricominciare il suo teatro nell’infinito cavo del cuore. Buongiorno, Mercoledì, amore mio.

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Coltivare il proprio spirito! E l'uomo esce in giardino. Ha la tunica da lavoro, in realtà una vecchia casacca militare, il cappello a larghe falde, lacero, che un tempo era un panama da lasciarci su gli occhi, gli scarponi con i quali ha passato anni in montagna, la vanga in una mano e, nell’altra, le forbici da potare. Coltivare il proprio spirito! E perciò l’uomo cammina tra le zolle come fosse sull'acqua, e mentre cammina cammina soltanto, non vede nient’altro, così nessuna impronta resta a segnare la terra, nonostante le scarpe grosse, nessun pensiero a ronzargli nel cranio, nonostante i mulinelli nell'aria, niente, se non la tunica, il cappello, le scarpe grosse e le forbici da giardiniere che, ora, scattano. Zac! È così che dovrebbe essere. È così che è. E, ora che con la vanga l’uomo pizzica il terreno sotto alle rose, tutto il mondo s'è fatto rosaio, il grattare gratta se stesso, tutto un turbine di sudore e di polvere in cui l’uomo, il rosaio, la tuta lacera e il vecchio panama, 142


vorticano per esser dette, di volta in volta, vanga, uomo col panama, terra dura e rose che sbocciano.

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DIECI

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La falesia, all’alba, risuona di luce. Come la scogliera con l’onda, dabbasso, la rifrange e, come la costa, la beve. Sembra un sauro brontolone gonfio di bitorzoli gialli cenere ocra, e rughe così scavate da sembrare occhi stanchi, tuguri. A volte, una spugna che ansimi leggerissima. Alla fine la palpebra cade. È un attimo, ma forse no. Forse il sole di prima erano solo le nocche sugli occhi, un fastidio, fosfeni, una paglia che stride. Forse la vita, gli uccelli, una serpe che striscia nell’erba, cosa sognata, e l’acqua su Marte, l’ippogrifo, fole, racconti fantasma. Alla fine la caverna è murata dalla stessa luce di prima che, sfibrata, ora trapassa trascolora e richiude la crosta dell’uovo. E per il pulcino che c’era, se mai c’era, s’aspetterà un’altra Pasqua. Come dentro un sarcofago, di cui apprezza le insospettabili comodità, l’uomo nella caverna s’acconcia a un’altra notte. Non sappiamo chi sia né, lui stesso, com’è arrivato dov’è. Sa solo che la risacca, di sotto, che lo stordisce e lo culla, è lì da sempre e gli dà il tempo, un tempo musicale benché 149


beffardo essendo sempre se stesso, uno, uno, oppure, tu, tu, tu… Inutile solo pensarlo fare qualcosa, accendere fuochi, per esempio; non saprebbe come fare, né che farne, solo lui e la pietra, solo lui la luce e il rombo di sotto. A fargli scenate, quasi a suggerirgli il sospetto d’essere nel posto sbagliato, di tanto in tanto s’affacciano uccelli, alla grotta, e allora son saltelli, stridi, penne nell’aria. Poi di nuovo vento e silenzio. Allora l’uomo, ad ogni notte che cade o palpebra che, al pari di tafani sotto la coda del bove, tramortisce, canta. Oh, no, non può dirsi veramente un canto, quello suo, quanto un irriflesso accordarsi con l’onda, carpirne il tempo, mimarne gli sbuffi, mentre ne respira il prodigio che il vento gli porta. Mugugna, l’uomo, mm…, e non si muove la lingua, non s’atteggiano i labbri, perciò sbuffa, a volte, schizza salato come il murmure sulle rocce dabbasso, più che cantare, e gliene viene un calore che nemmeno un fuoco robusto saprebbe dargli, una presenza come nemmeno una piazza di uomini attorno, una speranza come nemmeno una scala 150


che collegasse la caverna ad una terrazza sul mare. Quasi un sollievo. E dentro il suo soffio, espiro pieno che gli riempie il ventre escavato, col vento che spande e scompiglia lacerti di suono e l’incavo della caverna che vibra e dilata quell’accenno di suono, è la montagna che chiama, e qualcuno, qualcosa, l’uomo?, s’addormenta beato.

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Dà l’avvio, che presto si rivela una falsa partenza, il bagolaro (Celtis australis). È qui, a perpendicolo della finestra alla quale scrivo, ed è, credo, un albero smargiasso. È stato il primo - che ancora era un Ottobre mite -, ad ingiallirsi; e folto com’era, a cupola, ha fatto un certo effetto. Cara, vedi, è autunno! Qua e là, coi giorni che s’infittivano precipitosamente verso le nebbie…; ondate non compatte che arrivavano alle spalle, dal retro della casa e dalla valle sottostante…; qua e là, a far teatro, noncurante, lasciava cadere qualcuna di quelle sue foglie oblunghe, gialle e come fattasi diafane. Nonostante avesse ancora una folta chioma parruccona! Poi, ed eravamo sul finire d'Ottobre, nella luce rada, senza ripensamenti o drammi, l'albero dei cachi (Diospyros Kaki) prese fuoco e, in qualche giorno, si denudò. I frutti, ancora acerbi a gonfiargli i rami, steli secchi e crudi. Dabbasso, petali di braci, magnifici, smorti.

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Dalla parte della valle, frattanto, le cose verdi si facevano nere e già l’olio che verrà s’annunciava. I meli attendevano, pazienti, come pazientemente avevano portato i frutti ruggine che qui amiamo tanto, attendevano forse il freddo, forse il primo giorno di vento umido. L’acero ed il castagno, appena venati di un giallo tenue, sembravano far cosa a parte, forse per la loro maestosità in mezzo a nani. Oggi, primo di Novembre, è giorno esatto per pensare a chi muore. Chi è morto è morto, mentre chi muore ancora vive. Questo vedo in me e nel bagolaro, nell’acero e nel caco, finanche nel marmoreo cipresso. Niente sembra coinvolgerlo, lui che pure sa di esser stato il primo, qui nella casa, a protezione e riparo. Svetta su tutto e tutti, tanto che gli uccelletti che popolano i tetti, lo usano come tavola per lanciarsi, surf dell’aria. L’aria… L’aria ancora mite ora che un sole esce dalle nebbie, aria quieta e sofferente. Sofferente e quieta. 153


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UNDICI

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Seduto davanti al mare, all’alba, l'uomo guarda il cielo che si corrusca. Ha dormito poco e male, e questa non è una novità; ma ha pure fatto sogni agitati, inconosciuti, che l’hanno prostrato. E questo, questo sì è un fatto nuovo che lo preoccupa. Arriva il vento e, sul mare, l’onda s’alza, s’increspa, gorgoglia, sparge sputi gentili sulle rocce, nell’aria, benedice. Inebria. Fatto un cenno a Mercoledì, il cane peloso avanti con gli anni che gli sta accucciato ai piedi, l'uomo, invece di proteggersi, tira su il bavero della giacca, calca bene il basco sul cranio e scende incontro al mare. Cammina piano, sul viottolo di sabbia battuta, incespica, di tanto in tanto, sembrerebbe assorto. Si ferma per guardare Mercoledì che si è lanciato in avanti, saltellando, e che fa giravolte, simula agguati, poi torna indietro come a rassicurarsi che il suo amico stia bene. Sto bene, tranquillo, gli dice lui, divertiti prima che piova. Ma il cane non sembra intenzionato a divertirsi, indaga, invece, indaga l’indole del suo amico che gli pare più cupa del solito. Non hai 159


dormito, stanotte, gli dice in una lingua tutta sua. Come sempre, ribatte l’uomo. Come sempre, ripete il cane. Sai che, dice lui, sai che in certi momenti della notte mi alzo per venirti a guardare, mi rasserena vederti tranquillo sulla tua stuoia… Sai che russi, a volte? Ma va’, fa il cane. Sì, sì, non dura molto ma russi. Cosa cerchi guardandomi dormire. Niente, cerco, ma mi rasserena che almeno tu goda della notte come dovrei fare anch’io. E perché a te non riesce? Mah, non saprei… L’età, la vita... L’età, la vita, ripete Mercoledì come faccia fatica a capire, cosa c’è dell’età e della vita da togliere il sonno? Non so, amico, una maledizione... Una maledizione? È una malattia da uomini, non preoccuparti, non è infettiva. Sì, siete ben strani, sì, mi ero accorto. Arrivano alle dune, l’uomo e il cane, prima delle rocce. E lì, il rombo del mare grosso avrebbe impedito qualsiasi conversazione. Mercoledì si spinge più avanti alla ricerca di chissà che, mentre l'uomo si ferma dov’è. Avrebbe voluto fumare, ma con quel vento 160


non se ne parla. Ritornano lembi del sogno che l’ha angustiato, il cunicolo, l’angoscia, che lui scaccia con un gesto della mano. Comincia a sentire una leggera euforia, tutto questo vorticare gli provoca gioia, ogni cosa è sé eppure coincide con altro, vento aria sabbia. Corpuscoli. Profumi. Ad una raffica più forte barcolla, deve piegarsi per non cadere, non opporre resistenza, e questo lo muove al riso, un riso secco che gli esce stridulo, come giocasse corpo a corpo con l’orco dei cunicoli, un orco fatto di vento. Il basco vorrebbe seguire una sua idea di planare sull’acqua, vedere che effetto fa, e lui l'afferra, oh!, appena in tempo, lo rassicura, quasi l’accarezza calcandolo meglio. Sei l’impronta del mio cranio, non ti basta?, lo rabbonisce, l’acqua non fa per te, credimi. E intanto muove qualche passo, prova almeno, ma zigzaga, finché arrivato alle rocce s’acquatta. Il cielo s’è fatto ancora più nero, il vento non accenna a placarsi e il mare romba. Lì, dal suo riparo, il salso del mare lo coglie alle spalle, come un’altra onda, che non quella, gli rifluisse da dietro, la grezza lana del basco ne è già gonfia, e 161


sulle guance piove. Ritorna Mercoledì e ha in bocca qualcosa, sembra un osso spolpato, è il suo regalo per l’amico triste, il suo dono d’augurio per la notte che verrà. Vuole che l’uomo lo tocchi, lo ammiri, poi rinserra la mandibola e se lo riporta via. Ribolle, qualcosa ribolle, ogni cosa a suo modo, mentre il cielo si fa più nero che mai. Qui ogni cosa è possibile, pensa l’uomo, tanta e così perfetta è la trasmutazione d’ogni cosa in un’altra, terra vento mare, luce, manca l’uomo, che però vacilla. Dimenticati gli incubi e il sonno che gli manca, l'uomo si pasce d’essere elemento fra i tanti, mulinello tra i gorghi, respiro multiplo. È dimagrito, ultimamente, ed è stanco. Sta cercando qualcosa che è sicuro ci sia, ma che non trova. Si è allontanato dal mondo, ora che può, e guarda il cielo, il mare. Ci sei quasi, lo sorprende Mercoledì sbucato da chissà dove, bellissimo così impasticciato il muso di sabbia. Ci sei quasi, ecco l’onda che s’alza e il vento la prende, e guarda l'uomo, fissandolo. È acqua o vento? Dov’è l’una, dov’è l’altro? L'uomo si 162


tocca il basco zuppo, l’aggiusta meglio, lo calca pesantemente sentendo subito l’umidore trapassargli sul cranio, Dov’è l’onda?, ripete, dov’è il mare?, col viso che, frattanto, si rilassa distendendo le rughe attorno agli occhi. L’onda s’alza e il vento la prende, ripete ancora. Poi, come la tempesta sciogliesse i nodi piuttosto che impastarli meglio, tutto trascolora, la vista gli si annebbia, le gambe cedono, Ah!, dice solo Ah!, prima di saltare in piedi, Mercoledì al fianco che lo guarda, e cominciare a correre fra i sassi, incurante del basco che se ne vola via. Ride quando Mercoledì trova un altro dono, un legno cotto dal salso. Ride ancora.

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Vanno. Cunei d'ombre, sagome, svoltano di qua e di là, secondo la luce. L'ombra vorrebbe sapere qualcosa di sé e il corpo del perché di questo sghembo proiettare chiaroscuri. Ciononostante vanno, corpo e ombra, man nella mano come innamorati, o fanciulli. Ma la fanciullezza è passata, oppure no, no, è l'ombra che s'attarda mentre il corpo è fatto per correre. In ogni caso c'è una frattura, un misconoscimento radicale, un'aporia. Pure, non c'è l'uno senza l'altro, nonostante questa intimità resti misteriosa. Un doppio? Non precisamente, giacché ognuno dei due, corpo e ombra, si credono autosufficienti. Cioè ciechi. La luce, di tanto in tanto, non li sopporta più e li abbandona al loro caos. Per esser figli son figli, ma è irritante quanto poco vedano. E per essere figli della luce ciò è proprio insopportabile. Basta! Facciamo tutto daccapo. FIAT LUX! 164


DODICI

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Nuotò ancora un po’ oltre l’ora che gli era concessa, tanto in piscina non era rimasto nessuno. Non aveva fretta e, poi, fuori pioveva. Il silenzio, fuori e dentro la vasca, s’intonava ai pensieri dell'uomo, l’aiutava a concentrarli liberando muscoli e respiro da ogni peso non necessario. Pensieri? Lui ci pensò, come a sincerarsene, per giungere alla conclusione che non ve ne erano mentre fendeva l’acqua e avanzava lentissimo. Gli piaceva, più che cronometrare chissà che, sentirsi agevolmente a mezzo nell’acqua, come fosse il lichene di uno scoglio appena sommerso che la marea liberava un attimo prima di riacciuffare. Gli aveva detto, la giovane guardiana dell’impianto, la prima volta che s’era presa la briga di studiare il nuovo venuto, perché non si sapeva mai, magari finalmente un uomo interessante, Lei, signore, non viene veramente per nuotare, a lei piace galleggiare! Ecco, la faccia amorfa della ragazza che celiava s’era intromessa nell’intimo connubio tra l’uomo e l’acqua, sviando il ritmo del primo e intorbidando l’altra, tanto che lui caracollò, ancheggiò come volesse lui ora 167


interessare la ragazza, per poi affondare sulla destra. Acconsentì al disequilibrio, a quello strano corteggiare e allo sbandamento, infine caracollò su se stesso per lasciarsi andare ad una completa giravolta. Ora, l'uomo, faceva il morto, gli occhi arrossati dal cloro della vasca che guardavano il soffitto di vetri, sentiva persino il rumore della pioggia e, come a rispondere adesso a chi aveva domandato un tempo senza ricevere risposta, È vero, cara amica, non mi sarei mai sognato di venire in una piscina per nuotare! Beccati questo, ficcanaso! Pure, aveva visto giusto, lei, con quegli occhietti vispi di giovane donna già annoiata, e senza sapere niente aveva spiattellato una diagnosi esatta, Malvivere, caro signore! E come per tutte le esatte diagnosi s’era dimenticata di proporre la cura. Si crogiolava nel morto della grande vasca deserta dei ricordi, l'uomo, lasciando che qualcosa generosamente lo sostenesse, come prima amorevolmente gli aveva per168


messo di fendere l’onde, le onde, l’acqua muta di quello stagno artificiale che se solo cessassero i motori puzzerebbe nel giro di una giornata. Gli piaceva nuotare da solo e per questo aveva prenotato l’ultimo spicchio di ora disponibile, l’ultimo spasimo di vita prima che quei motori s’ingroppassero e l’impianto chiudesse. Ma se lui non sapeva che fare, la ragazza in cerca d’amore, quella che vedeva un uomo e gli sparava una radiografia, non aveva nessuna voglia di cincischiare con l’ora, così l’altoparlante gracchiò affinché la sua vocina dicesse, Si chiude!, motivo per il quale lui si rivoltò come un tordo allo spiedo e partì per l’ultima vasca. Cosa l’avesse portato là non ricordava più. Era come se, sotto ipnosi, qualcuno l’avesse scaraventato fuori da sé, Addio, amore mio; quindi lasciato nelle mani di una mezzana, Pensaci tu; mezzana solerte che l’aveva guidato, iscritto, per lui comprato l’attrezzatura necessaria ed infine buttato in acqua. Buona fortuna, tordo! Sapeva solo d’aver sognato, una notte, un sogno 169


vivido che l’aveva cambiato, uno di quelli che ti esplodono in testa con una domanda che era peggio di un chiodo, uno stomaco vuoto che voleva del cibo o, una bocca arsa, dell’acqua. A pelo dell’acqua, l'uomo, aveva creduto di potersi rendere muto, invisibile al chiodo che così non avrebbe più avuto il suo muro e, alla domanda, avrebbe fatto rimbalzare un’altra domanda, quella stessa, piuttosto che risponderle. Non appena quel che restava del sogno cominciò a pesargli, come avesse una macina al collo si diresse in centro nella polisportiva più affollata di tutte e, lì, tolti i vestiti, si gettò in acqua. Aveva intuito come gli occorresse un elemento mobile per quella guerra instabile, e un cuore da leone per un confronto tanto impari; un elemento che propiziasse la metamorfosi ed il nascondimento, dacché il suo cruccio, da allora, è stato di non esserci più là dove prima pesava la macina, essere multiplo dove l’attendeva la domanda e, per quanto riguardava il chiodo, farsi di burro. Una sorta di nuovo monachesimo, 170


questo inaugurato dall'uomo, la santa dottrina dell’instabilità che comandava d’isolarsi nel mondo, perdersi in luoghi affollati, diventare invisibili. Al collo di chi, con tutta questa folla, sarebbe stata appesa la macina? A che muro piantare ancora dei chiodi? Ma, soprattutto, a chi domandare?

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Meraviglioso equivoco come di chi s’arma ma la battaglia è finita, ama ma non c’è più nessuno da amare, gioisce dinnanzi al mattino ma è la luna piena che sorge. Al viandante, se chiede, diamo una direzione qualunque, tanto è l’ovunque che cerca, è l’aria tersa che vuole, è la pena che brama. All’erbe, lingua gonfia di mucca e, ai gladiatori barbari, un sorriso por favor!

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TREDICI

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Doveva essere il suo compleanno, a seguire i segnali che mandava il telefono. Uno di seguito all’altro fin dalla mattina di quella domenica. L'uomo guardò lo schermo di quell’aggeggio che non amava solo la prima volta, che era ancora a letto, e vide quella bizzarra icona della posta, la bustina disegnata stagliata su quel piccolo televisore illuminato. Poi non se ne occupò più, ma lì doveva esserci un ingorgo da cani, congrega di nani postini che impazzivano ad imbucare bustine, lettere dai contenuti misteriosi precipitate dentro una buca a quanto pareva inesauribile. Tutto fasullo, pensò l'uomo, e si girò sul fianco riaddormentandosi. Anzi, si alzò, si vestì alla meglio con quanto aveva indosso da giorni e se ne andò al cinema. Andava per i vicoli di una città che era stata la sua, tutta stretta pur essendo distesa sui colli, balconi che si guardavano, intrighi di scale, slarghi improvvisi, fontane, finché arrivò alla piazza col cinema ed entrò. Un cinema che, perché non ci si confondesse con le patrie da amare, si chiama175


va Italia, e che l'uomo ricordava benissimo non esserci più. Non fece caso che nessuno gli avesse chiesto il biglietto, anzi che proprio non ci fosse nessuno alla porta e che la cassa non mandasse bagliori. Che poteva esserci in un cinema che non c’era più? Entrò. E subito corse, come ci fosse la solita folla della domenica pomeriggio, corse al suo posto, quello che cercava sempre di prendere, a mezza sala e al centro. Non ebbe difficoltà, naturalmente, non essendoci alcuno che gli contendesse quel posto, né altri daccanto, così si accomodò sulla sua seggiola di legno che spaccava la schiena. A lasciarlo fare, lì coi suoi Ercoli, le battaglie e gli dèi capricciosi, l'uomo era uso non perdersi un palpito di quanto accadeva su quel cielo pittato, là sullo schermo, avendo per riconciliarsi col suo tempo ed i suoi pochi anni solo il breve stacco dell’intervallo. Riaccese le luci, difatti, c’era giusto il tempo per sbirciare i visi di quella giornata, per solito sempre quelli, impazienti allo stesso modo che il buio arrivasse di nuovo per ricominciare. 176


Ora, ora che è un allora, un allora di un poi, un poi che è oggi e questa domenica di telefonate inevase, successe che nel bel mezzo di uno scontro fra Titani, la pellicola stessa non ce la facesse più e con un sibilo forte crollasse, riaccendendo in un boato le luci. Sconcerto. Come svegliarsi col sole in faccia che ti dava le nocche sugli occhi, sconcerto forte che usciva di bocca a quei ragazzi nel cinema, come un lamento, e per ognuno di quelli che non c'erano più, al cinema Italia, c’era ora lui a far le veci di tutti. Ecco, difatti, a mezza sala e dal mezzo, ecco un vocione che intonava qualcosa, e lo faceva, dapprima, come cantasse, poi sguaiato come sputasse, Ciccio Spina!, via via soffermandosi sulle vocali finali, Ciccioo Spinaaa! Tra le luci riaccese e il tramestio nella sala, lui si sentì stretto come uno dei Titani lasciati a vedersela con un Ercole assai più tignoso di loro, Ercole che, a quanto pareva, aveva anche quello strano nome che gli appariva consueto, Ciccio Spina. L'uomo non capì mai, per molto del tempo di allora, non 177


riuscendogli d’incastrare tra le montagne del Caucaso uno con un nome così, Ciccio Spina, e che se la vedeva coi Titani. Ma non c’era tempo per riflettere, come si vede non c’è mai veramente tempo per niente, da che allora rivive in un poi prendendo il posto dell’ora, perché, per solito, l’affaticata pellicola non ci metteva molto a riprendere fiato e tutto s’ammutiva d’incanto. Certo, se si era lasciato qualcuno sul punto di nascere, lo trovavi già grande e della mazza che prima stava a mezz’aria non c’era più traccia. Svanita. Come pian piano svanì quel nome, misterioso e invisibile, che veniva invocato ogniqualvolta lo stupore cadeva come i macigni di sopra quei Titani. Dai semplici segnali sonori si era passati a squilli sfibranti. Si poteva sopportare tutto, si poteva sopportare finanche che ci fosse un cinema che non c’era più, ma non uno squillare così. L'uomo afferrò l’apparecchio e gridò, prima di dare il passo alla voce di là, più lontana del Caucaso, Ciccio Spina, chi cerca? 178


Qui, proprio qui. Questa è la tesi: ci cerchiamo in quanto monade e siamo invece mondo. Nel bel mezzo di noi, tra esofago e ventre, un mancamento, un passo falso e, come il falco cade sulla preda senza peso senza scopo senza tempo, così accade altro, quel che siamo. Cerchiamo sempre nel posto sbagliato, nella monade, e invece siamo aperto mare. Senza ragione, senza fondo o fondazione eccoci al puro sé: affacciati da sé fuori di sé. Siamo la possibilità che qualcosa sia; e questo qualcosa è qualcos'altro. Il mistero è sporgersi...

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QUATTORDICI

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La prima cosa che vede, entrando, è la ciotola coi fiori, bianco su fondo blu, a lato del letto. Ti ha preparato la stanza, come sempre, giorni fa, ma il gelsomino lo ha colto stamane... È già appassito... È il caldo, ma a lei interessava il profumo, colto la mattina presto è capace di ubriacare una stanza, come senti… Sento. E poi che è successo? E poi, verso mezzogiorno, poco prima che tu telefonassi dall'aeroporto, io ero in cucina, l’ho intravista uscire dalla terrazza dov’era sulla sua inseparabile poltroncina di vimini, le avevo da poco portato un caffè, era lì che cuciva uno dei suoi interminabili arazzi, un altro lenzuolo da corredo per sposi che non abbiamo, ci sono i cassetti pieni, di là, ho avuto l’impressione che barcollasse, ho pensato al bagno, soffriva d’una leggera incontinenza, negli ultimi tempi, invece è venuta qua, nella stanza per te, ho sentito un tonfo, niente di allarmante, lì per lì, poteva essere stata una coperta che cadeva per terra, allora la chiamo ma nessuno risponde, chiamo ancora e corro di qua. Era bocconi sul letto, sembrava inginocchiata…

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Perché è venuta di qua? Non lo so. Perché s’era vestita elegante? Quando aspettava te faceva cose strane, si era messa in ghingheri, come vedi… Soffriva delle tue diradate visite… Sì, lo so, non sono stato un buon figlio… Eri il suo amore, lo sei sempre stato… Era la lontananza; con te, sempre qui, era diverso. Sì, certo, non volevo dire cose che non ho detto. Sì, certo. Non diciamo niente a nessuno… Cosa vuoi dire? Per stanotte, non diciamo niente a nessuno. Voglio stare solo con lei, senza intrusi per casa. Nemmeno alle sue sorelle? Nessuno. Fino a domani. Non ti dispiace, vero? Se è quello che desideri… È insolito, ma se è quello che vuoi… Sì, ti prego. Mi farò perdonare le mie assenze, ora che le è stato perdonato tutto… Stai bene? Sì, certo che sto bene. Si tratta solo di te, di me e di nostra madre appena morta. Nessun altro, per questa notte. Cosa aveva preparato per cena? Il pasticcio e la parmigiana, diceva che ti sono sempre piaciuti… Sì… Dimenticando che non puoi più mangiarne… Stasera li mangerò, insieme a te e a lei… Eh?... Sì, faremo come ci fosse, siederà a tavola con 184


noia. Sei pazzo! Sì, un po’, ma se tu non ti opporrai sarà quel che faremo. Per me va bene. Dopotutto era quello che avrebbe voluto lei. La poltroncina di vimini dalla terrazza trasloca nella camera e lui vi si accomoda. È a lato del letto, dalla parte nella quale è distesa sua madre. Le persiane sono accostate e la penombra, fatta dolciastra dal gelsomino, difende un po’ dalla calura ma pure l’esalta. In quest’aria impastata, lattiginosa, la luce dell’abat-jour, che ora lui accende, esalta i lineamenti del viso di lei, si sofferma sulle rughe attorno agli occhi, aguzza il naso. Tranne che per le scarpe è stesa vestita. Ti ho sempre atteso, figlio, ti ho atteso prima ancora di averti nella pancia, così come attendevo le tue sempre più rare visite. Sì, sei stato la mia perfezione, eri il mio primo figlio e io ero così giovane… Eravamo appena usciti dalla guerra, ovunque c’era distruzione e fame, non puoi immaginare come fosse magro tuo padre quando l’ho conosciuto… In mezzo a questo, arrivi tu. Un’esplosione, una luminaria, tuo padre 185


fuori di sé per giorni, si ubriacò… Si ubriacò? Sì, coi suoi amici, fecero baldoria per tutta la notte e lui si ubriacò. Questo non me lo avevi mai detto… Ah, sono tante le cose che non ti ho detto… Per esempio che tua sorella, che ora è di là a piangere per me, ha sempre sofferto di questo mio amore per te… Piange? Perché tu no? Certo, anch’io… Ma nel modo tuo, cogli occhi asciutti… Assomigli a tuo padre, in questo… Lei, invece… Vai di là e abbracciala. Si sente sola, sa che presto partirai e io non ci sarò più a cucire lenzuola inutili che le davano sui nervi… Sì, aspettami, torno subito. E dove vuoi che vada, stupido d’un figlio, dove vuoi che vada? Non credo di aver meritato questo amore, madre. E chi ti dice che va meritato? Sei arrivato, sei diventato figlio mio, senza mio merito, se si esclude che ci ho messo del mio. Capisci? Sì, credo… Ho incontrato tuo padre, e non altri, poi è arrivata tua sorella… Dove lo vedi il merito in tutto questo? La vita? Intendi dire che è solo la vita? Io non lo so, io non ho studiato come hai 186


fatto tu, non so le parole, ma questo mi è chiaro, non c’è nessun merito… La vita non ci arriva perché la meritiamo… Il che può voler dire anche il contrario… Non farla complicata, c’è, è così, tu sei mio figlio e io ti ho amato, come l’acqua che cade sulla pietra la scava, ti amo anche adesso, pensa… Che sei morta… Pensa, anche adesso da morta… Perciò la vita che dicevi non è la vita dei vivi… Forse non solo quella… Era questo che volevo farti dire, madre imbrogliona. Diciamo che continuo anche adesso a cucire lenzuola che non servono… Sì, sì! Come stai? Bene, come vuoi che stia? Voglio dire come stai lì dove sei… Ma io non so dove sono… Mi vedi? No, ma ti sento, ti sento non con le orecchie, ti sento come ti sentivo quando ti avevo nella pancia… Mi sembra lo stesso, solo… Solo? Solo che adesso la pancia sei tu, la vita, sì, è strano, come se tu fossi gravido di me. Puoi spiegarti meglio? Non è facile, sai, tu lì, sulla mia poltroncina che sonnecchi… A proposito, guarda dentro la fodera, domani, c’è il mio libretto di risparmi… Come? Sì, sì, inu187


tile che ti arrabbi, è lì, è sempre stato lì, un posto sicuro, pensa, ci avevo sempre il culo sopra. Ti diverte? Sì, mi diverto. Oh, madre pazza… Sì, sì, ma che dicevo? Ah, dicevamo di come mi senti, dicevi che è come se tu fossi nella mia pancia… Ah, sì, mah, non mi raccapezzo più. Sono morta, alla fine. Sono morta aspettandoti. Sì, è quel che è successo. Non ti dispiace, vero, se ho pensato di non avvisare nessuno, per stanotte… Te l’ho suggerito io… Ah! Sì, figurarsi il casino, soprattutto le mie amate sorelle… Vedo che non vi siete rappacificate… Con quelle? Non servirebbe a niente… La camera ardente arde di suo, pensieri confusi, respiro pesante, e quel gelsomino che dà alla testa. L’aria è immobile, tanto che la fiamma della candela accesa a lato del letto, accesa chissà perché dalla sorella, sembra pitturata sul muro tanto è immobile. L’uomo, sempre sulla seggiola, tanto da sembrare conficcatovi dentro, guarda nel vuoto quando non sonnecchia. Non si muo188


ve da molte ore, nessun bisogno corporale, a quanto pare, nessun appetito, solo quegli occhi aperti da sembrare sbarrati e le mani, le mani intrecciate sul petto o a gesticolare davanti alla faccia, come contendesse qualcosa a qualcuno. Ogni tanto guarda la madre, lì a un passo. Poi torna nella sua ipnosi immobile. Qualcuno, lì, cerca un passaggio, un cunicolo stretto per una comunicazione impossibile. Ti son sempre piaciute le cose difficili, figlio, non so perché ma ti sei impastato una vita complicata, così, Sì, è vero, È stato così col lavoro, con tua moglie… A proposito, sai che mi ha chiamata, non molto tempo fa, Ti ha chiamata? E per dirti cosa?, Mah, non ricordo, ah!, voleva notizie su di te, E perché non le ha chieste a me, le notizie su di me?, Aveva saputo che ti eri ammalato, non so come, io non le ho mai detto niente, E tu?, E io cosa?, E tu che le hai detto?, Cosa volevi che le dicessi, che stavi male senza di lei, Cosa?, Che stavi male e che eravate fatti l’uno per l’altro, Madre disgraziata, Ma sì, dai, non l’hai mai dimenti189


cata e ti sei ammalato di questo, Ma che bisogno c’era di dirglielo, Che vuoi che importi... Non ti ha chiamato, vero?, No che non mi ha chiamato, anche perché ho cambiato numero di telefono. A dire la verità non avrebbe potuto, Vedi che non l’hai dimenticata?, Certo che non la dimentico, ma deve restare tutto com’è, Testa dura d’un figlio. Testardo e stupido. La comunicazione impossibile cessa d’improvviso come d’improvviso s’accende. Guizzi per l’aria come refoli d’un vento che non c’è. Elettricità. La madre riposa e il figlio dorme. Sembrano fatti della stessa pasta, come di fatto sono, sembrano intendersi bene senza dare l’aria di essere molto intimi. Una madre e un figlio. Morto e vivo. Due mondi. Di là, dalla cucina, arrivano intanto sciacqui e rumori di piatti. Non manca molto e arriverà l’altra donna di questa strana combriccola che aprirà la porta del sarcofago per dire, La cena è pronta! E lui si alza dalla seggiola, come l’ordine fosse già arrivato, fa qualche passo nella stanza, s’avvicina al capezzale, se ne allontana, 190


guarda fuori, in strada, la sera immobile, come lui, controlla che la candela arda dentro la sua colonnina d’ottone senza debordare sul legno del comò, poi apre la porta ed esce. Giunto in cucina, dove la sorella sta sistemando le posate ai lati dei piatti, dice, È pronto? E lei, Pasticcio e parmigiana dei morti. Servito! Alla fine la palpebra cade. È un attimo, o forse no. Forse il sole di prima era solo le nocche sugli occhi, un prurito, un fastidio, una paglia che stride. Alla fine la caverna è murata dalla stessa luce di prima che, sfibrata, ora trapassa e richiude la crosta. La vita è un tuorlo d’uovo che anela al suo guscio, alla perfezione del dolmen, alla pietra, astronave di granito venuta giù dal suo sole e conficcatasi nella faggeta, piramide che ha perso la strada. Non so, madre, se questo è il mio sonno o il tuo, Non c’è mio né tuo, qui dove sono, e non so dirti se i pensieri che pensi, che vedo come vapori e nebbie, ti appartengono. Certo, la palpebra cade, in un caso e 191


nell’altro, nel morire e nel sonno, in questo parenti, fratelli, ma mi sfugge il discrimine, e la linea che un tempo era vivere s’è fatta spazio aperto. Come dentro un sarcofago, l’uomo, nella caverna della sua sedia di vimini, s’acconcia un’altra notte. Gli sembra, da lì, lì dov’è, di non aver trascorso altro che notti, Sarà la vicinanza con te, madre, Forse, ma sei sempre stato un po’ notturno, sai, umbratile, melanconico, in questo m’assomigli, e ora più che mai, Ora più che mai, dici, per questo non so più chi sia, né come sia arrivato a questo capezzale che sembra il mio, io che mi veglio nella prima notte di un’altra vita, che chiamano morte, Ah!, figlio mio, vorrei aiutarti a capire, è tutto molto più semplice, da qui, è tutto semplicemente esposto davanti, ma non so come fare, Forse non si può, Forse sì, non si può. Sa solo, l’uomo riverso sulla seggiola con la testa che pencola, che la risacca che sente, che lo stordisce e lo culla, come fosse ancora nell’amaca che quella madre stesa lì 192


approntava per lui, e gli dà il tempo, un tempo buffo, beffardo, come un respiro pesante che presto trasmuterà in russare, un tempo che torna sempre su se steso, uno uno, tu tu. Inutile, solo pensarlo, accendere fuochi che rischiarino; non saprebbe come fare, e non sa se lo vuole veramente. Inutile pensare pensieri che gli mancano, chi è?, come è giunto dov’è?, che fa? Allora, l’uomo, ad ogni notte che viene, o palpebra che, tramortita, cade per troppo scrutare, l’uomo canta. Oh no, non è proprio un canto, il suo, quanto un irriflesso cercare di accordarsi con la risacca, deglutire tutto quel dolore salmastro, accordarsi al vento che lo accerchia, lo culla, tanto è protettivo l’uovo, perfetto il guscio, tagliente il dolmen. Cosa mugugni, figlio, Canto, madre, non senti? Canto a denti stretti, come ho vissuto, e me ne viene un calore che nemmeno il fuoco che mi manca mi darebbe, una presenza così densa come nemmeno la casa piena di prefiche, Un sollievo, figlio. E dentro un tale frastuono, l’uomo s’addormenta.

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Nel sonno sei di nuovo mio, sole mio, ti abbraccio come cellula che cresce, inerme, carne mia che carne adesso non sei più. È un gesto impudico, questo abbraccio, lo so, so che dovrei lasciarti, so che dovrei andare, dove non so, nessuno me l’ha mai insegnato, m’ammalia il tuo farti così inerme, mi tenta questo tuo offrirmi il collo, darmi vita, in un certo senso. Adesso capisco perché non hai voluto nessuno per casa questa notte, come so che questa notte non finirà mai. Hai avuto fegato, figlio, a venirmi così vicino, il pericolo che corri è grande e la mia mascella infinita. Ho fame di te, di vita, ma io sono allenata alle tentazioni, e rimanere morta non sarà poi così difficile. Questa notte finirà presto, figlio, il mio abbraccio si scioglierà e il gelsomino sigillerà la nostra ultima intesa, Non sono qui per questo, madre, non è quello che voglio, L’ho capito, figlio, ma la parte del morire tocca a me, e a te vivere, vivere anche di me, ma vivere. Devi ritessere il filo, disegnare la linea e sciogliere nodi che non ci sono mai stati, È la mia vigliaccheria, madre, che mi ha chiamato a te, la paura, Rimorsi astratti, 194


figlio, bugie che sappiamo essere tali, come quando io lamentavo le tue assenze, quando assente non sei stato mai, non lo sei adesso, figurarsi, era un mio vezzo, come il tuo del rimorso, tutte storie, svegliati e, domani, parti, niente ti trattiene qui, e io sarò dove sarai tu, Ti saluto, allora, madre, Ti saluto, figlio, figlio che sei stato e figlio per sempre, come questa notte, questi pensieri e questi baci. L’uomo, di soprassalto, si sveglia. Ăˆ l’alba. Si guarda intorno, si terge il sudore dalla faccia, sembra pianto, apre la finestra e, chinatosi, bacia la madre in fronte. Le accarezza gli occhi chiusi. Lei gli sorride. Sembra sorridergli.

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Si nasce e si muore. In questo, l'uno e l'altro non sono affare nostro. A guardar bene, non siamo altro che una congiunzione.

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QUINDICI

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Di tanto in tanto si ferma. Sotto un lampione, ad un semaforo, ad un incrocio di vie. Sosta un attimo, attratto forse dalle luci, poi riprende. Veste un abito un tempo elegante che fa a pugni col basco nero calcato a sghimbescio sul cranio e, dalla mattina, passate appena le otto, cammina. Che non abbia alcun impegno sembra evidente, sia per la calma con la quale procede sia per le soste, ripetute, in un bar, su di una panchina nel parco; come anche per le direzioni che prende, di qua e di là, a volte tornando sui propri passi, sempre ben dentro al marciapiede, si direbbe rasente i muri da cui l’intralcio alle vetrine qualora siano affollate da grappoli di guardoni, che lui aggira, rallentando. Cammina. Un salutista? Uno sportivo in pensione? Qualunque cosa sia stato, cammina. Purché non piova. Nel qual caso se ne sta alla finestra, in casa, scrutando il cielo e pronto a calcare il basco e scendere in strada. Tra le tante attività che potrebbe fare un uomo nel suo stato, giocare a carte 198


con gli amici, dormire, leggere il giornale, lui ha scelto questa sorta di pendolo perpetuo, moto casuale che lo conduce per la città, si direbbe spinto dalla stessa gravità di una pietra lanciata in un pozzo, fermandosi solo passato mezzogiorno alla prima trattoria che vede. Cerca qualcosa? Impossibile dirlo, dati i percorsi, tanto che può capitargli d’invertire la rotta solo perché s’imbatte in un feretro al quale s’accoda. Nessuno lo conosce, anche se molti lo incontrano, al parco, seduto davanti alla fontana, ai capitelli delle porte medievali della città, all’edicola dove guarda le foto e legge i titoli dei giornali, giacché i suoi sono itinerari atmosferici guidati dal vento. Finge? Si nasconde esponendosi alla vista? Improbabile, data la rilassatezza del passo, le soste, la svagatezza, quel basco che ondeggia, molle, assecondando la testa presumibilmente calva, presumibilmente calda, mobile, che si arresta, se decide di far sosta alla fermata del tram, confondendosi 199


con gli astanti, in silenzio, finché quelli non spariscono inghiottiti dal veicolo lasciandolo libero di riprendere. Lo abbiamo seguito, qualche volta, e tutto quel che c’è da sapere di lui è che gli piace camminare. Cammina, come non potesse o non sapesse fare altro, godendosi il tempo, le facce che incontra, le luci di quell’ambulanza, per esempio, che segue con lo sguardo finché non svolta l’angolo e sparisce. Non incontra mai nessuno, né parla con alcuno e, se entra in una chiesa, non è per inginocchiarsi ma per attraversarla, si direbbe, giacché giunto alla navata, fa dietrofront ed esce. Un uomo di superficie, questo uomo, dal momento che non l’abbiamo mai beccato a scendere le scale del metrò o salire a bordo di un veicolo. Parrebbe impossibile, avendo un dirimpettaio di tal fatta, non farsi prendere dalla smania di fermarlo e domandargli il perché di quella vita; e difatti è così, ci abbiamo pensato, un mattino, e poco dopo le otto l’abbiamo bloccato, prima che si lanciasse nel suo slalom imbattibile, che fuggisse in 200


una direzione qualsiasi, ma quel che è rimasta, una volta salutato e tesa la mano, è stata la traiettoria di un basco nero, bellissima, che plana lento, a terra, come un fiore reciso, una foglia d’autunno.

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Le ossa riconoscono le ossa, così pian piano lo scheletro si ricompone. È, insieme, la figura di un uomo e di una città. Si chiamano, si sono attesi, si riconoscono. In silenzio. Scale secche, facciate di chiese che sbiadiscono, cunicoli e anfratti. E il vento. Vento allegro che non ulula, vento buono che se la prende coi cappelli. Così tutti a rincorrere il proprio, ridendo per le pantomime dell’altro e non vedendo le proprie. È Novembre, passati i Morti, e la città sarebbe ancora calda se non ci fosse la nebbia. Vapori che salgono dalla pianura, occupano le cime, s’impadroniscono delle guglie e dei tetti della città vecchia, bagnando di una pioggia santa ogni cosa, terra, aria e quello che sono.

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SEDICI

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Aveva un gallo, una volta. Un gallo comune e mortale che, insolitamente, amava specchiarsi nei vetri. Non che fosse tanto pacchiano da dar da pensare a chi non lo scrutasse curioso ma, si ammetterà, era strano lo stesso. Era d'estate, questo va da sé. Dove si sarebbero potuto tenere, se no, il gallo caro ad Asclepio e le sue tristi compagne? Lo stare in campagna, così come l'improvvisato pollaio, potevano arrivare solo col caldo, l'assenza da scuola, da fine Giugno agli inizi di Ottobre. Dopo, dopo l'Ottobre, lui non sa più dove, né a chi, venisse affidata la cura dei trespoli; forse ai vicini, contadini, che stavano lì tutto l'anno; o forse venivano cedute, le signorine pennute, o vendute? Non ricorda. Né l'ha mai chiesto. Quel che importava, a quel tempo, era la certezza che finita la scuola lo avrebbe ritrovato, il consorzio, più numeroso, più caldo... Si accorse della civetteria del suo gallo un mattino, poco dopo levato e lavato, uscendo sulla rena fresca dell'umidore notturno. Perciò stava uscendo, quando davanti al 207


vetro della porta, priva di scuri, trovò il suo angelo in flagranza di peccare d'orgoglio. Lo seguiva, per solito, il gallo a lui; aveva preso a giocarci, lo rincorreva, invece quel giorno stette lì, immobile. Che hai?, chiese. Gli parlava, naturalmente, senz'ombre; non c'erano dubbi che lo capisse. Vero, era vero che non rispondeva quasi mai, ma che importava? Era muto, mischino. Muto di nascita. Quanti come lui, ragazzi ma anche uomini fatti sapeva e vedeva ogni dì nelle loro storpiaggini, ciechi o gomitolati di braccia? La faccenda, perciò, non lo impensieriva. Che hai?, richiese. Che aspetti? Ma quello niente, anche se aveva preso a scuotersi tutto, come a far cenni, avviando un abbrivio in una lingua che non gli era tutta chiara nei passaggi più lesti, ed ondeggiando come sapeva far solo lui gagliardamente quella criniera di carne rosata non lo seguì. Restava là, a guardarsi nell'aria, e lui non capiva perché. Si avvicinò, sporse la mano come ad invitarlo, ma quello accennò solo passetti di una contraddanza dolcissima, di qua e di là, avanti e indietro, dentro il cono riflesso. Così vide che aveva. Guar208


dò dove quegli occhietti spaiati guardavano e lì scorse un altro gallo sul vetro, un gallo tenue di bruma, mattutino emisferio d'immagine pallida. Riguardò nel vetro, confuso. Poi guardò lui. Non si muoveva più, s'indicava solo col becco. Pareva soddisfatto. Che guardi?, cambiò lui la domanda, non ancora persuaso. Nessuno gli aveva mai detto che i galli amavano specchiarsi. E, a dire il vero, l'atto in sé della riflessione, cura quotidiana e consueta prima di correre a scuola, non gli era mai sembrata gran cosa, a quel tempo, granché più di sbrigativa attività utilitaria come pettinarsi o tagliarsi le unghie. Che guardi?, un'altra volta. E quello lì a saltellare aprendo il becco soltanto, senza cantare, come fosse avvampato di caldo o chiedesse altro miglio. Lui si imbambolò. Divenne una falena alla luce. E si accucciò con quello sul rialzo della soglia d'ingresso. Nel riverbero, ora, la silhouette del gallo si schermiva. Pareva faticasse a restare visibile più che il tempo passava e la mattina si faceva gagliarda, più che l'originale arruffava, bagnandole, le penne del collo, vantando la chicca di por209


pora, invaghito di sé solo. Nessuno, in quei mattutini che si ripeterono spesso, chiese o s'avvide di niente. E nessuno pareva badare a quelle due piccole pietre vive che facevano da ostacolo a chi voleva passare la soglia. Poi, un mattino di quelli, il gallo scomparve. A dire il vero, al ripetuto suo domandare, si vedevano smorfie strambe stamparsi sui labbri dei grandi, smorfie confuse, ammiccanti. Ma ammiccanti di che? Dov'era, porco cane, il suo gallo? Ma l'infanzia, che sia fortuna o dileggio ulteriore, ha poca o nessuna memoria di sé. Così, di lì a poco, lui scelse nuovi compagni ed al gallo dalla chicca di porpora non pensò più. Solo, è rimasto, ora che son passati tanti anni, che quando si specchia lui scorge una strana escrescenza, cosa rossa che gli ondeggia tra i capelli non più del tutto corvini, una cresta a bandiera, una fanfaluca, una vela. Torna dunque Teseo? Da quale Toro nero? Da quale Arianna?

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Vergognose passere senza pudore, entusiaste d'estati, lontre nane dei cieli e dei tetti rigonfi. Eccovi qua, andate e venite, violente, volate veloci in picchiata sui ciottoli, come falene sul lume. Vociate, pur'anche, vociate di cortili scampati, vecchierelle nei vicoli, scemate. Vespertine cenate, gagliarde strombazzando sputate gli ossi dei resti, ciliegine rubate, dal camino ai miei piedi, guapperia da strapazzo.

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DICIASSETTE

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Una fitta lo svegliò. Bon voyage, Mercoledì, amore mio. Ma più che una fitta gli parve un tocco, carne calda leggera che gli sfiorava la fronte, come gli era accaduto da piccolo quando, canebambino, aveva avuto la febbre. Ma non c’era nulla, lì, che avrebbe potuto fare così; non le carni, non l’amorevole tocco, meno che mai, poi, quelle attenzioni rivolgerle a lui, bambinocane arrivato da poco che non conosceva nessuno e che da nessuno era conosciuto. Poi l’udì di nuovo, forte, secco, disperato. E allora capì perché l’aveva chiamato una fitta, un ferro che ti entrava nel ventre: era lui, quello, il suo amico, quella era la sua voce che lo chiamava, e le schegge secche dell’onde arrivavano fin laggiù… O lassù? Bon voyage, Mercoledì, amore mio. Non so bene che posto sia, questo. Non so bene cosa occorra fare, qui. Se decido d’inoltrarmi per la pianura che mi si stende davanti, o d’andare a nord, dove si iniziano infinite distese di boschi, non incontro nessuno pur camminando per giorni; pure, l’aria è pregna di presenze, di fiati e, se 217


solo avessi ancora denti e carne dove configgerli, questo sarebbe il paradiso dei lupi. Non ho più fame, non sento più la stanchezza o il freddo; resta, di tanto in tanto, un velo leggero di sonno, se mi stendo al riparo dentro una radura che profuma di bossi. Quel grido arrivato fin lì lo ha agitato. La voce passa, dunque, tra i due mondi; e che altro? Cerca di ricostruire con la mente il percorso del suono; ma è come orientarsi avendo perso l’olfatto o, nelle infinite distese gelate del nord, cercare il sole. Orienta, allora, l’unica cosa nella quale intuitivamente prova fiducia, non avrebbe saputo dirne la ragione, ma la sola cosa in cui si sente a suo agio è ricordare. Lì nessuno lo può turbare e, lì, nulla è da condividere con gli altri. Così si accuccia dov’è, tra rovi e sassi, e si quieta. Stende il muso grigio sulle zampe anteriori e attende. Non ci vuole molto perché rumori di passi lo raggiungano. Il vento porta l’odore della neve appena caduta mentre il volo degli allocchi muove l’aria in cerchi, come un ventilatore. Di218


stende meglio il muso e rilassa la mandibola; sa di doversi preparare a qualcosa d’insolito e un po’ ne è turbato. Tutto però accade all’incontrario. Avrebbe dovuto essere vigile, nell’attesa che gli ricorda le innumerevoli imboscate di caccia; invece, ora, gli occhi sono chiusi e i muscoli rilassati, solo un leggero tremolio delle zampe gli rammentano il tempo in cui era di là… Poi… Poi si accorge di essere vivo (o morto, non capisce bene, è alquanto confuso al riguardo) solo nel ricordo degli altri ma, pure, che in lui si dà vita alle vite di infiniti se stessi che poi non son altro che altri. Vede che non c’è nessuno al mondo, o che è stracolmo, dal momento che il ricordo di lui dà vita ad entrambi, dà lucore alla neve e bellezza ai voli piumati, lacrime e lacrime per la bellezza dei tendini chiari e per il muschio verdastro, l’ebbrezza per gli spazi… Poi, come non si fosse mai mosso da lì, con un sospiro gira il muso e guarda il rovere che il suo amico anni prima aveva piantato, che ora oscura il cielo. L’aria…, col muso prova a tastarla, l’aria è ancora mite 219


dacchĂŠ un sole esce dalle nebbie; aria quieta e sofferente, sofferente e quieta.

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Scrivere al vento, con le foglie nel vento, la polvere gli acini d’uva le mosche le nane verzure, mangiate nell’orto, gli sciami le fratte le talpe, la gramigna e i topi, minuscoli, snelli, quasi graziosi, che rovistan tra i cumuli, il murmure santo delle api sulla quieta lavanda, inebriante, il profumo ed il canto, poi il sole s’acquatta, tra i rami frondosi dei neri cipressi, e il gatto l’acchiappa, il topino minuscolo, snello, che cade, un’altra foglia nel vento.

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DICIOTTO

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Arriva, come suo solito, che sembra un viandante, sacco in spalla, passo lento e sguardo mansueto. Il suo incedere, sul viottolo, annunciato come sonagli squillanti battessero. Arriva. L'uomo gli va incontro, il cane nero davanti, e l'abbraccia. Tutto qua il loro benvenuto, perchÊ subito, sotto l'albero che è la loro grotta, il loro cielo, il loro antro, dalla sacca escono bastoni, quaderni, pennelli, ali d'uccello, meteoriti, barattoli e pietre come conchiglie del mare che fu, raccolte lungo il cammino. I talismani, come loro li chiamano, vengono ammirati uno per uno e poi deposti, con cura, sul vano di una delle finestre della casa. Lo sguardo dei due vaga, mentre il cane, che conosce a menadito quella pantomima, riprende a dormire. Sa che ci vorrà molto prima che qualcuno si degni di rivolgergli la parola, non prima del pranzo, comunque. Ha cosÏ inizio la predisposizione della scena; una grande tela, rettangolare, viene appoggiata al tronco dell'albero sperando che nessun uccello decida in quelle ore di lanciare i suoi dardi; poi, da uno dei barattoli, 225


il viandante versa in una ciotola un liquido ambrato che pizzica il naso e, da un altro, come terra le mani, con una spatola raccoglie grumi di un grasso che, ora, comincia a stendere sulla tela. Sembra grasso che fuma, cotenna di selvaggina tanto lo stridore della spatola suona come un coltello; stende tanto che va formandosi un sentiero, un altro, lĂŹ sulla tela, dove viaggerĂ con diversi sonagli che non quelli di prima, un antro nuovo per la medesima storia, arriva qualcuno, l'invisibile sfondo del tutto che appare. Il frutteto, lĂŹ daccanto, gonfio di rossori come guance di fanciulle colte sul fatto, sembra essere il primo invitato, cosĂŹ sagome verderuggine si stagliano sotto l'albero fino a che sono graffiate da un oro che cola. Albume d'uovo, sembra, mentre la scena si squama accogliendo intrighi di linee che sembrano guglie, precipizi, lontananze nerofumo. Dalla terra, frattanto, qualcosa nasce, germoglia e s'incanta nel volo sospeso di un'ape, ninnolo dal corpo acceso e dalle ali grandissime, che sembrano nebbie. Va226


pori, dentro e fuori la tela, si saldano a far da contrasto alla figura del gallo, comparso di lato, perplesso pure lui dalla profondità del creato. Acqua, ora, sembra scrosciare dal ruscello che è diventato il sentiero, e sorgono capri, allora, greggi che vagolano disperse per tutto il dipinto. Il cane, alla vista, s'infuria s'alza e abbaia. Così il viandante lo guarda, distratto dal tremolio di vita cui dà vita; lo guarda e, in un colpo, lo mette lì in mezzo. Le greggi, ora, si raccolgono attorno all'ultimo giunto, viandante anche lui, e il cielo s'oscura, e la serpe, che prima andava rasente una pietra, s'acquatta. Il cane nero, soddisfatto del rango assegnatogli, riprende a dormire, mentre l'uomo cerca l'amico, che nell'intrico dei rovi, tra il gallo il cane e le greggi belanti, raccoglie more succose.

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Lasceremo tutto a mezz'aria, inutile affrettarsi. La luna sorgerĂ ancora, non piĂš perfetta del nostro incompiuto.

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DICIANNOVE

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Della conversazione resta poco. Brandelli, schegge, foglie prese dal vento di Ottobre. Muti, uno di fronte all'altro, si guardano, le mani serrate alle tazze di tè fumanti. Ha così inizio un'altra conversazione, segreta, minuta, invisibile, che esce dagli occhi e si condensa sulle mani. Fuori piove, tira un vento bizzarro che vortica, polvere, fumi, foglie secche e altera, rendendolo stentoreo, il canto del gallo. Uno dei due si alza per mettere un ceppo nella stufa, che per partecipare anch'essa al tumulto di fuori lancia sull'ignara faccia dell'uomo uno sputo di fumo. Che per questo tossisce. Torna poi a sedere, dopo giravolte delle mani sulla faccia ad allontanare l'ombra acre del fuoco, quel che è del ceppo di prima, la sua permanenza compiuta nel tizzone infuocato, dacché quella cenere che presto sarà, custodisce, serena, il ceppo infuocato non dimentico del ceppo che attendeva nella cesta l'ora solenne.

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Torna a sedere e beve un sorso di tè. Nella sera che viene tutto si placa, l'ombra dei racconti dei due, Cosa hai fatto, Come stai, mentre il cane nero abbaia alla luna seppur non si veda. Dal silenzio, qualcosa emerge, frattanto, qualcosa impastato dal vento di là dei vetri e dai ceppi odorosi, nella stufa, che laminano come fossero dardi. É quanto i due aspettavano, quanto aspettano ogni volta che s'incontrano. E la stanza diventa una rupe, o una piroga sul fiume, porta aperta sul dentro e sul fuori, dove i due, sentinelle dei vortici, concrescono. C'era una volta, e c'è sempre, questo buco sul cuore che non sanguina, ma è caldo, quasi avessimo ceppi impiantati nel petto, infiammati, Dracula dei tempi moderni, e che non si consumano mai. C'era una volta, e c'è sempre, questa vita che batte, batte come un martello su un chiodo che non vuol saperne di trafiggere, batte come il vento, là fuori, che semina ciottoli, frasche, ombre, e non c'è vento, martello e il suo chiodo, tanto profondo è il respiro che cuce ogni cosa, che non dimentica niente, non 231


lascia fuori mai niente, cosicché la cenere conserva il legno da cui viene e noi quel che non sappiamo nemmeno. Se è così chi può dire? Non certo noi. No, certo. Pure, le cose ci sono, come noi davanti ad un tè che si fredda, e non sono mai sole, non sono mai quel che sembrano essere. Sì, capisco. Ma come dirlo? Si può? Basta non volerlo, quel dire, ma lasciare che il vento lo prenda, lo sollevi da terra e lo porga, gentile, a ogni cosa: l'albero, l'uccello, le pietre. E a noi, se è il caso. Il dire si dice? Il dire, se è dire, si dice da solo, per questo si serve di quello che c'è, d'ogni lingua che c'è. Il tuono è un bel modo, ma anche lo squittire del topo. E il nostro silenzio... Ah, quello è il miglior dire, ci attraversa per altro che noi, pure, ci impasta la lingua, colora i sogni, spinge al sorriso. Al sorriso di che? A quel sorriso che è pieno di questo tè diventato imbevibile, l'abbaiare del cane, il canto del gallo e l'acre sfrontatezza del fumo di prima. A proposito, guarda che ti ha preso gli occhi... Non è per questo che piango, ma per il 232


gaudio... Gaudio? Non senti anche tu come tutto si pieghi, beato, ogni cosa in cerca dell'altro, tutto al suo posto e niente è perduto? Neanche questo tè imbevibile? Neanche questo tè imbevibile.

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Non bisogna avere tempo. Ăˆ sufficiente stare nel tempo, di modo che le cose, dentro e fuori di noi, si assestino, trovando loro connessioni.

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VENTI

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Così comincia la discesa dei gradini che dalla vecchia casa, uno per uno e senza fretta, lo conducono fino alla strada e, quindi, alla piazza. Che ne sarà stato del tempo in cui queste lastre di basalto le annullavo al volo?, si chiede l’uomo, e se lo chiede come la cosa riguardasse un altro, quasi davvero non gli fosse mai appartenuta, come non fosse chiaro, invece, continua, che quel volo è qui, e si batte il petto con le mani, ha solo abbassato la cresta di bel gallo sbattuto sulla pietraia, Icaro che precipita ripiegate le ali. Ad ogni modo non assegnando né al tempo né alla leggerezza che, a sentir lui, a quel tempo gli sarebbero appartenuti, più interesse di quanto lui ora dedichi ai propri piedi gonfi. Va bene l’aria, va bene la terra, e questo non lo dice sebbene l’abbia pensato, così disteso, retto, così lucidamente andando rasente un muro secco che si sbriciola. Il vicolo, che lui percorre quattro volte ogni giorno in tutto, risuona. È come corrispondesse in qualche modo alle sue incursioni, e gli corrisponde davvero dal momento che 237


a quel risuonare tutti, nel vicolo, apprendono quanto già sanno, ch’è di lui che si tratta. Tapino suono di suola che strascica, pietruzze che precipitano, bastone che batte; infine l’attesa che entrambi i piedi si assestino ad un livello più basso, prima che al rimbombo prodotto dalle mura alte del vicolo sia dato riprendere. Uno due. Avanti indietro. A volte, con la pioggia, o le grida dei ragazzi nei giochi, il suono si complica, degenera, sortisce astruse modificazioni; ma sia come sia, cessata ogni cosa, ecco lo strascicato uno due, il vuoto dell’alzata del gradino, il bastone e il suo respiro forte avanti indietro. Di tanto in tanto, o meglio quando capita, l’uomo è costretto, se proprio vuole passeggiare, a servirsi d'uno dei ragazzi dalle gole intatte; ad esempio, allorquando il filo a piombo del muro che si sbriciola viene alterato da strati di calcina fresca, sotto ai quali pietre dure sostituiscono quelle fradice nell’attesa d’infradiciare anch’esse; o quando l’asfalto, e perciò l’alzata dei gradini, viene bucato alla ricerca 238


di chissà che gas o spirito odoroso. In tali frangenti, alle stesse ore, quattro volte al giorno, la mano dell’uomo cala calamitata sopra l’osso sporgente e docile della spalla di un ragazzo, uno dei tanti, ora questo ora quello, mentre il suo passo strascica, rimbomba, sebbene meno decisamente di quando s’affidava all’unica geometria del muro e del bastone. Santo bastone che, di un bianco gesso, in questo simile alla calce sul muro che intanto si rapprende, eccolo appeso all’ossa non più tanto docili della sua spalla, lì inerte a esperimento della vacanza dalla terra, come un tempo, come si racconta, l’angelo sperimentò quella dal cielo.

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Scavavo una fossa con le mani per deporvi gli occhi - instabili vetri di fumo -, per vedere cosa ha il mondo - questo pavone piumato - da mostrare, quali diaspri, ocra, cinabri e gelide schiene di ghiacci, quando nell’’istante- è giunto il giavellotto del tuo braccio e – toccandomi - mi ha infranto il petto. Ah, amico! Hai sentito il rostro delle nuvole andare a gambe all’aria? Non rammenti più che il vento è fuoco e l’amorevole sollecitudine fissione d’atomo? Perciò ritorno sui miei passi a cercare il maglio di petali con il quale comunico con te, e tu rispondi, già rispondi, toc toc, nel morse che è nostro, panico travaso che altri dicono corrispondenze, coincidenze, e ch’è invece companatico d’astri. Così si nutrono gli eroi e per questo passiamo -non visti- nella piazza dove siamo scompiglio gettando all’aria un’arancia, metafora dura di soli consunti.

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Ah amico! Cosa sarebbero gli anni, i tendini tesi e le molli arie del vespero senza i nostri muti ruggiti e la schiera perfetta dei denti? E del palo del mondo confitto nel niente, e delle montagne nel tiepido salso? Toc, toc.

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VENTUNO

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Fin dalla sua nascita il lupo si presenta nelle vesti di custode del gregge formulando il principio di non contraddizione; negando, cioè, che il medesimo sia e non sia nello stesso tempo. Nel tempo che la medesima pecorella satolla le sue ventricole di lupo, passando per le fauci, certamente la pecora è; e l’infelice non fa contraddizione ma solo sangue nuovo al vecchio lupo. Ma... Eh sì, c’è un ma; non appena transitata nel gargarozzo, schiattata, la poverina, dov’è andato l’essere suo di prima, il suo musetto umido? Quando l’essere è, è, e quando non è, non è, dice il lupo aristotelico. Facile cavarsela così; si vuol forse dire che insieme a pelle e ossa, sangue e bile, della poveretta il lupo porta alla digestione anche il suo è? E, trangugiato, che effetto gli darà alle viscere quel che era il suo non è? Non è che ci sia il rischio d’una costipazione?

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Il lupo, per solito, satollo, sorride a tali corbellerie. Quel che conta, pensa, è essersi riempita la pancia; tutto il resto sono favole. A proposito di favole, Platone, calmo, gli obietterebbe: t’illudi, amico mio, e ti culli di una sazietà inesistente dal momento che il non essere non è qualcosa ma è nulla. Ti gonfi d’aria, amico, ecco la verità. Ti pasci di una negazione, del niente della pecora che era. Ma... Eh sì, anche qua c’è un ma; soprattutto, il lupo dovrebbe tener d’occhio come in un tempo che verrà, magari appena oltre quel boschetto, lui stesso non sarà nient’altro che il niente che peserà sulle spalle del cacciatore. Il quale, a sua volta, tornato a casa, magari avrà un forte dolore al braccio e… L’asino, a tutto questo, lui che in gioventù ha studiato Parmenide e ha avuto l’agio d’indagare l’essere del suo eterno girare in tondo al palo della macina, l’asino vorrebbe postillare, ma si astiene. Per conto suo, tranquillo, s’interroga sulla biada che gli 246


preme sul muso, dalla cavezza, mentre sorridendo mastica.

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C'è bisogno delle mani per pensare. Quelli che dicono: il corpo!, sbagliano; quelli che dicono: la mente! , sbagliano anch'essi. Le mani, bastano le timide mani...

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EPILOGUS

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Succede d’improvviso. Proprio davanti alla sinagoga, in pieno giorno, col mercato poco più in là, nello slargo che dà sulla strada un uomo ne ha accoltellato un altro. È quello che si grida, almeno. Dalla baraonda che ne segue, l’onda d’urto giunge fino ai banchi del pesce e delle spezie dove mi sto scegliendo un’aringa. Hanno assassinato un uomo! Dove? Là, alla sinagoga, là! Lascio la mia aringa e m’infilo tra la gente che fugge, probabilmente insieme all’assassino e, curioso come sono, giovane come sono, mi faccio largo gridando, Sono un medico, lasciatemi passare! Miracolo e, in un attimo, mi trovo davanti ad un uomo accoccolato, seduto di sbieco con la mano che stringe il fianco destro, in silenzio. Sembra lui per primo meravigliato di tutto quel trambusto. Mi guarda. Lo guardo. Mi fa cenno d’avvicinarmi. Così mi accoccolo pure io e, andandogli vicino, gli dico, Non sono un medico… Lo so, fa lui. Aiutami ad alzarmi, dice poi. E io l’aiuto. Un uomo basso, dai lineamenti pallidi, magro, capelli neri e occhi neri. Nel venire su, un colpo, 253


qualcosa di metallico dal mantello sguscia e picchia sul selciato. È un coltellaccio…, dico io. Un coltellaccio col quale si sarebbe potuto scannare un bue, ma che all’uomo ha solo trafitto, da parte a parte, il bel mantello di lana grezza che egli porta. Prendilo, mi dice l’uomo. E io lo prendo. Può darsi che ci venga utile, conclude. Intanto, alla vista del creduto morto che cammina, la folla si dirada, il bisbiglio scema e nessuno, di lì a poco, sembra più interessarsi al caso. Chi sei?, mi dice l’uomo. Ed io, per tutta risposta, Chi la voleva morto, oggi? Ah!, dice lui, come si fosse già scordato della realtà del fatto, tanto che deve sincerarsene con se stesso e, per questo, stende il braccio sinistro infilandolo nel buco che s’è aperto sul mantello, dalla parte del fianco destro. Ah!, quello, dice ancora. Oggi, caro amico sconosciuto, oggi sono stato espulso dalla sinagoga… E come se l’una cosa spiegasse l’altra, tace. Arriviamo ad una casa e l’uomo mi fa entrare. Accendiamo il fuoco, dice, avrai fred254


do pallido come sei. Ai primi guizzi, brilla un angolo della stanza, una stanza a volta, bella, non granché grande, con una sola finestra dalla parte dell’entrata. Brilla, per altro buia. Brilla come un altro fuoco, lì, ghermisse il muro. Cos’è?, dico, e indico la direzione. Oh, fa lui, son le lenti, i miei vetri, non aver paura non sono il demonio. Lenti? Vetri? Il mio lavoro…, m’interrompe. Che ne fa?, domando ancora. Li molo… E visto che sembro non capire, Faccio che l’occhio veda… Ed io, Più di quel che vede già? Perché, vede?, risponde lui, meravigliato. Vede qualcosa…, faccio io, confuso. Potremmo dire così, ragazzo, potremmo dire così. Cosa vuoi, visto che non rispondi su chi sei…, mi fa l’uomo dopo un lungo silenzio passato a guardare il fuoco. Sono qui per comprare all’asta il suo mantello turco di lana, signore, oltre ad altro. Ma quest’asta, se ci sarà, si farà alla mia morte, non credi? Infatti, signore, eccolo lì il notaio che ha appena completato la lista, volete vederla?

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Alcuni libretti, qualche piccola incisione su rame, pezzetti di lenti tagliate, strumenti per polirle, un mantello turco di lana, un paio di brache, un mantello colorato, quattro lenti, sette camicie, un letto e una sedia, cinque fazzoletti, due cortine rosse, un copriletto, una piccola coperta da letto. E quanto chiede per il mio mantello turco?, domanda. 21 fiorini, dico io. Solo 21 fiorini… Il mio mantello turco per 21 fiorini? Ma ne vale almeno il doppio. Lo credo anch’io, signore, ma non ho fatto io il prezzo. E giratomi verso il notaio, Ecco i 21 fiorini per il mantello turco, ecco. Ti sta bene, figliolo, forse un po’ lungo… È caldo, però… Certo che è caldo, lo so bene che è caldo, è il mio mantello… Eh? Sì, insomma, era il mio. Son morto e parlo con te… Potremmo dire così, signore, potremmo dire così. Ma allora quel bifolco alla sinagoga… Dritto al cuore, signore, un colpo secco. Ah! Non me ne sono accorto. Si vede bene che non se n’è accorto, è qui che sovraintende all’asta dei suoi beni… 256


Che giorno è… Mi sfugge il tempo, per così dire… È naturale, signore, mi sembra del tutto naturale, non s’è mai sentito di un morto che sa che giorno è. Ad ogni modo, oggi è il 21 febbraio 1677. Ah! E poi, come l'avesse preso un'altra urgenza, Hai visto il mio lavoro, figliolo… Le sue lenti sono là dove son sempre state, sembra che al notaio non interessino… Non parlo delle lenti. E di che parla, allora? Quaderni, hai visto dei quaderni? Ah, quelli. Son stati messi tutti dentro una cassa… Dal notaio? No, da un signore venuto oggi da Amsterdam, è stato qua, prima, e mentre lei spirava, signore, se posso permettermi, ha preso la cassa e se ne andato. Era un signore magro, con strani occhialini sul naso, vestito di velluto verde? Proprio lui, signore, lo conosce? Sì, sì, lo conosco. Adesso posso morire in pace. Come vuole, signore, anche se, le assicuro, lei è già morto. Hanno già prenotato alla Chiesa Nuova sullo Spuy, ho sentito dire… Per quando? Il 25, hanno detto… Ah, tanto un posto vale l’altro… Già, direi anch’io così, signore. Già, tu, che non so nemmeno chi sei… Io, signore? Già, tu. 257


Vuole sapere il mio nome, signore… Almeno quello, di grazia. Ma non le dirà niente, il mio nome, signore… Tu dimmelo lo stesso. Il mio nome, signore, è Baruck Spinoza, Baruch Spinoza.

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21 FIORINI Opera di Salvatore Sottile Breve commento di Giuseppe La Rosa Un libro ha una propria vita. Per quanto questo possa cozzare con il nostro naturale modo di sistemare in categorie le cose che appartengono a questo mondo (ad esempio, diciamo che una penna è un oggetto, un cane è un animale, un geranio è una pianta, un bambino è un essere umano. Diremo quindi che un libro è un cosa...), un libro ha una propria vita paragonabile, per molti versi, a quella di un essere vivente. Un libro ha un inizio, un suo svolgimento ed una fine. Esso è composto infatti da un frontespizio o copertina che lo presenta e lo inizia; ha un contenuto che è frutto di un lavoro e di una elaborazione, che ne rappresenta la vita nella sua disposizione cronologica; ha un retro che ne rappresenta la parte finale. Esso, in qualche modo, nasce, cresce e muore. La cosa straordinaria di un libro però è che la sua vita, per quanto lunga, la possiamo comunque esaminare tenendo il libro tra le nostre mani e leg259


gendone il contenuto. Ciò non è possibile con la vita di un essere vivente di cui possiamo solo studiare e registrare comportamenti e funzioni fisiologiche (non possiamo infatti metterci ad osservare una persona, un animale o un oggetto ventiquattro ore al giorno perché questo comporterebbe il non potere vivere la nostra vita; oltre ad essere di fatto materialmente impossibile perché di notte ci necessitano alcune ore di sonno). Lo svolgimento della vita di un libro è rappresentato dalle idee di cui esso è veicolo. Ad esempio, ricordiamo che, bruciando i libri nella pubblica piazza, i nazisti intendevano distruggerne le idee e quindi la vita. Questo confermerebbe la veridicità dell'assunto: “un libro ha una sua vita”. Nei nostri tempi, un libro può avere una forma elettronica e non avere una consistenza fisica. Tuttavia esso è apprezzabile quanto un libro classico poiché possiede lo stesso spirito vitale. Ma qual è il messaggio che Salvatore Sottile ci vuole lanciare con il suo “21 fiorini” ? In quest’opera il narrare risulta complesso, irregola260


re, non sempre di facile decifrazione. Perché scegliere un tale modo espressivo ? La nostra conoscenza è in larga misura strutturata secondo un livello narrativo, centrato su storie. Nel pensare a noi stessi e alla vita, ci vediamo come protagonisti dell’infinita serie di storie che hanno contrassegnato la nostra esperienza e da cui traiamo il senso della nostra stessa identità. Ricompattiamo i frammenti dell’esperienza vissuta che acquisisce un significato più o meno coerente e unitario. La costruzione narrativa dell’esperienza è sempre il risultato di un processo interpretativo continuo, i cui esiti sono decisivi per la felicità dell’individuo e per la sua salute mentale. Il tempo del racconto non è il tempo lineare della fisica, ma quello complesso, articolato e contraddittorio dell’esperienza umana. Il tempo narrativo si dilata e si contrae in relazione agli stati emotivi del soggetto. Ma, a prescindere dal suo trattamento, il tempo rappresenta la dimensione strutturante delle storie. Ricordiamo la trama più profonda delle storie, quelle che siamo in grado di raccontare a nostra volta, ricostruendola e riproducendola con parole nostre. Perciò il processo di ricostru261


zione narrativa dell’esperienza procede attraverso un meccanismo di forte selezione e semplificazione di quell’esperienza stessa: un meccanismo che si potrebbe definire di “ condensazione”. Come artista, Salvatore Sottile propone questo: una lettura della realtà attraverso un personale percorso. Ma qual è la necessità di scrivere, di sottoporre le proprie storie ad altri a loro volta disposti a condividerle ? Czesław Miłosz asserisce che, dal Rinascimento, l'uomo si cruccia del caos che lo circonda e che si annida fin dentro di lui (questo è un elemento della grandezza di Marlowe e Shakespeare). A più riprese si procede alla ricerca di un luogo o di un tempo nei quali si potessero annullare i sintomi del malessere del vivere. Si cercò l’età dell’oro o un tempo senza incertezze e sofferenza. In questa sorta di “allontanamento”, qualcuno tentò anche di rivalutare quel periodo della storia quando l'immaginazione religiosa dava forma al cosmo senza trovare ostacoli nel pensiero discorsivo, anzi sostenuta dal sistema elaborato da Tommaso d'Aquino. Poi altre cose furono messe in discussione dalle guerre mondiali. A riguardo, 262


risultano significative le parole pronunciate da Eugenio Montale nel corso della conferenza che tenne a Stoccolma in occasione del conferimento del premio Nobel, nel 1976. Oggi sembra lontano lo spirito da cui provengono opere monumentali come “La Divina Commedia” o “I Promessi Sposi” che denotano una fiducia straordinaria nelle qualità e nelle potenzialità umane: si assiste al rifugiarsi in un'intimistica visione del mondo. Il destino umano può talvolta essere visto, come ad esempio in (The Waste Land) “La terra desolata” del poeta Thomas Stearns Eliot o nelle poetiche di Beckett e di Fellini, come una tragedia grottesca. Ne “La terra desolata” si tratta della città infernale, già descritta da William Blake e da Baudelaire: città diabolica dove, con il trascorrere del tempo, la condizione umana peggiora. Tuttavia Eliot tenta di dimostrare che l’immaginazione può, nello sfacelo del mondo odierno, riconquistare i suoi privilegi e tentare di costruire qualcosa dall’impossibilità, dalla mancanza, dalle rovine. La scrittura è quindi necessaria: l’unico modo per curare, per trascendere, per continuare a vivere. 263


Il 27 luglio 1930 il poeta Fernando Pessoa si trovò a scrivere: “La maggior parte delle persone si ammala per non sapere esprimere quello che vede e quello che pensa. Tutta la letteratura consiste in uno sforzo per rendere la vita reale. I bambini sono molto letterari perché dicono in che modo sentono e non in che modo deve sentire colui che sente secondo un’altra persona. Dire ! Saper dire ! Saper esistere attraverso la voce scritta e l’immagine intellettuale ! Tutto questo è quanto vale la vita: il resto sono uomini e donne, amori e immagini e vanità fittizie, sotterfugi della digestione e dell’oblio, persone che si dimenano come animaletti quando si alza una pietra...”. Ognuno troverà nell’opera di Salvatore Sottile ciò che il proprio personale modo di sentire ed elaborare potrà dargli. Dal canto mio, posso dire che la lettura di quest’opera è stato un caso, un amico che me lo propone. Ma, in un tempo di mezzo, in un cammino all’imbrunire, un refolo di vento può fare cade264


re una foglia in un luogo fortuito, fra cose pi첫 grandi.

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In quella particolare arte che è la nostra vita, gli incontri sono il sale della terra, il cacio sui maccheroni, acqua fresca in una giornata d'afa. Indeterminabili, e perciò stesso fuori portata dai calcoli dell'ego, restano al riparo di compravendite e affari, lontani da interessi di bottega, aria fresca e libera che rende felici e grati. É quanto è successo a questo 21 fiorini. Dapprima arriva Dino (Leonardo Vaccaro) che, veduto questi racconti, come il nibbio sul topo, se ne è subito appropriato. Qualcosa l'intrigava e, con la maestria che gli è riconosciuta, ha su267


bito prodotto il gallo che si specchia e il bambino che abbraccia il cane. Tesse la sua tela, frattanto, ragno insuperabile, coinvolgendo in un'impresa che ha subito avuto chiara il prof. Giuseppe La Rosa e il dott. Francesco Taormina. Ora che tutto è concluso e che le pagine riposano, le tavole di Dino illuminano mentre le parole dei due nuovi amici scavano nelle pieghe piÚ segrete del testo, ora, non posso che ringraziare della

loro

generosa

dedizione

questi

esemplari tre moschettieri. Da

parte

mia

non

ho

altro

che

quest'opera, che proprio come ad ogni 268


incontro vero, non mi è mai davvero appartenuta. Trissino, Dicembre 2015. Salvatore Sottile

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Questi racconti sono stati stampati in proprio nel mese di Marzo 2016 salgorgia@gmail.com

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