libero pensiero in caratteri filosofici
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Il mito in Giovanbattista Vico
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Indice
Ж Ж 1 1-1 1-2 2 2-1 2-2 3 3-1 3-2 4
Prologo. . . . . . Introduzione al pensiero e opere . Idea dell’opera dipintura e degnità . Idea dell’opera e dipintura . . Le degnità . . . . . Mito e fenomenologia-arte-il popolare Mito e fenomenologia . . . Mito arte il popolare . . . Mito e Filosofia-Storia e metodo storico Mito e Filosofia . . . . Storia e metodo storico . . . Mito-Illumuinismo-modernità ed Ermeneutica . . . . 4-1 Mito-Illuminismo-modernità . . 4-2 Mito ed Ermeneutica . . . Ж Verso le conclusioni . . . Ж Bibliografia . . . . . Ж Note . . . . . .
p. p. p. p. p. p. p. p. p. p. p.
4-5 6-23 24 24-35 36-65 66 66-81 82-94 95 95-114 115-129
p. p. p. p. p. p.
130 130-141 142-148 149 150 151-152-153
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Ж Prologo
Alla luce delle infinite metafisiche, dell'infinita ricerca che è e sempre sarà, in quest'ottica si inserisce il pensiero di Vico. Il retaggio religioso evidente viene superato non da un Dio morto, ma in un linguaggio che uccide l'uomo per farlo rivivere nel "Provare senza sentire". Probabilmente, a Vico, manca il coraggio nella figura di Eracle di sviscerare i miti di Euripide con "Eracle legato alla colonna” e quello di “Admeto e Alcesti”. Con questi miti ci chiediamo: perché Eracle si sveglia e non ricorda di avere ucciso i figli? Perché dopo essere andato nell'Ade e salvato Alcesti, questi col capo ricoperto da un velo nero, non ricorda? Eppure Eracle la riporta dal suo amatissimo Admeto; ma ormai sembra essere un'altra persona. Il fatto tragico inizia con la questione del tempo: il tempo della rappresentazione, il tempo della nostra presentazione a questa vita. La rappresentazione è comprensiva di un tempo “bombato” all'interno di un altro tempo; l'altro tempo e quello della presentazione, quello eterno dell'uomo ciclico, ripetuto in sé nei suoi mali, nelle sue barbarie. Questo è il tempo mimetico, quel tempo probabile di cui i greci forse, si resero conto e, in alcune parti lasciarono tracce. Ma ormai oggi, non è più il caso di parlare di greci e latini, è certo che al di là di ogni idioma linguistico una cosa è comune e sicura: la morte. Se non si muore non si può rinascere. Questo probabilmente è il vero messaggio comune a ogni popolo: imparare a morire. In
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questo, il mito è il più vero, muore e rivive in ogni momento, in ogni racconto, in ogni simbolo e figura. In ogni parola. L'uomo. La parola è mito. L'uomo è mito e parola. L'uomo è mito, parola, arte. In sé è in potenza l'arte completa, non ha bisogno di modernismi, di ismi all'infinito. “Nell'avvertire senza sentire” Vico si supera, ed è così che in fin dei conti, indica la “divinazione”, il divinare e prevedereprevenire, in un luogo comune. Luogo che sconfina nella comune matrice artistica di ogni popolo, in cui è proprio il carattere comunitario dell’anonimato, dove il soggetto è tale unicamente nel sapersi dire altro: “Che si dice”. Il dire proprio è come volere dire degli altri in senso di appropriazione.
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Il mito in G.B. Vico
Ж Introduzione al pensiero e opere
Con le pagine dell'autobiografia del 1725 si ha l'immagine d'un Giambattista Vico solitario, in contrasto con l’entourage culturale napoletano, e con il pensiero europeo dominante. Arroccato al tavolo di lavoro, combattuto dalla malattia che ormai da lunghi anni lo sta logorando; orgoglioso e indifferente, incline a raccogliere ogni elogio con estrema purezza. Una cosa in realtà Vico intende raggiungere, ovvero, accomodare lo studioso nella sua mente, e cercare di fare intendere il percorso triadico nel raggiungimento di quel fine estremamente razionale radicato funzionalmente sulla fantasia e nel sentire. Vico ama appellarsi "auto-didascalos”, nell'affermazione di quel suo sapere raggiunto in autonomia, quasi fosse una questione mitica, rivolta al tempo trascorso. La sua attualità si dimostra attraverso la polemica contro il cartesianesimo, il meccanicismo, l’atomismo. In età giovanile, appartenne all'ambiente dei napoletani "novatori”, che lottarono per una rinnovata società. All'epoca il quotidiano come mezzo informativo nell'Italia del sud non era ancora diffuso, per cui il
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confronto culturale era salottiero, o racchiuso dentro le mura della borghesia. Tuttavia
il
pensiero
dei
grandi d'Europa
non
tardò a
confrontarsi con i pensatori italiani; tant'è che divennero frequenti i confronti su Bacone, Cartesio, Locke, Spinoza, Leibniz, Hobbes. Mentre maturava la scienza
Galileiana, all'opposto
si notava
l'umorismo di Galeno contrapposto al meccanicismo cartesiano. Ma grazie agli studi archeologici di Paestum e Pompei, e a un rinnovato gusto verso il classicismo e alla semplicità, che molto si affiancava al Petrarca, nasce l'Arcadia. Tra le figure europee che maggior peso acquisiscono in Italia troviamo Cartesio e Gassendi, che con la visione meccanicista, si avvicinano a quella galileiana. Rinascere l'atomismo e l'epicureismo richiamando figure come Lucrezio, che avrà nell'ambiente napoletano
eco vastissima, ma
susciterà la pesante azione dei censori clericali, come autore che si richiama all'ateismo. Le accuse di eresia vanno a colpire i tentativi di ripresa dei temi atomistici ed epicurei. Così la nuova visione scientifica, da un lato si affiancava a figure come Epicuro e Democrito; d’altro come rinnovamento vi erano figure come Cartesio, Gassendi, Galileo. Dunque, il fermento culturale napoletano, come quello italiano, si prospetta come confronto millenario tra il vecchio e il nuovo, dove la visione dei nuovi reazionari si rispecchiava nelle figure già citate. Gli antichi valori non cedono il passo silentemente ai nuovi valori, per cui la coscienza nazionale, il dogma religioso, il feudalesimo, la ragione di Stato sono temi già avvertiti in ogni epoca. Alle classiche figure di
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pensiero come: Platone, Aristotele, Galeno, vanno ora a contrasto figure come Bacone, Gassendi, Cartesio. Si ricorda che alcuni decenni prima in Francia si accese il dibattito proprio tra "ancienne e moderne”, con gli eruditi Boileau e Perrault, dando il via in tutta Europa al grande fenomeno dell’Estetica grazie agli studi del tedesco Baumgarten. Dunque, il secolo dei lumi si presenta nel fermento più acceso: gli enciclopedisti
da
Voltaire,
Rousseau,
Diderot,
d’Alembert,
Montesquieu danno vita a quello che poi sarà uno dei maggiori tentativi storici di raccolta di tutto il sapere. Nasce L’encyclopedie, quando ancora l’ideale romantico di una Europa unita sotto il segno religioso, presta i suoi favori a correnti di pensiero che saranno poi il segno di tutta la disputa novecentesca tra il pensiero scientifico e poetico filosofico. In tutto questo marasma di fermenti,
la pretesa di una
rivisitazione del passato viene ad identificarsi con l’accantonamento del mito. Dove l’aspetto religioso con figure come Bayle, viene ad acquisire
connotati
ateistici;
dove
figure
come
Rousseau
prospettano il ritorno alla natura al di fuori delle regole didattiche in scritti come L’Emilio. Oppure Voltaire prospetta Il tempio del gusto, con il bisogno di rinascita di quel classicismo nei modi di vita; in Francia Bouhours ci tramanda il testo La manier de bien penser; o cosa l’uomo di gusto deve pensare, e soprattutto dire per esser detto e ammesso nel mondo di quel pensiero. Di tutto questo Vico sembra alieno: se del mito sembra quasi volerne il tormentato tramonto, l’Illuminismo, reca nel suo seno il 8
germe, non certo inconsapevole, di quello che tutto il novecento rappresenterà
in
arte
e
pensiero.
La
tormentata
società
novecentesca ne risulterà la prova: proprio nei miti, e in quelle circostanze che l’Illumunismo stesso alienava. Vico si presenta come “libero pensatore” e non certo come filosofo. Tanto che cerca l’aiuto della Filosofia congiunto alla Filologia; la sua è la posizione di chi si rende conto che gli anni possono portare a volte al ripiegamento religioso. Questa non deve essere scusante di comodo, tanto meno la componente mancante di un pensiero che in fondo dei lati di discussione li offre. Oggi riproponiamo il mito di Vico, in attesa di una millenaria risposta a una questione mai sopita, e che forse mai si sopirà. Già Aristotele in Retorica ci offre i motivi volitivi su questa millenaria diatriba. Perché sempre e ancora rapportati a prove etiche? Non è bastevole ciò che noi dimostriamo in ogni circostanza, ciò noi già cerchiamo di dimostrare? Dunque sembrerebbe ripetersi il problema tra la “doxa” e la vera “verità”. In virtù del fatto che forse non esistono verità ma possibilità? Probabilmente Vico si pone in tale versante, tant’ è vero che se il linguaggio diviene questione comune verso il suo carattere di convenzionalità, il nostro napoletano ne richiede la profonda matrice poetica dimostrando che la stessa convenzionalità è solo il mezzo trasmissivo convenzionale. Sarebbe oggi troppo greve confrontare Vico, oltre a quel che si farà, ad una rivisitazione della grammatica univerale saussuriana.
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Dunque, se la convenzionalità secondo il Vico, sarebbe un mezzo, la matrice poetica va a coincidere con quei caratteri etici di cui certamente i nostri gentili non erano a conoscenza. Su questo, il comune parere dei saggi è più che riscontrabile: sia Paci, Vitiello, Soccio, Villa nel rivedere gli scritti dello Iorga sul popolare e folklore ci riportano a questo (G. Villa La filosofia del mito secondo G. B.
Vico). Tuttavia, la questione spirituale ora, diviene elemento di confronto più che emblematica; dove l’uomo animale si confonde con il sé. Dove inizia la ragione, ma al contempo nella sepoltura e nei “loci”, si ricerca quella sapienza arcaica dell’ immortalità propria dei riti orfici. Posizione riscontrabile nel De antiquissima italorum
sapientia , e che Vico in parte abbandonerà, come cita anche il Battistini in La sapienza retorica in G.B. Vico, ma che mai abiurerà fino in fondo come componente di fondo del metodo che si prefigge. Il giovane Vico partecipa al dibattito, frequenta i salotti napoletani dove avvengono le discussioni sui nuovi orizzonti di pensiero; ma in fondo il suo è un atteggiamento di rifiuto. Già, come s’è accennato poc'anzi, egli se ne distacca, e se l'Illuminismo si pone come orizzonte di cesura sul passato e sui miti, Vico in alternativa ne chiede il ritorno, anzi il restauro. I materiali o i casi, come lo stesso Vico chiama i "contenuti reali della storia", menzionati nel De ratione, sono le realtà che andranno ad essere calate in quel progetto di coinvolgimento storico. I
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fenomeni dunque, avranno una loro elasticità nel rapporto con il carattere antico. D'altra parte proprio da tali frangenti, il nostro pensatore prende avvio, ovvero dal De antiquissima italorum
sapientia, dove intende arrivare e attingere parte della metodologia. Questa a dir del Vico, è una sapienza che radica le proprie radici in un sapere antichissimo o preistorico; un sapere che le tavole cronologiche di Scienza Nuova non menzionano, che va a collocarsi storicamente nella civiltà ionica, etrusca, egizia, e che vede figure come Ermete di Trismegisto , Pitagora, Empedocle, Platone. Se Vico vede la nascita di Roma come termine cronologico dell'inizio dei tempi, tale inizio in realtà affonda le sue radici in tempi che l'autore chiama barbari. Così i tempi barbari, secondo una sequenzialità logica, possiedono quei saperi di arcaicità che sconfinano nel vissuto, e che conseguentemente andranno perduti attraverso le eventualità storiche, sociali, culturali, psicologiche. Ciò che Vico chiede al moderno retore, è il riappropriarsi della sapienza arcaica attraverso l'analisi filologica delle “spezie”; giungere al certo storico-filologico, per poi spostarsi al vero filosofico. Il retore, dunque, acquisisce il vero potere attraverso questo progetto, dove il suo ruolo diviene fondamento su basi educative e del sapere. Il problema viene individuato sulle forme linguistiche, anche se Vico dichiarerà ripetutamente sia nelle degnità, sia nei capitoli di Scienza Nuova che “Il linguaggio non ha alcuna forma di convenzionalità nel seguire la natura poetica comune a tutte le nazioni, che scorre sul profilo della storia ideale eterna”.
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Il linguaggio così non è più convenzionalità, e se non è una convenzionalità che nasce su tali basi poetiche, la stessa convenzionalità è un mezzo; ma vi è la ragione nella dimensione triadica della teoreticità vichiana, che lo stesso chiama "finzione a sé stessi-simul fingunt credunque”, ovvero il rivelare e rilevare l'altro in sé, e l'espressione conseguente diviene un mezzo puramente fine a sé stesso. Secondo il ruolo retorico originario vichiano, l'uomo esercita un ruolo puramente etico; tant'è che oggi diremmo che la questione estetica ricadrebbe su sé stessa coincidendo con l'orizzonte etico. La questione che solleva il Croce sull'opera di Vico, è senza alcun dubbio fondata su motivazioni più che sostenibili; ma lasciando al periodo dei lumi nella figura di Baumgarten i primordi della moderna Estetica, si preferisce non affrontare il problema lasciando che sia il moderno retore, come lo stesso Vico richiede, ad essere il vero interprete, autore e regista di ciò che la teoria richiede: "verum et factum convertuntur”. Nella sua ricerca di far riaffiorare il carattere poetico delle radici, oggi potremmo dire che si genera un lungo lavoro di preparazione intellettuale, motivo per cui il Paci in Ingens Sylva (saggio su G.B.
Vico, Mondadori Ed., 1949) avvicina la figura di Vico ad un pregresso freudiano. Le analisi
ultime ci riportano ad una
interpretazione ermeneutica della teoria vichiana, dato il lavoro filologico richiesto sulla storicità dei materiali e sulla interpretazione storica, sempre seguendo che: "Le cose altro non sono che le modificazioni della mente dell'uomo in certi tempi e guise”. 12
Dunque, sembrerebbe il vero problema profilarsi attraverso l'orizzonte del linguaggio, come il Vico stesso sostanzialmente sostiene nel non correlare la convenzionalità linguistica come matrice, bensì come mezzo. Ma tornando alla discussione tra antichi e moderni, si diceva, che anche Vico prende posizione con i “novatori”; tant'è che la contrapposizione alla matrice cartesianameccanicista, verrà suffragata dalla visione organicistica con l'immagine dell’Idra, che è mozzata e riesce sempre a rivivere e ricrescere. Ben oltre, risulterà l'effetto organico dalle scoperte della circolazione sanguigna da parte di Harvey, con cui tutta l'opera
Scienza Nuova viene resa analoga. La provvidenza-previdenza è il fulcro per la comprensione della storicità attraverso il ciclo e riciclo storico, ben contro le idee di Cartesio, di Democrito ed Epicuro, assertori del caso e distruttori della provvidenza stessa. D'altra parte la nuova fisica cartesiana si erge sugli stessi principi di EpicuroLucrezio di mole, figura, moto; ed è incapace di dar conto alle realtà corporee oltre che spirituali dell'uomo. Così, il cogito cartesiano è affare prettamente psicologico, che di fatto apre la divisione definitiva al corpo e anima. La ricerca di individuazione del valore arcaico, indubbiamente è per Vico, quella verità filosofica che va a legarsi agli sviluppi della società moderna. Ma noi sappiamo che la genealogia ontologica poteva aiutare a ricostruire la genealogia filologica: infatti come si è già precedentemente detto, la genesi delle cose non è altro che la loro storia nei tempi e nei modi. Il canone del verum et factum è
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ampiamente vidimato con il fatto che il retore ricerchi le medesime arkè
di chi ascolta e apprende. Vico aderisce alla visione
dell'empirismo come uso strumentale in polemica al razionalismo cartesiano, ma la pretesa di instaurare una scienza in grado di dominare il mondo, fa sì che lo stesso acquisisca una posizione arretrata rispetto ai tempi centrali del momento. Infatti l'arcaicità resterà sempre tema di fondo. Secondo parte moderna di studi, sostanziale angolo di lettura ci viene dato dal non aver capito la riforma, nel tentativo di voler coniugare la propria filosofia con la teologia: tanto da non osare a sottoporre il mito di Adamo ed Eva alla sua critica. Al contempo vedremo, non osa egualmente criticare i miti degli eroi tragici in Eschilo, Sofocle, Euripide. In certa misura, il nostro napoletano, si pone come figura anticipatrice del pensiero di Hegel. Si può vedere in questo senso nel nostro autore, una proiezione umanistica conservatrice alquanto retriva; e se Vico fu un pensatore isolato per certi versi è più avanti degli altri, in parte ne dimostra l'arretratezza, non volendo più leggere e studiare durante gli ultimi anni, soprattutto autori di pensiero estero non conoscendo lingue straniere. Dunque Vico, è un pensatore arretrato e arcaico, ma che da un piccolo angolo di storia, riuscirà a elaborare una teoria non comune. Nel De antichissima italorum sapientia formula la dottrina del “verum et factum”, dove la verità non si affianca a quella cartesiana delle idee chiare e distinte, ma che da un certo filologico si avvicinano al fatto.
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La verità di una cosa consiste nel farla: sicché di conseguenza, la conoscenza piena della realtà è solo quella divina; quella umana è una cogitatio finita e imperfetta. Il mondo è una realtà di fatti, dove l'accesso alle regole non è consentito, ma solo una conoscenza certa e rigorosa. Con Galileo il linguaggio matematico geometrico sembrava l'unico a dar risposte alla natura, attraverso regole convenzionali e prestabilite. Mentre ora, con il verum et factum, esteso ai reali storici, si possono comprendere gli atti dell'uomo, ovvero tutto il suo costruito storico. Un mondo non certo composto da oggetti materiali, ma di azioni, speranze, terrori, linguaggi, minuti, leggi, istituzioni. In tal modo l'uomo non è uno spettatore passivo, anzi è il suo stesso mondo che può vedere dal suo interno. Dunque, l'uomo si racconta, recita, guarda il suo essere. Questi principi sono all'interno della mente umana e sono universali ed eterni; tanto che Vico eleva Scienza Nuova a scienza della metafisica della mente umana, dove la storia diviene la scienza di una nuova scienza. Tuttavia le questioni incerte, le difficoltà relative agli studi dei tempi arcaici della storia umana, non possono mettere in dubbio tali verità; infatti tutti i popoli arcaici divenuti moderne nazioni, sono sempre fatti di uomini. La storia avrà un carattere scientifico dove rinunci al ruolo di semplice raccolta di fatti; essendo contrariamente il complemento della filosofia. Lo studio di fatti storici, ora viene svolto con i metodi filologici, e attraverso l'aspetto linguistico, la ermeneutica si pone come possibile chiave di lettura.
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I fatti si susseguono nella storia attraverso modi e tempi, sicché attraverso la dialettica delle componenti, che tendono ad equilibrarsi, accadrà che uno squilibrio dialettico provocherà il ritorno al corso e ricorso storico. Non dimentichiamo, che questa circostanza trascende la storia ideale eterna; che resta secondo nostro parere, ciò che Vico chiama previdenza-provvidenza, o avvertire prima di sentire. La filologia, dunque, s’avvale del ruolo d’ indagine sui linguaggi, costumi, leggi, la guerra e pace di ogni paese, confermare e accertare il vero filosofico. Vico usa spesso il verbo "dovette" che si rispecchia in deve-dovrà, mentre ciò che “fu” è il “sarà”. L'autore, nel libro primo di seconda Scienza Nuova parla degli elementi, descrivendo il metodo delle degnità. Si notano alcuni gruppi fra loro connessi: tra la prima e la numero quattro vengono confutate le precedenti teorie filosofiche; tra la cinque e la quindici si hanno i fondamenti per la ricerca del vero secondo i dettami aristotelici attraverso l'orizzonte del necessario e dell'universale. Tra la numero sedici e la ventidue troviamo i dettami nella ricerca del certo secondo l'idea di Bacone. Vediamo così che al contempo, Vico si avvale della tradizione empirica e razionalistica. Il richiamo baconiano sembrerebbe quasi un rianimo euclideo con le definizioni, gli assiomi, che il napoletano chiamerà degnità. Non viene escluso neanche quello che chiama il metodo geometrico, con cui dal “vero” passa a immediatamente “vero”, attingendo ancora da Cartesio le questioni delle definizioni.
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Ciò che Vico chiede oggi al moderno retore, e a colui che si appresta a studiare la sua opera, è il mettersi in una forma di intendimento di pura ignoranza, come se a questo mondo non vi fossero mai stati filologi e filosofi. E pone la sua scienza come sintesi tra la storia e la pratica, tra i fatti e le idee, per un lungo e difficoltoso cammino nella violenza dell'istinto, nella fantasia accompagnati da uno stato voluto e razionale. La realtà si rivolge ad una questione genetica e alla sua storicità, fondata sul principio della ripetibilità degli stessi processi storici; e come si è già detto: "La natura di cose non è altro che la loro nascita in certi tempi e guise, che sono sempre tali, e tali nascono le cose". Il tema storico è strettamente legato alla visione del prevedereprovvedere, distinguendo tra la storia sacra è la storia profana; in tal senso Vico non offre ombra di dubbio attraverso la tavola cronologica. Gli ebrei, ci dice, non sono discendenti degli egizi, confutando tutti i tentativi di avvicinare la storia sacra con la profana; essi ebbero aiuti particolari da Dio attraverso la rivelazione. Affermando una tale posizione tra la rivelazione e le religioni, al contempo ammette intrinsecamente , la matrice poetica alla radice del primigenio linguaggio comune a tutte le nazioni, anche l’ebrea. Questo è uno dei luoghi in cui possiamo sollevare dei temi di discussione con il pensiero vichiano: da un lato si mostra l'indubbia matrice cristiano-cattolica; dall'altro canto, reinserisce il territorio del rivelato nel territorio poetico comune ad ogni nazione. Quanto detto, viene ampiamente rivelato non solo dal Croce, che pone Vico
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a fondamento della visione estetica moderna, ma anche da altri saggisti che in precedenza sono stati nominati. Nel periodo dei lumi abbiamo la posizione di Hobbes, Bayle e Machiavelli verso "il caso"; lo Spinoza con "il fatto". Vico si inserisce nel dibattito progettando in Scienza Nuova la “divina provvidenza”, come artefice e regista di tutti i fatti dell'uomo, essendo l'uomo il creatore di tutte le nazioni. Il concetto di provvidenza come qui esposto, in parte si inserisce nel concetto pienamente razionale del processo storico di ascendenza hegeliana. Con il fatto o azione storica, Vico intende respingere le confutazioni attinenti la visione di religiosità gentile e religiosità rivelata; tanto che gli accenti spinoziani, epicurei, di Bayle e Hobbes, ammettono l'esistenza di nazioni di natura atea. La natura poetica arcaica che origina le prime forme linguistiche, è uno stato naturale che intendiamo raggiungere, Vico lo indica nel De antiquissima come sublime sapienza e saggezza; ma al contempo accompagnata da razionalità, istinto violenza barbarica dei primitivi bestioni. Dunque, nel primo ciclo considerato da Vico, la barbarie è la componente che verrà vinta dai giganti gentili; mentre vedremo che nei successivi corsi-ricorsi, sarà la nuova barbarie a vincere sulla stantia barbarie. Tuttavia sembrerebbe evidente un paradosso: con l'inizio dei tempi la gentilità ha la meglio sulla barbarie con la nascita delle nazioni, dei linguaggi, di tutto ciò che poi sarà il materiale di tutto il processo storico visto da Vico. Ma nel corso e ricorso storico la barbarie vince sulla barbarie. Dunque, l'uomo perde la sua
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ragione, perde i suoi valori su cui aveva fondato il passaggio verso la gentilità e la nascente società. Da questa visione, occorre la funzione provvidenziale che al contempo si ponga all'interno del processo storico del corso e ricorso; ma che ne trascenda e che ne diventi sempre elemento di irraggiungibilità. D'altro canto, l'equilibrio instabile degli elementi, avviene sotto la supervisione della stessa provvidenza, e l'eccesso di una o dell'altra, porta allo squilibrio dello stato dialettico che l'autore intende raggiungere. Dunque, la barbarie in fondo è un bene per l'uomo, affinché riviva e ricordi lo stato di grazia poetico iniziale da cui l'uomo parte: "L'uomo, per l'indiffinita natura della mente umana, ove questi si rovesci nell'ignoranza, egli fa sé regola dell'universo”. La prima degnità è molto chiara, ogni qualvolta si perdono le unità di misura, non si può che buttare il proprio stato di uomo, verso quei caratteri universali che sono propri dell'uomo stesso, a fondamento del proprio processo storico. L'autore in tal modo, dimostra la ciclicità storica attraverso la dialettica dei contrari; resta da capire in che modo l'uomo nella prima barbarie ha affrontato la storia per giungere all'inizio dei tempi. Questi tempi tuttavia, restano esclusi dal quadro tracciato da Vico, perché già nell'uomo, benché bestione e fantasioso, vi era già in uso la sepoltura. Con Lucrezio si era già rapportati alle origini ferine; con Ovidio l'uomo alzerà gli occhi al cielo e si armerà di pudore verso gli dei, che nelle attività storiche saranno proprie degli inizi di società.
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L'uomo benché soggetto alla ferinità e dotato di "robusti sensi e robusta fantasia", ha una sola facoltà: l'uso della ragione. Si è tuttavia, nei confronti degli elementi naturali, rapportati ad un decoro personale. Ovvero, il coniugare l’inspiegabile al proprio sé, avvicinandolo per renderlo riconoscibile attraverso un canone che nella storicità diviene soggettivamente oggettivo; tale che il cielo, il fulmine, il tuono, vengono rapportati alle misure umane e alla personificazione, sempre verso l'ottica dei "luci", dove si ha l'ottica della vita eterna. Secondo il nostro parere Vico ci immerge nel corso e ricorso con cui ci rapportiamo al vero significato di vissuto storico. E se l'uomo avrà timore del cielo e del tuono, porterà la sua compagna all'interno della grotta per vivere i suoi atteggiamenti amorosi, tant'è che il matrimonio diviene la radice dei padri, accompagnati sempre dall'uso della sepoltura. In tal modo, secondo quanto ci dice Vico, nascono le civiltà nasce Atene e Roma con le repubbliche democratiche. Il ritmo storico tra i vari passaggi storici, non è che il ritmo della mente umana, e se un regista esiste nella storia, è proprio la mente dell'uomo. Seguendo il ritmo della propria mente, l'uomo attraversa le fasi come Vico le descrive: età del senso, età della fantasia, età della ragione; che corrispondono alle età degli dei, degli eroi e degli uomini. Ma l'uomo essendo nella sua arcaicità un essere rozzo e bestiale, al contempo "dapprima sente senza avvertire, di poi avverte con animo perturbato e commosso, finalmente riflette con la mente pura".
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In tal modo Vico attribuisce all'uomo i caratteri poetici delle prime forme linguistiche; tale che i miti non furono invenzione dei poeti o dei teogoni portatori di assolute verità nascoste. Questo vuol dire che l'uomo risale ad un sapere arcaico e a una sapienza riposta, dove non esistono invenzioni arbitrarie o travestimenti di verità filosofiche. Nel mito giace riposta la naturale primitiva fantasia dell'uomo, che si uniforma in una immagine collettiva delle prime nazioni gentili. Il nostro pensatore cerca di ricostruire la metafisica "sentita
e
immaginata"
attraverso
un
atteggiamento
completamente altro, rivolto al passato, dove nessuno può dirsi portatore di verità, se non accettando la comune natura poetica di tutte le nazioni. Così i materiali che verranno ricercati, saranno riposti del loro tempo con la dovuta interpretazione. Il secondo libro di Scienza
Nuova ricostruisce la cultura e l'istituzionalità dell'uomo primitivo con l'identificazione di mito e poesia, ponendo la sìnonimia con i termini poetico-mitico-primitivo. Da qui avviene la ricostruzione della fanciullezza poetica e sapienza arcaica, che inizia ad esprimersi nella metafisica, logica, politica, fisica, astronomia, cronologia, sempre politicamente e attraverso il “verum et factum”. I caratteri poetici erano universali fantastici, dove non esisteva nominare per analogia ma per coincidenza. Tuttavia, il predicato non era analogico rispetto al soggetto, ma ne dava la coincidenza. Il Battistini a tale proposito confronta l'immagine di Odisseo, tale che oggi diremmo non come saggio, ma è saggio. È vero che l'analogia
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proposta è greve ed indubbiamente paradossale, ma ciò, per dare possanza ideologica. Tuttavia, ci dice Vico, noi dobbiamo compiere un percorso a ritroso, dove i concetti, la ragione, la fantasia sono i punti di arrivo, e non certo i punti di partenza del complesso processo che l’autore si prefigge.
Qualsiasi
forma
di
vita,
qualsiasi
testimonianza
riconducibile all'uomo, qualsiasi mito, rito sono manifestazioni del vivere collettivo; come Minerva che nasce dal cervello di Zeus che Vulcano fendette con una scure, a rappresentare il mito delle contese eroiche, e Minerva come principio degli ordini civili, con Vulcano plebeo che rompe gli ordini civili attraverso la moltitudine dei famulì. Da qui le prime monarchie teocratiche, con la lotta tra Eracle e Anteo che rappresenta la lotta tra i nobili e il popolo ammutinato; con Nettuno-Poseidon a rappresentare l'inizio dei viaggi nautici. Come Minosse, gli argonauti, Odisseo, il minotauro, Perseo, Teseo sono i viaggi in cerca di nuove colonie. I primi popoli gentili "Per una dimostrata necessità naturale, furono poeti, i quali parlavano per caratteri poetici". Tutto l’impalco di pensiero vichiano ci porta sempre alla questione del linguaggio, che non avendo matrici convenzionali, e non essendo il prodotto di un’operazione dell'intelletto, ci riporta alla fase precedente la convenzionalità comunitaria linguistica. Vengono tratte,
in Scienza
Nuova, le matrici gestuali
comunicative arcaiche, come primordio della postuma fase fonica dialogica, simile ad una rappresentazione simbolica o geroglifica,
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che precede l'aspetto alfabetico come riscontro di convenzionalità. L'uomo in prima istanza dialoga per immagini simboliche che somigliano e comparano; poi con l’età della ragione nasce la lingua dei gentili, per voci e convenzioni popolari. Sicché favola, mito e metafora sono il prodotto naturale di una prima forma linguistica-poetica, e non il consapevole prodotto di elaborazioni letterarie. Vi era così, una visione diversa del mondo e della vita a cui noi siamo oggi abituati. Ciò che Vico ci chiede, è il re impossessarsi di questo stato di cose. Lo studio dei sistemi linguistici, dunque, diviene essenziale per la comprensione del passato, tanto che lo studio delle etimologie diviene importante per capire le cose. Il quinto libro è dedicato ai corsi e ricorsi storici, e Vico vede nel medioevo un'altra fase di ripetizione storica: ritornano le crudeltà, si accentuano le pene, nascono figure di santi che sostituiscono gli eroi, inizia la fase di sostituzione del latino con i linguaggi nuovi nascenti. Se nel primo corso-ricorso storico nasce la cronologia e si ha la figura di Omero, ora si è in presenza di quella di Dante. La ragione si corrompe dettando i ritmi verso una nuova barbarie che apre il corso di una nuova era civile. Ma questo è un cammino che non ha i dettami di immediatezza e spontaneità della prima barbarie, dove l'uomo era intriso di senso e fantasia. La barbarie è regresso della ragione nella sua corruzione, ma non senza speranza. Vico infatti ha fede nei dettami della divina provvidenza. La quale corrisponde a quel "avvertire prima di sentire", in un senso comunitario universale.
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1 Idea dell’opera-Dipintura-Degnità
1-1 Idea dell’opera-Dipintura
La dipintura con cui Vico precede "l'idea dell'opera", raggruppa in sé idee e concetti che attraverso immagini, simboli, geroglifici, ci porta nella totalità dei significati o in quei valori che ritiene trasmissibili sinotticamente. L'allegoria più evidente della dipintura è "La donna con le tempie alate che sovrasta al globo mondano [...] che è la metafisica”. Viene raffigurata come una donna che sotto al piede sinistro tiene un globo, considerando il mondo tutto e le cose corruttibili che soggiacciono come vili a questa scienza" (1). Ai tempi, l'uso di dipinture allegoriche in premessa a testi filosofici e letterari era in uso: basti ricordare Il nuovo organo di Bacone e il Leviatano di Hobbes. Il triangolo di luce con all'interno un occhio da cui parte un raggio, rappresenta la provvidenza divina, che viene contemplata in estasi dalla metafisica; al di sopra delle cose naturali. In Dio contempla il mondo delle menti umane per dimostrarne la provvidenza-previdenza, ovvero il mondo delle nazioni, formato da tutto ciò che la dipintura rappresenta. Si nota che il globo è sostenuto dall'altare ma in una posizione instabile; questo perché i filosofi fino ad ora hanno contemplato la 24
provvidenza solo per l'ordine naturale delle cose, dimostrandola così solo parzialmente. La parte più propria e intima dell'uomo, ovvero l'essere socievole, è ciò che questa scienza vuole dimostrare nella comunità delle nazioni. Il globo è cinto dallo zodiaco dove si notano i segni del leone e della vergine: a significare il peso dato alle figure di Eracle che uccise il leone incendiando la selva Nemea. Eracle dunque, rappresenta il carattere dell'eroe politico che riduce a coltura la selva, dando il principio di un tempo. Con i greci il tempo inizia con le Olimpiadi, di cui Eracle fu l'iniziatore e per dar festeggiamenti all'uccisione del leone e alla coltivazione dei campi. Si dà inizio così all'età dell'oro, ovvero il mito virgineo spigato, come tesoro o età che precede i primi poeti. Ciò corrisponde all'età di Saturno tra i romani, dove si ha una derivazione da "satis" ovvero seminare. Si dimostra che i primi uomini diventati sociali, benché ancora rozzi e molto semplici, dotati di robusta fantasia e auto ingannandosi, credettero seriamente agli dei. Questo, per dimostrare l'uniformità di questa scienza, successe a tutti i popoli; tanto che se tra i latini fu Saturno, nei greci fu Cronos (χρόνος), cioè l'iniziatore dei tempi. L'altare sotto il globo indica l'atteggiamento poetico verso il cielo, infatti i greci indicarono la sede degli dei nel cielo del monte Olimpo. La metafisica ha il cuore puro, che viene indicato dal gioiello convesso atto a riflettere la luce che dall'occhio della provvidenza si riflette sulla figura di Omero; benché i presocratici Zenone e Epicuro si appellarono al caso e al fato e non alla
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previdente visione. La statua di Omero è posta su una base marmorea in rovina, ma illuminata dal raggio riflesso dalla metafisica riprende vigore storico. Il problema così, si presenta come questione storica, filosoficafilologica, nel tentativo di scoprire un disegno ideale eterno, su cui si affiancano le storie di tutte le nazioni. Con lo scoprire il disegno di una storia ideale, e con gli strumenti mitologici e poetici, vedremo che le favole e i miti, non sono che storie di costume delle antichissime nazioni (gentili). Dei primi popoli sociali, in riguardo alla poesia, sosteniamo essere poeti teologi coloro che narrano le favole o miti degli dei; dunque, si mediterà su quali occasioni, necessità o utilità umana, i primi uomini sociali finsero a se stessi inventando gli dei. Così, vi fu una cronologia ragionata della storia degli dei, dove in realtà favole e miti furono vere storie degli eroi e dei loro costumi. Questo avvenne in tutte le nazioni; come in Grecia, in cui i poemi di Omero furono vere e proprie storie di eroi e costumi delle genti greche ancora barbare. Tale tempo durò dai greci fino ad Erodoto; dell’inizio vero e proprio del loro tempo i greci sanno ben poco, perché denso di nebbia. Tutta la loro storia ci viene riportata dai romani. L'inizio, in quest'opera, viene risolto nel raggio di luce della dipintura, che dall'occhio della provvidenza illumina Omero e tutti i significati conosciuti solo per il loro effetto storico da questo mondo di nazioni. Anche per Bacone la storia dei greci è conosciuta se non a cinquecento anni prima d’essi. L'altare della dipintura indica
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l'origine religiosa di tutti i popoli, la verga-lituo la preghiera-auguri per l'osservanza degli auspici. I latini dissero "divinari", da cui "divinità" e dunque: "avvisareavvertire”, distanziando il caso religioso ebreo come religione rivelata. Con prove filologiche si pone
inizio con il diluvio
universale; dopo sorgendo le nazioni sorsero molti dei. Il diluvio indica l'origine nella paura e nel terrore causato dai fulmini e dai tuoni. Sull'altare notiamo acqua e fuoco simboli del matrimonio ed elementi necessari alla vita. La seconda cosa dell'uomo fu il seppellire
da
"humando",
per
cui
si
ha
"humanitatis",
rappresentate dall'urna cineraria con l'iscrizione "diis manibus", che vuol dire “alle buone anime dei seppelliti”. L'urna accenna l'origine dei gentili con la divisione dei campi, da cui si originano le nazioni; così i signori della terra furono detti "giganti", che con ogni probabilità deriva dal greco “figli della terra” o “figli dei seppelliti”. "Dal qual punto di tempo antichissimo [...] Si incomincia qui la dottrina del diritto naturale delle genti [...] Con cui si dee guardar questa scienza" (2). Possiamo in tal modo distinguere alcuni principi fondamentali: il primo come principio primo che è la previdenza; il secondo è il matrimonio come momento originario sociale; al terzo abbiamo l'immortalità dell'anima che ha inizio con la sepoltura dei morti. Dunque i padri dei primi gentili, furono gli eroi che fondarono le nazioni, che coltivarono le prime terre conservando i divini comandi del Dio giusto; questo da "ius", "ious", da cui derivò giustizia. Il Dio giusto Giove comanda, e con gli auspici attraverso il “lituo”- verga, viene interpretato il suo volere. "L'aratro è poggiato
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sull'altare per intendere che i primi altari furono proprio le terre arate; è incurvato da "urbs” oppure "urbum"(curvo), ad indicare che le prime città si fondarono in campi colti" (3). I primi insediamenti sorgono tra i "luci" delle terre bruciate all'interno dei boschi. Nell'altare si nota il timone come simbolo dello spostamento dei popoli per mezzo della navigazione. In tal caso Vico, parla dei rapporti carnali tra parentato, dove non vi era conoscenza di divinità; tale che intende che col timor divino questo atteggiamento viene ad esser perso. Le prime città vengono dette "are", e il primo passo verso la fondazione delle nazioni è compiuto, considerando che le stesse nazioni si fondano sulla mente e sul corpo degli uomini. Vico chiama ora in aiuto la filosofia causa la contorta natura umana, tale che vengano eseguiti i dettami della provvidenza nell'ordine eterno: "[...] Che, nelle repubbliche, quelli che usano la mente si comandino e quelli che usano il corpo ubbidiscono"
(4)
. Il
timone simboleggia l'inizio dello spostamento per mare in cerca di terre vuote da coltivare e nascono così le colonie oltremare. Davanti l'aratro è posta una tavola con l'alfabeto latino antico, per indicare l'origine delle lingue dopo il divagamento ferino. Altre lingue nasceranno per lo spostamento marino, per le quali si vedranno diversi principi etimologici. "L’etimologie delle lingue native sieno istorie di cose significate da esse voci su quest'ordine naturale d’idee [...]"
(5)
. La tavola è rivolta verso Omero per
indicare la lingua greco antica nella tradizione. Sul fascio romano
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vengono indicati la spada, una borsa, una bilancia e il Caduceo di Mercurio. Il fascio indica i primi imperi civili come unione delle prime podestà dei padri, il cui comando era fondato sulla volontà degli dei; così, il fascio è formato da lìtui, con cui si celebravano il volere degli dei attraverso gli auspici. Dunque, i primi padri erano i sapienti, conoscevano le divinità e gli auspici; erano anche i sacerdoti che rappresentavano il volere divino, queste repubbliche furono le eroiche. Da questo nasce il diritto "jus quiritium”, con la distinzione tra i nobili che comandano e i plebei che ubbidiscono. L'intero pubblico nasce, così, dall'unione dei possedimenti privati e sovrani delle famiglie. Ma al contempo nasce la discordia tra il nobile e il povero, e molti terreni furono assegnati ai plebei affinché fosse garantita "La decima”(tassa per la concessione terriera). Nasce il censo come quello di Servio Tullio, che fu la pianta tra le prime repubbliche aristocratiche; al contempo i beni stabili iniziarono a divenire città. Da qui nasce l'erario, nelle future repubbliche in senso di "aes aeris” o di “denaio”, come denaro dato ai plebei per le guerre. Negli spostamenti si originano le colonie da parte di coloro che si spostano per mare. "Finalmente s’originano le repubbliche, che nacquero in forma aristocratica, nelle quali i plebei non avevano niuna parte di diritto civile" (6).
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In tal modo s’avvia la storia di Roma, come storia di uno Stato aristocratico, che con Tarquinio il Superbo si ebbe una pessima forma di governo dei nobili. Con Publio Filone lo Stato diviene popolare, e ispirò la legge "Petelia", che di fatto libera la plebe dal carcere, quando resta debitrice verso i nobili. Tornando ora alla dipintura, si nota la spada appoggiata al fascio, che rappresenta la forza nel mantenimento del diritto eroico; tale è la figura di Achille in Omero. Si scopre l'origine del duello con cui si rivendicavano offese e torti di origine giudiziaria. Si chiamava Dio a testimonianza e giudice di offesa e fortuna, ma le guerre non dovevano essere tali da spegnere il genere umano, perché finirebbe il concetto di previdenza-provvidenza. Si credettero le ragioni delle contese come sorta di dettame divino, dove furono credute necessarie. È una conseguenza logica di tale orizzonte come origine delle guerre: "Perché il genere umano riposasse sulla certezza degli Stati civili: ch’ è il principio della giustizia esterna, che dicesi, delle guerre" (7). La borsa sopra il fascio ci indica che i commerci iniziano tardivamente, dopo la nascita degli imperi civili. Le monete hanno origine dalle armi gentilizie, nell'intendere i diritti e le ragioni dei nobili. Da ciò nasce l'impresa pubblica e l'orgoglio di popolo, l'impresa militare, la disciplina. Nasce la moneta in ogni nazione, con i principi della scienza delle medaglie, e i caratteri che saranno poi tipici del blasone. La bilancia affiancata alla borsa indica che dopo i governi aristocratici-eroici, vennero i governi dell'uomo popolare. Intesa la ragione come vera natura umana comune, e
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non potendo mantenere l'uguaglianza con le leggi, causa le guerre civili per la popolare corruzione, si generano i "Principi del diritto universale" con Augusto; che deriva dalle leggi delle dodici tavole di Atene. Vico ci indica le tre forme di Stato che la divina provvidenza concede all'uomo: Repubblica popolare, monarchia, Stato aristocratico (8). Tacito negli Annali (IV, 33) ci indica “Le cause sono più da lodarsi che da potersi mai conseguire, e, se per sorta ve n'hanno, non sono punto durevoli". Vi saranno altri principi di altra natura da quelli sin qui ragionati. Il Caduceo-bastone, portato dall'araldo o messaggero per le trattative, indica il tempo eroico in cui l'uomo si trovava in conflitto con il simile, affinché le giovani nazioni vivessero dentro i loro confini. Questa scienza ha il compito, date le origini medesime di ogni popolo, di dare uguaglianza e costanza ad ogni inizio delle tre età: degli dei, età degli eroi, età degli uomini. Nell’età degli uomini tutti si riconoscono essere uguali nella medesima natura umana, e si riconoscono tre forme di lingue: la prima muta per cenni, dove erano naturali i rapporti delle idee che significavano. Le cose e la lingua, avevano un rapporto diretto di somiglianza, come asserito da Bacone nel De significate et aumenti scientiarum, dove i gesti erano paragonati a dei “geroglifici transitori”. Ma si vedrà nel secondo libro, che Vico affronterà il problema del linguaggio, dedicato alla logica poetica. Nella seconda lingua si parla per imprese eroiche, ovvero per immagini, metafore, somiglianze o miti. La terza fu la lingua convenzionale dei popoli delle repubbliche e delle monarchie. 31
Vico distingue tre lingue: "La geroglifica sacra e segreta, da non divulgare al volgo, che rappresenta le cose con un simbolo o geroglifici per atti muti affine alle religioni. La simbolica o per somiglianze, è quella eroica. La pistolare o volgare per gli usi comuni nella vita. Dando i principi sia delle lingue che delle lettere, si chiarirà l'errore sino ad ora commesso: “[...] ch’i filologi hanno creduto nelle nazioni esser nate prima le lingue, dappoi le lettere [...]; quando non si proverà nacquero esse gemelle e camminarono alla pari, in tutte tre le loro spezie [...]". Dunque, Vico, ci dice che la lingua e la lettera nascono al contempo
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, in modo tale che i primi popoli della gentilità, per
una dimostrata necessità di natura furono poeti. Tale asserzione verrà ripetuta nella degnità 44, che sarà la chiave di lettura di questa scienza; al contempo vedremo anche come Vico risolve il rapporto esistente tra il sub-strato mitico-eroico con l'arte. Sarà una questione consequenziale, di cui forse non si pose pensiero. Questi caratteri delle prime repubbliche gentilizie, vista la natura poetica dei primi tentativi di linguaggio, non possono che essere di genere fantastico, e dunque, immagini di idee, eroiuomini, formati dalla loro medesima fantasia. Gli stessi contenuti non sono analoghi, come verrà poi confermato, ma univoci; ma essendo le fantasie di uomini rozzi, con debole raziocinio, emergerà la vera natura poetica di sentimenti con grandi passioni; e dunque, rivestite di sublimità e meraviglia. Le fonti di tutte le materie poetiche sono la povertà del linguaggio e la necessità di comunicarli. Il linguaggio eroico è il
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succedente al linguaggio per segni o mutolo; così successero le lingue, i versi giambici, la prosa. Si spiega perché in Slesia tedesca contadina, nascono verseggiatori, mentre in Italia, Spagna, Francia i primi autori in versi. Secondo Vico, verso una chiusura dell'orizzonte linguistico, il vocabolario mentale si compone in prevalenza di queste tre lingue: con cui si celebrano le tre forme di governo conformi alle tre specie di nature civili. Notiamo aver proceduto nel nostro cammino con lo stesso ordine con cui si acquista una giurisprudenza. Ne consegue che la prima non può che essere stata di natura teologica-mistica, nel celebrare il volere degli dei. Il volere divino era rivolto al sapiente o poeta teologo, che fonda la società dei gentili, sapendo interpretare il mistero oracolare. La favola, il mito non sono altro che i voleri di questa sapienza: tant'è che poi, i filosofi, furono desiderosi di saperla apprendere per poi tradurla in altre cose filosofiche e saperne dare risposta. In seconda istanza troviamo la giurisprudenza eroica, scrupolosa nelle parole, dove l'eroe prudente fu Odisseo, da cui scaturì la "aequitàs civilis" romana, che noi poi chiameremo la ragion di Stato. Le leggi dunque, ancora non coincidevano con i valori universali causa la forza dei gentili sulla plebe; ma queste forze mantennero i privati interessi nei futuri regni monarchici di natura eroica. A tal proposito, Vico chiama come esempio Agostino con
De civitate, dove il bisogno primario di conservazione civile, viene celebrato dalle nazioni eroiche, sia in pace che in guerra fin dalle leggi Publilia e Petelia, ricavate dalle XII tavole di Atene.
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Alle tre tavole giuridiche, con i tre diversi tipi di giurisprudenza, succede la Aequum bonun, da cui si inizia una presa di coscienza all'editto del pretore romano. Adriano poi, emana L'editto perpetuo composto da editti provinciali, che va a collegarsi con ciò che dirà Varrone. Raccogliendo gli elementi fin qui descritti, affinché questo mondo di nazioni prendesse corpo: "I geroglifici della dipintura, il lituo, l'acqua e il fuoco sopra l'altare, l'urna cineraria dentro le selve, l'aratro appoggiato sull'altare e il timone dei piedi dell'altare, significano la questione divinatoria”. I sacrifici, le famiglie, le sepolture, la coltivazione dei campi e la loro divisione, gli asili, le famiglie appresso dei famolì, le prime contese agrarie, e quindi le prime colonie eroiche mediterranee, oltremarine con le prime trasmigrazioni dei popoli, avvenute nell'età degli dei egizi, è chiamato tempo oscuro da Varrone. Il fascio si diceva, indica l'insieme dei litui o le prime repubbliche eroiche, con il distinguo tra i tre domini: naturale, civile, sovrano. La spada sul fascio indica le guerre pubbliche a fronteggiare le città, causa le ruberie e i corseggi. La borsa significa le divise di nobiltà con le loro insegne poi rese a medaglie come prime insegne dei popoli, poi in insegne militari, in monete. La bilancia significa la legge uguale per tutti; il Caduceo significa le guerre pubbliche che finiscono in pace. Questi ultimi geroglifici sono lontani dall'altare, perché lontani dai temi eroici, dove vengono a svanire le prime religioni. La tavola alfabetica è posta tra i simboli divini e umani, tanto che le arcaiche religioni
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svaniscono con l'inizio delle lettere, da cui iniziano le filosofie, e Vico accenna ripetutamente a Platone da cui nasce l'aristotelismo. La dipintura sullo sfondo ha le tenebre, che indica la materia che questa scienza s'accinge a studia re tramite la tavola cronologica. Il raggio di luce della divina provvidenza che illuminata il petto della metafisica sono le dignitĂ , le definizioni, i postulati che la scienza s'avvale per entrare nel mondo che si propone di conoscere. Le cose che ci apprestiamo a studiare con i principi e metodo sono contenuti nel primo libro. Il raggio della metafisica colpisce Omero, che intende la sapienza poetica del libro secondo. Nel terzo libro viene chiarito il ruolo di Omero. Scoprendolo vengono chiarite le cose che compongono tutte le nazioni fin dalle loro origini. Nel quarto libro si ragiona del corso delle nazioni, che ai piedi di Omero ricominciano e ricorrono nella storia. Questo viene ragionato nel quinto libro, e dunque si avrĂ il corso e ricorso storico. Infine, tutta la dipintura rappresenta l'ordine con cui la mente umana si leva fino al cielo.
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1-2 Le degnità
Il materiale raccolto attraverso le tavole cronologiche necessita di un sistema di regole o di assiomi, che Vico chiama degnità. Tale metodo lo rapporta al metodo geometrico euclideo, oppure all'Etica di Spinoza, dove la postulazione assume importanza rispetto all'aspetto empirico dimostrativo. Grazie alle scoperte di Harvey sulla circolazione cardio-vascolare, Vico rende analogia al cuore; così, tutta l'operatività di Scienza Nuova è simile o analoga all'azione che il cuore svolge. È comprensibile, tuttavia, un ritmo di lettura, dove a volte grazie alla particolare metrica, ritorna sulla medesima similitudine. Avviene così nell'opera un'azione di animazione, che si svolge in ogni capitolo tra contrazione e dilatazione ventricolare. Tale azione è quella necessità mimetica di uguaglianza tra la totalità del genere umano e il corpo di un solo uomo, di cui possiamo richiamare l'orizzonte platonico dell'essere parmenideo (Parmenide). S’è pensato di trattare le degnità nella loro totalità, nella ricerca di un quadro oggettivo in relazione alla saggistica trattata. Pensiamo ciò, sia quanto Vico pensi allo stato di decadimento dell’uomo, e a quanto l’uomo dignitosamente debba rapportarsi, per dichiararsi “animale sociale raziocinante”(Aristotele). Motivo per cui il nostro napoletano s’accosta alla postulazione baconianoeuclidea, non disdegnando il geometrico sistema cartesiano. 36
“L'uomo, per l'indiffinita natura della mente umana, ove questa si rovesci nell’ ignoranza, egli fa sé regola dell'universo”. La prima degnità è tra le più importanti, in cui Vico già indica l'elemento storico che istantaneamente si ricollega al ciclo e riciclo storico; il metodo come vedremo più avanti, e frequentemente, è il dialettico, tra pre-veggenza, e sua mancanza o inattualità. L'autore indica il termine “indiffinita”: tale essere l'uomo portatore di Dio, e lo rappresenta. Va a significare che non può totalmente pensare Dio se non nella totalità di sé. In ciò l'uomo può anche errare, e dunque l'errore aggrava tale condizione. Così, se la totalità umana è Dio, non sarebbe comprensibile la dipintura nella comune origine delle nazioni. A tal caso Vico cita Tacito con La vita agricola, dove ogni cosa ignota provoca la fantasia in immagini e stupore. Medesima questione viene sollevata da Soccio in Penso dunque
invento(10) (11). Tuttavia, vi è solo lo strumento dei valori universali, nel superamento barbarico. L’uomo è conscio della sua scarsa conoscenza, le cose non conosciute le rende analoghe a un conosciuto mnemonico preesistente. Vi sarà, comunque, l’errore nelle nazioni e nei dotti riguardo i principi del genere umano. A ciò si richiama la supponenza di chi si crede di essere dotto, o di chi pensa di essere la prima nazione evoluta al mondo. Diodoro Siculo richiama gli Egizi, Sciiti, Caldei, Cinesi e di aver fondato il genere umano: ma Vico, indica il popolo ebreo come portatore di una verità rivelata. All’arroganza nazionale si aggiunge quella dei dotti, possessori 37
del sapere assoluto, alla sapienza antica inarrivabile citando Orfeo, come figura del primo teogono cantore dell’arcaica sapienza, e Pitagora. Bacone nel De sapientia verum interpretò varie allegorie e miti, come verità filosofiche; vedremo che
sarà figura di
riferimento, tanto che verrà menzionato varie volte per vari motivi. Nella degnità 5 si è in presenza dell'urlo filosofico, si richiama la filosofia al ruolo primario, per risollevare il genere umano dalla sua barbarie, e dalla sua corruzione. La nota 11 (12), non ha una nostra approvazione: se nel momento in cui con corruzione, non s’ intende la redenzione del peccato originale, giacchè si propone la conoscenza del mito attraverso la ragione dispiegata e non pura. Tale occasione si vedrà con Vitello analizzando Kant e Hegel, attraverso la Favola di Cadmo. L'autore porta ad esempio gli Stoici, perché inclini allo stordimento dei sensi, in eguale misura gli Epicurei. Entrambi negano il ruolo provvidenziale legandosi al fato, o alla morte dell'anima col corpo. Si hanno i filosofi solitari e monastici, mentre Vico richiama i filosofi platonici nella provvidenza, nella virtù e moderazione, e che l'anima sia immortale. Ma ripercorrendo i simboli della dipintura, siamo in presenza dei caratteri primordiali di matrimonio, religione, sepoltura, e il filo conduttore del napoletano segue sempre un profilo unico per ogni spezie e distinzione: dunque rivela la ricerca di una legge universale. In questo vi è un richiamo al ruolo della filosofia che non può che essere di pochi, nel rimando dell'ideale platonico e non della
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bolgia romana, e lapidaria fu la sentenza di Nerone contro i politici del tempo (Epistola di Cicerone). Se la legge considera l’uomo nell'umana società e nel suo agire, e con l'agire si può distruggere o migliorare la società, si può prevenire affinché vi sia una legislazione vicina ad un bene comune. Il carattere sociale, legale, dunque, detta la dialettica provvidenziale del metodo storico del corso e del ricorso. Le cose esistono solo nel loro corso naturale; ma l'uomo nella società vive nella disputa, di cui i filosofi si occupano da Carneade, Epicuro e Grozio. In tal modo siamo rapportati al diritto di natura o alla natura socievole dell'uomo; dove sembrerebbe alquanto debole il libero arbitrio umano. Vico si attiene alla retorica aristotelica, nella distinzione di certo e vero: non conoscendo il vero ci si attiene al certo, e la questione si sposta sull'orizzonte sociale, ovvero sul comportamento. Così siamo all'opinione: ma siamo alla questione tra scienza e coscienza che Malebranche solleva sugli studi cartesiani. In tal modo si ha il ruolo universale del pensiero vichiano sul materiale raccolto, tanto che l'umano arbitrio flebile, si accerta delle cose attraverso il senso comune con caratteri di necessità e utilità. Siamo così rapportati ancora al diritto naturale dei popoli, e l'arbitrio si rapporta nel determinarsi col senso comune, attraverso l'utilità e la necessità, come fonti del diritto naturale. Il senso comune è un giudizio in mancanza di riflessione; un sentire comune di un ordine da un popolo o dal genere umano; con analogia allo
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“spirito oggettivo” di Hegel. Cosa simile sarà vista con il Villa sugli studi dello Iorga sul carattere spirituale del popolo romeno (13). Il senso comune diviene provvidenziale: se questa scienza si propone come scienza comune a tutte le nazioni, e un senso comune deve pur esserci. Vico attribuisce al genere umano un dizionario mentale che genera le lingue. Dunque, se esiste un dizionario mentale esiste un rapporto dialettico interpretativo con l’apriorismo di Kant. Tuttavia, resta la netta divisione come si vedrà, tra ragione pura (Kant-Hegel), e la ragione dispiegata di Vico,
che
vedremo ripresa in Vitiello in La favola di Cadmo. Dunque tutte le nazioni vanno a generarsi in un comune senso, polemizzando con coloro che si arrogano la posizione di prima nazione o prima lingua. Si dimostra il diritto naturale dei popoli, come strumento della provvidenza nei popoli nella loro disconoscenza. Ma essendo inclini allo spostamento, tra i primi popoli, si genereranno vari sistemi linguistici e neologismi e nuove forme sincroniche, fermo restando l'aspetto diacronico peculiare. “Natura di cose altro non è che nascimento di esse in certi tempi e con certe guise, le quali sempre che sono tali, indi tali e non altre nascono le cose”, recita la degnità 14. Le cose nascono in tempi e modi non sempre fermi nel tempo variabile, seguono così la loro storicità. Ma riferiti a quei tempi e modi sono sempre tali: l’autore cerca di impossessarsi dello strumento storico per poi applicare mezzi e regole prefisse. Le lingue, gli Stati e tutti i soggetti qui studiati, sono casi delle modificazioni con le stesse cose, modi, tempi con cui sono nate. Lo
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stato iniziale non è più esso, seguendo la modificazione attraverso la storicità. E’ questo stato iniziale, che Vico intende raggiungere, seguendo
il percorso
medesimo
a
ritroso
mentale
delle
modificazioni; metodo che si profila sul filo della metafisica della mente umana e nella sua universalità. Dunque, lo stato iniziale è una tradizione volgare ed è una manifestazione di popolo; che, veritiera
in
quell'ambito
medesimo. Da questo nascono i popoli conservandosi nei tempi. In ciò, il nostro compito è quello di studiarne i motivi originari: motivi che col tempo, costumi, lingue furono traviati. In tali circostanze il linguaggio popolare-volgare testimonia gli antichi costumi dei popoli, e vanno a celebrarsi nei tempi medesimi che si formano. Le lingue nazionali antiche che riescono a conservarsi fino al loro compimento, sono testimoni dei costumi dei loro tempi. Le degnità sottolineano le prove filologiche dei linguaggi, dove per l'Occidente fu il latino, il tedesco, che contengono medesime peculiarità. Ora, riferendoci alle XII tavole che dettano le leggi e i costumi nel Lazio fino dall'età di Saturno, si ha la testimonianza del diritto naturale delle genti, che viene riferito nel De
costantia
iurisprudentis, seguendo sempre l’universalità del metodo fuori dai confini di ogni spezie. Attraverso l’indagine, Vico dimostrerà che i poemi omerici sono storie civili dei costumi e del diritto naturale delle antiche nazioni greche, dove viene evidenziata la figura del
filosofo nell'era
mitologica della storia greca ancor barbarica. I contenuti storici 41
vengono tramandati in quella romana, che Varrone chiama era volgare. Di fatto in Grecia, attraverso la filosofia avviene una accelerazione sociale; poi la romana, si estese da Romolo fino alle leggi Publilia e Petelia, nel cui intermezzo troveremo tutto il materiale
mitologico. Vico ipotizza una seconda era barbarica
avvenuta nel medioevo. Nel XII secolo, dove Pier Lombardo insegnò teologia scolastica presso Parigi, e all'epoca si favoleggiavano le imprese eroiche dei paladini di Francia. Secondo il Vico, la lingua francese sembrerebbe conservare alcuni tratti dell'antica ”attica” lingua greca. Tra le due lingue infatti restano tratti comuni come i dittonghi, prova come lingua barbara. Oggi diremmo dell'aspetto glottologico: ovvero quelle espressioni tipiche dell'apparato fonetico tra lingua e gola, tipico del linguaggio francese. In tali casi, si evidenzia la difficoltà naturale dell'accoppiamento tra consonanti e vocali, come la “R”. La nascente Roma allarga i confini sui territori delle popolazioni preesistenti, ma la sua, sarà una perpetua mitologia della storia eroica dei greci. Per tale motivo, Vico pensa che i romani furono gli eroi del mondo, continuando l'età degli dei dell'età greca, in tal modo il metodo di studio vichiano è consequenziale. L’autore insiste sul linguaggio come questione universale mentale comune a tutte le nazioni. Le diversità nascono dalle diverse modificazioni in tempi e guise. Sottolinea che questa scienza è questo linguaggio, con cui si potrà formare un vocabolario mentale comune. Si può pensare, il pensiero vichiano, alla grammatica universale di Ferdinand De Saussure. Fermo restando il chiarimento
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tra la convenzionalità e la matrice poetica comune. Esempio comune sono i primi nomi dei padri, frutto delle diverse proprietà di famiglia nelle prime repubbliche. Periodo comune in cui iniziarono a formarsi le lingue. Le degnità 1,2,3,4, confutano i principi delle teorie delle precedenti filosofie. Dalla 5 alla 15 sì ha il fondamento del vero sul filo dell’idea eterna che ci offre Aristotele, ovvero che la scienza deve essere universale ed eterna (Metafisica). Dalla degnità 15 alla 22 vediamo i fondamenti del certo filologico fondato da Bacone nel De interpretazione. Vico ritiene la storia degli ebrei più antica rispetto alle storie degli altri popoli, ma di fatto si astiene dal sottometterla alla regola. In tal senso il popolo ebreo ha una memoria storica più antica che risale al principio del mondo ovvero al diluvio universale, ma questo è parte del ciclo e riciclo storico della storia ideale eterna, di cui si accantona i significati. Essa si fonda sul divieto della divinazione, in quanto il Dio comanda: "Non avrai altro Dio all'infuori di me". Al contempo siamo immersi nel "Simul fingunt credunque”, come prima forma del nascente divinazione-divinare: sembra in questo caso che Vico si destreggi in modo arduo sulla questione. Il diluvio universale è provato astrologicamente dal cardinale D’alliac e da Pico della Mirandola, ma son prove incerte o false rispetto alle tavole Alfonsine (Alfonso X compila le tavole Alfonsine nel 1226-1284). Prima furono confutate dagli ebrei e ora dai cristiani, ma si dimostrerà, che all'interno di favole il materiale verrà trattato secondo questa regolistica e uniformemente. 43
Ciò che Vico chiama giganti sono l'esempio della variegata natura umana, come i patagoni dell'America del sud; ma cosa sono, chiediamo noi , i polifemi dell'Odissea. La storia greca avvia tutte le altre storie dell’ antichità gentilesche avvalendosi degli inizi del diluvio e dei giganti. Il napoletano s’avvale delle tre età di concezione egizia: degli dei, degli eroi, degli uomini. Nelle tre età si parlano tre diverse lingue: la geroglifica, sacra simbolica o per somiglianza; poi l'eroica e la pistolare o volgare degli uomini, per segni convenuti da comunicare i volgari bisogni della vita. I poemi omerici
descritti nell’ opera vichiana attraversano
cinque luoghi. In essi, Omero asserisce dell’esistenza di una lingua ben più antica detta degli dei. Viene citato Varrone per aver raccolto molti nomi di Dei, che sono poi, il rapportarsi con la natura nei vari bisogni umani. Con la degnità 30, e con le successive 31, 32 viene dimostrato l'inizio religioso di ogni popolo. Nell'attingere dal Machiavelli dai Discorsi (I, II), si dice che il mezzo per ridurre le guerre è il ricorso alle religioni, dimostrando la dialettica degli opposti; ovvero il ricorso alla guerra in mancanza di ragione e in preda a confusione. La provvidenza può fare anche questo: ovvero ricorrere alla guerra, per riportare gli equilibri. Dunque, resta un'immagine di ordine, attraverso la legalizzazione della guerra. Aspetto fortemente discutibile, ma che in fondo detta le condizioni della perdita della ragione nell'uomo. Al contempo ricorre a quanto dice Hobbes nel Leviatano, dove l'uomo è visto come un lupo contro l'altro lupo, se non ancor precedentemente a 44
Epicuro; al contempo si scaglia contro Polibio e Bayle sulla possibile esistenza di nazioni atee o senza religioni. Quando l'uomo non riesce a spiegarsi le cose neanche per analogia, le spiega avvicinandole alla propria natura, prendendo l'esempio della calamita innamorata del ferro, essendo non conosciuta la legge del magnetismo. Da questa analogia la nostra ricerca viene rigettata sulla prima degnità: "L'uomo rovesciatosi nell'ignoranza, fa regola di sé dell'universo anche attraverso le cose che non conosce". Come si è già detto poc'anzi, si ammette la dialettica dell'equilibrio tra bene e male, col bisogno d'un sapere scientifico. Ciò viene sostenuto da Soccio in Penso dunque invento,
del mito di Vico e oltre (14). Ci si accosta alla visuale di Bacone e Spinoza sul concetto di cattiva fisica e volgare metafisica, e sul concetto delle seconde cause, ovvero sui fenomeni reali che l'uomo vede. L'autore vuole sottintendere la volontà divina
intorno
a
tutto
ciò
che si
ignora(15). Al contempo si ha un riferimento a Tacito con Gli annali (I, 28), e si è rapportati alle cose spaventose, e tutto ciò che ad esse è riportato, dunque l'inspiegabile: ma anche le immaginate entrano a pieno diritto nel dibattito. La meraviglia è sinonimo di ignoranza; tanto più ci si meraviglia quanto più in noi cresce la sproporzione; nasce, così, l'aspetto scientifico come si diceva nella degnità 32 (16). Se fantasia e immaginazione sono inversamente proporzionali alla ragione, le questioni da sollevare sarebbero molte: ci si limita 45
alla distinzione tra ragione pura di stampo Kantiano con la Critica
della ragion pura, ricordando che con la seconda e terza introduzione della Critica del giudizio, Kant divide l'immaginazione dalla ragione con la distinzione di “noesis” e “noema” (cosa che Husserl ampiamente rivedrà nella fenomenologia). La distinzione di ragione pura e dispiegata, è momento di distinzione in Vitiello
(17)
: che ammettendo proprio il limite nella
ragione, ammette il mito ancor prima della ragione; tanto che il vivificarlo vuol dire riammetterlo nella barbarie. Da un lato, Vico evita il terreno difficoltoso della infinita rathio, al contempo non può che aprire un ciclo dopo la chiusura di un precedente. In tal senso il pensiero vichiano anticipa la posizione di Kant, ma vedremo che nel processo storico giocherà di anticipo anche nei confronti di Hegel. Emerge la questione poetica, con la difficoltà di dar senso e passionalità a tutto, anche a ciò che non ha vita. Caratteristica tipica dei fanciulli che sanno vivificare tutto, per cui Vico asserisce che per forza di cose gli uomini, del crescente mondo fanciullesco furono poeti. Rileviamo emergere il rapporto immaginazioneragione; al contempo emerge la matrice immaginazione poetica nel linguaggio; dunque, una matrice non convenzionale ma poetica. L’autore nel riassumere il pensiero di Lattanzio Firmiano sulle origini dell'idolatria con le Divine istitutiones (I, 15): "Dapprima gli uomini rozzi attribuivano l'appellativo di divinità, sia per un principio di valore, sia per una semplice ammirazione di una attuale potenza, sia per i benefici ricevuti". L'uomo, così, non è ancora in grado di 46
distinguere i casi: con l'aspetto di verosimiglianza avvicinando tutto al sé, si ammette la nascita dell'idolatria, con immagini-simboli a rappresentare il Dio. Quanto è inseribile nel dibattito che fu tra iconoclastia-iconofilia, sorto nell'ottavo secolo, dopo il concilio dei padri di Nicea, e che in modo diretto si inserisce nell'aspetto estetico settecentesco nel caso Baumgarten. Nasce la scienza da curiosità e dal non sapere e che mai si saprà: e in quest'ottica Vico si avvicina alla figura socratica della continua ricerca. Un caso di meraviglia menzionato è quello del sole che nel riflettere i raggi sulle nubi, pone effetto ottico visivo non comune(18). La figura della strega è immagine di superstizione, ricordando che dalla degnità 28 alla 38 si hanno i principi della poesia divina e teologica poetica; dalla 31 si hanno i principi dell'idolatria; dalla 39 i principi della divinazione. Con la 40 si hanno i
sacrifici
delle
religioni con cui i primi uomini iniziarono i voti e a sacrificare le vittime umane. Con i Fenici vi furono i sacrifici in onore di Moloc, tramandati fino alle XII tavole di Atene: "Primos in orbe deos fecit timor”. Il timore fa sorgere i primi dei sulla terra, e ogni popolo lo fece per propria credenza. Questo vuol dire il sacrificio di Agamennone con la figlia Ifigenia, di cui Lucrezio parla: "Tantun religio potuit suadere malum”. La religione arrivò a tanto di male, rendendo il nostro autore analogia a Lucrezio, benché le analogie ancora molto più evidenti sarebbero quelle dei tragici greci. Ma in tale considerazione, i tragici, secondo la visione vichiana, appartengono ancora all'età degli dei, e non sono considerati.
47
Sulla questione del diluvio universale Vico non mostra avere dubbi: tant'è, secondo la teoria aristotelica, dopo il diluvio, non vi furono fulmini per molto tempo. A tal proposito il Nicolini parla di esalazioni secche sulla terra
(19)
. L’evidenza vuole di condizioni geo-
climatiche molto particolari a noi semi-sconosciute. L’idea di Aristotele in tal caso sarebbe ampiamente suffragabile; e oggi, tali condizioni sarebbero vivificate con l’informatica. Nella comune origine poetica delle nazioni, ogni nazione ebbe i suoi dei e i suoi eroi, con il simul fingunt credunque del diluvio universale che durò a lungo, il corso di tre generazioni da Noè, si avallerebbero le generazioni ebree, che andarono in uno stato ferino e divagarono per tutta la terra. Per la prima volta l'uomo si rapporta ad un elemento della natura che provoca terrore, ( come si è notato, le degnità
41 e la 42 sono radicate nella teoria
aristotelica). Ogni nazione ebbe il suo eroe Eracle figlio di Giove; Varrone storico antico ne nomina quaranta. Nei primi popoli vi fu un carattere eroico falsamente ritenuto di origine divina. Dunque, le nazioni nascono dalle religioni, ed essendo ancora selvagge non sapendo dell'esistenza di altri popoli, gli esordi furono per forza di cose comuni. Le prime favole furono certamente di cose civili e di motivi storici. Sicché il mito, in forma fantastica, esprime una verità storica. Se le prime nazioni nascono da un primitivo impulso religioso, ne consegue che i primi sapienti, come nell'antica Grecia furono teologi. Le degnità 42, 43, 44 stabiliscono
che
48
tutte le nazioni ebbero i loro eroi e dei: i loro esordi dunque, non potevano che essere poetici; la poesia fu divina, seguita da quella eroica epica riferita ai miti eroici. Ma l'uomo conserva nella sua memoria leggi e ordini della società, dimostrando così quanto già sostenuto in precedenza sulle dottrine aristoteliche: “l'uomo animale politico”. Tutte le storie barbare all'età della fantasia corrispondono una storiografia fantastica o favolosa, e tutto ha un significato: storico, civile, sociale; ogni cosa segue l'evoluzione in tempi e modi, e il cammino a ritroso che Vico propone è quello di ridare il vero significato ad ogni storia, mito, rito e occasione. La mente umana tende a uniformare tutto, è ciò che sostiene Bacone nel Novum organum; in cui l'uomo stesso conferisce alle cose ordine e regolarità superiori a quello che si riscontra. Vengono costruiti parallelismi, analogie, relazioni che in realtà non esistono (solo nella nostra mente esistono). Il merito è riferito alle favole, che in fondo sono una finzione, dove il vero poetico è un vero metafisico, e il vero fisico non si conforma, perché falso. Vico offre l'esempio del Goffredo capitano del Tasso, figura eroica a cui conformarsi. Con un primo approccio fenomenologico, insito nel Paci con
Ingens Sylva, i bambini iniziano l'apprendimento per analogia, si ha così un rapporto per somiglianza, e una prima volta nel nominare. Secondo le annotazioni delle tavole cronologiche, il Giamblico attribuisce al Trismegisto ritrovati necessari e utili degli egizi. Si può
49
pensare in tal modo, fosse teogono, in possesso di alcune conoscenze non popolari. Le degnità 47, 48, 49 danno i principi dei caratteri poetici come essenza delle favole, con il carattere di finzione decoroso nell'assumerle (47). La degnità 48 dimostra la finzione della nascita dei caratteri poetici generi universali fantastici; modelli di idee o ritratti fantastici. La 49 spiega le allegorie poetiche, con significati delle favole in modo univoco e non analogo, e Vico spiega la "diversiloquia”: giustificazione di fatti e cose attraverso un solo concetto. La questione tra soggetto e predicato, è rilevata sia dal Battistini che dal Soccio nei testi già citati nell'introduzione. I fanciulli hanno grande memoria e fantasia che è una dilatazione della memoria. Aspetto alquanto discutibile; il rapporto tra l'immaginazione resa unicamente a un allargamento mnemonico, e le immagini si dimostrano un denominatore comune della prima formazione del fanciullo. Poeti si nasce, dice Vico. Tuttavia, si può studiare e migliorare per essere buoni artisti: ma la poesia è dei poeti in modo naturale. Si vuol dimostrare che dai gentili nacquero le arti, dove i primi poeti lo furono per natura, con l’accostamento alle arti meccaniche e liberali in Platone, come più tardi in un Ugo di San Vittore. I fanciulli ripetono e imitano ciò che apprendono, mostrando che la poesia è un’imitazione di ciò che è utile e piacevole dei modi di natura. Si può anche dire che è un fatto reale. Analoga questione viene sollevata dal Villa con gli studi sullo Iorga, sulla questione spiritualità del popolo Romeno (mito, folklore, popolare).
50
Se gli uomini prima sentono senza avvertire, poi con animo perturbato e commosso avvertono, poi si riflette con mente pura. La degnità uno è la più famosa di Vico, ma ci sembra opportuno un accostamento con Husserl e la “epoché”, dove l’autore pone la distanza tra filosofia e poesia, tra passioni affetti e ragione. Gli uomini interpretano le cose dubbie e oscure secondo passioni e costumi, iniziando i canoni interpretativi mitologici. Dunque, viene richiesto l'intervento filologico, ermeneutico. Visione sostenuta dal Battistini, Soccio. Le prime favole dei primi popoli ancor preda alla ferinità, con il cambiamento di abitudini e costumi furono oscurate fino ai casi di Omero. I greci consideravano tutto attraverso l'aspetto religioso, pretesero di cambiare il senso delle favole avvicinando gli dei al sé. I significati furono così stravolti: la degnità 54 ci avvicina a quanto ci dice la dipintura, e Vico ci immerge nella visione storica del mito, e al vero significato che ha il mito calato nel suo momento storico. I mezzi dunque, filologici ed ermeneutici che ricercano il vero filosofico,” verum et factum convertuntur”. Viene sottolineata la sapienza degli egizi, che fu una teologia interpolata da favole. Nel tempo, i significati furono cambiati per pudore facendo emergere il significato mistico. Il mito, così, nasce dal voler conferire un significato ad altro già noto, ma con l'intervento del pudore, della vergogna, o dell’aspetto teologico. Dunque, i primi che scrivono sono poeti, sostiene Vico. Il linguaggio di conseguenza ha matrice poetica. Ma nasce dal fatto religioso, e così, i primi scrittori sono poeti e teogoni.
51
I muti a gesti rappresentano l'idea, quanto viene affermato da Bacone in De augmentis
(20)
, e vengono accostati simbolicamente i
gesti e i geroglifici come mezzo diretto espressivo, in mancanza di parola: nel Cratilo Platone solleva il problema del linguaggio
(21)
,
come Aristotele nel De interpretazione (22). Se i muti emanano dei suoni gutturali, mentre coloro che posseggono l'uso della lingua la pronunzia, siamo rapportati alla coincidenza tra l'atto muto e l'idea: nella mancanza di espressione della parola, l'unico mezzo è il proprio corpo. Lo spirito viene a coincidere con l'espressività corporale, medesima questione che solleva il Villa attraverso lo Iorga. Il verso eroico o esametro è il più antico, e nel corollario interno intorno alle origini delle lingue e delle lettere, lo spondaico è più tardo. Da questo, Vico conferisce una qualche conoscenza della letteratura poetica alle prime forme poetiche. Si suppone, di conseguenza, che i primi poeti teogoni ragionassero su questo. Continuando lo studio sui versi con il giambico, risulta il più somigliante alla prosa, ma è opportuna un’analogia con la tragicità, e con il verso giambico in uso. Nella classicità latina, Orazio descrive il giambico ne L'epistola ad pisones. Sappiamo che
è un verso
senario veloce all'esecuzione, usato molto probabilmente nei tragici, e nelle commedie. Secondo Vico si dimostra con le degnità 61-62, che le idee e le lingue vanno di pari passo. Con l'affermazione linguistica, si stabilisce l'instaurazione concettuale: dunque, il logos, inizia a rappresentare il mitos. Tale da reimmergere quei significati,
52
come asserito dal Vitiello
(23)
, nel processo dialettico della storicità.
Sicché, con la ragione si individua la non ragione, e non più l'innocenza platonica dell'orizzonte polisemico (24). L'uomo tende a prendere le distanze da se stesso; riflette per intendere il proprio sé: l'autoriflessione. L'autocoscienza è intesa come radice del linguaggio e il voler espletare il proprio sé attraverso il logos. Viene indicato il principio etimologico, dove i vocaboli “trasportati dai corpi e dalle proprietà dei corpi a significare le cose della mente e dell'animo”. “ L'ordine delle idee procede secondo l'ordine delle cose". Degnità molto nota, è considerata da tutti i saggisti qui visti. E’ l'invito che Vico ci porge: se la nostra mente procede nella sua fattibilità storica; è nella sua fattibilità interpretativa storica che i fatti vanno interpretati attraverso il metodo storico. Il metodo non è in se statico; ma elastico, armonico che si dilata e si comprime in un continuo ricercare l'esatto significato, e il certo filologico diviene fatto, quando il fatto diviene verità filosofica. Tuttavia, i mezzi sono sempre i nostri mezzi ermeneutici, ed il retore racconta, interpreta, registra. Oltre ad essere docente è insegnato, dove “verum et factum convertuntur” non è solo questione filologica-ermeneuticafilosofica dei materiali, ma è un fare vero e proprio. Il procedimento inverso che propone Vico, è tale che può essere reso analogo alla “epoché” Husserliana, dove il Paci in Ingens Sylva
(25)
vede dei
pregressi analoghi, lo Spinoza in Ethica avanza qualcosa di simile, ma si riferisce in generale al corso della storia umana.
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Prima l'uomo era nella selva, poi nei tuguri, poi nei villaggi, nelle città, poi nacquero le accademie. Secondo tale ordine Vico compie il percorso inverso etimologico nella narrazione dei linguaggi. Poi venne il substrato selvaggio contadino e tutto il corpo linguistico latino. L'esempio è di “lex”, che in origine era raccolta di ghiande, da cui si ritiene “ilex” e “illex”; si può pensare “aquilex”. Lo studio etimologico sembrerebbe rafforzato anche se Vico ripercorre Varrone con “legumina” e “lego”. Dunque l'ex, diviene la legge o raccolta di contadini come legere-legare fare un fascio di spighe. Nella questione evolutiva l'uomo prima bada a cose necessarie, poi all'utile, poi al comodo, dunque al piacere. Inizia così a dissipare le sostanze, e Vico, dimostra la dialettica degli opposti tra bene e male nel metodo storico. Se la previdenza detta le leggi nel corso e ricorso storico, la dissipazione delle sostanze indica la perdita di ragione. Il parallelo ragione pura e ragione dispiegata viene discusso dal Vitiello in La favola di Cadmo
(26)
. Ragione che si disperde e
rende possibile il ricorso storico; ma anche ragione incapace di sondare il territorio che precede il mito: e di fatto Vico tralascia questa possibilità. I primi uomini sono i giganti, in contrasto con l'aspetto evolutivo darwiniano. Riferendoci a Omero con Iliade e Odissea, vorremmo render caso al mito di Polifemo. Il gigante monoculare che scaglia enormi massi contro le navi di Odisseo, può essere l'immagine del dio Etna in eruzione, ma tornando ai significati dignitari, si ha la successione dei polifemi, gli achilli, gli aristidi, scipioni, alessandrini e i cesari. Poi i tiberi, caligoli, neroni, domiziani. Si hanno le varie fasi 54
della formazione dei primi nuclei familiari, fino alle moderne repubbliche.
Vico
inserisce
la storia
dei
latini
in
modo
trascendentale, richiamando la storia ideale eterna, con cui si hanno i principi, le decadenze, il risorgere, progressi, stati, finalità di ogni nazione. I governi si conformano alla natura dei popoli cui appartengono; va da sé che la scuola, le cose civili, i principi sono la morale. Dunque, il corso di ogni popolo, corrisponde al corso dei fatti storicamente accertati, tale che morale, fatti e principi di quel popolo sono la stessa storia, dove la prima forma sociale è la famiglia, e dal raccoglimento dei primi nuclei si ebbe la coltivazione dei campi, le colture. Con costumi e abitudini cambiano nel tempo anche "La mente dell'uomo segue tempi e guise", e l'aspetto storico nella successione storica dei fatti avviene per gradi e in un lungo tempo. Posto che ogni nazione, nel comune atto di nascita, nasce dal culto di una divinità, i padri dei primi nuclei aggregati furono sapienti, in quanto a sacrifici auspici della benevolenza divina. I primi re, furono così, i portatori delle divine leggi o voleri divini. Per tradizione si crede i re lo fossero per natura, in quanto i più degni, ma ciò che Vico vuole dire sembrerebbe il senso di cui sopra: teogoni, poeti, re. Se i detentori del potere erano i sapienti, viene chiamato in causa Platone con la Repubblica, dove i filosofi regnavano o i re filosofavano. Con molta probabilità l’autore pone attenzione ai viaggi di Platone a Siracusa dall'amico tiranno Dionigi, che avanzò la
55
pretesa filosofica. Ma Vico, chiarisce una cosa fondamentale: teogoni e regno erano riposte nella sapienza non filosofica, ma di volgare legislazione; tantè, poi, in tutte le nazioni i sacerdoti furono coronati. Dunque, la prima forma di governo fu la monarchia, e le nascenti nazioni fondate sulle famiglie rette sull'imperio monarchico, furono soggette alla figura divina. I rapporti sociali furono una conseguenza di "Simul fingunt credunque”: dopo i patriarchi, da padri principi, ricevettero il mandato monarchico di reggenza dalle leggi delle XII tavole di Atene, in cui non vi era il potere di vita e di morte sui figli. Dunque dai famolì dal ferino vagare per territori, nascono i primi nuclei che cercano riparo nei tuguri per timore degli dei, da cui nasce il pudore, come le prime forme linguistiche nascono per utilità o bisogno. Una volta ereditata la terra dei padri, il figlio ha l'obbligo della coltivazione per sostentamento
(27)
; "Tutto ciò che
acquisisce il figlio è del padre", con gli eroi come veri amici dei plebei, nelle città e nei principati. Dalla civiltà e vita sociale l'uomo acquisisce benefici, essendo naturalmente votato alla ragione e all'utile, non è improprio l'accostamento con Aristotele sull'uomo come animale sociale e politico. Chi semina virtù acquista virtù, sembra dirci Vico: ma solo per necessità o utilità si vende, e il feudo, viene descritto con le degnità 80, 81, che i romani chiamarono “Beneficia”. Con la nascita delle prime nazioni, con le coltivazioni e la nascita dei primi feudi, con il bisogno e l'utilità si hanno le
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"clientele" e i "clienti": i vassalli. Dalla degnità 70 come abbiamo visto, ci sono i principi delle repubbliche; in particolare la 80, 81, 82. Le repubbliche vengono a generarsi per necessità in modo aristocratico, i padri delle prime famiglie si uniscono tra loro per resistere ai famolì ancora ammutinati. Ma per ridurli all'ubbidienza, vennero concesse loro delle terre ancora incolte. Dalla concessione e dall'imperio di chi concede, scaturisce l'imperio sovrano civile del re. Da qui si ha il patrimonio privato e quello pubblico, l'ordine dei pochi che comandano e la moltitudine dei plebei che ubbidiscono andando a generare i soggetti politici. Con la concessione della terra degli eroi ai famolì, si stabilisce la prima legge agraria. Questa legge andò a distinguere tre domini con tre spezie di persone: il bonitario, i plebei, il quiritario, grazie alle guerre, dopo i plebei. Vi furono così, il nobile, poi i padri: stabilendo la signoria come sovrana potestà nelle repubbliche aristocratiche. Vengono menzionati i libri politici di Aristotele nelle divisioni delle repubbliche, in cui i re amministravano la legge, le guerre, ed erano i capi di religione. E’ ciò che accadde con Romolo e con Teseo, raccontato da Plutarco, con i latini re delle cose sacre “Reges sacrorum”, e in loro mancanza vi era il re araldico. Vico cita spesso i libri politici di Aristotele, secondo cui nelle antiche repubbliche non esistevano leggi a fronte di offese e torti privati. Se tra i barbari non esistevano leggi in questo senso, vuol dire che vi era in atto un processo di cambiamento sociale. Tuttavia, forza e barbarie necessitano per la nascita delle leggi stesse.
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Riguardo i nobili, con il sentimento di inimicizia verso la plebe, vengono messe in evidenza le condizioni degli schiavi, soprattutto il sostegno a proprie spese delle guerre. Troppe guerre sono un male; perché bisogna evitare la rabbia dei plebei; questo principio fonda la giustizia delle armi in Roma, fino a Cartagine. Ricercando la giustificazione della guerra, nel proporre un problema profondamente etico, nel manicheismo dialettico tra bene e male. Le repubbliche aristocratiche arricchiscono i nobili conferendo loro potenza; i vinti vengono privati delle armi, ad essi è chiesto un tributo, lasciando il conforto bonitario dei propri possedimenti. La legalizzazione della guerra e della sua necessità, in fondo è il mezzo plebeo di riscatto sociale, ma con il tentativo di giustificazione legale della guerra, si apre il confronto politico e dialettico per evitarla. Dunque, la competizione sociale nella giustizia è il mezzo migliore per fortificare le repubbliche, mentre Vico attribuisce tre virtù all'eroismo romano: il grande animo della plebe, nel volere le ragioni civili grazie a ciò che è tramandato dai padri all'interno dell'ordine dei giureconsulti, di altri e nuovi casi. Questa è questione molto intensa: i deboli vogliono la legge, i potenti non la vogliono; colui che ambisce le promuove. I principi, reggendo il comando dell'uguaglianza tra ricchi e poveri la proteggono. Dunque, vediamo che ci sono state e ci saranno delle contese nelle repubbliche aristocratiche. I nobili vogliono l'arbitrio sulle leggi e sulle regole: Pomponio giureconsulto narra che la plebe
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di Roma voleva la legge delle XII tavole con il
diritto incerto,
nascosto e arbitrario del re. Giacché i padri fondatori furono ritrosi nel consegnare le tavole, Dionigi D’alicarnasso, su informazioni di Marco Terenzio Varrone, sconsiglia il disprezzo della plebe. "È questa degnità medesima [...], da Augusto incominciando [...], i romani principi fecero innumerabili leggi di ragion privata, [...] E le potenze d'Europa dappertutto, [...] Ricevettero il corpo del diritto civile e quello del diritto canonico”. La visione del nostro autore è chiara, e pone Roma come radice del diritto civile e canonico. Se poi attraverso il processo storico saranno mali, o saranno una buona semina, si vedrà. Solo la dialettica degli opposti nel processo storico è il vero giudice. Benché Roma fosse il fulcro dei diritti, fu avara ai diritti della moltitudine,
non restavano che le armi per l'arricchimento
personale. Lo stesso Vico cita le guerre civili, tanto che fino al tempo dei Gracchi a Roma vi fu molto eroismo. Vengono distinte tre repubbliche: le aristocratiche, in cui le plebi nel desiderio di uguaglianza le diventano popolari, benché sia sempre presente il confronto sociale. Le repubbliche popolari nel tempo sono dei potenti, e si corrompono abiurando la legge. Dunque, l'anarchia, si impossessa della Repubblica nella sua sfrenatezza, dove esistono tanti tiranni quanti gli audaci e sfrenati. Ma la plebe si avvede del proprio male, rifugiandosi sotto le monarchie, Tacito legittima la monarchia, citando la romana di Augusto negli Annali.
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Nelle prime città formate dalle prime famiglie nelle repubbliche aristocratiche, i nobili sono i ricchi o signori, ma ancora non vi erano leggi. Aumentarono le masse della plebe con le sofferenze a cui furono sottoposte, ma i nobili delle repubbliche per preservanza convergono sotto la monarchia. Dopo il diluvio universale l'uomo abitò sui monti, poi calò nelle pianure, poi andò anche sulle coste, avvicinandoci a Le Leggi di Platone, in cui si parla di Strabone e delle figure mitiche dei titani Deucalione e Ogigi. Figure mitiche dei polifemi; che abitarono sulle grotte sui monti, riconoscendo una popolazione sul Dardano e la nascita di Pergamo, che diviene Troia o Ilo che poi diviene Ilio. Nella degnità 98 Vico parla della città di Tiro, prima fondata sull'entroterra, e poi trasferita sul mar fenicio. L’evidenza vuole il popolo ebreo e il mito di Noè, che, con l'arca, si fermò in Mesopotamia, dove viene fondata la prima monarchia, ovvero quella degli assiri, sugli autoctoni caldei; da qui la figura di Zoroastre, come primo re sacerdote e teogono. Le terre non furono abbandonate, perché tramandate dai padri, alcuna necessità giustificherebbe ciò. Nessuno deve essere indotto all'abbandono delle terre, in giustificazione della degnità delle colonie eroiche, sia per terra che per mare. L'autore indica il mito di Noè e le discendenze dei suoi figli, che dovettero fuggire dalle terre e dalle schiave ritrose: da quei tempi, dopo il diluvio in cui le intemperie fulminarono per la prima volta. Come da Ovidio ne Le metamorfosi, "L'uomo tremò di terrore di fronte al fulmine e al tuono”, dunque, ogni nazione ha il suo Giove, 60
trovandone la giustificazione, e mantenendo aperta la questione sul popolo ebreo, che non fu soggetto a trasmigrazioni ricevendo aiuti particolari concessi dal Dio stesso, come è già stato sostenuto nella degnità 8. I Fenici furono i primi navigatori del mondo antico, dando nascita alle prime forme di commerci e di utilità che può spontaneamente favorire la loro evoluzione. Siamo in presenza del riferimento a Psammetico che aprì l'Egitto ai greci. Il caso viene riportato nella tavola cronologica; anche la Cina riferisce Vico, aprì le porte ai Commerci, e con la navigazione, con gli spostamenti per terra si favorisce promiscuità linguistica. Oggi diremmo che si danno forma ai neologismi, se parlassimo di socio-linguistica. Si riportano alcuni casi: esempio la città di Napoli da “si- rena” e “siriaca” (caso molto discutibile). Nella città di Siri (Taranto) gli abitanti sono i siriti. Il Giambullari porta l'esempio del toscano, che deriva dall'etrusco, e che a sua volta deriva dall'aramaico o siriaco. Dunque i Fenici o Siriaci furono i primi navigatori del Mediterraneo, e con molta probabilità si fermarono sulle coste italiche. Tuttavia, molte colonie precedettero quelle greche, e molti linguaggi furono l'unione di altri linguaggi di colonie e di autoctonie. Sembrerebbe la supposizione di Vico facilmente accettabile circa l'esistenza di una colonia che precedette Roma, con Enea fondatore del primo arcaico nucleo romano. Tacito osserva le somiglianze tra il latino e il greco, al contempo ricordiamo che Pitagora insegnava a Crotone fondando la sua scuola.
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Circa la posizione profondamente etica in riferimento al sofista Dione Crisostomo (114 d.c.), Vico asserisce che la consuetudine è accettata ragionevolmente su basi etico sociali; mentre la legge, è la dimostrazione che l'uomo tende a perdere la sua ragionevolezza etica. Dunque, si è rapportati al diritto civile e al diritto di natura; nuovamente
Aristotele è primario riferimento con
"l'uomo
animale sociale e politico". Al contempo abbiamo i caratteri del Cristianesimo con l'immagine di Adamo creato da Dio, e Vico è in opposizione con i suoi medesimi assiomi: evita di esplicitare il mito di Adamo ed Eva, ma al contempo si inserisce nella trama della storia ideale eterna con il diritto naturale come dato della divina provvidenza. Il diritto è una conseguenza dei costumi delle nazioni in un comune senso, senza alcun esempio e alcuna riflessione. La provvidenza, per il nostro autore, è l'ordine naturale del diritto naturale. Si stabilisce ad ogni caso, il diritto degli ebrei, quello delle genti, e quello dei filosofi. Le dottrine iniziano con le materie che vengono trattate, e ancora Vico torna sulla storia di Roma, e alla fondazione delle città, in cui si dissero "gentes maiores” le casate nobili di antico lignaggio; quei nobili con cui Romolo costituì il Senato; con “gentes minores” si dissero quelle casate nate dopo di esse, fondate dopo la nascita delle città. Con gli Assiri-Caldei, Fenici, Egizi, gli dei furono dodici (δώδεχα), come ne “I principi del diritto universale”. Nei greci l'ordine fu: Giove, Giunone, Diana, Apollo, Vulcano, Saturno, Vesta, Marte,
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Venere, Minerva, Mercurio, Nettuno. I minori, che dopo arrivarono il periodo di Romolo, alla sua morte lo chiamarono Dio Quirino. Con la regola 106-107-108 si dimostra che i sistemi di Grozio, Seldeno e Pufendorfio mancano nei principi che quest’opera dimostra: il diritto inizia tra il confronto delle nazioni nate dalle genti maggiori. Gli uomini di corte idee pensano che il diritto si può spiegare a parole, nella ricerca dei principi del diritto e della definizione di equità civile, come diritto di probabilità. Richiamando la definizione di Ulpiano, non come diritto naturale e riconosciuto da tutti, ma solo da pochi che forniti di prudenza, pratica, dottrina imparavano le cose necessarie alla
conversazione nella società
umana. Il
richiamo di Ulpiano, va ad inserirsi nell'orizzonte della ragion di Stato. Il certo della legge precede l'età della razionalità spiegata; infatti la base delle leggi è la certezza, che deriva dalla forza impositiva, non certo dalla verità. Le degnità 109, 110, 111 costituiscono i principi della “ragione stretta” o equità civile, che dal barbarico particolare si allarga al diritto pubblico. Dunque, siamo rapportati a una interpretazione rigorosa della legge: "Lex dura est; sed scripta est". L'intelligenza vuole come diritto tutto ciò che è utile ad una causa, e dalla degnità 109
a questa, il certo filologico ci porta al
vero filosofico, infatti nella 113 viene detto: "Lume e splendore di che ne illumina la ragion naturale” con i giureconsulti usando dire “verum est” per “aequum est”.
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Equità e ragione umana spiegata è una pratica in cose di utilità, con la sapienza come scienza nell'uso delle cose come sono in natura. Vediamo due fasi in cui si manifesta la ragione: dalla “stretta” della regola 109 e 110 si passa alla “benigna” della regola 114, che viene regolata dall’equità naturale. Le scuole di equità naturale generano i filosofi, con la provvidenza-previdenza a ordine del diritto naturale. Le nazioni così, dal certo ed equo civile non possono far a meno; che equità naturale può essere schiarita dai filosofi. La legge a volte è dura da rispettare, ma le nazioni si serbano e ne hanno il diritto. Tuttavia, i tre principi in precedenza descritti nella regola 108 di Grozio, Seldeno e Pufendorfio dell'equità naturale, non considerano uno stato mediano comune a tutti i popoli, quello che dal ferino passa al civile. Si è notato che Vico nell’affrontare l’assiomistica, ragioni già in sé in modo triadico: i materiali trattati nei loro caratteri generici, non danno spazio ad alcunché di dubbioso nell’applicazione del metodo storico a ritroso. Le degnità ci offrono un profondo ritmo di lettura, a volte più blando a volte più accentuato. Si è pure notato che a volte Vico confonde le “spezie”; e si destreggia tra il carattere spirituale più proprio con il carattere psico-sociale. Ma la ricerca di una universale assiomistica applicabile ad ogni genere, è tale che il passaggio da un genere ad altro, lasci il metodo inalterato. Se ogni ciclo e riciclo storico si staglia sul profilo della storia ideale eterna, a ben dire di Vico, non può che avvalersi della metafisica della mente umana e di tutte le sue modificazioni. Così,
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se ritrosamente il tempo ne vuole cagione, il tempo medesimo ne giustifica ogni valore, benchĂŠ il nostro Hegel ne avesse decretato la morte.
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2 Mito e fenomenologia-arte-il popolare
2-1 Mito e fenomenologia
Fantasia e mito si mostrano nell'orizzonte di Vico come biunivocità tra il pensiero puro dell'idea, nel suo senso di modello e di vessillo. Tale plasticità platonica, si offre al senso che si avverte nel diventare creazione fantastica e mitica della memoria oscura. Attraverso uno schematismo del ricordo che si ripete, acquista una forma. Senza l'immagine, come mediazione del mondo, il pensiero non agisce nel mondo,
si
rifugia
nella
trascendenza
inesprimibile,
perché
diventerebbe simbolica, logos, mito. Il senso tuttavia, nel suo puro sentire è naturalità e animalità; ma anch’esso resta inesprimibile. Tutto ciò che è dell'uomo nel concreto e nella storia, non è pensiero puro, ma sintesi del sensibile che si avverte e distingue dalla pura animalità, diviene immagine che nella sua razionalità, forma l'idea e si esprime nel senso. Analiticamente distinguiamo il movimento di trascendenza che si immanizza, e l'immanenza che trascende. Ogni atto concreto contiene in sé i due momenti in uno. In primo approccio notiamo che sinteticamente l'immagine non è una verità, in quanto non è una sintesi logica; il suo senso è dato da categorie 66
visive, simboliche, fantastiche che danno il pensiero senza connetterlo alla sua espressione. Si pone come una infinità di approssimazioni, che implicitamente contiene, ma esplicitamente non mostra. La si rivela lasciando sempre l'alone di possibilità rivelatrice, e acquisisce il senso arcano e misterioso delle visioni e rivelazioni. Da questo, il senso religioso e mitologico della parola. La verità, tuttavia, si frammenta dietro l'espressività, si raccoglie in visioni e modelli, in idealità; perché se così non fosse il senso non avrebbe il suo senso. Il suo esprimersi per il fatto espressivo, è già un uscire dalla sua trascendenza, penetrando nel sensibile. D'altro canto la verità ha profonde ramificazioni: essa si offre nel suo operare nella sua legalità; la sua essenza metafisica, il suo contenuto scompaiono. Dio così, diviene la legge del trascendente della conoscenza. È così che Enzo Paci in Ingens Sylva (Mondadori, 1949) inizia gli studi sul mito attraverso un’ analisi dei fenomeni: la verità diviene un metodo, che per essere vista ed espressa in immagini e modelli, si suffragata di fantasia e mito
(28)
. Come la non
verità, l'immagine non è certezza, ha bisogno di sicurezza e fede; giacché può essere non fede, si ha la certezza di un mito, di un simbolo, di ciò di cui questi rivelano e nascondono. Nel dubbio, dunque, la fede acquista il suo valore; altrimenti non avrebbe senso. Proprio come l'immagine non sia una verità, ma vela il suo senso stesso nell'atto simbolico che lo rivela. Così essa non è portatrice di certo, perché nel dubbio posso aver fede; tuttavia, la disperazione e la fede si identificano nella sintesi immaginativa: diviene la possibilità infinita e inesauribile di verità e di certezza. L'immagine e il certo,
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dunque, nella possibilità della loro unione, attraverso la forma fantastica e non nell'unione definitiva, dettano il lungo cammino della loro fenomenologia. Tale cammino verso un progressivo loro avvicinamento all'unità, è la storia dell'uomo; dove l'immagine stessa si pone come elemento mediatore tra la storia e la sua civiltà. "Attraverso l'immagine è reso possibile la conversione dell'uomobestia in uomo civile, la conversione del senso nella ragione [...]. L'immagine che sta a fondamento dell'ingegno, [...] della topica, dell'arte, dell’oratoria. L'immagine che è la vera e propria forma iniziale dello spirito" (29). Già con l'oratoria si è in presenza di una forma formatrice, che persuadeva; ma l'immagine ha il compito di render sicuro l'insicuro e di trasformare la disperazione in fede. La sua funzione è di far divenire sensibile il pensiero, e l'immagine della parola acquisisce una funzione magica, come il tuono che diviene la voce di Dio. Dunque, l'oratoria appare come il possibile sintetizzo di filologia e filosofia, con l'immagine come legame del diritto, dove il giureconsulto è al contempo filosofo, drammatico, relatore. Ma il legame con il diritto è ben diverso, perché questi è legge, finzione, imitazione violenta; in altre parole è “parola”. Con questo motivo Orfeo e Anfione sono fondatori di città e civiltà, e per questo dice il Vico spesso in Scienza Nuova, il diritto romano antico è visto come un poema. La legge è un linguaggio fatto di esempi, un modello paradigmatico affinché persuada, venga compresa, sia obbedita. Così, l'immagine è funzione mediale e formativa come legalità in potenza, che cerca di
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dare una direzione verso una legalità morale; dove morale e diritto nascono dal mito, dal timore divino, poiché l'uomo crede in ciò che immagina. Per tale motivo Vico assegna all'arte, e particolarmente alla poesia una funzione pedagogica. Ben chiaro che con poesia intende immagine e mito. Vico conferisce alla poesia-mito tre gradi di conoscenza: "Di ritrovare parole sublimi affinché venga evinto l'atteggiamento popolaresco (si pensi alla natura violenta della bestia-uomo), e che perturbi all'eccesso, per conseguire il fine, ch’ella si ha proposto, di insegnar il volgo a virtuosamente operare [...]". Nel caso si richiama all'attenzione ciò che Tacito dice: “Fingunt simul credunque” (30). Il fenomeno logico da cui deriva la religione è chiaro, non vi è alcun dubbio la radice mitica e immaginativa con il diritto a sostegno. Dall'immagine, nasce il timor di Dio, con esso la civiltà: ricordiamo l'immagine in Scienza Nuova dei giganti di cui fu sparsa la terra dopo il diluvio, ed il terrore di fronte al fulmine e ai tuoni in cerca di rifugio. Dunque, la ricerca di ordinamento in una società sono frutti del mito, della visione divina, e dell'azione mediatrice del mito stesso. Ma noi ormai sappiamo che il mito è immagine che esprime e nasconde al contempo la trascendenza: dietro di essa c'è il terrore di Dio. L'origine rappresenta la trascendenza nella verità del senso, quanto più parla per linguaggio animato e per finzioni credute, tanto più nasconde ciò che è dietro; il trascendente è forte e produce terrore: il terrore del tuono è altamente persuasivo perché è voce di un Dio tremendo inavvicinabile e incomprensibile.
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Le leggi derivano la loro primigenia autorità dal loro arcano religioso. Ora nel corso della progressiva razionalità umana, il superare la bestia che è in noi è legato al rivelarsi dell'arcano che è in noi stessi; la trasformazione del senso attraverso l'immagine che è poi la comune religione. Oggi possiamo dire che la dialettica dell'arcano, e della sua interpretazione, è la dialettica della società umana, ovvero l'opposizione tra ricchi e poveri, patrizi e plebei. Questa sarà la dialettica dei più forti, “Per cui i forti riveleranno soltanto a poco a poco il senso segreto delle leggi finché cederanno ai plebisciti [...] sveleranno il diritto, rendendolo noto alla plebe” (31). Oggi in questa società, ciò che fu l'origine arcano della legge si intorbidisce; tanto che già nelle repubbliche di stampo popolare la legge non è più paradigmatica, ma viene rivelata acquisendo il senso di universale. Chi comanda non esercita più per l'autorità data dalla conoscenza del segreto, ma diventano uomini coscienti; coincidono con la conquista della coscienza e della razionalità. Si può dire che dal “ Nosce te ipsum” nascono le repubbliche popolari (32). Questo non significa altro che il risultato è la legge dello sviluppo della storia umana come storicità, dove si identificano il fatto e il vero nel metodico operare dello spirito. Altro non è che la coincidenza della rivelazione con la verità e la razionalità del mito. Dunque, si comprende la dialettica del mito e della rivelazione. L'immagine essendo visione del mondo fantastico espressa nel sensibile, contiene ancora una forma universale di verità; che diventerà esplicita come filosofia.
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Tuttavia non è possibile conoscere se non sensibilmente, come da natura umana bestiale. I sensi sono la sola via di conoscenza delle cose; se esiste una verità dei sensi, il ragionamento è un collegamento di somiglianze o analogico, una unione di rapporti "I primi autori dell'umanità attesero a una topica sensibile, con la quale univano le proprietà o qualità o rapporti, per così dire, concreti degli individui o delle spezie, e ne formavano i generi loro poetici" (33). La logica dice Vico, nasce dalla parola, e non è possibile senza le immagini e i miti: l'universale fantastico è dunque una mediazione teoretica dell'immagine; "La locuzione poetica esser nata per necessità di natura umana prima della prosaica; [...] Come prima nacquero favole e universali fantastici, prima degli universali ragionamenti [...] (34). Metafisica e logica in un ambito politico, sono la dimostrazione della funzione mediana di mito e immagine rapportate all'aspetto epistemologico. Il mito rende possibile la scienza e l'umano agire, tale che Vico rende possibile e poetico tutto lo scibile: "Dobbiamo per tutto ciò dar cominciamento alla sapienza poetica [...] da una rozza metafisica, [...] si diramino per un ramo la logica, la morale, la politica [...]" (35). Il mito è funzione mediatrice non solo teoretica e poetica, ma in sé contiene nella sua sintesi immaginativa la radice di ogni sapere e di ogni attività. Dal suo senso nascono la logica, la morale, la filosofia e ne resta il fondamento. In realtà il mito permette di pensare la verità assoluta e insieme relativa, perché la legge del mito si presenta
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eterna e diveniente al contempo. E’ all'interno della storia e al medesimo fuori. Per tali motivi il mito è il fondamento del sapere e dell'agire dell'uomo. Se si attuasse il sommo bene, non avrebbe fondamento la legge morale, dunque finirebbe il mito e ciò che è umano. Dato che l'uomo non è immanenza o trascendenza ma il loro continuo attuarsi del trascendente, è così medianità. Vico immagina lo spiegamento totale della ragione, ma dice che in questo caso si annullerebbe. Infatti vi sarebbe l'assoluta identità della trascendenza con l'immanenza, ma coinciderebbe con la loro estraneità. Così il ricorso storico, basato sulla ciclicità storica, si pone in Vico come vessillo di indistruttibilità del mito stesso. Conoscere e agire è un trascendenza anche nella forma pura; se il senso verso l'idea è il movimento del mito che va verso la razionalità, mai sarà pura ragione. Questo avviene inevitabilmente dal nesso anima e corpo, dove la biunivocità immanenza e trascendenza attua l'uomo. Dunque: "L'uomo che cerca se stesso, egli fa sé regola dell'universo"
(36)
. "La
mente umana è inclinata naturalmente cò sensi a vedersi fuori dal corpo, e con molta difficoltà per mezzo della riflessione ad intendere se medesima" (37). L'uomo tuttavia, si avvede come bestia, poi come singolo, violento, poi il valore singolare diviene universale della sua persona stessa. Ma si badi bene che tale universalità non coincide con l'universale della ragione, bensì è il vedere la mente attraverso i sensi. Proprio qui, in tale meccanismo nasce la radice umana del mito. È universale, ma fantastico al contempo, con un carattere poetico.
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Secondo il Paci, il cammino che indica Vico è questo, un ideale storico dell'uomo che dall'animale passa ad una personalità costruita dalla sua stessa conoscenza universale e dal suo operare universale. Tale principio non può che unire tutti gli uomini in un solo uomo come fondamento della storia e dello spirito. Tale aspetto fenomenologico è per Vico la fenomenologia religiosa, psicologica, sociale. Su queste basi dei vari movimenti si articolata il mito, sulla sintesi di opposti come animale e Dio, di singolo e universale, di sociale e individuale. Quando l'uomo inizia a lasciare la sua posizione di animale, entra in rapporto con Dio nel timore idolatra; così Zeus è il principio idolatra e divinatorio a fondamento dell'orizzonte poetico. Nasce, tuttavia, dalla fantasia dei primi popoli, che conferiscono un orizzonte umano al fulmine di cui si avvede per la prima volta l'uomo animale. Tutte le nazioni ingentilite acquisiscono i loro dei, un corpo animato formato di infiniti corpi. “Gli altri corpi furono così gli altri dei figli di costoro, simbolo delle varie attività umane” (38). Pian piano l'uomo scende dal cielo degli dei e si riprende ciò che al cielo aveva delegato: agli dei figli di Zeus succedono gli eroi, simboli delle nazioni umane e dell'opera dell'uomo. La lotta di ogni eroe è la lotta contro la selva, per vantaggio della civiltà; una selva di caratteri poetici e di figure, che dettano l'esempio come Esiodo e Omero. Nasce così, la personalità cosciente di sé che si collega ad un dato periodo storico e sociale. Dunque, con l'esempio eroico, l'uomo ritrova la propria dignità e umanità; dove l'aspetto religioso procede in modo inesorabile dalla
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teologia all’antropologia. Il pensiero antropologico religioso di Vico, sembrerebbe preludere l'aspetto religioso di Feuerbach; ma un rapporto tra storia sacra e profana sarà considerazione di Croce sul pensiero vichiano. "Sembrerebbe infatti quasi che dalla critica biblica dello Spinoza il Vico avesse avuto incentivo alla sua, della formazione e dello spirito dei poemi omerici, e che, passato per tal modo dalla storia sacra alla profana, da Mosé a Omero. Si fosse poi ostinato a non ripassare a niun patto da Omero a Mosé" (39). La fenomenologia
vichiana nelle sue forme psicologiche è
basata su due principi: il primo, abbiamo già avuto modo di constatare in occasione del sentire il primo fulmine e il primo tuono: "Ciò che si avverte è preceduto da un avvertire inconscio", che va a rappresentare la parte naturale o il concetto fisico e biologico dell'anima. Dunque, è proprio nell’ inconscio che nasce la paura e il terrore che cercano una loro espressione. Tuttavia con grido, suono e parola, il terrore inconscio passa alla coscienza, diviene la radice sociale di visione e mito. L'inconscio diviene il dominio della bestia; si pensa e non "Dietro la spinta di violentissime passioni, ch’è il pensare da bestia" (40). L'uomo animale è dominato da libidine bestiale, la cui coscienza attua la nascita della civiltà con la sua espressione in un ordine, dettato da paura, dal timore divino. Nasce il pudore, dove il matrimonio diviene carnale congiungimento pudico, dettato dal timore di Dio. Vico ha l’intuizione che il timore di Zeus, è l'inconscio timore del figlio verso il padre, infatti avvicina la dialettica figliopadre con schiavo-padrone. Ma il figlio sarà padre e finirà di essere
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figlio. Egli sa che il mito è un'immagine collettiva poetica in una identità unica; un carattere poetico eroico in una plasticità psicologica. Da ciò il valore mitico e sacro degli elementi della natura come la terra l'acqua il fuoco il frumento (41). Così, inconsapevolmente, il simbolo mitico deriva dal magico valore del "Sentire senza alcun avvertimento"; in tal modo nasce la figura mitica di Cecere e di Proserpina, dove la terra è madre e i giganti sono i figli. L'acqua è una profonda necessità per la vita, la stessa che gli ebrei chiesero a Mosé nel deserto, che poi nei Vangeli diventerà simbolo di rinascita (ricordiamoci la fonte battesimale). Sicché l'acqua è quel simbolo attorno a cui nasce la vita e quindi le arti simboleggiate da Apollo;
mito
che
diviene
la
proiezione
inconsapevole
del
superamento della propria oscurità; segno di vittoria della scienza sulla violenta sensualità. L'uomo così, impara il senso della vita e seppellisce i morti perché nella tomba c’è solo il corpo: "Essa umanità ebbe cominciamento dall'humare (seppellire)”
(42)
. Vico studia il mondo dei primitivi in
modo particolare, rispetto al mondo moderno e civile: ricorre all'animismo e all’analogia, come a tutte le forme della topica, giungendo a concludere che essi agiscono in simpatia, una specie di partecipazione o di capacità simpatica. "In cotale guisa i primi uomini delle nazioni gentili, come fanciulli del nascente genere umano [...] dalla lor idea criavan essi le cose [...] per la loro robusta ignoranza, il facevano in forza di una corpolentissima fantasia"
(43)
. "Ma siccome
ora (per la natura delle nostre umane menti, troppo ritirata dà sensi
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nel medesimo volgo con le tante astrazioni di quante sono piene le lingue con tanti vocaboli astratti, e di troppo assottigliata con l'arte dello scrivere, e quasi spiritualizzata con la pratica dei numeri, che volgarmente sanno di conto e ragione) ci è naturalmente niegato di poter formare la casta immagine di cotal donna che dicono natura simpatica [...] Ci è naturalmente negato di poter entrare nella vasta immaginativa di que’ primi uomini” (44). Dunque, si riconosce una certa psicologia divinizzatrice in miti, ma al contempo egli stesso concepisce psicologicamente e in un modo mitologico le facoltà. È così che il mondo eroico, fantastico, e il razionale sono il mondo dell'umano. Non vi è una distinzione tra il conoscere e il fare, se così fosse, si ripercorrerebbe nel suo pensiero la stessa strada dei miti e delle visioni psicologiche. Diventano categorie come il pensiero umano che inizia dal mito ma anche dalla psicologia. L'orizzonte fenomenologico religioso è psicologico, a cui si lega il mito sono fenomeni sociali, che sotto il mitico terrore, diviene socialità di uomini razionali. È singolare il valore sociale che Vico attribuisce al mito; quasi come un raccogliersi intorno agli eroi a simbolo della lotta tra ricchi e plebe: quella lotta dell'uomo contro la grande selva, tipica della figura di Eracle. Vico edifica il proprio pensiero a simbolo del mito; egli, fin dagli albori filosofici è il primo che ne scopre il significato: dunque quella medianità tra immanenza e trascendenza, scoprendo bensì, che senza l'immagine nessun rapporto è possibile. Solo così si può scoprire, chiarire, vedere, intuire, sospettare.
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Ma nessuno dopo di lui, nessuna mente studiosa ebbe modo di attribuirgli il giusto riconoscimento filosofico, nessuno lo riconobbe come "alt vater”. Solo intorno agli anni 40-50 con Cantoni, ci si avvicina alla funzione mediatrice tra la scepsi del logos, la sua dinamicità, la certezza, la fede, la certezza come non verità. Ben al di là di tutti gli orizzonti percorsi da Cassirer, Bruhl, Tylor, Frazer, il grande merito di Vico è quello di avere scoperto la spontaneità del linguaggio come "sentire senza avvertire", che diviene atto muto servendosi di oggettualità simbolica. Questa fenomenologia è la stessa del mito, poiché il parlare è una creazione di atti e simboli; dove la parola è il primo segno dell'umano agire. Dunque, la sintesi di ciò che immane e di ciò che trascende. "Se il principio era il logos, vuol dire che era la parola e vuol dire, anche, da principio c'era e c'è la parola e il mito" (45). Ora, nello scoprire il ruolo del mito, solo indirettamente Vico scopre il ruolo dell'arte, infatti la sua visione estetica ha confini ben ristretti; benché il mito e arte offrono rapporti biunivoci. Il Fubini in
Stile e umanità di Vico, nel 1946 scrive: "E’ potuto avvenire che nel Vico sieno rimasti indistinti la poesia e il mito, la rappresentazione fantastica dell'universo, anzi che il problema della loro distinzione non si sia nemmeno posto in lui, il quale mirava piuttosto a distinguere l'universale fantastico dall'universale filosofico [...]" (46). È inutile chiedersi sulla distinzione mito, arte e poesia: è qui la spiegazione fantastica universale, la poesia che cos’è? Appare tuttavia, che il linguaggio è sempre poesia. Ma ha una sola natura
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fantastica? Se il mito è un merito, la parola è sempre l'espressione; ed in più, è lo sviscerare uno stato d'animo di una visione cosmica. D'altra parte
non si ha solo un universale fantastico ma una
mediazione delle possibilità oppositiva come l'egoismo e la morale. In un certo qual modo, il mito si pone come mediazione aprioristica con cui si concretizzano tutte le forme dello spirito, ma che le renderà autonome. E il linguaggio è mito ed è espressione, da cui nasce ogni conoscere e ogni fare, il linguaggio è fede e la nascita della storia, lo scrigno che conserva l'arte, la logica, la morale. Giacché il linguaggio diviene l'unica sintesi tra il passato che non è più e il futuro che ancora non è, rende possibile la vita degli uomini che dal passato si proiettano nel futuro. Ma resta sempre la distinzione tra arte e linguaggio, problema che Vico non risolve e che noi qui non consideriamo. Questo, considerando il fatto che anche l'arte è un mezzo mediatore della questione, alla pari di linguaggio e mito. Il Paci ci dice che il pensiero in Vico diviene ritmo, dove lo scrittore segue e partecipa alla storia dei giganti: "Ne derivano periodi segnati da necessarie pause del ritmo, che hanno una loro armonica unità, che vanno perciò considerati come vere e proprie strofe" (47). "La poesia nasce in Vico dall'esultanza per la scoperta di un mondo ignoto, [...] Come nasce dalla commozione e dalla gioia del comprendere, [...] Ma contiene la verità e l’essenza di quel mondo" (48)
. Giacché mito è mediazione di parola e pensiero, diviene poesia; in
essa si trova implicitamente il pensiero, in tale stile e ritmo sarebbe
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possibile ritrovare la verità del filosofo. Paragonando lo sviluppo dello stile di Vico con quello del Leopardi dello Zibaldone e delle Operette
morali, il Fubini ci dice: "Certamente in Vico la questione è ben complessa, perché si tratta dell'approfondimento di un pensiero sempre più posseduto è più sviluppato anche sotto l'aspetto stilistico" (49). Fubini esamina la prima degnità di Scienza Nuova: "L'uomo per l'indefinita natura della mente umana, ove questa si rovesci nell'ignoranza, egli fa sé regola dell'universo". Il significato di degnità è chiaro, dove il suo ritmo rivela ben altre verità; infatti Vico ha La mente ritmicamente tra l'uomo e l'universo: sicché la mente diviene medianità del mito, con un ritmo dato già dalle dignità nei quattro tempi. Il soggetto della frase come soggetto del pensiero e soggetto del sentimento. Dunque, la verità umana, è un continuo avvicinamento tra il remoto e il presente, tra ciò che è, e immane, e ciò che trascende. Insomma, in quel ritmo delle degnità che si dipana come uno stile nel principio di fondo della tragicità dell'uomo. Tragicità che nasce dal fatto e dal vero e dalla correlazione della sintesi degli opposti. Così il ritmo è ciò che si trova nelle dignità, in virtù del fatto che per Vico è la filosofia stessa. D'altro canto, questa è la dialettica dell'uomo e del suo dramma, dove il principio trascendentale coincide con la medesima struttura umana. Lo stile di Vico è drammatico, perché non esistono idee pari agli universali aristotelici. Solo idee plastiche che dettano i movimenti formali, che divengono orizzonti poetici, come gli dei e gli eroi. Sicché 79
l'uomo in Vico, è sempre all'interno delle regole universali, tale verità si esprime stilisticamente nella prima degnità che il Fubini esamina con antropoformismo. L'uomo, tuttavia, attraverso la sapienza poetica dispiegata in ragione, si pone nella centralità universale come uomo civile. Vico rimanda la verità implicita dello stile e del suo ritmo alla verità esplicita del dramma umano: movimento, musicalità, stile. "Come quattro respiri, segnati da forti pause, si dispiega il pensiero, che è racchiuso fra due termini antitetici, i quali essenziali della frase, uomo e universo, e che, per virtù di ritmo appunto, sembra svilupparsi a modo di un dramma, il dramma dell'uomo, che dalla ignoranza in cui si è rovesciato la sua mente, risorge, ricreandosi a sua somiglianza l'universo nella sua nuova sapienza, la sapienza poetica". Ben si vede, che è lo stesso soggettivismo di Vico che si traduce sensibilmente nel ritmo della frase, in quel contrasto fra il primo membro di sole due sillabe, "l'uomo", isolato anche sintatticamente dal resto della frase, e l'ultimo, solenne, di dodici sillabe, "Egli fa sé regola dell'universo", che viene a segnare la vittoria di quell'essere così debole è così potente, "l'uomo" (50). Passione, esistere, sentire senza avvertire, cuore inespresso, in Vico trovano una radice nella remota tradizione, nel latino umanistico, che è per lui mito, grandezza e decadenza: parola, accento nella struttura sintattica. Poi, dallo stesso seno mitico tra passato e futuro, nasce il pensiero filosofico con lo stile e la poesia. Allora il linguaggio si arricchisce di improvvise cadute, ma non lo stile;
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la lingua è sempre più vivace acquisendo cadute di ritmo: le sottigliezze esaltano la razionalità e la pura poesia. Dunque, latino e italiano si fondono in una nuova espressione, divenendo poesia o rimanendo nel seno mitologico. Si allargano le espressività popolaresche e i dialetti, dove l'espressione rara e inconsueta cede il posto ai pericoli del barocchismo, acquisendo sempre di più solennità e profetismo. È così che, salendo di ritmo, nel contenere perfezione epigrafica, i linguaggi mitici si concludono analogicamente l'un con l'altro. Dunque, cadute, slanci eroici, sentenziosità, oscurità e luminosità, manie etimologiche e allitterative, con la sua prepotenza, la sua imposizione, l'alternarsi di pessimismo e fede, non è che il mondo dei suoi miti come verità ed errori. Contrasto davvero singolare di umanesimo e romanticismo, a volte tranquillo e agitato, di genialità e grottesco, particolare finito ed infinito. A volte Vico richiama mondi lontani, misteriosi della tradizione ermetica italiana che va a sfociare nel neoplatonismo; e se un genio può essere avvicinato alla sua figura questi è Wagner: preso dai miti, dai rapporti più lontani tra ciò che è lontano e ciò che è vicino. Anch'egli proteso verso il passato a ritrovare il misterioso legame con l'avvenire. La musica di Wagner è mito che spesso diventa opera d'arte, ciò che mai raggiunge il pensiero filosofico. Ci sembra a volte, che il pensiero di Vico precorra figure come il Novalis, Kant, Kierkegaard, Hegel, o addirittura possa essere affiancato a Platone o a Lucrezio.
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2-2 Mito arte il popolare
G. Villa in La filosofia del mito secondo G.B. Vico, riesamina la posizione di F. Nicolini in Pegaso del 1920, dove viene rivolto un rimprovero al nostro napoletano per non aver distinto la fantasia pura-poesia, dalla semi fantasia-mito. Posizione similare fu quella del Croce, che come si è già accennato, annovera il Vico a fondamento dell'estetica moderna a scapito di Baumgarten. Ben sappiamo che ancor prima di Scienza Nuova, il Vico assodò le proprie scoperte nel
Diritto universale del 1720, dove troviamo il principio del "Verum et factum convertuntur” e “l'inveramento del certo” con la reciprocità tra filologia e filosofia. Ciò detto, nel Diritto universale si riscontra la critica sull'arte dell'orizzonte vichiano. Il riscoprire L'antichissima italica sapienza, che nulla deve ad altre culture, diviene un fatto di grande suggestione. Le favole e leggende nell'anima degli umili, che lo stesso Vico tutti dilettava e che in apparenza sembravano dell'arte, in realtà non potevano appartenere al mito, come bisogno e necessità naturale. Sicché i grandi poeti come Dante e Omero sono mossi da una forza interiore e non certo dal diletto. Se il Vico non accompagna l'arte soddisfacendola, secondariamente ci impregna dei moti misterici di accrescimento elargiti dalla provvidenza.
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È grande convinzione del pensatore che poeti si nasce mentre oratori si può sempre diventare; tanto che il poetare è cosa rarissima nei confronti dell'uso della ragione: "Nisi difficilius, certe non minori arte fiant poetae quam oratores"
(51)
. Dice la degnità 51: "In ogni
facultà uomini, i quali non vi hanno la natura, vi riescono con ostinato studio dell'arte ma in poesia è affatto niegato di riuscire con l'arte chiunque non vi ha la natura"
(52)
. Secondo il Villa il nostro Vico,
acquista i panni di critico d'arte attraverso gli scritti sparsi in tutta la sua opera. Dunque, il vero poeta è colui che attraverso un’idealità si riappropria delle sue origini; accantona il linguaggio prosastico comprensivo di giudizi logici e valori astratti; liberi la mente, affinché si riacquisti lo stato di grazia iniziale fatto di immagini immediate calate nel senso. Il Vico, tuttavia, rende onore ai tropi trovandone l'origine: "I tropi i quali si sono finora creduti ingegnosi ritrovati degli scrittori, sono stati necessari modi di spiegarsi di tutte le prime nazioni poetiche, e nella loro origine aver avuta tutta la loro natia proprietà. Ma poiché col più spiegarsi la mente umana si ritrovarono le voci che significava forme astratte, o generi comprendenti le parti co’ loro interi, tali parlari
delle prime nazioni sono diventati trasporti". Si ha una
divisione dei tropi, benché nella medesima coscienza. D'un canto, il tropo, è il mito sito nella coscienza con un significato diverso dall'arte, da cui prende le distanze; diversamente è lo stesso mito ma assunto come arte, e dunque una pura fantasia. Divisione e unione al contempo regnano nel pensiero del Vico nella riconduzione alla medesima causa.
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In tale orizzonte, ovvero, verso quali valori si staglia il concetto di arte è tra le massime scoperte di Vico. D'un canto, essa è solo degli spiriti colti, se molti sono chiamati, pochi sono gli eletti; e di frequente, si è di fronte ad autentiche opere d'arte nella totale mancanza di coscienza dell'autore. Oggi con il moderno e postmoderno, cerchiamo un'arte in grado d'essere intesa dalle masse, che sia in grado di rilevare ai livelli di altri tempi, in cui l'intero popolo capiva: un'arte popolare. Da queste contrapposte posizioni, secondo il Vico, ci si può solo salvare con la dottrina del mito come il linguaggio degli universali fantastici; dove le anime arcaiche erano immerse nel ventre politico. D'altra parte, questo è il medesimo linguaggio che nasce e si sviluppa nella colta società e nell'anima dei sapienti. In Scienza Nuova, il popolare diviene universale fantastico perché si sviluppa nella necessità e in un bisogno di manifestarsi. Termine particolare si mostra nelle eccezioni romene, secondo due diverse terminologie come "popular" e "poporan". Con ogni probabilità il Villa ci indica "poporan” molto prossimo alle significazioni vichiane (53). Il caso popolarità Romania si presenta nella sua unicità, dove la singolarità di vicende storiche fanno in modo che l'età divina eroica, venga a prolungarsi molto più che in altri popoli, dove l'unità nazionale acquista valore essenziale. Sotto questo aspetto è possibile accomunare il pensiero del Vico al caso Romania. Il popolare è linguaggio ricco di immagini e tropi, che consentono brevità espressiva e che nel caso poetico accentua la semplificazione espositiva di quel bisogno espressivo del sentimento. Così, si esprime
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per immagini e per ellitticità semantica immaginativa, respingendo ogni forma di diletto empirico, verso un diletto rigorosamente di natura spirituale. Attraverso la questione popolarità dell'arte, Vico media il rapporto biunivoco arte e mito. A tale proposito sono opportuni gli studi N. Iorga del 1925: La letterature populaire source de haute letterature, dove tenta di allineare sul piano di cultura universale, l'espressività arcaica-primitiva dello spirito romeno. Iorga svolge un ruolo filologico non sulle generalità problematiche, ma valutando su posizioni estetiche l'espressività parlata. Si ha una divaricazione con la poesia, e di fatto, non può essere oggetto di studi estetici, chiarendo concetti opposti in seno a ciò che s’intende come poesia popolare. Dunque, non tutto ciò che produce il popolo può essere oggetto di studi filologici, filosofici, sociologici; ma non si può, in certa misura, identificare l'arte popolare con il folclore. Al contrario, è ben delimitata da questi. Iorga cerca di arrivare a studiare il momento in cui nasce l'arte popolare, momento inconsapevole di luoghi comuni, dove possiamo trovare la matrice unitaria con cui ci si può avvicinare a Scienza Nuova. È indubbio che esiste un terreno comune impersonale verso un orizzonte collettivo, una specie di adattamento e adesione a un sapere pre esistito. Il folclore si esprime nella radice di questa inesplicabile azione unitaria, dove lo strato sociale non è incline a un’ azione spirituale introspettiva, ma si può facilmente avvicinare questa azione all'arte popolare, tanto che lo stesso Iorga dice: "Se l'arte popolare è creata per uno solo si adatta bene a tutti”. 85
Il saputo mitico che Vico invoca in Scienza Nuova, sembra adattarsi bene all'idea dello Iorga; ambedue dicono le scienze del libero pensiero avere un passo più spedito rispetto alle scienze della natura: e Scienza Nuova, si mostra scienza dello spirito, dove "verum et factum convertuntur" è la chiave di lettura. In precedenza si sono già visti alcuni riferimenti a Hegel, nel considerare la manifestazione dello spirito in modalità assoluta, realtà e occasione di una singola coscienza: da cui viene mostrato l'antinomia dove si dibatte l'arte popolare. Da un canto, si esprime nella genuinità del singolo nella propria personalità; altrimenti, ciò si riflette nella possibilità dell'assunzione di massa, dove ogni singolo sembra "preavvertire prima di sentire". Il problema è sicuramente di difficile soluzione, come l'arte popolare possa avere un carattere unitario; ma componente di non poco rilievo è il tempo a cui quest'arte resta legata: da una parte ogni singolo non sembra un semplice imitatore dell'altro, dove ognuno sembra essere maestro senza alcuna consapevolezza. Così si distende nel tempo senza alcun appiglio, e trova qualsiasi direttiva singola e collettiva. Il pensiero vichiano sembra la soluzione a tutti questi problemi, tuttavia, Iorga chiarisce ancora alcune cose: il carattere specifico non è da ricercare negli argomenti trattati, tanto che nel 1923 in L'arte
popolare in Romania, vengono sottolineate le differenze tra i vari caratteri popolareschi, tra folclore e ciò che sotto l'orizzonte arte non può essere. Ci chiediamo ora, cosa è arte popolare e arte; questo viene affrontato dal Croce in Poesia popolare e poesia d'arte, dove si
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sostiene un non senso parlare di poesia e arte popolare. Si nota che la posizione dell'intelligenza italiana è ben diversa dalla visione dello Iorga. Tale divergenza si basa sulla diversità spirituale che viene acquisita storicamente, e che probabilmente il popolo romeno ancora incarna. Possiamo oggi accostare questo stato di cose al periodo del medioevo, che risale al 1200-1300. Sembrerebbe quasi evidente che col mito è impossibile fare un accostamento con l'estetica idealista di Croce: se il mito come vuole essere il tramite espressivo del singolo che si riconosce nel collettivo, attraverso quale meccanismo Iorga si riconosce in Vico? Necessita ricordare che Vico chiama età eroiche o epoche ideali, rintracciabili nella vita dei popoli, e nel corso e ricorso storico, quelle solvibili solo sul piano fantastico, come situazione prettamente spirituale. Sappiamo che la conoscenza si risolve attraverso immagini, e se non c'è conoscenza non c'è consapevolezza, coscienza e spiritualità. Esiste una gnoseologia avvicinabile al mito, da cui tramite un meccanismo astrattivo, si trarranno i concetti, che mai saranno completa fantasia alla radice di ogni espressività. Ora, sembrerebbe la gnoseologia mitica la fondamentale scoperta del Vico, e le età eroiche consumano la loro vitalità sul piano della fantasia. Età, dunque, che esprimono l'unità spirituale a differenza dell’età colte. Nell'unità spirituale, il Vico ci dice nelle degnità, che l'uomo non ha consapevolezza di cosa sia poesia e cosa sia arte: non ha alcun sentore che la fantasia possa un giorno contrapporsi a certi valori, dove l'arte acquisisce solo una parte della vita spirituale. Se Eracle
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incarna il topos eroico eccellente, Vico radica la sua situazione spirituale nei dettami morali non astratti; li vivifica nei topos eroici in esempi, tanto che i termini eroe e poeta diventano sinonimi. Dunque, se tutta la vita è improntata sul piano eroico, è comprensibile come tale carattere sì commuti comunemente sul piano poetico. Tutti i popoli hanno una comune matrice poetica che viene intaccata dalla forza del tempo, attraverso le vicissitudini psichicosociali; così, si sostiene che il problema dell'arte-poesia popolare, dove il carattere eroico-poetico è alla base di ogni miticità, e che nell’età colta la matrice della colta espressione artistica. La necessità dello studio delle opere omeriche attraverso una visione filologicaantropologica, non considera il lato estetico dei documenti dell'età eroica. Verso questa direttiva, il mistero sembrerebbe svelato: se il lato estetico contrariamente a quanto sostenuto dal Croce non è considerato; il vissuto eroico poetico, come sostenuto dal Paci, non è che fenomenologico. In tale contesto dove non esiste una classificazione di atti, non esiste una classificazione tra anima e corpo: tanto che credendo fermamente nell'anima, lo spirito non può che manifestarsi unicamente tramite il corpo. Dunque, questi uomini sono tutto senso, ovvero anima-spirito. In una tale società non vi è alcun che di utilitario, la vita in sé, appare fantastica, ma che si sottomette a una severissima disciplina, quella del rituale armonioso dell'atto liturgico degli opposti. Se assoluta sottomissione alla sacralità, dove insorge lo spirito autenticamente personale: un tale stile di vita si incunea in una sorta
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di rituale, in una solennità e armoniosa coralità propria dell'atto liturgico. Ora i documenti o materiali di Vico, che possiamo a ragione di causa definire filos-logos, li poniamo in tre sezioni: 1- Espressioni fattualmente belle più vicine all'arte e non al folclore, ovvero la vita in tutte le sue forme. 2- Espressioni plastiche come architettura, scultura che possono essere contraffatte; mentre difficilmente appare in pittura su legno (icone). La pittura si presenta manifestazione tangibile dello spirito. 3- Espressioni filologiche in senso stretto, ovvero materiali della tradizione orale e non scritti, in cui è impossibile accertare la certezza della provata genuinità. Pare così, che la documentazione pittorica fosse la più adatta ai nostri scopi, nel ricorso storico del ritorno della nuova barbarie. Si apre, tuttavia, sul fronte storico, la centralità dell'era eroica con le sue espressività. Mancherebbe in questa espressiva era eroica una consapevolezza estetica, ma se ci rifacciamo alla figura del “corifeo” nella tragedia e nell'antico coro greco, come manifestazione liturgica, si evince che esiste, e che coincide nella sinonimia tra anima e corpo. Dunque, il coro tragico garantisce l'anonimato, e il corifeo si esprime in ciò che di estetico può essere visto manchevole. L'anonimato, benché il Villa non citi, può essere quel carattere mimetico che oggi, Rizzolati-Sinigallia in So quel che fai. Il cervello che agisce e i
neuroni specchio, assumono come componente aggregatrice nell’età eroica, ma che diviene elemento conoscitivo nella sua attività mimetico-anonima. L'anonimato diviene l'aggregazione come arte popolare ed espressione eroica del singolo. Che si riconosce nella comunità. 89
Dunque, non può esistere singolarità se non esiste il comunitario; il comunitario esiste solo esistendo la singolarità. In tal senso il fattore estetico diviene fattore etico, dove il vissuto ne assume la completezza nell'aspetto fenomenologico. Queste considerazioni ci portano a pensare che l'espressione eroico-poetica, come esigenza spirituale, non può che essere tracciata come espressione prettamente estetica-fenomenologica. Il Croce tiene conto di questa occasionalità? Attributo concesso al Dante con l'epiteto di divino, appunto nella funzione eroica di interprete di un'età che mostra profondamente il suo imbarbarimento. Così come vuole il Vico, il primo linguaggio umano è il mitico-eroico-divino; ma il tempo, fatalmente, nelle sue colte occasionalità, ne ridurrà cause ed effetti. Comunque, la manifestazione mitico-eroica è un fare divino in modo inconsapevole nella sua piena elastica esteticità; solo dopo si sviluppa il problema della teodicea, nel momento in cui l'uomo nell'acquisire coscienza, pone Dio come oggetto di rappresentazione a fondamento della sua spiritualità. Dunque, non fa più Dio nella sua espressività armonicoeroico-mitica; ma lo fa nella sua produzione artistica. L'esigenza di produrre queste rappresentazioni, va nel tempo a costituire la teoria del mito, come centrale necessità di tutta l'opera di Vico, ed il motivo per cui lo stesso, la chiamerà "Teoria o metafisica della mente umana". L'autore indica le tre età come mezzo all'interno del corso e ricorso storico: tanto che l'uomo, non può fermarsi alla terza età, ovvero quella dell'uomo, dove sarebbe in dubbio il suffragio della stessa teoria.
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Se il ciclo storico dell'uomo non può avere un andamento rettilineo di stampo ebraico-cristiano, si rinchiude in se, e dunque, anche l'aspetto religioso ha un comportamento ciclico in cui avviene sempre un ritorno alle origini. Benché per il nostro autore, il mito resta sempre una fantasia che si suppone al concetto, quando si rivela all'impotenza nel soddisfare l'esigenza teoretica. Una siffatta teoria basata sull’esigenza mitica della struttura spirituale, il mito stesso è la matrice gnoseologica accanto all'attività concettuale; lo pone come fondamento dell'azione. Il mito da una parte è la ricerca di soddisfacimento dell'azione teoretica; d'altro canto è il soddisfacimento di una necessità spirituale. Questo viene ad essere unificato attraverso lo sguardo religioso, inteso come espressione mitica o espressività mitico poetica. Se il mito risponde a un concetto non attuabile, la sua prima risposta è quella divina, dove si riscontra la forza dell'uomo nel suo esistere. Si ha tuttavia, l'identificazione con l'atto di fede come rappresentazione di Dio, che manifesta Dio nelle coscienze e nella storia: "In cotal guisa, primi teologi si finsero la prima favola divina, la più grande di quante non ne finsero appresso, cioè Giove" (54). Notiamo l'effetto del verbo finsero, ovvero: "Nel medesimo tempo che essi immaginavano le cose sentite, immaginavano essere dei". La visione pratica vuole il mito come timore, che nella sua espressività s’acquieta: il timore è in fondo un momento di crisi rivolto a noi stessi, che annunzia il sorgere della coscienza morale. Dunque, la crisi è il momento dell'uomo nella sua tragicità, che gli impone una perenne ricerca, che al contempo è la sua stessa glorificazione. "Il
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pensiero spaventoso d'una qualche divinità, ch’alle passioni bestiali di tal uomini perduti pose modo e misura e le rendè passioni umane" (55). L’universale fantastico religioso si ripropone in Vico molto diverso dall'universale che costituisce l'elemento artistico. Da un lato estetico, si ha la fantasia come contemplazione, dal lato mitico si ha la fantasia creduta e vissuta verso l'azione. Si può ritenere,
la
saggistica fin qui proposta, ponga alla base dell'espressione mitica arte e religione, attuando un comune procedere. Con le opere omeriche Vico attua le sue scoperte, interpreta ogni rituale e ogni liturgia come "serioso poema" nell'eterno necessitare dell'uomo della sua attività spirituale. Ma tornando alla figura di Bayle, ci chiediamo se possono darsi popoli mancanti di liturgie e religioni? Alla luce della teoria fin qui studiata possiamo dire no: Vico non ammette l'esistenza di popoli manchevoli di religioni. La dottrina della provvidenza ha centralità nell'opera di Vico, ma è una questione oscura la preveggenza nel: "avvertire prima di sentire", e uomo nella sua totalità. Il dibattito ora si aprirebbe verso orizzonti di immanenza e trascendenza, il Villa cita parte di saggistica verso l'una o l'altra posizione, che qui ci sembra fuori luogo e troppo ampio da trattare. Ad ogni modo, si citano il La Banca in Vico e i suoi critici cattolici, il Croce con La filosofia di Vico, Chiocchetti con La filosofia di Vico,
vita e pensiero. Il dibattito visto attraverso gli orizzonti di immanenza e trascendenza parrebbe insolubile: la stessa terminologia immane e 92
trascendere non può escludere, a priori, né l'uno né l'altro termine; tanto che lo stesso Vico attua quella singolare dialettica che si offre verso un terreno unitario. Da una parte, l'autore napoletano, può essere considerato un precursore dell'autocoscienza come filosofia dello spirito immanente. D'altro canto, lo stesso mito, pretende il carattere trascendentale, perché è la sua stessa esigenza. Così la provvidenza si rispecchia nel mito stesso: l'uomo che in quel "avvertire senza sentire" apre le braccia alla finzione arcaicoreligiosa, e dunque, alle arkè-religo. Tuttavia, immanenza come singolarità nel bisogno mitico della finzione, trascendenza come riconoscimento mitico nel suo svolgersi. Si ammette così, una profonda unitarietà del pensiero di Vico, che attua il suo massimo culmine con la dottrina di "Storia ideale eterna". In questo stato di cose, si riconoscono i progressi, i regressi, le finalità, il decadere di tutte le nazioni, dove gli ordinamenti provvidenziali sono universali ed eterni. Scienza Nuova diventa la scienza delle idee umane, sul cui profilo si staglia la metafisica della mente umana, con la consapevole ragione di chi, d'un canto, cala la filosofia dai suoi astrattismi al profilo storico; e l'interesse dello sguardo filosofico del fuori, verso l'interno spirituale: dove la natura medesima acquista valore. In questo rapporto di biunivocità, Vico risolve la dialettica manichea: il particolare si getta nell'universale, tramite la vitalità spirituale fondata sull’ immaginazione mitica. La stessa azione immaginativa mitica è ricondotta nell'ambito della filosofia dello spirito con una sua "necessità di natura". Il territorio storico è terreno limite per Vico, nel riassumere tutte
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le tesi sostenute in Scienza Nuova, benché la novità al contempo, sembrerebbe radicata nelle idee fisse ed eterne di Platone, si ha nell'infinito creare del pensiero divino. Dunque, con il fare divino del mito, il mondo della storia è umano, coincidendo con "verum et factum convertuntur". In tale prospettiva il rapporto uomo-Dio è certamente rivedibile, e Vico indica chiaramente un allontanamento teologico-filosofico. Il divino di Scienza Nuova si presenta come intimità che trascende l'uomo, quasi come una forma a priori, che potrebbe coincidere con “L'avvertire ancor prima di sentire". Dio così, diviene idea, che va a coincidere con la storia eterna, e dunque, con il mito tra il corso e il ricorso storico. Ma tornando alla barbarie, rinasce il mito, l'idea, rinasce il Dio nella sua eterna finzione, e nella incessante celebrazione di quell'azione avvertita prima d'essere sentita. Sicché la meta non sarà mai raggiunta, la storia si ripete nelle sue circostanze, dove male e bene si fronteggiano in un’incessante dialettica manichea. Questa è la fede nella lotta, aver fede nel futuro. Questo viene vidimato dal Nicolini nella biografia del Vico in La
giovinezza di Vico, dove “l'incessante affanno” viene chiamato con “L'affannato ingegno” (56). Dunque non si conoscono soste, ma anche se affannosa, una continua ascensione verso le idee e il pensiero.
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3 Mito e filosofia-Storia e metodo storico
3-1 Mito e Filosofia
Nel libro primo di Scienza Nuova le “degnità” aumentano il loro valore tra le note della tavola cronologica, in cui troviamo le sezioni dei principi e del metodo. Il libro ha una sua struttura armonica ed un’accesa profondità filosofica. E’ di fondamentale importanza a tal proposito, il distinguo tra la materia che la tavola offre la forma radicata nelle “degnità”. Portiamo avanti alcune osservazioni al caso: “La forma indefinita” può, a volte, creare indifferenza da parte di chi si introduce agli studi di Vico; mentre offre un vasto orizzonte e una fecondità inesauribili. In tal modo il pensiero di Vico, si presenta sempre innovatore ad ogni nuovo approccio filosofico; tale che comprenderlo appieno vuole dire ripercorrere la strada filosofica dai suoi principi. Tuttavia, restando sui possibili rapporti di metodo e le forme dello spirito, tra metodo e il corso storico, possiamo dire che in realtà la ricerca si concretizza su due aspetti: la natura, e l'esistenza. Secondariamente si osserva che capire Vico significa adagiarsi al suo pensiero e al suo stile. Alle analogie che propone, ai miti che descrive. Occorre dunque, molta elasticità mentale e astrazione di
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pensiero, tale da potersi avvicinare alla sua alta potenzialità. Certo, il ripeterlo sarebbe assurdo e grottesco, ma noi cercheremo una equa interpretazione, ben sapendo che questo porta senza alcun dubbio al rischio di impoverimento. In prima analisi è di primaria importanza tener conto del linguaggio, dove la costruzione mitologica e lo stile è ritmato, che ne danno una particolare fioritura di alcuni problemi filosofici. Si nota nello stile una certa acredine e serenità, di chi ha compreso la storia e la vede con un naturale distacco, ponendosi all'interno del corso e del ricorso storico. Atteggiamento che ricorda molto da vicino il "bios teoreticos” aristotelico, inteso non tanto come posizione di saggezza, ma di pura posizione superiore di legge del pensiero. Si porta a motivo la dura allitterazione della degnità 66 ” [...] e finalmente inpazz-ano in i-stra-pazzar le sostanze" (57). È una posizione che in ogni momento edifica la dura verità; posizione di chi, cerca il principio primo facendo rivivere la forza arcana della natura, attraverso un sorriso
che
ne
segue,
indice
di
una
superiore
umanità.
Strutturalmente l'opera di Vico, radicata in una visione musicale, è incisiva attraverso una interpretazione filosofica; dove le degnità sono le categorie o le forme a priori che poi andranno a formare il materiale storico spazio-temporale. Lo stile è ritmico con cui sono descritte, nella evidente elasticità platonica, fanno pensare che una pura categoria del pensiero non può produrre la materia sensibile; tale che stile e forma delle degnità, dimostrano che tra forma e materia non è possibile una sintesi senza l'ausilio dell'immagine.
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In realtà le degnità sono già espresse, come categorie, nel modo come esse operano nel reale, sia nell'arte che nella morale e in filosofia. Il tono della loro espressione vichiana, dimostra una vera e profonda religiosità, dove il nostro autore viveva in una profonda e possente misurata sentimentalità, per il senso della storicità del logos. Il ritmo dialettico di alcune descrizioni delle degnità rivela che, dualismo e sintesi nel metodo, sono così vissute che può sembrare che Vico pensi in modo triadico. Dunque, a questa conformità mentale triadica, le degnità s’uniscono divenendo cosmico-razionalireligiose. In tal modo non sarà più possibile la distinzione tra ottimismo e pessimismo, tra miseria e grandezza dell'uomo. Scienza
Nuova è intrisa dell'idea di Dio e con il timor Dei di cui è afflitto l'uomo. Sostiene qui il nostro autore che l'uomo invecchiando e perdendo le proprie forze, diviene in modo naturale religioso; a tal proposito sembrerebbe chiaro che il mondo civile è pura creazione umana, e che le degnità e le forme a priori, siano immanenti alla mente umana. Dunque, i principi umani nel protagonismo storico, concludono tutta la ricerca di Vico; sono enunciati in modo chiaro in tutto il libro tranne che nella introduzione, cioè “l'idea dell'opera”. Questa, può essere considerata l'apertura di Scienza Nuova. La dipintura allegorica seguita dalla spiegazione che viene sostituita alla Novella letteraria, è lo specchio della forma mentale di Vico. Il suo valore di mito e di simbolo non muta, appunto in rapporto al fatto che il mito è sempre quello al di là della forma estetica. Il sole 97
irradia la donna simbolo della metafisica, illumina i geroglifici. La dipintura di Scienza Nuova vuole essere solo espressione e mito di un pensiero non fuso nella forma; dunque non ha alcun valore estetico. Mentre la forma, senza che venga soppresso il mito e il suo significato, viene raggiunta nei passi più alti della spiegazione. Si diceva che il sole illumina la donna (metafisica); da questa si riflette nel sapere poetico di Omero, illuminando tutto il sapere postumo dell'uomo. È così che Vico, in modo molto chiaro, dichiara di partire dal mito. All'interno dell'opera più volte verrà detto Dio come principio, in realtà inizia dall'opera della natura, dalla cosa in sé attiva e dall'esistenza. Nell'opera terza dice: "Perciò il globo, ossia il mondo fisico ovvero naturale, in una sola parte egli dall'altare viene sostenuto" (58). Attraverso la ragione, diremmo, che il globo cadrebbe, ma la provvidenza civile o la storia lo salva. Appunto perché nella storia la provvidenza entra come potenza attiva dei primitivi. Al contempo, sembrerebbe non esistere se non quella civile, appunto perché "L'uomo si mostra come animale sociale". Abbiamo visto che sostanzialmente, la socialità dell'uomo deriva dalla natura, come derivato divino, e le idee che la metafisica contempla nella natura o in Dio. E così, Dio è il luogo in cui il pensiero filosofico acquisisce le idee; dove il mondo metafisico sono le idee immanenti: "Questo mondo civile egli certamente è stato fatto dagli uomini, onde se ne possono, perché se ne debbono, ritrovare i principi dentro le modificazioni della nostra mente umana" (59).
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Le idee che Vico vede, sono in Dio, ed in modo spinoziano sono i modi della mente umana. Rivedendo la degnità 64 ci dice: "L'ordine delle idee dee procedere secondo l'ordine delle cose" (60). In tal modo le idee sono modi dell'uomo e non di Dio, ciò vuole dire che il raggio di luce nella dipintura non parte da Dio verso Omero, ma al contrario, da Omero verso Dio, ovvero dalla sapienza poetica e dal mito, che dalla metafisica riflette in Dio. Dal mito nasce la metafisica, cioè la ragione degli uomini, le degnità, il pensiero. Su questi principi si basa la storia umana, le categorie, le forme illuminate della dipintura, ovvero i tempi oscuri e mitici della favola arcaica. Dio diviene la ragione unificatrice delle degnità in una unità di armonia. Si ha una funzione di metodo come riunificazione formale. Nella conclusione della spiegazione dell'”Idea dell'opera” di
Scienza Nuova, si ha il fondamento sintetico tra ciò che è l'oscuro nella materia e le categorie, tra materia e forma, tra metodo e contenuto formale storico, che, nell'attività naturale, si avvale del mito. Questi a sua volta sarà ordinato razionalmente dalle forme. In poche parole la posizione di Vico è la seguente: "La cosa in sé, non la realistica cosa in sé, ma la natura vivente come attività, esistenza, forma utilitaristica si esprime nel fenomeno, e la causa del fenomeno, e la funzione di fenomeno è compiuta dal mito, il mito si sviluppa nelle forme razionali e le degnità formano la materia data dal mito" (61). Così, come ci mostra la dipintura, Dio forma il conato della cosa in sé ed è il generatore della luce razionale; ciò avvalora l'idea che Dio è pensato come la radice realizzatrice tra forma e materia. In ciò è
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bene ricordare il Dio metafisico che dà vita all'uomo-animale, con i problemi connessi al tuono-fulmine, e al peccato connesso già espresso in precedenza. Dio si risolve, tuttavia, attraverso un orizzonte teoreticognoseologico, con un principio di metodo, dove le degnità sono le modificazioni della mente umana, e vanno a formare, grazie al mito e alla fantasia dell'uomo, la stessa natura umana. Sicché per Vico, l'uomo trascende se stesso e si incarna come principio operante al centro del mondo. Ecco lo stesso cosa ci dice: "Laonde tutta l'idea di quest'opera si può chiudere in questa somma delle tenebre nel fondo della dipintura sono la materia di questa scienza, incerta, informe, oscura, che si propone nella tavola cronologica e nelle a lei scritte annotazioni. Il raggio del quale la divina provvidenza alluma il petto alla metafisica sono le degnità, le diffinizioni e i postulati, che questa scienza si prende per elementi di ragione i principi co’ quali si stabilisce e ‘l metodo con cui si conduce: le quali cose tutte non contenute nel libro primo. Il raggio che da petto alla metafisica si risparge nella statua d'Omero è la luce propria che si dà alla sapienza poetica nel libro secondo, don d’è il vero come ero schiarito nel libro terzo. Dalla discoverta del vero Omero vengono poste in chiaro tutte le cose che compongono questo mondo di nazioni, dalle loro origini progredendo secondo l'ordine col quale, alla lume del vero Omero ne escono i geroglifici: ch’è il corso delle nazioni che si ragiona nel libro quinto, pervenute finalmente a’ piedi della statua d'Omero, con lo stess’ ordine ricominciando, ricorrono: lo che si ragiona nel quinto ed ultimo libro" (62).
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Dunque, tra il mondo della materia e la forma, si pone la sintesi di Scienza Nuova: con la materia e forma c’è il mito, dove la materia è una sintesi della forma, in quanto rappresentata con spazio-tempo. In tal modo Vico scende nell'oscuro mondo dei primitivi, nella “chora” o materia caotica, dove alcuna forma esiste e nessuna legge impera; ed è così, che l'aspetto filologico si presenta come puro arbitrio; la filosofia invece si pone come facoltà ordinatrice sulle effettive variazioni tramite la ragione: ed è
“La stessa filosofia scopre il
disegno di una storia ideale eterna” (63). Il problema della storia eterna si pone in Vico come argomento di inizio dei tempi, e noi pensiamo alla materia caotica e disordinata, in un tempo caotico e oscuro in cui passato e futuro si fondono, non esiste storicità e nessuna opera umana. Dobbiamo dunque, fissare un inizio che non può essere altro che mitologico, dato che ogni principio ha inizio nel mito. Simbolicamente l'inizio dei tempi è Eracle, che nella dipintura è segnato assieme alla vergine nella fascia dello zodiaco che cinge il globo. Con Eracle inizia il cammino della storia umana e la stessa civiltà, di conseguenza alla fissazione in modo spontaneo e intuitivo del tempo mitico. I tempi iniziano con la distruzione della selva e la coltivazione dei campi, e Eracle la brucia per dar inizio al principio dei tempi con i giochi olimpici. La vergine indica l'inizio dell'età dell'oro, date le spighe che a cinger il capo, e così il tempo della civiltà hanno inizio nella intuizione mitica e religiosa. Porre un inizio temporale, significa porre un passato e un futuro, necessariamente legati sempre all'intuizione mitico-religiosa.
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Religiosità che si presenta in Vico con divinazione, simboleggiata dal bastone posto sull'altare con cui era d'auspicio lo scambio di auguri; tuttavia il divinare indica un tentativo di azione secondo il volere divino proiettato verso il futuro. Secondo la divinazione, Dio è il cielo ed il futuro, inizio temporale della essenza storica; per cui il principio trascendentale è visto nella forma triadica come trascendente di forma, materia caotica-informe. La civiltà si introduce tra passato e futuro, ammettendo la trascendenza e l'immanenza, sintetizzando il presente come intuizione mitico-temporale. Sull'altare troviamo il fuoco e l'acqua come sacrifici offerti per avere gli auspici. Ma l'auspicio non è altro che l'obbedienza alle leggi bibliche, che Vico volutamente non ricorda. Acqua e fuoco sono così, la nascita del diritto dal rito religioso; tra i due si pone la fiaccola simbolo del matrimonio, come rapporto giuridico radicato nella religiosità. Il matrimonio è la fertilità familiare, ed essa è quella della Repubblica. Differentemente, vicino all'altare, troviamo un'urna cineraria che indica la sepoltura, che deriva da humando (seppellire) e si ha humanitas. Secondo Vico, l'umanità è legata alla sepoltura, con la negazione del corpo soggetto alla morte: tale coscienza nasce nell'uomo, proprio dal seppellire il corpo, e dalla intuizione miticoreligiosa dell'anima come immortalità. Nel fenomeno storico all’interno dell’intuizione mitica del tempo, si attua la cosa in sé naturale legata al tempo e al suo inizio; si attuano le civiltà come coltura della terra libera dalla selva attraverso il fuoco, come religiosità e nascita del diritto. L'anima è eterna, e nel dualismo tra vita e morte, il mito trova la sua possibilità
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trascendentale di informazione della materia pre-storica come sintesi tra passato e futuro. In una tale struttura di pensiero, rimane sempre un qualcosa di eterno nel mito con l'anima immortale. L'immagine così, sintetizza la forma e il suo contenuto attraverso uno schema trascendentale, con gli elementi strutturali storici. Allora, ci troviamo di fronte al trascendentale formale, e l'essenza storicotemporale dell'uomo, con l'azione mediana del mito, essendo questi, il connubio tra elemento pratico e teoretico. Ora, è importante mettere in luce attraverso quale forma intuitiva è messa in ordine la materia primordiale; ovvero quel sentire senza avvertire di cui si parlava in precedenza. Fuoco e acqua rappresentano anche la prima dimora storica dell'uomo; dunque, uno spazio preciso segnato da un confine: in questo vi è un parallelo con l'inizio del tempo, i “luci” erano le terre bruciate dove poi vengono fondate le città”. Il principio del tempo si oppone alla caotica pretemporalità, come la fissa dimora fondata sul fuoco si oppone allo spazio informe della selva oscura. Da questo spazio definito ha inizio la civiltà e le città. Se il tempo ha una proiezione futura, le città e nazioni si allargheranno entrando in rapporto nello spazio. Ma il luogo bruciato nella selva oscura delle prime città, è anche il luogo dove si seppelliscono i morti in unione ai vivi. I figli, così, vivono dove avevano vissuto i padri, e questo è il tramandare il valore della durata. Terra bruciata, casa, acqua, sepoltura, convivono in un carattere di continuità e di eternità. Con il significato di “humanitatis”; lo spazio si riflette nel tempo; l'intuizione spazio-tempo mitico ci dà l'immagine
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della storicità umana come fenomeno, e ad esso, si applicheranno le categorie, le forme, le degnità con il metodo. L'uomo nasce, dopo la selva bruciata, con l'intuito indistinto spazio-tempo, che diviene distinto con la vittoria sulla violenta natura di animale figlio della terra; i giganti sono vinti e divengono gentili signori della terra: "eh, con lo star quivi fermi lunga stagione e con le sepolture degli antenati, si ritrovarono aver ivi fondati e divisi i primi domini della terra, i cui signori ne furono detti giganti figli della terra" (64). L'uomo ora è un essere pio, inizia la civiltà per timor di Dio, per i fulmini, per il fuoco che brucia. Dunque, Dio è ordine e civiltà, brucia il caos con il suo fulmine. La sua opera dona direzione al futuro, dà la legge ed è il padre; quel padre che intimorisce i giganti, ma che da essi è domato come la terra madre. Acqua e fuoco, rappresentano il padre e la madre, il nascere e il permanere di un ordine che travalica i limiti individuali. Sono in effetti l'anima e lo spirito, ciò che si genera e ciò che si conserva. Così, l'humanitatis, è si frutto di terra, cielo, selva, fuoco; ma una volta domata la madre degli animali, non è più generatrice di corpimateria, ma dell'anima e della società umana. Il Dio non è più terrificante, perché gli animali, ormai, sono i suoi ministri e interpreti. Se il gigante viene seppellito, nasce l'uomo con anima e spirito, l'humanitas è libera nella sua vera realtà sociale. Alla luce di ciò, oggi possiamo affermare, mettendoci noi dalla parte del mito a suffragio del mito stesso, cosa Vico pensasse interpretando un Dio manchevole di realtà metafisica e ontologica, e dunque un Dio di
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metodo e di principio di vita. Da una parte Vico si confronta con delle conclusioni che sono religiose o meno; salvando la verità eternauniversale cristiana. Ma vedremo nel concreto la religiosità di Vico radicata nei simboli, attraverso l'orizzonte filosofico. "Il trascendente si incarna nell'uomo e nella sua essenza storica attraverso la mediazione dello schematismo mitico dell'immagine spazio-tempo. Per mezzo di esso l'uomo realizza il suo mondo libero e sociale, vittorioso della natura e della violenza. Questo perché dà un inizio del tempo e ponendo un confine a spazi determinati (le città). Se è pur vero che lo sguardo verso il futuro è divinazione, ovvero una previdenza-provvidenza-prudenza, o il comprendere il passato, ossia all'azione come storia che si pone nel futuro, "Ciò vuol dire che l’essenza della storicità, e cioè l'uomo nel suo senso di creatore di opere secondo una legge universale, è nel presente, nell'eterna contemporaneità della storia" (65). Dunque, il trascendentale corrisponde alla comprensione storica, al suo metodo; in quanto è l'eterno presente dell'uomo come contenitore di dimensioni opposte come passato e futuro. Tale struttura vuole l'uomo come sintesi di tempo ed eternità. Coerentemente si ha che l'atto di pensiero del trascendentale, e come atto che crea la storia, in un caso vede la storia secondo intuizioni spazio-tempo; in altri casi agisce sempre storicamente per rapportarsi a quelle intuizioni. Dunque, il trascendente diviene l'unione dell'attività di pensiero e della natura, in un atto concreto attraverso la sintesi di spazio-tempo.
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Le due dimensioni si pensano e si concretizzano nel presente come passato e futuro. E siamo nell'eterno presente dove il trascendentale è lo strumento per comprendere le categorie essendo categorie operanti. È insieme metodo, atto concreto e determinato nel suo eterno agire. Ma allora ciò che pensavamo fosse il trascendentale è lo stesso uomo. L'uomo nella sua stessa natura, lui la medesima opera d'arte sua stessa. L'uomo tuttavia, vede e comprende la sua storia nel suo passato, ma che è sempre contemporanea e metodo della sua contemporaneità. Si potrebbe obiettare che Vico sia caduto nell'orizzonte della filosofia della storia, ma in fondo pensando bene, al suo pensiero tridiaco e alla sua proiezione, si trova sempre l'uomo della sua triade come fondamento. Questo è il terreno limite del pensiero di Vico, e pone l'uomo di fronte alla possibilità di non essere se stesso: l'uomo appare come l'incarnazione del logos e la sua stessa struttura, ma se si radica in una effettiva sintesi concreta nella certezza del raggiungimento della realizzazione della sua stessa vita, ed aver finalmente raggiunto l'universalità, allora s’ è perso, questa è pura illusione. Il pensiero di Vico deve porsi verso un pensare che mai avrà raggiunto il suo culmine, perché il vero obiettivo è il porsi, un atteggiamento di vivere, una lunga questione pedagogica. Ecco perché, probabilmente, l'aspetto retorico diviene l'anello di congiunzione di varie attività e orizzonti. L'errore, dunque, sarebbe il sentirsi realizzati, l'aver raggiunto quel pensiero
e quel meccanismo che
garantirebbe
l'universalità.
Questa, d'altro canto, non può esser mai raggiunta se non nella sua
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irraggiungibilità, nella consapevolezza. Tuttavia, nella possibilità di non poter mai raggiungere tale valore, si acquisisce la forza del libero carattere, perché è implicita la formazione humanitas mai conclusa, dato che è una continua trasformazione trascendentale. Vico si accompagna da un'urna cineraria dove il corpo è bruciato, dove il ricordo dei morti è un valore, un’ancora. Il nulla diviene radice di estrema libertà, tale da offrire l'intero orizzonte delle libertà umane. Sicché, il creare la storia sulle ceneri del passato rende il futuro nullificato; ed è proprio su ciò, che questo pensiero acquista la sua vera forza è diviene vivente, mito, poesia, arte. L'uomo dunque, è l'opera d'arte vivente, ma la sua finitezza umana, pone il problema tra ragione e stultizia; in tal modo ci siamo rapportati alla legalizzazione della guerra con il tentativo della ragione di dominare la stessa antitesi dialettica. Con la guerra viene ad essere dogma uno dei possibili termini, con l'imposizione della violenza come legalità senza essere tale; il porsi della natura spirituale senza ricorrere allo spirito. Con l'idea dei ricchi che detengono il monopolio della verità, della religione, della legge, Vico è estremamente duro. Eppure, dobbiamo a malincuore ammettere, che senza l'alternanza di questa dialettica, finirebbe l'orizzonte di libertà; della ragione contro i propri limiti. Ciò che di estremamente negativo si presenta, in realtà, dovrebbe dare il moto agli elementi costruttivi nella loro sintesi armonica. Allorché la dialettica è dialettica tra il trascendentale come sintesi e concretezza, e gli elementi stessi della sintesi che tendono a sfuggire ed a porsi come sintesi totale nel loro dogmatismo.
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Non è del tutto fuori luogo, che in alcuni momenti, si veda Vico come anticipatore di Marx, Nietzsche, Feuerbah con l'uomo reale e concreta incarnazione del logos, che si pone al centro della storia come valore, meta e fine. Questa considerazione come uomo sempre presente è il fondamento morale della storia; dunque, l'universalità dell'agire storico come morale; e la filosofia si appresta in tal modo a considerare l'uomo come egli è. Malgrado tutto, e l'uomo qual è trasceso al quale deve essere, ha ancora dei pericoli da superare: il corpo, la natura, la violenza con cui l'uomo non è unità. Allora l'uomo bestia ritorna, nella selva ritornano i giganti, rivogliono lo spazio indeterminato dell'agire ferino, e l'inizio del tempo non è più una imposizione umana, ma un dato, un fatto. Così è che si ricade nell’animalità, nel ricorso dei tempi; in quella circolarità temporale dove altri si sono uniti in luoghi fissi, cercando il loro tempo storico, contro l'andare di bestia di altri. Il trascendente entra in lotta con se stesso, mentre Vico intende non uno Stato cosmico con la fine dei contrasti, bensì vuole che il contrasto stesso rientri in forme giuridiche in una unità di sintesi in un ritmo razionale. Questi sono i casi di maggior crisi dell'uomo: tanto che non disciplinando la guerra, la sintesi si pone in equilibrio con l'antitesi. Se l'uomo non riesce, trionfa l'antitesi e i momenti correlativi si allontanano con il ritorno alla bestialità e con la figura di Dio lontanissima. Così, possiamo affermare che il corso storico è la concreta sintesi del trascendente, mentre il ricorso corrisponde all'antitesi massima.
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Assumendo la questione sintesi-antitesi del trascendente come metodo, e la storia appare inevitabilmente come corsi storici e ricorsi, Vico simboleggia i due termini con l'aratro e il timone; ed il corso storico dell'uomo è radicato nel valore universale delle sue opere, ma se questo valore viene a mancare, mancherebbe la direttiva provvidenziale. Dunque l'aratro simboleggia le genti che si sono riordinate in uno spazio delimitato contro il dilagare animale; gli eroi di questi gruppi sono forti, giusti, temperati e prudenti. Qui a fondamento dell'ordine sociale e legale si pone la forza della morale e la virtù, presupponendo la coscienza di una giustizia che anima la lotta su un piano dove la libertà offre una forma di giustizia radicata in quei contenuti sociali sempre in lotta provvidenzialmente. L’ aratro simboleggia la fondazione cittadina, e dunque una società stabile. Il timone invece rappresenta lo spostamento di alcuni popoli per via marina. I trasmigratori, secondo Vico, sarebbero "Quei popoli ancora tormentati dalla loro stessa barbarie, che fuggono dai loro mali e dalle terre colte, e per la stessa ragione i popoli che non sanno regolare la propria lotta politica in una forma giuridica finiranno sotto altri popoli per la stessa ragione, in ultima analisi, sorgeranno i feudi" (66). Le città sono il centro di determinazione e di misura del tempo, della storia, dello spazio. In tal guisa la geografia viene ricondotta alla storia e sintetizza in sé tutta la questione dello spazio necessario alla storiografia; come la cronologia sintetizza la questione del tempo. In questa opportunità, il pensiero di Vico è abbastanza ingenuo; non si dovrebbe svincolare da tali questioni di spazio-tempo, perché in
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realtà molto più complesse. È chiaro che il dittico spazio-tempo, serve a Vico per poi mettere ordine alle forme razionali o ideali, e quindi dar forma alle degnità. La giustizia, la verità, consisteranno in Vico nel non rompere questo equilibrio dove la natura va verso la ragione e la ragione verso la natura. La decadenza sarà fatale dove la violenza non si avvicina alla ragione e finisce per dominarla. Così Vico, nell'ideale platonico, attribuisce alla mente il governo degli Stati; ma il trionfo della morale e della filosofia si attua nella concreta lotta politica: dove la misura dell'humanitàs non vuole abolire e ne ridurre tutto a lotta, ma nella libertà della guerra regolata dal diritto nella visione provvidenziale-previdenziale. Ed è questa provvidenza il principio di azione e di vita per lo storiografo che la vede agire nel passato e il passato riporta al suo presente per il futuro. Il principio metodologico operante appare storicamente presente simbolicamente nella provvidenza, come la coscienza dell'uomo che comprende e si appropria della storia. In quella lotta tra mente e corpo è lotta tra libertà e violenza. In tale occasione si
indica
mancanza di chiarezza in Vico sul concetto di previdenzaprovvidenza: "Imperciochè, constando gli uomini di queste due parti, delle quali una è nobile, che, come tale, dovrebbe comandare, e l'altra vile, la quale dovrebbe servire; e, per la corrotta natura umana, senza l'aiuto della filosofia (la quale non può soccorrere che a pochissimi), non potendo l'universale degli uomini far sì che privatamente la mente di ciascheduno comandasse, e non servisse, al suo corpo; la divina provvidenza ordinò talmente le cose umane con
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quest'ordine eterno: che, [...] Quelli che usano la mente vi comandino [...]" (67). Sembrerebbe quasi una questione esterna ed un riconoscimento del dato di fatto; invece si vedrà che è interna all'uomo e nella sua azione di valore universale, nella sua libera sintesi tra immanenza e trascendenza. La lotta che avevamo visto tra l'aratro e il timone, quando non è armonizzata dalle leggi. Vico scrive ancora "E quivi molti capi d’esse caterve di famoli, sollevate e vinte dagli loro eroi [...], si misero alla fortuna del mare e andarono a trovar terre vacue per gli lidi del Mediterraneo, verso occidente, ch’a quei tempi non era abitato nelle marine" (68). La provvidenza diviene il libero arbitrio di partire per mare in cerca di terre libere, e di fondare in esse una loro civiltà e non di tornare al caos. "E con si fatte colonie, le quali perciò erano appellate eroiche oltre marine, propagossi il genere umano, anco per mare, nel resto del nostro mondo [...] (69). Dalla dialettica tra aratro e timone nascono le lingue, simboleggiate dalla tavola con l'alfabeto romano e greco. La tavola è vicina all’aratro e lontana dal timone, perché si presuppone il fermarsi dal divagamento ferino. Le lingue nascono in modo universale, e il loro moltiplicarsi è dato dalla dialettica delle nazioni e dai rapporti tra i popoli. Nella dipintura appaiono, nella zona sottostante i cinque geroglifici simboli dello sviluppo interno della civiltà fondata dagli eroi: il fascio romano a rappresentare i padri che si riuniscono fondando il senato aristocratico contro la plebe. La stessa plebe che non osteggia la legge, ma vuole a sé il diritto
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essendone attivo fermento. Il processo legis è segnato da momenti topici: la legge agraria con cui i patrizi concedono il dominio delle terre, tenendosi il diritto civile, ma la plebe oltre al dominio bonitario, lotta per il dominio quiritario. Dunque non solo il pagamento del censo ai patrizi e il servimento nelle guerre a proprie spese. Il censo si presenta di natura aristocratica e certamente non popolare; i patrizi in tal modo obbligano la plebe alla lotta, e in un certo qual verso esiste una sorta di equilibrio. Nella concessione di terre ai famoli, Vico vede l'origine dei feudi, ma con esso la plebe si assoggetta alla nobiltà. La borsa simboleggia il commercio e si radica proprio nel feudo: il diritto comunitario infatti non è altro che la concessione di parte dei frutti della terra del nobile al plebeo. Dai feudi nascono gli erari, che amministra i denari versati dalla plebe allo stato. Si nota che Vico, vede in modo fondamentale la nascita del feudo come radice del substrato economico, come le colonie che nascono per natura commerciale. La plebe si conquistò la libertà con le leggi Publilia e Petelia, e questo al contempo veniva richiesto dalla libertà dei debiti e dal censo che non poteva pagare. Sicché fuoco e acqua nell'altare, sono la legalità matrimoniale. Tuttavia, fu la legge Canuleia che chiese alla plebe del fuoco e acqua, da poter ereditare il feudo. Questo il senso del simbolo vichiano della borsa, che va a collegarsi al fascio e poi alla spada e bilancia. La spada simboleggia la forza implicita della legge e alla tendenza a sfuggire alla morale; la bilancia infine è il termine dello sviluppo storico, economico, sociale e giuridico. "La bilancia dopo la borsa dà a vedere che, dopo i governi
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aristocratici, che furono governi eroici, vennero i governi umani, di spezie prima popolari; ne’ quali popoli, perché avevano già finalmente inteso la natura ragionevole esser uguale in tutti, da siffatta ugualità naturale (per le ragioni che si meditano nella storia ideale eterna e si riscontrano appuntino nella romana) trassero gli eroi, tratto , all’egualità civile nelle repubbliche popolari; la quale ci è significata dalla bilancia, perché, come dicevano i greci, nelle repubbliche popolari tutto corre a sorte o bilancia" (70). Si ha il punto di equilibrio massimo, dove l'antitesi dei due momenti costitutivi della storia umana, trovano un accordo. In tal modo la libera società popolare rappresenta il valore della storia, un principio ideale che opera a giustificazione delle sue lotte; per cui il metodo storico dovrà tener presente come necessità categorica per la comprensione, o come un mito dove è posto un fine, o un inizio, nell'infinito sviluppo temporale. Il valore della storia pensato come reale categoria posta nel passato o nel futuro, si presenta in contraddizione; in realtà il valore storico è da pensare come forma con cui si comprende il passato per proiettarsi al futuro. In qualche modo ci si avvicina ad una forma di apriorismio strettamente connessa alle stesse leggi del pensiero. Il valore non si sovrappone alla ragione, ma si pone come la conseguenza della libertà implicita nel trascendentale, poiché lo stesso trascendentale è l'uomo che sceglie tra civiltà e barbarie. Secondo il Paci sembra che Vico nel principio del metodo confonda la serie empirica con la serie ideale, cosa notata anche dal Croce. Ma lo sviluppo del suo pensiero che si nota in Scienza Nuova, ci fa credere
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che Vico oggettivamente arrivi alla concezione di uomo libero, responsabile e creatore della storia. Tuttavia corso e ricorso, tolti dalle loro posizioni cristallizzate, sono di fronte a lui. Gli altri simboli che si notano nella dipintura sono il Caduceo e il Petaso: l'elmo alato di mercurio, che Vico non menziona, sono simboli del mistero umano della congiunzione del diritto e della sua violazione. Mercurio al contempo è la divinità del commercio e delle furberie, viaggia portando prodotti umani nelle colonie, e quindi civilizzata. Dunque il mare, segna la strada ai commerci, ma anche ai marinai corsari; in ultimo mercurio è anche l'araldo di pace e di guerra. In modo equivoco in Mercurio sono presenti il corso e ricorso, e così, la possibilità della civiltà o della barbarie; questo ci riconduce dalla morte ma è anche il conduttore delle anime all'averno. L'elmo alato, e si credette regalato ad Astrea affinché portasse le ambasciate dal cielo al Dio.
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3-2 Storia e metodo storico
La materia della storia che Vico attinge dalla cronaca, dalle tradizioni e documenti, dalle storie di vario genere, per una tale scienza la materia è infinita e il nostro pensatore cerca di ordinarla attraverso la tavola cronologica della storia universale. Troveremo infatti la storia degli Ebrei, Caldei, Sciiti, Fenici, Greci e Romani. È chiaro che Vico si pone il fine di ristabilire una verità storica, trovandosi rapportato a documenti che non sono né veri né falsi: sono in realtà parola e mito e testimonianza stessa. Ma quale criterio adottare per trasformare il mito in oggetto filosofico? Cedendo a tentazioni realistiche, la sua ricerca trasformerebbe la ricerca del fenomeno in realtà razionale; così, chiama materia i dati storici che poi saranno trasformati dalle degnità. Queste, hanno il compito di formare le materie site nella tavola cronologica; benché spesso l'autore, confonde la ricerca tra le materie e le forme. La storia necessariamente inizia dal mito, ma di certo non è verità: così si pone il compito di riconoscere il mito stesso nella storia, interpretarlo attraverso la fantasia; nella storia i fatti si svolgono dal mito alla ragione. Ma dato che i documenti dello storico sono falsati dal fatto stesso che ogni inizio di civiltà è mitologico, per ridurre tale materia, a verità, egli deve servirsi di una regolamentativa generale. La motivazione la ritroviamo nella prima degnità: "L'uomo, per
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l'indefinita natura della mente umana, ove questa si rovesci nell'ignoranza, egli fa sé regola dell'universo" (71). In tal modo l'uomo riduce a fantasia la storia, credendo poi in quel mondo così creato. La civiltà nasce quando un popolo miticamente pone un certo inizio al suo tempo, e probabilmente sosterrà di essere il primo popolo civilizzato ad uscire dalla barbarie. Ma questa è presunzione e arroganza, perché l'uomo ha in sé alcuni eterni principi che sono inseriti nella nostra medesima mente umana. Dunque ogni popolo percorre quel viatico di civilizzazione in modo similare agli altri popoli. Infatti la prima degnità è causa e insieme di errore e di verità. Ci insegna che il comprendere le cause degli errori ci porta direttamente alla ragion causa del mito. Tuttavia si scopre, la verità storica del corso delle nazioni dove è necessario adottare un criterio che da un lato, non neghi il mito, che non riduca la storia al mito; un criterio che non neghi le forme razionali in note; che non riduca la storia a razionalità. Il documento mitico diventerà veritiero nella scoperta del perché il documento è mitico; questo, quando pensato secondo un principio non mitico, ma razionale. Tanto che la verità diviene un sintetico rapporto tra certo e vero di documenti e di principi razionali, di intuizioni e concetti. Ma quale sarà il criterio in cui si vedrà la trasformazione del documento in verità, dove si attuerà la sintesi storiografica? Il criterio è certamente filosofico, ovvero, legato ai principi di verità, e si pone in tal modo, come i raggi del sole che attraversano la foresta; dove i documenti vengono spiegati e ridotti a verità. Tali assiomi sono offerti nelle degnità e il Vico ci dice: "La
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fantasia è più robusta quanto è più debole il raziocinio". Fantasia e ragione sono così distinte, ed in funzione inversa in un rapporto molto importante. Ci permette di capire che con un eccesso di fantasia si ha mancanza di razionalità, e così, si avrà la spiegazione del mito. Ora, sembrerebbe più comprensibile il nostro avvicinamento verso l'inizio: "All'inizio dei tempi i primi uomini, come fanciulli, danno alle cose insensate senso e passione"; l'interpretazione del nostro documento nato dalla passione, sarà ridotto a verità attraverso un principio filosofico che spiega ma non nega la passione. Un tale inizio storico che dal mito passa alla passione e dalla memoria, nei bambini è molto accentuata: "E’ da considerare però un inizio, infatti come storico e filosofo posso vedere come io stesso da quell'inizio pervengono alla ragione. C'è dunque in me un movimento che va dal senso alla ragione, gli uomini prima sentono senza avvertire, dappoi avvertiscorno con animo perturbato e commosso, finalmente riflettono con mente pura". La degnità ora descritta è davvero fondamentale perché si collega con il principio di metodologia della storia, per cui la storia diviene sintesi di forma in materia; la materia documentale mitica con la forma analizzano il mito, trasformando materia in verità, unendo in tal modo filologia e filosofia. Sentire e non avvertire è il primo fatto, e non ha né falsità o verità; il sentire con animo quasi perturbato commosso è sinonimo di fantasia e mito, tant'è che riflettere con la mente pura si comprende il mito (critica filosofica).
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In poche parole, possiamo dire che per Vico quella che potremmo chiamare la filosofia dello spirito è strettamente legata alla metodo della storia. Oggi possiamo pensare che il pensiero filosofico non è affatto distinto dal momento metodologico, e che il rapporto esistente tra arte e filosofia non è possibile che storicamente. Infatti, percorrerlo vuole dire fare della storia. Ma questo significa che non si può fare una storia della letteratura se non si interpretano i documenti di tale storia in base a categorie filosofiche. D'altro canto, queste categorie non sono interpretabili se non in base a matrici estetiche. Le categorie filosofiche sono leggi di formazione di ogni attività umana, sono le leggi che permettono una fenomenologia dei fatti storici che ci danno il passaggio da semplice documento a verità storiche. Le categorie della filosofia dello spirito danno sempre luogo a una fenomenologia storica e quindi, dell'arte, della morale, della politica. Tutto dunque, non si darebbe se non in prima battuta dalla intuizione. Le categorie sono le forme con cui si configurano i fatti storici compresi. Con questo si può giustificare un primo fatto di confusione commesso da Vico; ovvero la divisione tra serie empirica e serie ideale. Nell'autore è valido il fatto che ogni categoria filosofica è da apporre nella sua fenomenologia storica; dove il principio ideale è la legge dell'accadere storico, con lo stesso accadere al contempo. Di conseguenza si muove attraverso il principio di comprensione: così la storia accade secondo i principi formali della degnità: "L'ordine delle idee dee procedere secondo l'ordine delle cose"
(72)
. A questa
degnità riconduciamo un'altra molto importante: "Natura delle cose
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altro non è che nascimento di esse in certi tempi e con certe guise, le quali sempre sono tali, indi tali e non altre nascon le cose" (73). Il nostro pensiero può solo radicarsi identificandosi unicamente attraverso le categorie, ma la categoria può determinare una fenomenologia storica? Il Paci attribuisce al Vico un’ unità di pensiero triadica: senso, fantasia, ragione; da cui si evince il principio di correzione dei documenti e fatti. Ma rapportati alla tradizione dell'inizio dei tempi di un popolo come razionalità, egli si radica al suo principio, e nota che con tale principio si spiega che i primi fondatori dei primi popoli furono considerati sapienti. Dunque, quella sapienza antica che oggi è inimmaginabile altro non è che il mito, o il senso divenuto fantasia. Il documento, direbbe il contrario di ciò che vuol dire, ma interpretato diviene certo e vero, dove la categoria non si confonde con il dato, bensì lo illumina rendendolo certo. Se i primitivi erano animali e senso inclini alla forza, erano inclini a ciò che era l'utile. E se le categorie dello spirito sono in ogni singolo fatto, cosa vuol dire per l'uomo animale arte, filosofia, morale? Vedremo che per Vico non è proprio così; infatti si capirà che le cose muteranno solo con l'acquisizione del linguaggio. Se in qualsiasi momento della storia fosse possibile una società di uomini alla quale è impedita ogni espressione, non ci sarebbe civiltà. Ma l'atto di forza non è sempre per Vico sinonimo di barbarie; esso è sempre presente in ogni momento della storia, benché non in ogni singolo fatto. Il dato che si pensi non essere di forza, anche se con la forza si ha un legame
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certo. Vico ci insegna che la forza per divenire pensiero e giustizia deve pur esprimersi; e dunque, divenire linguaggio. Di volta in volta, così, si incontrerà un fatto; si studierà il processo che ne consegue per divenire giustizia, si ordineranno i vari fatti storici secondo il dettame metodologico. Si avrà in tal modo una fenomenologia della storia, che seppellisce il senso e, sulla morte della mera violenza, attraverso la fantasia, crea il mondo della ragione. Non si ha che il principio stesso del trascendentale che a Vico, sia pur inconsapevolmente, permette una fenomenologia della storia in generale. È l'uomo che insieme è corpo e fantasia e ragione, ma è l'uomo che attraverso la fantasia ha ordinato il corpo secondo la ragione. L'arte stessa, nonché il mito, in quanto forma autoritaria dello spirito, è ciò che nell'uomo unisce strettamente la forza al pensiero
e
trasforma continuamente la forza in funzione di un ordine universale, trasformando la forza che in sé è mera violenza, in forza utile e in mezzo di attuazione della moralità. La circolarità di forza dello spirito non è altro che l'uomo come unità delle forme. Dove le forme non sono in armonia e l'uomo si rivolge contro se stesso, divenendo sempre meno umano, fino a che le forme si rinserrano nella bestialità e dall'altro, nella trascendenza, intesa essa stessa come forza, violenza, dogma, terrore. Dunque, la storia in Vico è la dialettica tra l'uomo visto nella sua unità, dove rappresenta l'armonia delle forme, e l'uomo che da quell’armonia si distacca. Si pone, perciò, un fine alla storia, non indicandolo come
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carattere empirico o cronologico, bensì come stessa anima storica o principio del divenire. È chiaro che Vico spesso cade in atteggiamenti di filosofo della storia ingenui, ma noi ci proponiamo di studiare ciò che lui di veramente grande ci lascia. Comprendere la storia è così, un giudicarla, nel fatto che ci si debba ritrovare in quel principio operante della libertà di azione, dove si vive il passato nel presente per proiettarlo nel futuro. "La filosofia, per giovar al genere umano, dee sollevar e reggere l'uomo caduto e debole, non convellergli la natura né abbandonarlo nella sua corruzione. La filosofia considera l'uomo quale deve essere, e sì non può fruttare che a pochissimi, che vogliono vivere nella repubblica di Platone, non rovesciarsi nella feccia di Romolo” (74). La morale è la lotta tra ragione e animalità; lotta dura dove ognuno dei termini deve comportarsi da buon soldato e non cedere, poiché la vittoria dell'altro termine sarebbe vana e illusoria. Dunque dirigere la forza verso la ragione, dove non si ha la pretesa che la ragione sia pura trascendenza e pura forma. Vico sa bene che la morale dei solitari non esiste, che alcuna virtù è solitaria, che l'uomo non è virtuoso vivendo in un’astratta o romantica repubblica platonica. Non è certo la morale del lasciar passare o la critica del solingo racchiuso nella sua ipotetica purezza in nome della quale predica bontà e morale. Qui, non si nega la lotta, ma la sua regolarizzazione secondo leggi umane, che presuppone il peccato, dove il matrimonio è radice di base sociale. Così, con la sepoltura si nega la pura bestialità che si trasforma in legge del
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diritto. Vico non nega tanto meno il male, dove la dialettica della lotta del bene impedisce ai due termini di annullarsi nello stesso interesse della lotta stessa. Si acquisisce il diritto di lottare non presentandolo mai da un punto di vista esclusivo, come unico. Nel riconoscerlo si supera il dogmatismo, nell'unità dell'uomo e della legge dialettica che lo costituisce. In tal modo vi è la radice dell'armonia dell'uomo con se stesso. La libertà di scelta, dominio del senso, trasformazione della forza in utilità, sono i criteri che tutti gli uomini si sentono giusti: "Questi deon esser i confini dell'umana ragione. E chiunque se ne voglia trar fuori, egli veda di non trarsi fuori da tutta l'umanità" (75). Si diceva del diritto come sintesi dinamica tra forza e ragione, come principio universale di trasformazione del negativo in positivo e come tale ha bisogno del mito come schema modello e visione religiosa. "La legislazione considera l'uomo qual è, per farne buon uso nell'umana società; com'è della ferocia, dell'avarizia, dell'ambizione, che sono gli tre vizi che portano attraverso tutto il genere umano, ne fa la milizia, la mercatanza e la corte, e si la fortezza, l'opulenza e la sapienza delle repubbliche; e di questi tre grandi vizi, i quali certamente distruggerebbero l'umana generazione sopra la terra, ne fa la civile felicità" (76). In un certo qual modo ci si è sforzati di capire come la previdenzaprovvidenza si è dimostrata attraverso orizzonti reali: infatti altro non è che la libertà dell'uomo. Quando l'uomo ha vissuto in una società civile, sembrò quasi le cose andassero per inerzia; ma non è così, questa è una pura illusione. Il permanere di valori in una società esige
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un carattere fortemente educativo, dove il singolo, in ogni suo ricominciare daccapo con l'educazione e con il ritrovare una verità interiore, può apparentemente volgersi verso un costume o una legge. Molto spesso Vico parla di provvidenza-previdenza come di un qualcosa di veramente esterno all'uomo, come voluta da Dio. Ma questo è il tributo al retaggio per le sue e preoccupazioni cattoliche, dove forse lo stesso Vico dimostra poca chiarezza. Benché dubbi in tal senso sono sollevabili, sappiamo nel nostro intimo coerente che Vico affida all'uomo la possibilità di salvezza dal ritorno della barbarie o la responsabilità di quel ritorno. Proprio quel principio ciclico di corsi e ricorsi, di nascita e di morte serve a Vico come metodo. Precedentemente si era parlato dei dubbi posti nella prima degnità, dove il principio dialettico dell'unità del trascendente è sempre in lotta con i termini di sintesi che tendono a sfuggire alla sintesi stessa. Ma posta come armonia dell'uomo, Vico non intende come un infinito avvicinamento ad una idealità, o alla fine di una storia. Bensì, intende l'essere il centro nel massimo punto, in ogni storia, in ogni momento. Un momento che può permanere, ma che esige una virtù superiore per essere mantenuto. Vico nel suo senso ciclico di vita e di morte si abbandona a visioni pessimistiche solo perciò che concerne il recupero del passato; per quanto riguarda il futuro, pone la possibilità al ritorno della barbarie. Così si mette in guardia nel porre al futuro piena fiducia nel progresso; benché questo non sia stato chiarito completamente, ma essendo la storia dell'intera umanità, può fare la storia del passato in seno a ciclicità, sfruttando questo strumento. L'interpretazione
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storica dice che prima ci sono "Le selve dopo i tuguri, quindi i villaggi, appresso le città, finalmente l'Accademie" (77). Comunque sia, questo è già accaduto ed è così possibile un ritorno alla selva oscura: il ricorso alla barbarie, è provvidenziale, poiché la civiltà mancherebbe altrimenti di freschezza e di forza. Ma in fondo, di giusto riflesso, la civiltà che abbisogna di barbarie ha già perso in sé la forza e non domina più nulla, non è più in armonia con l'uomo. Il ricorso della barbarie e quindi già presente nell'incapacità di disciplinare la lotta mantenendo vivi i termini del contrasto. In Vico provvidenza e fatalità si confondono, ma per noi conta la visione filosofica che rende possibile il ricorso della barbarie; dove l'autore non si lega ad un mito che determina e illuministico del progresso. Il rischio può anche essere il mito opposto. Dunque, questa di Vico, permette una visione di grandi cicli con luci e ombre, dove si esige un uomo come principio attivo e centrale della storia. Uomo come sintesi di senso e ragione mediati dalla fantasia, è per Vico il metodo stesso di comprensione della storia, il principio del trascendente che coincide con la sua filosofia dello spirito. Questa filosofia pone al centro dell'essere e del mondo il dualismo tra natura e spirito, tra esistenza e ragione. Ricordando che la natura vista dal Vico non è nulla di realistico, in quanto è slancio vitale, volontà, attività, conato. L’io, così, è un io che fa la storia, che non può essere puro logos, o la pura sostanza pensante cartesiana, ma è al contempo senso, natura, fantasia e ragione. Non può essere l’io empirico o l’io sociale, come non è la romantica personalità, ma l'uomo che diviene umanità nel realizzare
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le sue opere nelle condizioni universali dell'uomo. La visione ciclica della storia di Vico, in un certo senso è la morfologia della civiltà, ma non è una morfologia empirica, non è che una fenomenologia storica che riflette il metodo; ovvero la concezione filosofica della realtà come natura e ragione dialetticamente mediate dalla fantasia. Il corso storico delle nazioni tende verso direttrici dogmatiche, ma in modo parziale ciò si evita con quelle che chiama le eccezioni della storia. In questo ci si deve rifare alle tre età dell'uomo di concezione egizia: età degli dei, degli eroi, degli uomini con le relative lingue geroglifica, simbolica epistolare. Con ciò sarebbe necessario l'esistenza di un unico popolo sulla terra; ma noi sappiamo che non è così. Ma come spiegare la tendenza dogmatica della storia delle nazioni? La soluzione ci viene data dalla lotta tra natura e ragione che permane in ogni popolo, al di là del livello di civilizzazione che ogni nazione può esprimere. Il nostro pensatore le chiama “differenze temporali”: in tali differenze tutti i popoli di ogni nazione sono accomunati dalla selva che incombe, e dunque, dalla lotta che ogni popolo deve affrontare per non ricadere nella barbarie. Così, il tempo, viene in modo sottinteso eluso, e chiamerà "cronologia" il rapporto esistente tra i vari tipi di civiltà. Per quanto l'autore si sforzi di isolare i popoli l'uno dall'altro, la fenomenologia della storia si muove ben al di là della storia stessa di un popolo. Resta provvidenziale il caso del popolo ebraico, sia pur unico, come religione rivelata. Nel libro quarto di Scienza Nuova Vico
esplicita la triadica
funzione in quello che si è indicato come il suo metodo; Croce, come
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da precedenti accenni, ritiene confusionale il modo con cui Vico affronta la questione: tanto che l'autore confonde la serie ideale con la serie empirica. La confusionalità è implicita nelle età egizie, dove sussiste una certa costante di lettura (uniformità) e avviene un rilassamento del pensiero più profondo. Le tre “spezie” di natura, di costumi, di diritti naturali, di governi, di caratteri, di giurisprudenza, di autorità, di ragioni, di giudizi, di temporalità, sono varie e diversificate enunciazioni triadiche isolate nella loro stessa enunciazione, e non certamente vive nel corso di una visione fenomenologica storica. Le stesse triadi sono presentate sotto diversi nomi: le tre lingue, i tre caratteri, in fondo sono la medesima cosa. Sono tali le giurisprudenze, le tre autorità, le tre ragioni. La giurisprudenza divina è scienza d’intendere gli auspici; ed è quella per cui dalla provvidenza-previdenza non si ha ragione, in essa solo Dio si intende grazie agli auspici gentilizi. Ad una più attenta visione si nota l'unica vera triade a radice delle altre, e traspare nella famosa degnità in cui si dice: "Tra senso che non avverte, fantasia e ragione". Dunque Vico, dopo aver enunciato tutta la sua questione dogmatica e l'analisi storico fenomenologica, ritorna a vivacizzare la sua tesi nel vero senso del metodo. Tantè che così accade nel corollario sul diritto romano
(78)
; nei capitoli dedicati alla custodia dei
confini, dove ritorna la natura caotica che deve essere vinta (79). Nel capitolo della custodia degli ordini
(80)
; quella della custodia
delle leggi (…), come tipicità della fine del corso. Tal fine prepara alla ricorso, dato il modo con il quale l'autore ne ricerca la genesi.
126
Si diceva delle pagine intrise di vivacità che corrispondono a quelle in cui viene applicato il metodo, dove il ragionamento triadico non agisce più concretamente; natura violenta e ragione sono mediate nel loro rapporto dialettico dalla fantasia. Questo è provato dal capitolo sulle leggi delle XII tavole considerate come "Serioso poema”, "L’usucapione procede con la possessione presa dal corpo [...] " (80). “Poi si passa dall'uso dei corpi ai simboli o maschere: il diritto diventa immagine e finzione teatrale" (80)
; l'antica giurisprudenza tutta fu poetica, la quale fingeva i fatti non
fatti, i non fatti i fatti, nati gli non nati ancora, morti i viventi, i morti vivere nelle loro giacenti eredità; introdusse tante maschere vane senza subietti, che si dissero gli iura immaginaria, ragioni favoleggiate da fantasia; e riponeva tutta la sua riputazione in truovare si fatte parole"
(80)
.” Venuti
i tempi umani delle repubbliche popolari,
s’incominciò nelle grandi adunanze ravvisar l’intelletto" (80). La barbarie medievale rientra nell'orizzonte della visione filosofica nella questione vista precedentemente della natura come spazio amorfo, disordine e violenza. Attraverso lo stesso metodo si analizza la barbarie seconda, benché non ci si trovi all'inizio dei tempi va ad un nuovo inizio. In un certo qual verso gli inizi della seconda barbarie sono più oscuri rispetto alla prima; ma il problema è il delimitare una temporalità attraverso l'aspetto fenomenologico della storia. Nel medioevo i santi prendono il posto degli dei antichi: la religione, ovvero il mito, si pone come termine mediale tra la barbarie degli invasori e la nascita di una nuova società. Così, il ricorso barbarico è il ritorno al divagare ferino nello spazio amorfo.
127
L'elemento nuovo ed eccezionale è dato dal fatto che i barbari vincono, mentre nella barbarie prima gli uomini bestiali ed erranti finivano domati da coloro che già si erano arrestati in un luogo fisso e avevano iniziato il loro tempo storico. Nella barbarie dei primi popoli, i pii vincono imponendosi sull’animalità, mentre qui sono i pii a cadere. Il problema viene ricondotto alla vecchiaia della civiltà romana, contro il giovanile ardimento dei barbari. D'altra parte, così vuole la provvidenza, le nazioni invecchiano e si imbarbariscono per divenire infine eserciti a difesa del cristianesimo. Con una tale visione la provvidenza-previdenza assume una connotazione esterna e dogmatica; poi, Vico assume uniformità nella nuova barbarie con la vecchiaia, e finisce in tal modo, per non dare alcuna importanza al cristianesimo. L'uniformità barbarica è chiara, essa è data dal metodo con cui risolvere il problema delle epoche e dei periodi; problema sempre aperto e che non permette né troppo facili analogie né l'annullamento di ogni termine e di ogni distinzione. Metodo fecondo di cui Vico acquista risalto nelle pagine dedicate all’ "Eterna natura dei feudi" (81). In ultima analisi la spiegazione del fatto è ricondotta all'uniformità della natura umana e, così, al principio e metodo che resta sempre uguale nel variegato orizzonte. Ma nel suo mutamento la materia dà un nuovo senso e un nuovo aspetto alla stessa forma: "Quindi nell'Europa in uno sformato numero tante città, terre e castella s’osservano nomi di santi; perché in luoghi o erti o riposti, per udire la messa e fare gli altri uffizi di pietra comandati dalla nostra
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religione, si arrivano picciole chiesicciuole, le quali si possono deffinire essere state in quei tempi i naturali asili de’ cristiani, i quali ivi da presso fabbricavano i loro abituri: onde dappertutto le più antiche cose, che si osservano di questa barbarie seconda, sono picciole chiese in sì fatti luoghi, per lo più dirute" (81). Sui castelli si raccoglievano gli Homines, i nuovi famolì, che presentavano l'omaggio, e che diviene Hominis agium. L'ossequio sarà così, la fedeltà del vassallo al barone e il clientelismo sarà all'interno del feudo. I feudi prima furono personali, poi i reali, e saranno assegnati dai vincitori ai vinti, poiché i ” Vincitori tenevano per sé i campi colti e davano ai poveri vinti i campi incolti per sostentarsi" (82). Ritornano così i possessi romani del quaritario e bonitario, e in analogia omerica, torna il grande poeta, Dante.
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4 Mito-Illuminismo-modernità ed ermeneutica
4-1 Mito-Illuminismo-modernità
Sull'opera di Vico è notevole l'indifferenza dei grandi pensatori del nostro tempo. Solo nel 1993 Gadamer osserva che in Italia viene proposto un risveglio dell'antica civiltà, che da Napoli rimbalza in tutta Europa. Pensiero e opere di Vico che a lungo sarebbe rimasto in ombra per un risveglio contemporaneo. Scienza Nuova così, sembrerebbe solo oggi riscuotere il meritato successo. Valga
la
posizione
di
Levi-Strauss,
che
dopo
duecento
cinquant’anni dalla morte di Vico, con iniziative in Italia e in America, attraverso lo sguardo antropologico sostiene sul pensatore napoletano: "Il pensiero scientifico, nella sua forma più moderna, invita a conoscere che, nel linguaggio probabilmente fin dalle origini, la metafora è l'analogia godono di pieno diritto di esistenza, come affermava Vico negando che esse fossero soltanto ingegnosi ritrovati degli scrittori". (C. Levi Strauss, L’ultimo degli irochesi, La Repubblica, (83)
. Strauss invita a vedere nel linguaggio figurato una modalità
fondamentale del pensiero,
con cui Vico denuncia l'errore dei
linguisti, i quali affermano "Che col parlare dei prosatori proprio que de poeti. Poiché, prima fu il parlare del verso, e poi la prosa"
(84)
. 130
Continua Levi Strauss: "Da parte loro, i poeti, per attingere a verità che sono situate a un livello più profondo rispetto all'esperienza ordinaria, utilizzano il linguaggio in maniera originale e sintetica, moltiplicandone le prospettive [...]” (vedi prima). Tale prospettiva non pone che l’aggiunzione dei miti, come pluralità variante. “A volte, per l'uomo della strada pensiero scientifico e mitologico servono per descrivere la stessa cosa”(vedi prima). Dunque, attraverso il pensiero si afferma che l'opera di Vico si volge verso la sensibilità, il sentimento, l'immaginazione, l'inventiva; dove la ragione dispiegata è cosa ben diversa dalla ragione pura. Infatti Vico in Scienza Nuova, non si occupa di ragione pura e astratta, ma in senso euristico. Tale scienza, si pone secondo Soccio, come inno alla ingegnosità creativa, dell'uomo in ogni campo. Al caso si citeranno più volte alcune degnità, pure alcuni tratti di questa scienza; la prima si presenta a fondamento dell'intero impalco di pensiero: "Ogni qual volta l'uomo, causa l'indefinita sua mente, si ritrova nella selva oscura dell'ignoranza, non può che far leva sui valori universali per riacquistare nuova degnità"(comune posizione saggistica). Motivazione per cui Vico chiama degnità tutto l'insieme di regole e assiomi che poi saranno il fondamento di tutta la scienza. Il riacquistare una nuova posizione storica, dignitosa di essere chiamata e intesa vivibile. Si aprono le porte alle moderne scienze, e come metafisica della mente, alla semplificata figurativa delle figure mitiche. Non solo scienza, ma anche critica verso l'umano e divino sapere. Questa è una storia che prende inizio con l’iperuranio di
131
Platone, come sede delle idee o delle verità assolute; benché ora l’iperuranio corrisponda all’intera totalità umana. Sede assoluta nel
Fedro (247)
(85)
, che Hegel vede nello stato assoluto, in quanto,
sinonimo di verità e di ragione. Al nostro autore interesserà oltre ogni cosa la filogenesi, riconducibile alla ontogenesi, nel caso richiamiamo lo Zibaldone del Leopardi
(86)
, in cui lo stesso fonda la sua tesi sull'effetto poetico, e
sull'universalità del suo risultato. "La perfezione della ragione consiste in un conoscere la sua propria insufficienza a felicitarci". Nella sua necessità storica l'uomo, si raffronta continuamente con l'aspetto mitologico; i miti di Caino e Abele, secondo il Vico, sono la leggendaria contesa fratricida dell'uso della terra. Fin dai primordi storici la lotta tra pastori e contadini si avverte. Ma ora tornando al carattere di meraviglia che genera la curiosità, da cui nasce scienza e mito, dove l'uomo nell'età dei fanciulli levò gli occhi al cielo mostrando curiosità e meraviglia: da qui ci dice Aristotele, nasce il filosofare, dal pensiero dubbioso di chi riconosce di non sapere (Aristo. La metafisica, G. Reale, Rusconi, Milano, 93). L'uomo dunque, pensa e inventa al contempo cercando di scoprire gli elementi in natura apparentemente inspiegabili. P. Soccio in Penso e dunque invento , come il Battistini già citato, pone la ragione su due livelli differenziati: la ragione tutta dispiegata, la ragione pura. Ragione di appartenenza alla filosofia teoretica e speculativa di ogni tempo; quella inventiva intenta a interpretare una via nuova, una nuova arte.
132
Nella terza età Vico si occupa della ragione dispiegata indirettamente e polemicamente; tanto che nelle due prime età
Scienza Nuova si occupa prevalentemente del linguaggio poetico o della sapienza volgare. Il bersaglio di Vico è Cartesio, come matrice della pura ragione; ben altra polemica come si è già accennato, è rivolta nei confronti di Bayle, ritenuto a buon veduta il vero antagonista di Vico (87). Provvidenza e non l'ateismo come vuole Bayle, è la vera preoccupazione di Vico: infatti, questa scienza si propone come una teologia ragionata della provvidenza, che inizia dalla sapienza volgare, dai legislatori fondatori delle nazioni, e che nel compimento vede l'opera dei filosofi. D'altra parte la degnità 14 ci dice: "Natura di cose altro non è che nascimento di esse in certi tempi e con certe guise, le quali sempre che sono tali, indi tali e non altre nascono le cose” (88). Vico indica le origini di quando: "I primi uomini cominciarono umanamente a pensare”, e di conseguenza a fare e agire. Benché i nostri mezzi sono i moderni epistemici, la loro autenticità è provata solo in quella data mentalità, per comprendere realmente, e sollecitati da una poderosa fantasia. Paolo Rossi in Devozioni
Vichiane (89), indica il Vico come figura rapportabile ad altre figure di livello europeo come Hume, Rousseau, Kant, ma anzi funge da figura anticipatrice di Husserl. Un giorno Goethe accolse in dono una stampa di Scienza Nuova, e così si espresse: "E’ cosa ben degna, che una nazione possegga un tal patriarca. Per noi tedeschi, una Bibbia simile sarà un giorno lo Hamann” (90). 133
Ma sappiamo che Hamann fu ant’illuminista come Vico, morì nel 1788, e già notava i limiti e i pericoli della pura ragione dell'amico Kant. Occorre ora distinguere tra mente e intelletto e tra le modificazioni di Vico e le categorie di Kant. Si commette un errore ritenendo mente e intelletto sinonimi; il Soccio si limita a dire che “Mente è l'insieme di attività che sente, immagina, ricorda, intuisce, pensa e come coscienza, basa la sua certezza su una realtà unilaterale e psicologica” (91); cosa che Vico rilevò ampiamente. Le modificazioni di Vico sono un prodotto della mente, mentre le categorie di Kant sono prodotte a priori dall'intelletto. Le modificazioni acquisiscono indubbio valore storico attraverso i tre tempi; mentre le categorie sono costanti nell'intelletto. Modificazioni o “guise”, come lo stesso Vico le chiama modificazioni dello spirito, sono innumerevoli: dieci in Aristotele e dodici in Kant. Al caso si ritenga la categoria come entità astratta dell'intelletto, che nel suo costante schematizzare agisce miticamente sull'arbitrio soggettivo. Dunque, nel riprender continuamente Vico, si ripetono le modificazioni della mente e non dell'intelletto come età di senso, fantasia e ragione. Nel percorrere la strada saggistica indicata, da una parte si pone la chiusura all'eterno problema delle infinità metafisiche, dall'altra parte si radica la scienza nella “Metafisica della mente”. Il “Cogito ergo sum cartesiano”, non è unicamente come atto di coscienza, cioè psicologico, ma: "Or che i poeti teologi, con un aspetto di rozzissima fisica, guardarono nell'uomo queste due metafisiche idee: da essere e di sussistere. Certamente gli eroi latini
134
sentirono l'essere, assai grossolanamente, con esso mangiare, che dovette essere il primo significato di sum, che poi significò l'uomo e l'altro; conforme anch'oggi i nostri contadini, per dire che, l’ammalato, vive, [...]. Sentirono la sostanza, che vuoi dire cosa che sta sotto e sostiene [...]" (92). In Filosofia è sempre esistito il grande problema della metafisica, ma questo viene storicamente a configurarsi attraverso l'orizzonte del linguaggio. Wittgenstein è categorico nel far emergere i dubbi linguistici nei metodi metafisici, nel varcare il ponte del trascendentale. Dove la filosofia non è vista come un emendare, ma come processo educativo della volontà, o come lo stesso Wittgenstein, suffragando il pensiero di Vico, una terapia: che nella regressione temporale si lenisce delle sue sbavature (93). Vico si pone come ant’illuminista, proprio durante l'illuminismo, calandosi nel sempiterno problema tra scienza e metafisica; tra la verità della religione e la religione della verità. La nostra spiritualitàreligiosità (religo-religere-legare) è il presupposto di base delle due posizioni; che non può che generare i miti. La religione della verità si radica su di un fatto di fede e diviene metafisica-teologia; mentre la filosofia tende ad essere un fatto assoluto e diviene religione della verità, benché nel nostro caso non è che immaginazione e mito.
Scienza Nuova è studiata da Max Horkheimer, e ne riconosce il senso spicciolo della sua realtà, con la dipendenza della cultura occidentale
acquisita nel corso storico. Ne sottolinea la
spregiudicatezza con cui Vico si accinge alla convinzione religiosa
135
come giudizio ultimo sulla soggettività, rispetto a un ente che resta trascendente nei confronti della storia. In comunione con W. Adorno in Dialettica
dell'Illuminismo
(94)
, si radicalizza nel pensiero
palesemente moderno che retrodatano le radici della cultura occidentale. Dunque, tra matrice illuministica e ciò che è il mito, fuori dalla comprensione vichiana, c'è una netta antitesi. L'illuminismo si pone fuori dalla magia, con l'uomo a dominio della natura, e tuttavia coopera con quell'oggetto dal quale prende le distanze. Secondo i due tedeschi è cosa inevitabile che il soggetto pervenga alla propria identità attraverso la ragione e a quello spirito che razionalizza la natura, distinguendo tra soggetto e oggetto, quanto fra essenza universale e fenomeno particolare. "La prima forma di conoscenza attraverso [...] Affermare se stessi al mondo delle potenze ostili [...] è il rito (in aggiunta mito)"
(95)
.È
chiaro il tentativo razionale di rendere razionale la natura. Vico affronta la questione davvero scottante attraverso il metodo triadico speculativo,
e
l'immaginazione,
ermeneutico
nell'affrontare
i
diviene
strumento
fatti-materiali.
Ma
la
storico ragione
illuministica si rinchiude in se stessa; da un lato si allontana dalla natura per studiarla con la ragione, peraltro la interiorizza fatalmente per poi porla nell'oblio. "È
questa
la barbarie
insita
nel
illuminismo" (95). La stessa che l'assoluto ego ontologico hegeliano ricerca nella storicità di un popolo; medesima, ma rapportata a livelli
136
universalistici quella vichiana, che diviene matrice fuori da ogni tempo e ogni direttiva. La barbarie, tuttavia, non è assolutamente generalizzabile universalmente sul piano oggettivo. Ma se Scienza
Nuova si pone su una diversificata temporalità con medesime modalità, in una pluralità di modi e luoghi e nazioni; è vero che il ritorno alla barbarie è anch’esso diversificato e posto su piani storici e temporali assolutamente solo euristici. Sul ricorso storico, e così, sul ritorno barbarico, che il pensiero di Vico non abbassa le armi; ciò che insegna Scienza Nuova è l'esser fuori da ogni totalitarismo e cattivo naturalismo razionalistico, con l'accettazione della presenza perenne della barbarie. Un infinito gioco dialettico tra bene e male che viene ad essere sviscerato in un ideale mai raggiungibile. In tale meccanismo, è insito l'inizio della barbarie: da un lato troviamo il silente dominio dello spirito attraverso le dinamiche dialettiche tra bene e male; ma se lo spirito diviene regalità assoluta come portatore di verità assoluta, allora la barbarie avrà vinto. Dunque, l'illuminismo pone la ragione a radice della natura, porta dietro di se il trascendente stesso della natura, viola la soggettività mortificando il sé e la natura. Nel riprendere gli autori tedeschi :"[...] La natura mutilata e sfigurata, la ragione irrazionale, [...] Sono dunque, il nucleo originario che genera le dinamiche della civiltà occidentale" (96). il mito che si cercò di riportare a ragione, diviene il mito di sé stesso, e così, succede nell’Illuminismo. Originariamente la barbarie appartiene alla ragione, dove il soggetto scompare nel rassicurante orizzonte totalitario; in modo 137
particolare si nota che la modernità non è demagificata, ma incombe il magico dogma della barbarie. Forma di dominio e soggettività che manca; cosa che rigetta già a priori Vico con il "provare senza sentire" in cui la soggettività si rispecchia nel luogo comune della comune radice poetica delle nazioni. Pare così evidente, il vano tentativo di realizzare le premesse di un nuovo illuminismo, dove la modernità mostra non il tradimento dei suoi valori, ma l'esatta sua verità. Quella verità di ragione già in sé contraddittoria, mostrando il fallimento di ogni “Ismo” quale esso sia: facendo emergere come vero valore da raggiungere quell'oggetto in una moltitudine di oggetti e soggetti. Questo, è quel che Vico chiama e richiama come il “Provare ancor prima di sentire”. La critica diviene ora genealogica, che si trasforma in un ripercorrere il cammino aporetico della ragione che viene posta su due piani. Il terrore e la paura corre in aiuto alla ragione, “Mostrando che della parabola del progresso, è possibile solo la ricaduta nella barbarie o l'inizio della storia veramente umana”
(97)
. Horkheimer su tali aspetti
apre variegate soluzioni con Arte nuova e cultura di massa; dove l'arte autonoma, quella che non è intrattenimento e svago, conserva l'utopico bisogno di libertà dell'essere, senza appellarsi agli istinti ormai corrotti. Se gli istinti libidinosi dell'uomo-animale vagante per la selva oscura, vengono destituiti nei loci delle terre delimitate a coltivazioni, attraverso la cinerea funeraria; tali valori, oggi, sono completamente persi. Per essi, solo uno scavo triadico ragionato può far riemergere il valore. Vico ne specula il valore, Horkheimer ne ribadisce il sogno non perduto. Se scelta esiste, dunque, è tra libertà
138
e necessità; lotta eterna tra bene e male che al di là di ogni affare mitologico, proprio nel mito si esprime. "La trasformazione della totalità sociale ha sì le sue basi di possibilità nel presente, ma si affida alla fantasia, a un'immagine del futuro che nasce dalla comprensione del presente e che orienta il pensiero anche quando la storia si allontana da essa" (98). Si è rapportati a un ripensamento della ragione senza alcuna mediazione, e ricorre sia alla continuazione della ragione attraverso l'immaginazione utopica, con le soggettività storiche rapportate ad una critica orientata a crisi arretrate. Il dittico uomo-natura diviene il rapporto filosofia-mito, nel proseguimento del mezzo immaginativo che si è già visto. In tal modo, la pretesa di redenzione è più una utopia tragica, che una carica di speranza; cosa che contrariamente il Vico vede attraverso l'ottica della previdenza. Il programma illuministico prevedeva di liberare il mondo dalla magia e dei miti, rovesciando l'immaginazione con l'orizzonte baconiano attraverso l'aspetto sperimentale; non vedendo che il mito della parola in sé pone dei limiti insuperabili. Vico nella sua posizione, cerca di superare il mito del logos nel raggiungimento dell'età poietica, nel momento in cui attraverso la ragione dispiegata, la stessa ragione raggiunge la posizione triadica. "Così che i miti che sotto i colpi dell'illuminismo cadono, sono il medesimo prodotto dallo stesso illuminismo"
(99)
; se il mito diviene
racconto quasi in forma religiosa, i significati degli elementi della natura divengono dei. In ciò la religione rivelata ebraica concorda con la religiosità olimpica dei greci: "l'Illuminismo ad ogni passo si impiglia più profondamente nella mitologia. Riceve ogni materia dei miti per
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distruggerli, e, come giudice, incorre a sua volta nell'incantesimo mitico”
(99)
. Adorno e Horkheimer riconoscono in Scienza Nuova un
disincanto sulla realtà attraverso uno sprezzante atteggiamento di Vico, dove con la religione rivelata, il soggetto acquista la libertà del trascendente e nei possibili pregiudizi. Benché il mantenere la posizione trascendentale del singolo soggetto, va a soccorso dell'aspetto filologico dei materiali mitici e segreti della storia; l'aspetto di fondo del lato estetico è quello empirico, e nulla in comune con l'idealismo di Croce o con la speculativa idealistica hegeliana, con la pretesa di portare il divino nel mondo degli uomini. Vico nel suo disincanto della realtà, libero dal pregiudizio della rivelazione, si attiene alla storicità del fatto, che diviene vero. D'altra parte l'idealismo di Hegel sfocia nel materialismo storico dialettico, che si vedrà poi con Marx, e nel mito dello stato portatore di etica, quale fu poi la nazione germanica. In tale direttiva si erge il pensiero di Vico, laddove "La boria dei dotti e delle nazioni" affogano le loro voglie di potere e di predominio: proprio nella comune matrice poietica di un vissuto che mai trascorre, che mai passa, per lasciar posto alla purezza fanciullesca della disperazione. Nel riacquistare la dignità di uomo, di tutto l'impalco teoretico-pratico di Scienza Nuova. Dunque, quel che già con il “De antiquissima italica sapientia” Vico richiamava "verum et factum convertuntur”, si ha il raggiungimento della trasformazione della parola-logos in azione-fatto. Con la coincidenza tra la questione estetico-teoretica in etica; motivo per cui, come visto in Paci, Vico non risolve il rapporto arte e mito. Per 140
quale necessità affrontare il luogo del vissuto, quando lo stesso vissuto si richiama al comune vissuto di ciò che tutti provano ancor prima di sentire? Il napoletano radica la sua dialettica del corso e ricorso storico, come s’è già più volte detto, nella prima degnità: "Causa la sua indefinita natura, l'uomo ogni qual volta ricade nella selva oscura, non può che riacquistare la sua dignità di uomo, attraverso i valori universali"; e nel prevedere l'alternanza dialettica di tali valori, deve provvedere ad un continuo storico. Ben sapendo che il sapere più antico, quello più arcaico, comune ad ogni nazione è il vissuto mortale.
141
4-2 Il mito e l’ermeneutica
La discussione filosofica oggi, s’accentra intorno all'orizzonte ermeneutico, nel sostanziale fatto che ormai non esistono più fatti ma infinite e variegate interpretazioni. Quello che era il conflitto originario filosofico che i greci chiamarono “Paideia”, tra "Episteme" e "Doxa", può oggi essere in grado di capire le "archai"? Secondo V. Vitiello in La favola di Cadmo- La storia tra scienza e
mito da Blumemberg a Vico, solo l’aspetto ermeneutico può rispondere al meglio a ciò. Di fatto con l’ermeneutica si ha il trionfo della doxa, che contro la logica, fa prevalere il primato della storia. Quel sapere pratico-phronetico dedito alla pratica, che vive di quella saggezza che accomuna il fatto alla conoscenza. Il momento magico lo si coglie nel “Cairos”(opportunità di messa in atto della conoscenza), e più che il rigore dell'argomentazione politica della mediazione o del compromesso. Non si attua un’ imposizione legale del soggetto, ma in sintesi una continua assimilazione o mimesi soggettiva; fin quando i confini si indeterminano nell'entrare nell’episteme. Nella mimesi avviene il fare dopo l'aver sentito. Il ritorno della Koinè filosofica di oggi, fu anzitempo avvertita, nel tentativo di rifiuto della metafisica e dei suoi principi classici su cui si erge la cultura occidentale; ma vediamo che la Doxa non può fare a meno dell’Episteme, cominciando dal principio di non-contraddizione. 142
È impossibile dire una contraddizione se non in una proposizione non
contraddittoria.
Il
sillogismo
aristotelico
sembrerebbe
invalicabile tramite il suo “èlenchos”, tuttavia ci chiediamo come può affermarsi la Doxa. Sembrerebbe quasi un ritorno ai grandi presocratici nell'orizzonte di una contro storia, dove emerge la necessità di un ripensamento dei concetti spazio-tempo con i loro successivi rapporti, data la posizione di Hegel nell'orizzonte trascendentale e di intelligibilità manifesta dell'ente in quanto tale. Dopo Hegel, ciò che viene messo in discussione nella stessa “Physis”, è non l'ordinamento umano ovvero la polis. Posizione assai vicina a quella di Vico, nel bisogno di una storia "ideale eterna" e non di una storia che scorre nel suo tempo. Se oggi si contempla un ritorno al mito, significa presupporre una visione complessiva e totalizzante della storia, contro il celebrativo atto dell'individuo e del luogo. Si affronta la questione attraverso il concetto di mondo che offre lo stesso Vico; nel determinante bisogno del carattere proprio del mondo. Si caratterizza la necessità di individuazione della polis, in quella comunità di uomini attraverso la nascita della filosofia, in cui va inteso il compito che Vico assegna alla filosofia stessa. Ma la filosofia non nasce dalla legislazione, tant'è che le leggi pre-esistono ad essa e fondate sulla ragione. Il Vitiello rimarca la degnità sette: "Questa degnità pruova esservi provvidenza divina e ella sia una mente divina legislatrice, [...]" (100). La mente divina appare qui come il logos o Dio, non la parola dell'uomo, che al caso può ascoltare l'uomo quando egli intende i
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dettami. La provvidenza per Vico si rivela alla ragione, indicando un rapporto privilegiato tra mente divina e mente pura dell'uomo, dove si capisce che esiste una filosofia ancor prima della filosofia. Vi è una ragione che opera inconsciamente prima e poi con consapevolezza, è quella che istituisce la legge. La mente pura in Vico si manifesta solo in Dio, e dunque, la connessione tra la mente pura e la mente dispiegata già precedentemente appurata, ora viene ripresa. Puntualizzando alcune certezze di tutto l'impalco teoretico del metodo di Vico possiamo dire: 1- La –Filosofia stabilisce l'ordine dei materiali allocandoli e composti nei loro luoghi; 2- l'ordine è necessario nel rappresentare non un fatto ideale, bensì dei reali fatti storici, e non può essere altrimenti; 3- le prove filologiche, ossia l'accertamento dei fatti storici, avviene in ultima analisi, perché sono precedute dalle prove filosofiche. Ben sappiamo che Vico ricerca "Un principio universale di tutto il sapere divino e umano" (101), attraverso il principio del concetto di ordine. Tanto che Vico dice della conoscenza dei “Vera rerum” e non “Le res”, ovvero i solidi, figure piane, nel loro essere senza gli attributi o accidenti. Gli enti sono sempre tali nel loro essere con la natura immutabile eterna
(101)
:” Ea
vera sunt aeterna [...] igitur idea ordinis aeterni est". Dunque, l'ordine è eterno, ma solo partecipato dall'uomo, ovvero in un’ampia contemplazione. Si rileva in tutta l'opera una "conformatio ordine mentis”, dove il conoscere non è rapportato alle cose in se , ma all'ordine delle cose. Vale a dire che i fatti o materiali che l'autore ricerca e cataloga, sono fuori e prima dell'ordine, il
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problema diviene ontologico e non certamente gnoseologico, dove la mente e l'ordine tendono alla certezza e non alla verità. Introduciamici ora in ciò che è la “conformatio”:”La conformazione della mente e non il conformarsi della mente genera il vero”, opportunamente in quel che la mente conforma, ciò a cui dà forma. Ma se è eterno l’ordine delle cose, è eterna la ragione, e la mente è divina nell’ordine delle cose; quell’ordine che in noi opera nella naturale contemplazione delle cose e dei fatti: proporzione delle cose. Si esibisce la verità della probabilità o di ciò che è verosimile come gradi inferiori della verità, ma se “L’ordine delle idee procede secondo l’ordine delle cose”, si chiarisce come è possibile parlare di circolarità tra l'aspetto filosofico e filologico. Essendo l'ordine formale alla storia, dei modi sempre operanti ancor prima della riflessione consapevole, la distinzione tra filosofia e filologia è interna alla filosofia, e dunque, tra implicito e esplicito. Ciò comporta che non ci sono slogature o fratture nel conoscere, ma esistono solo nella mente dell'uomo che non sa ancora elevarsi ai Rerum eterni (101). Con una riconduzione di filologia e filosofia si riconosce l'infinita ragione, con l'annullamento della stessa nel pensiero divino, ma qui ci si addentra nel territorio della "Storia ideale eterna”, con la particolarità concessa all’età degli eroi, e sul ricorso storico. Ma come già ricordato in precedenza, è proprio nell'età della ragione riflessa che filologia e filosofia divergono: si divide il sapere delle cose dal sapere delle parole, dando il primo cenno alla barbarie con
la
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separazione dall'ordine naturale. Ricordando gli incerti confini della prima età, quella degli dei, Vico con la degnità 44 afferma: "I primi sapienti del mondo greco furono i poeti teologi, i quali senza dubbio fiorirono innanzi agli eroi, siccome Giove fu padre di Ercole. [...] Tutte le nazioni gentili, poiché tutte ebbero i loro giovi, i loro ercoli, furono né loro incominciamenti poetiche; e [...] Prima tra loro nacque la poesia divina: dopo, l'eroica". Dal passaggio attraverso la conversione della violenza privata in esercizio pubblico, derivano le leggi. Sembrerebbe non esistere un tempo più antico a quello eroico. Ma noi sappiamo che l'intento di Vico è ben altro: cerca di elevare il tempo storico delle genti maggiori e quello delle genti minori, nel distinguo tra le età della storia ideale eterna. A questo proposito ci si raffronta alla lingua degli dei e degli eroi. "La prima fu una lingua divina mentale per atti muti religiosi, o siano divine cerimonie”
(102)
. D’altro canto la degnità 57
dice: ” I mutoli si spiegano per atti o corpi che hanno naturali rapporti alle idee che essi vogliono significare”. Chiaramente Vico vuol dire che le prime forme linguistiche dovettero essere una sorta di canto-poesia, infatti la dignità 57 è chiara: " Questa degnità è il principio dè geroglifici, cò quali si trovan aver parlato tutte le nazioni nella loro prima barbarie". S’intende quel geroglifico mono sillabo con cui le lingue probabilmente iniziano. In ultima analisi ci riferiamo a “La storia ideale eterna” e ai cicli e i ricicli storici con la finitezza della ragione, dove l'età degli dei e l'età della ragione tutta dispiegata sembrano dei territori limiti utopici e metafisici della storia. Vico accenna a quella terra oltre la storia; terra
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dove il conato non ha senso di essere, e dunque nella totale mancanza di forma. "Che prima di tutti fu il caos o confusione degli ex legi, [...]"
(103)
. Ma Eracle è colui che fonda la cultura nei campi,
l'ordine civile, e non Zeus. Così prima, vi è il caos, o il passato senza tempo, che non viene inquadrato nella storia ideale eterna. Il passaggio da una all'altra condizione, ci porta indubbiamente alla nascita dell'autocoscienza, che anticipa la posizione di Hegel con
Fenomenologia dello spirito. Essa trasforma l'essere nella sua esplicazione, dove l'ordine prestabilito opera in modo latente nella vita. Ma non c'è nascita senza morte, e dunque incominciamento: in ciò inizia ad essere come un divenire, quel che di primo è logico, sembrando con e dopo la vita. Non sarebbe razionale non considerare una visione ontologica di un pre-vita che sorge nella lotta tra i viventi essendo in gioco la vita stessa. L'uomo di fronte alla morte s'inchina, nella totale mancanza di impulsi e appetiti. C'è il vuoto nell'universalità semplice vitale, nella pura astrazione di sé. Da qui parte l'autocoscienza trascendentale, in cui si ordina il tempo, il mondo. Ma nel passato
autocosciente
immediato, ora che coscienza non c’è, il tempo è soggiogato dal servile lavoro nell'incapacità di sostenere la morte: l'astrazione del se dalla vita che sottopone chi vive alla vita. Ma il vivente è sottoposto ai bisogni della vita, nel possibile dei rapporti e nell'inversione servopadrone. Ma noi non abbiamo fatto altro che narrare e la narrazione non è che mito, ma l'autocoscienza come nasce è arduo dirlo. Il mito, in
Vico,
resta
dunque
sempre
vissuto,
nel
compiacente
147
rispecchiamento tra soggetto e predicato. Dopo vi è la narrazione del mito, e dunque mitologia (104).
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Ж Verso le conclusioni
Vico nel mito ci spinge verso un carattere di non conoscenza, motivazione madre per cui l’autore, chiede a ripercorrere il sentiero dignitosamente dall'inizio, precisando che l’appropriarsi delle degnità è giusto ciò. A volte l'arte può essere espressività banale e seriale, ma il sentimento espresso coglie la radice, nello specifico mimetismo banalizzante anonimo del riconoscersi. Nel sentimento si riconosce la natura artistica umana, nella necessità ossessiva della volitiva dimostrazione, vivendo un carattere estremamente singolare del riappropriarsi oggettivamente nel comune. È una forza non comune, al contempo comune a tutti. Si è convinti che Vico, ancor prima di affrontare il mito in Scienza
Nuova, fosse in possesso del proposto metodo: la posizione triadica mentale sarebbe tale, che all'occorrenza, la mente si dilati o si accorci, giacchè ogni giudizio al momento è sospeso. Ma ancor più osando, diremmo che Vico non ha più giudizi sospesi, avvicinandoci molto al “parricidio platonico”, di essere e non-essere del Parmenide affrontato poi nel Sofista.
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Ж Bibliografia Testi di riferimento -
G. B. Vico, La scienza nuova , Rizzoli, 2008 Milano, curatore, introduzione e note di P. Rossi. Testo principale su cui si è lavorato, considerando ciò che P. Rossi introduce e annota.
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G. B. Vico, La
Saggistica - A. Battistini , La -
sapienza retorica di G. B. Vico, Guerini e ass., 1995 Milano. B. Croce, Poesia popolare e poesia d’arte , Laterza, Bari 1933. E. Paci, Ingens Sylva , saggio su Vico. Mondadori, 1949 Milano. G. Villa, La filosofia del mito secondo G. B. Vico, Bocca ed., Milano 1949. M. Fubini, Stile e umanità in G. B. Vico, Laterza, Bari 1946. N. Jorga, La litterature populaire sourse de haute letterature , Paris 1925. N. Jorga, L’art populaire en Romanie. Son caractère, ses rapport et son origine , Paris 1923.
- P. Soccio, Penso
dunque invento, Bulzoni, Roma 2000. - P. Soccio, Vico, autobiografia, poesie e Scienza Nuova, Garzanti, Milano 1983. - V. Vitiello, La favola di Cadmo. La storia tra scienza e mito da Blumemberg a Vico , Laterza, 1998 Bari. -
F. Bacone e le origini del linguaggio, saggio di P. Tornaghi, on-line, pp. 167-168-169. Altre opere citate e consultate
-
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-
G. Leopardi, Lo
-
dell’Illuminismo, Einaudi, 1997 Torino. Trad. di R. Solmi,
Zibaldone (3241-3245), ed. integr. Newton Compton s.r.l., Roma 2007. Rizzolati-Sinigallia, So quel che fai. Il cervello che agisce e i neuroni specchio, Cortina, Milano 2008.
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Ж Note
Note ai capitoli 1- Gianbattista Vico 23456789-
Scienza Nuova (44), Rizzoli ed. Milano, decima ed. 2008 , I. O.,
p. 86. d’ora in avanti S.N. 44, p. 96. ivi, p. 98. ivi, p. 101. ivi, p. 103. ivi, p. 107. ivi, p. 109. ivi, p. 110. ivi, p. 114.
10- P. Soccio, Penso dunque p. 60. 11- S.N. 44, pp. 173,174. 12- ivi, p. 175. 13141516-
invento. Del mito di Vico e oltre , ed. Bulzoni, Roma 2000,
G. Villa, La filosofia del mito P. Soccio, op. cit., pp. 60-61. ivi, p. 60. ivi, p. 60.
secondo G. B. Vico, ed. Brocca, Milano 1949 (testo).
17- V. Vitiello, La favola di Cadmo. La Ed. Laterza, Bari 1998, pp. 99…109. 18- P. Soccio, op. cit., p. 60. 19- S.N. 44, p. 62.
storia tra scienza e mito da Blumemberg aVico,
F. Bacone e le origini del linguaggio, saggio di P. Tornaghi, on line pp. 167-168-169. 21- Platone, Cratilo, (425 d, 438 d). 22- Aristotele, De interpretazione, (16.a). 20-
23- V. Vitiello, op. cit., p. 107. 24- ivi, p. 107.
Ingens Sylva, saggio su Vico, edizioni Mondadori, Milano 1949. 26- V. Vitiello, La favola di Cadmo. La storia tra scienza e mito da Blumemberg a Vico. 25- E. Paci,
2728293031323334353637-
pp. 99....109. S. N. 44, p. 208. E. Paci, op. cit., p. 145-146. ivi, p. 148-149. S.N. II, p. 147. S.N. I, p. 299. ivi, p. 215. ivi, p. 212. ivi, p. 195-196. ivi, p. 140. ivi, p. 73. ivi, p. 95.
151
38- E. Paci, op. cit., p. 159. 39404142434445-
B. Croce, La filosofia di S.N. I, p. 124. ivi, p. 245-246. ivi, p. 240. ivi, p. 146. S.N. I, p. 148. E. Paci, op. cit., p. 166.
4647484950-
M. Fubini, Stile ivi, p. 53. ivi, pp. 59-61. ivi, p. 73. ivi, p. 25.
5152535455565758596061626364656667686970717273747576777879808182-
F. Nicolini, Vico e opere, Laterza, Bari 1935, vol. II, p. 180. S.N. 44, p. 199. G. Villa, op. cit., p. 73. S.N. 44, p. 379. ivi, p. 340. F. Nicolini, op. cit., p. 71. S.N. 44 I. O., p. 205. ivi, p. 86. ivi, p. 117. ivi, p. 204. E. Paci, op. cit., p. 188. S.N. 44, I.O., p. 121. S.N. I, p. 9. ivi, p. 13. E. Paci, op. cit., p. 200. S.N. I, p. 16. ivi, p. 17. ivi, p. 18. ivi, p. 19. ivi, p. 25. S.N. 44, D., p. 173. S.N. 44, I, p. 96. ivi, p. 78. ivi, p. 75. ivi, p. 131. ivi, p. 76. ivi, p. 46. S.N. I, p. 72-73. ivi, pp. 91-92. ivi, pp. 93-101-104-119-121-122-123-124. ivi, pp. 136-135. ivi, p. 139.
83- C. Levi Strauss,
Vico, p. 205.
e umanitĂ in G. B. Vico, Laterza, Bari 1946, p. 202.
L’ultimo degli irochesi, La Repubblica, 7-8/02/1993. 152
84- S.N. I, D. 62.
Il fedro, (247). 86- G.Leopardi , Lo zibaldone, (3241-3245), ed. Newton Comton s.r.l., Roma 2007. 87- P. Soccio, Vico autobiografia, poesie; S.N.”, Milano 1983, Garzanti. P. 197 85- Platone,
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Devozioni vichiane, Riv. Fil. 1995. pp. 186… 90- Goethe, Viaggio in Italia, 1786-88, Sansoni, Firenze 1956. p. 197. 89- P. Rossi
91- P. Soccio, op. cit., p. 69. 92- S.N. 44, par. 693. 93- Su Wittgentstein, A. Massarenti, Il
sole 24, ore 1996. 94- Horkheimer-Adorno, Dialettica dell’Illuminismo, Einaudi, Torino 1997. 95- ivi, pp. XI-XII. 96- ivi, p. XV. 97- ivi, p. XXVIII. 98- ivi, p. XXXI. 99- ivi, pp. 16-19. 100- V. Vitiello, op. cit., p. 77. 101- ivi, pp. 85-89-94. 102- ivi, p. 100. 103- ivi, p. 102. 104- ivi, pp. 105-106-107.
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