Dall’aratura alla tavola a cura di eugenio giannone

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AA.VV. IMPRESSIONI DELLA MEMORIA La vita quotidiana a Cianciana nel XX secolo raccontata ai ragazzi

stralcio

Dall’aratura alla tavola a cura di eugenio giannone



Premessa Il presente “Quaderno” è lo stralcio di un più ampio lavoro a più mani, intitolato ”Impressioni della memoria, La vita quotidiana a Cianciana nel XX secolo raccontata ai ragazzi", teso a far riscoprire i momenti salienti della vita giornaliera nel nostro paese, come in qualsiasi altro del mondo contadino, nei primi decenni del Novecento ed è dedicato ai ragazzi, a quei giovani figli di internet ai quali sembra che tutto sia dovuto e che sia nato per virtù di chissà cosa. Abbiamo fatto finta di aver trovato dei diari di donne che raccontano il loro vissuto adoperando un linguaggio semplice, usuale, accattivante per incuriosire e invogliare alla lettura. E’ giusto che i giovani sappiano su quali basi poggiano le loro radici e/o il loro benessere; se ignorano è solo perché nessuno glielo ha mai detto, spiegato o raccontato. Con questo modesto lavoro speriamo di accendere la fantasia e la curiosità di qualcuno e di stimolare la ricerca e la discussione tra adulti (nonni e genitori) e giovani (nipoti o figli). Il resto del lavoro vedrà la luce al momento opportuno. Per adesso il ringraziamento mio personale e quello degli altri Amici Autori (Pietro Arfeli, Angela Chiazza, Dino Vaccaro), va a Giovanni D’Angelo, Tanina La Corte, Calogero Sanzeri, Sergio Savarino, Piero Carubia. Eugenio Giannone


Cianciana, scorcio panoramico (ph di E. Giannone)


Mappa del territorio di Cianciana (anni 40 del XIX secolo, Sindaco S. Fidanza)



Il ciclo del pane: dall’aratura alla tavola § 1. Una sera, mentre stavamo cenando, a Luigi, il più piccolo dei figli, cadde per terra la fetta di pane che stava portando in bocca. Il piccolino la raccolse e stava per gettarla nella spazzatura quando suo padre, Peppinino, lo bloccò dicendogli: “Il pane non si butta: è grazia di Dio. Sai quanti poveri oggi non hanno messo niente in bocca? E sai quanta fatica, quanto lavoro c’è dietro un tozzo di pane?” - Quanto? - chiesi io, nella speranza che mio marito illustrasse ai ragazzi quanto vale un po’ di pane. Peppinino capì e si mise a dire: “Tutto viene dalla campagna. Il pane dalla farina, la farina dal grano, il grano dal seme che va nella terra. Ma non cresce a parole. Innanzi tutto bisogna preparare il terreno e per farlo bisogna arrivarci. Chi ce l’ha, adopera il mulo, l’asino, il quadrupede, insomma; chi non ce l’ha, lo fa a piedi. Magari, dopo una/due ore di camminare, arrivi al vallone e non lo puoi attraversare perché di notte è piovuto e si è ingrossato e torni indietro bestemmiando. Hai fatto la mattinata inutilmente! Comunque, immaginiamo che il tempo sia favorevole. Ci si sveglia presto, si mangia qualcosa, si mette un po’ di pane e, se c’è, un po’ di companatico nella sacchina e si scende giù, nella stalla, a preparare la vestia, l’animale.


Degli animali, cavalli, muli o asini che siano, bisogna avere cura, governarli, perché senza di loro non si può lavorare. Occorre strigliarli, portali a bere al bevaio, dar loro la pruvenna, la paglia o il fieno, stare attenti a dove mettono le zampe e, al bisogno, farli ferrare dal maniscalco, il padre della ‘gnura Cuncetta. Noi li teniamo nella stalla, che è al piano di sotto, e mangiamo e dormiamo nei piani alti, ma molte famiglie non hanno questa fortuna. Spesso, in un’abitazione di contadini, quando si entra, la prima stanza è rappresentata dalla stalla da cui si accede agli altri locali (se ne hanno più di uno!), tutti infettati dalla puzza di stallatico (fumeri). § 2. L’aratura. Per qualche giorno pulisci il terreno delle sterpaglie e delle pietre, poi, dopo le prime piogge autunnali che lo rendono più morbido e perciò meno pesante, cominci l’aratura per prepararlo alla semina. L’aratro è importante perché ti consente di rompere bene il terreno scendendo in profondità. Oggi è possibile con il vomere di ferro ma una volta non era così perché il discissore era di legno e l’incisione del terreno era solo superficiale. < ph di P. Arfeli

L’aratro a chiodo che utilizziamo noi va aggiogato alla vestia, mulo o asino che sia, attraverso il sidduni, cioè la sella, cui lo conducono due stanghe (nel caso di un solo animale) che partono dal timone. Questo tipo di aratro, che si dice a scocca, va bene per appezzamenti di piccole dimensioni come il nostro; però se ti fai aiutare da qualche amico o compagno di lavoro che ha un


altro animale le cose vanno meglio, perché finisci prima e in due si può esercitare più forza sullo strumento e lo scavo avviene più in profondità. In questo caso, cioè con più d’un animale aggiogato, si deve usare un aratro più grande e il giogo si dice a ivu (o juvu) e il timone è più grande. Anziché al sidduni, più spesso e più accortamente l’aratro viene attaccato al vardeddu, cioè una specie di collare che va, appunto, sul collo dell’animale, da sopra, ed è imbottito di paglia su un telaio di legno. Da noi non si usa, ma in altri posti, soprattutto dell’Italia, anziché muli, asini o cavalli (raramente) si aggiogano i buoi. Dopo qualche ora è bene fare riposare gli animali e prendere un boccone. Il terreno va ripassato più volte con l’aratro e per farlo tutto e renderlo soffice e uniforme ce ne vuole di tempo! Sembra che non si finisca mai, anche se sei aiutato! § 3. La semina. All’aratura segue la semina. Anche per essa è necessario avere un aiuto, diversamente non si finisce mai ed, essendo in autunno, le piogge potrebbero ostacolare il lavoro. ph internet > Prima che cominci l’operazione, le donne a casa puliscono le sementi. Mettono il frumento da seminare sul tavolo e lo nettano delle pietruzze e delle altre impurità, aiutandosi magari con qualche staccio o crivu d’occhiu a rete un po’ larga, ma non troppo.


La semina del grano generalmente comincia i primi giorni di novembre ed è molto faticosa perché, a differenza di quando si semina altro, i semi devono cadere nei solchi che poi saranno coperti per evitare che i passeri li mangino. Il seminatore porta le sementi in una coffa che gli pende dalla spalla sinistra (o destra, se mancino), ne prende un pugno e lascia cadere nei solchi la stessa quantità per evitare che in alcuni punti cresca più grano che in altri. L’orzo e la segale si seminano a spaglio, alla paesana a pruvulinu. La copertura dei solchi seminati avviene con lo stesso aratro, che provvede mentre apre un altro solco a coprire quello accanto già seminato. In qualche posto si usa, per farlo, attaccare con due corde un palo rotondo alla vestia e andare avanti e indietro per il seminato per livellarlo, e quindi ricoprire. Terminata la semina, che come detto dura parecchio tempo a seconda della quantità dei terreni, si aspetta che riprenda a piovere e che il terreno si ammanti del verde del grano (lavuri) che, spuntando, comincia a crescere. Qualche tempo dopo l’aratura bisogna pulire il terreno delle prime erbe (sarchiare) che cominciano a farsi vedere e si zappulìa con una zappetta (zappudda); altrove si adopera il rastrello. Tra la fine d’aprile e maggio è necessario scurriri lu lavuri (scerbare) per liberarlo delle erbacce, come jina, gramigna, logliu etc, che lo infestano. A questo lavoro, lungo e faticoso, da ripetere magari più d’una volta, partecipa tutta la famiglia: maschi e femmine, giovani e anziani. E lo farete anche voi, quando sarete più grandicelli e in grado di non confondere le varie erbe.


Con i trattori molte cose sono cambiate ed è diminuita la fatica, anche se il lavoro in campagna non finisce mai. - Per questa sera basta - disse Peppinino - Sono stanco e devo alzarmi presto. Continueremo domani sera. § 4. La mietitura. Verso metà giugno, quando le spighe del grano sono già bionde e perciò mature, si provvede alla mietitura per la quale occorrono parecchi uomini. I mietitori si fanno trovare di buon mattino sulla gradinata della Torre dell’Orologio con la falce, l’attrezzo del mestiere, in spalla nella speranza di essere scelti per il lavoro e assicurare un tozzo di pane ai figli, arrostendosi al sole l’intera giornata, al punto da diventare quasi neri, scurissimi. La giornata lavorativa inizia alle prime luci del giorno per concludersi al tramonto, con brevi intervalli per i pasti, ‘n siccu a mezzogiorno mentre la sera per i mietitori forestieri c’è un bel piatto di pasta a sugo.

Campo di grano (ph. internet)


Non c’è un attimo di tregua, si lavora in continuazione mentre il sudore ti cola abbondante dalla testa e da tutto il corpo e stemperi la sete con un sorso d’acqua o di vino dal bummulu o dal ciascu, tenuti in qualche modo al fresco. Giunti sul campo i mietitori iniziano subito a lavorare di falce; prima però si fanno la croce e innalzano una preghiera al Padre Eterno (E ogni ura e ogni mumentu ringraziammu lu santissimu e divinissimu Sacramentu), indossano un pettorale di lona sulla camicia, una manichedda sul braccio sinistro (destro, se sei mancino) e i ditali di canna per salvaguardare le dita della mano che non impugna la falce. Si comincia a lavorare e con la mano sinistra si tengono più spighe possibile per farne un mazzo consistente, che maritatu (accoppiato) con un altro costituisce uno jermitu (mannello); otto jermiti formano ‘na gregna, un covone, che viene legato con una liama, una specie di legaccio fatto con gli steli della disa, cioè dell’ampelodesmo, da lu ligaturi che si aiuta con ancinu e ancineddu. Li jermiti vengono ‘ncavaddati a gruppi di sei e lasciati sul posto; verrà poi lu strauliaturi (cuglituri o pisaturi) a raccoglierli per portarli al punto di raccolta (l’aria) per la pisatina. Sei muli, caricati con sei covoni ciascuno, formano una retina. Durante il trasporto i mulattieri cantano canzoni d’amore, stornelli


§ 5. La pisatina. Nel frattempo, accanto alla casa colonica – per modo di dire, perché spesso si tratta di un catoio o qualcosa che è parente prossimo d’un pagliaio – o in un posto adatto all’uopo e ritenuto abbastanza ventilato perché esposto a lu punenti, s’è approntata l’aria (aia), il cui suolo in qualche modo viene livellato. Il suolo dell’aia, larga generalmente una decina di metri se a pisari saranno due muli, dev’essere pulito; quindi si bagna e sul bagnato si mette la paglia che poi si pesta con i piedi per indurirlo. Il cerchio dell’aia, naturalmente di forma rotonda, si riempie di gregni libere delle liame, che vengono rimestate con i forconi, tranne quelle esterne, che costituiscono lu curduni di l’aria, dopo di che si comincia a pisari con due vestie (muli) che vengono appaiate e fatte girare per un periodo da destra a sinistra e poi all’inverso dal pisaturi che, piazzato al centro dell’aia, le avvia e le regola con le redini e a colpi di zotta. Nell’aia si versano sei mazzi di gregni alla volta e ogni mazzo si compone di venti gregni. Si pisa fino a che li gregni di sopra non appaiono del tutto sminuzzate e la paglia abbonda, dopo di che si rivoltano per pisari li gregni di sotto ancora intatte, mentre un contadino col tridente ributta dentro l’aia quanto finisce fuori o sul curduni.


Questa fase del lavoro avviene a più riprese perché bisogna fare riposare gli animali e liberare l’aia della troppa paglia e dura parecchi giorni. § 6. La spagliata. Come avveniva? Con i tradenti, cominciando dal ponente verso il levante e lanciando più in alto possibile di modo che la paglia si accumuli sul lato di levante formando la cosiddetta margunata, che quando diventa troppo voluminosa, e perciò ingombrante, si allontana dall’aia.

Finito di pisari li gregni e tolto il grosso della paglia, bisogna eliminare la paglia più fine detta bastarda, che si tenta di spagliare sempre con i tradenti i cui “denti” per l’occasione sono avvolti da liami intrecciati per renderli più fitti e trattenere meglio la bastarda, che così viene allontanata “alleggerendo” il frumento. Dopo il grano viene “ripassato” con la pala (paliari), sempre spagliando. Ad un certo momento, quando tutto il raccolto in qualche modo ha ricevuto questa prima pulitura, il contadino pianta al centro dell’aia un tridente e attorno vi ammonticchia il grano e, ponendovisi quasi a ridosso e continuando a spalare e spagliare, lo alleggerisce ulteriormente dei gruppi, cioè della ristuccia (festuche, stoppie) rimanente, che è quella più vicina alla spiga.


Completata anche questa fase, se ci sono ancora molti gruppi si interviene con le mazze. A volte capita di stare ore ed ore ad aspettare un alito di vento per portare a compimento il lavoro e il nervosismo e le bestemmie abbondano. Inizia ora la “cernitura”, che avviene con i crivi (setacci), a maglia varia, da cui passano solo i chicchi mentre la pula e le pietruzze restano dentro il setaccio. > foto internet Oggi tutto è meccanizzato; ci sono le trebbie e mietitrebbie e il contadino fatica molto meno. Benedetto progresso! Smesso di setacciare, il frumento s’insacca e si porta a casa; si trattiene quello che serve per panificare e fare la pasta (la ‘nchiusa), nonché le sementi per la prossima semina; il resto si vende via via; o, se capita, tutto assieme. A casa, spesso e per guadagnare spazio, il frumento della ‘nchiusa s’insacca o si sistema nelle fosse oppure sotto il letto con i trespoli, attorno al quale si sistemano a cordone i sacchi per evitare che si stramini, cioè si sparpagli. In qualche periodo il raccolto è stato nascosto per evitare che andasse all’ammasso. Durante il trasporto del grano a casa il contadino, soprattutto di notte, canta per farsi riconoscere dalla voce perché di delinquenti in giro ce ne sono tanti e potrebbero derubarti e farti male, se reagisci.


§ 7. La spigolatura. Concluse tutte le operazioni relative al raccolto e sistemato il grano in casa, molte donne, e anche parecchi uomini, appartenenti al ceto più povero della popolazione, chiedono ai proprietari terrieri il permesso generalmente accordato - di andare a viscuglia (a spigolare), nella speranza di trovare le spighe (non raccolte) necessarie ad assicurare un po’ di pane ad una prole spesso numerosa. Queste persone (li spicalora) scandagliano i terreni e, se sono fortunate, raccolgono un bel po’ di spighe che portano a casa per la loro pisatina e la loro spagliata. Svuotano coffe, cufini, carteddi e altri recipienti davanti casa e su una superfice adatta cominciano a battere le spighe con delle mazze. Mazziate a dovere le spighe e liberatele dalla paglia più grossa, le donne riempiono le coffe di frumento e della pula o paglia più minuta e, spostandosi verso dove soffia il vento, portano la coffa ripiena sopra la testa con le braccia ben alte e fanno cadere il contenuto. Il grano cade ai piedi della donna che spaglia, la pula e la paglia finiscono più lontano. Passano quindi ad annittari il cereale. ph. di E. Giannone >

§ 8. L’Abbruciareddu. I ragazzi, soprattutto i masculiddi, con un mazzetto di spighe, che legano con una festuca, fanno l’abbruciareddu abbrustolendo il frumento su un focherello, tenendo il mazzetto, intrecciato nel gambo, in mano, capovolto. Quand’ero ragazzo l’ho fatto anch’io e devo dire che i chicchi sono molto gustosi.


§ 9. Unità di misura degli aridi. Da noi l’unità di misura era (è) rappresentata dal tumminu (tòmolo), un recipiente cilindrico che contiene 14 kg di frumento. Sedici tummini costituiscono una sarma, composta anche da quattordici decalitri; mentre un munneddu corrisponde a ¼ (un quarto) di tumminu e una mitatedda a ½ (un mezzo) munneddu; un Cantàru, cioè un quintale, equivale a 100 kg; ma una volta il cantàru siciliano ne pesava 80. Ma queste misure non sono identiche in tutte le province siciliane. Unità di misura di superfici: Sarma = ettari 1,746; tumminu = are 10,91,41; munneddu = are 2,7285. In campo nazionale, abbiamo l’ettaro (ha) che corrisponde a 10.000 mq e che è multiplo dell’ara (a) -100 a per un ha – e della centiara (ca) – 10.000 per un ha. Canna: a Cianciana una canna corrisponde a m. 2,06, non identica in tutta l’Isola.


Varietà di grano diffuse nella nostra zona: Àppulo Arcangelo Bidì Capeiti Ciccio Duilio Latino Norba Perciasacchi Russello Senatore Cappelli Simeto Tumminìa


§ 10.

Foto internet

Affaccia, bedda Affaccia, bedda, cà staju vinennu: lu me curuzzu ti staju purtannu, cà li labbruzza to’ jettanu focu: li junciu cu li me e li fa’ addumari. Affaccia, bedda, cà vegnu di paglia; nun portu paglia ma portu risuglia. Me sogira mi dissi “Va’ travaglia! Nun fari mal’a patiri a me’ figlia, ca ti la detti ca jera ‘na quaglia l’ha fatt’addivintari ‘na caviglia!” - Ca haju un magasé d’oriu e paglia: pozzu manteniri a vu’ e a vostra figlia-.


Il Pane

Pieghevole relativo alla Mostra Il Pane di Sicilia, Pane devozionale nella tradizione della festa di S. Giuseppe, Cianciana 17-19 marzo 2007


§ 11. Peppinino non aveva ancora finito di parlare e stava accennando alla brutta abitudine di dar fuoco, quando la più piccola delle figlie mi chiese: “E tu, ma’, perché non ci racconti come si fa il pane”? Non mi feci pregare due volte e cominciai: “Intanto ci vuole la farina per cui riempio un bel sacco con due tummini di frumento, lo metto sulle spalle di tuo fratello Angelo che lo porta a macinare al mulino. Per farlo, tuo fratello attraversa tutta la piazza ma non si vergogna; arriva al mulino, aspetta il suo turno e poi porta la farina in un sacco e la caniglia (crusca), che ci serve per le galline, in un altro. Se la farina non è completamente pulita, prima d’impastarla la setaccio col crivu di sita, che ha maglie molto più strette di quelli adoperati per annittari il frumento nell’aia. Distendo quindi la farina su un tavolo o su uno scanaturi (spianatoia); ne ricavo una conca nella quale verso il criscenti (lievito madre), il sale e comincio ad impastare con l’acqua tiepida che prende. Impasto e rigiro in continuazione con forza fino ad ottenere un “pastone” dalla compostezza omogenea. Lo segno con una croce e comincio a tagliarlo, ricavandone tanti pezzi quanti saranno i pani che voglio infornare; ad ogni pezzo do la forma che desidero (chichiru, pistuluni, pagnotta), li incido lievemente di sopra con un coltello e poi li sistemosu una tavola, coprendoli con un telo bianco di cotone per lasciarli lievitare.


Qualche nostra vicina prima fa lievitare il pastone e poi fa i pani; ma è la stessa cosa. La lievitazione richiede circa due ore. Il lievito madre, cioè lu criscenti, lo puoi preparare a casa oppure te lo fai anticipare dal fornaio, al quale lo devi restituire se impasti il tuo pane presso i locali del forno o glielo paghi. Se impasti il pane dal fornaio adoperi la maidda (madìa) e prima d’infornarlo sul pane, sul quale hai fatto le solite incisioni, aggiungi un segno di riconoscimento. A casa, come facciamo noi, il forno dev’essere preriscaldato e portato a una temperatura di circa 220° e quando il pane è perfettamente lievitato (in pratica raddoppia di volume) lo inforni per circa mezz’ora. Quando lo sforni è bell’e colorito e croccante. Molti – ogni tanto la facciamo anche noi – spaccano il pane caldo a metà orizzontalmente e lu conzanu (lo condiscono) con olio, sale e pepe; qualcuno aggiunge anche un po’ di formaggio grattugiato e una sarda salata sminuzzata. E magari un pomodoro a fette. E’ una leccornia. Spesso le madri, quando impastano il pane, usano, per accontentare i piccolini, togliere un po’ di pasta dal pastone, la premono bene imponendovi le dita e ne ricavano una schiacciata, che i bambini divorano, avidamente. § 12. A questo punto riprese la parola Peppinino che disse a Luigi: - “Che dici: scendiamo giù a dare da mangiare un po’ di paglia ai nostri animali e poi li portiamo ad abbeverare?” Sì. - rispose il bambino. - Ma come? Lu sceccu porta la paglia e lu sceccu si la mangia? Proprio così! - fu il commento del padre. - Quando in campagna finiscono tutte le operazioni legate al grano, bisogna provvedere con i rituna alla raccolta della paglia e portarla a casa, sistemarla nella paglialora perché essa con la pruvenna e la sudda (sulla) costituisce il cibo per le vestie.


Li scecchi gustano anche i cardi selvatici. Li rituna sono delle reti a maglie abbastanza larghe adatte proprio alla raccolta della paglia; più pigi e più ce ne va. Nella casa del contadino paglialora e stalla quasi sempre costituiscono un unico locale.

I Venti I venti di cui sento parlare più spesso sono: Livanti: vento che soffia da est verso ovest. Pulizzanu: vento che soffia da nord-est e proviene dalle parti di Polizzi G. Punenti: detto anche Zefiro o Espero, spira da ovest. Pruvenza: vento molto freddo proveniente dalle coste della Provenza; lo chiamano anche maestrale. Sciroccu: vento caldo che sembra bruciare, proveniente da sud-est. Si chiama così perché proviene dalla direzione della Siria. Tramuntana: vento freddo che proviene da nord.


Il grano, la primavera, il mito Il più affascinante mito della classicità è quello di Demetra e Core, che gli antichi Greci hanno pateticamente tentato di far proprio ma che è di chiara origine siciliana. Ha un significato allegorico e simboleggia l’alternarsi delle stagioni, l’avvicendarsi del dì e della notte, la perenne lotta tra bene e male, il trionfo della vita sulla morte. La dea Demetra e la figlia Core abitavano al centro della Sicilia, in un luogo d’eterna primavera e il cui intenso profumo ingannava l’olfatto dei cani. Core vi trascorreva amenamente il tempo assieme a Diana ed Atena (che avrebbe in seguito regalato agli uomini l’ulivo, simbolo della pace). Della giovane dea s’invaghisce Ade (o Plutone), che la rapisce conducendola nei Campi Elisi a regnare sui morti. Demetra, disperata, cerca ovunque ma invano la figlia, beneficando i Siciliani che l’avevano ospitata col dono del grano; si rivolge infine a Giove, che ottiene dal fratello Ade che la fanciulla trascorra parte dell’anno sottoterra, accanto al marito che ha appreso ad amare, e parte sulla terra che al suo ritorno, in primavera, rifiorisce. Quale albero più del mandorlo raffigura il risveglio della natura? Quindi: Demetra rappresenta la terra-madre (DeMeter); Core, con nomi diversi, il grano verde, maturo o raccolto e, per il continuo rinascere dei fiori, la vita che trionfa sulla morte. Il frutto del grano, infatti, è alla base dell’alimentazione (=vita) di tutti i popoli mediterranei. (eg)


Le stelle del contadino La Puddara: Le Pleiadi; le Gallinelle ma anche la Stella Polare. Li setti stiddi: Le Pleiadi. Lu Triali: il Cinto (costellazione) di Orione. La stidda di l’arba o di lu jornu: Diana o Lucifero. La stidda di la sira o di l’Avirmaria: Venere. La stidda di lu vujaru e li latri: l’Orsa Maggiore. La stidda di San Paulu: Costellazione del Sagittario.


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§ 13. La pasta. Mentre Peppinino e Luigi erano giù a provvedere agli animali, Lucia, sempre curiosa, mi chiese: - Ma’,…e la pasta comu si nesci? Bella domanda. – risposi. - Ora ti spiego -. E cominciai: Il procedimento è lo stesso di quello del pane, ma l’impasto dev’essere più duro. Parecchie famiglie la comprano nei negozi di generi alimentari o presso i pastai, ma molte, soprattutto quelle contadine che hanno farina, la fanno in casa, utilizzando scanaturi, sagnaturi e coltelli, ricavandone soprattutto pasta lunga e pasta corta come tagliarina, spachetti, cavatuna e cavatunedda, maccarruna. I più usati sono gli spachetti, ma per le minestre i preferiti sono i cavatuna. Col sugo vanno bene tagliarina e spachetti1. Il Riso? Buono per il brodo degli ammalati! Molte donne utilizzano “lu fusu o lu busu, un pezzo di ferro filato della lunghezza di circa cinquanta centimetri, vi sistemano l’impasto in maniera che lo copra nella sua lunghezza in modo uniforme e dello stesso spessore; quando, a loro parere, …, la pasta copre uniformemente lu busu, munitesi di coltello ben G. D’Angelo, ”La pasta e lu pastaru” in C’era ‘na vota (Frammenti di memoria), Castel di Judica 2011, Pag. .58 1


affilato cominciano a tagliare la pasta, tutti i pezzettini alla stessa distanza, fino alla fine del fuso; dopo con una spinta della mano fanno fuoruscire dal ferro filato i rotoli di pasta e … li cavatuna su’ pronti!”.2 Chi possiede l’arbitiu impiega meno tempo e fa più pasta.

Foto internet

“L’arbitiu è uno strumento che utilizza il meccanismo della vite senza fine e della sua capacità d’imprimere forza; spingendo l’impasto e facendolo passare forzatamente in buchi di diverse grandezze (li piatti), venivano fuori, così, dei fili di pasta, che tagliati alla lunghezza voluta, fatti essiccare adeguatamente, davano gli spaghetti”3. La pasta si può uscire anche presso i pastifici, che in paese sono una cinquina (Cona, Ottantottu, Giammariuni, Marcianti e Scupitti)4. Nei pastifici c’è sempre folla e bisogna aspettare il proprio turno per utilizzare la “maidda”

G. D’Angelo cit., pag. 58-59 G. D’Angelo cit., pag. 59 4 ivi 2 3


per cernere e impastare e attendere che si liberi “lu machinariu… composto da un torchio di bronzo, sempre lucido e in perfetta efficienza, fornito di diversi piatti con buchi di diversa grandezza a adatti alla pasta che si desidera”5. Uscita la pasta, bisogna portarla a casa ad asciugare in un posto asciutto e ben ventilato, se è possibile al buio per evitare che la pasta si allampa. Nel trasporto della pasta a casa interviene tutta la famiglia: i più grandi portano la pasta corta, più pesante perché se ne fa di più, nei crivi o nelle gavite; mentre i più piccoli, uno davanti e l’altro dietro, portano su una canna gli spaghetti, stando attenti a non inciampare. Non avevo ancora finito di parlare che la piccola disse: - ”E la salsa?”- Te lo spiego un altro giorno. Adesso a letto ch’è tardi e domani devi andare a scuola. - Però m’insegni macari li cosi duci!6 Nel frattempo erano tornati i due uomini. – Già a casa? – dissi. – Mah… jistivu all’acqua all’Arbanu? E Lucia ancora: – Ma’, … e li cosi duci? - Domani ti racconto cosa è successo, un giorno, su un’aia di Bbissana. Va dormi!7

G. D’Angelo cit., pag. .61 Anche i dolci! 7 Vai a dormire! Arbitiu o Abbitiu: “era costituito da una base in legno, all’interno della quale era praticato un buco nel quale era inserito l’ingranaggio in ferro, un vero e proprio torchio”, delle formelle in bronzo di disegno diverso a seconda della pasta che si voleva “uscire”. (cfr. AA.VV, Il Museo etnoantropologico di Ribera. Dalla semina al pane, Palermo 2006, pag. 64) 5 6


P. Arfeli, La pasta fresca, matita su carta


Glossarietto Abbruciareddu: spighe non secche, abbruciacchiate. Ancinu / Ancineddu: uncino di ferro utilizzato per la raccolta dei mannelli di grano. Annittari: nettare, pulire. Arbitiu: macchina per far pasta. ph di E. Giannone

Arbitiu (Museo civico, Cianciana)

Arbitiu (Presepe vivente, 2000)


Aria: aia. Bummulu: recipiente di terracotta per tenere roba da bere. Cartedda: cesta intessuta di vimini; corba. Cavatuna: ditali (pasta). Chichiru: forma di pane raffigurante un galletto. Ciascu: fiasco. Coffa: sporta, bugnola di foglie di palma. Cosi duci: dolci. Crivu: staccio, setaccio, buratto a maglie più o meno larghe. Cufinu: cesta conica di vimini a fondo piano e bocca stretta, corbello. Cuglituri: raccoglitore. Curduni: cordone, bordo. Fusu: aguglione di ferro utilizzato per far pasta. Gavita: vassoio a sponde basse. ʼGnura: aferesi di signura, signora. Gregna: covone. Gruppu: sgroppo, nodo; ciò che rimane della spiga infranta. Ivu (jivu): giogo. Jina: avena. Liama: legaccio ricavato dagli steli dell’ampelodesmo. Ligaturi: chi raccoglie e lega i mannelli. Lona: tela di canape. Maccarruna: maccheroni. Manichedda: manicotto, bracciolo. Margunata: bordo, paglia depositata ai margini del luogo della “pisatina”. Masculiddi: maschietti.


ʼNcavaddati: accavallati, messi l’uno sull’altro. ʼNchiusa: provvista. ʼN siccu (mangiare): a secco: dicesi di vivande consumate senza brodaglia. Paglialora: pagliera, fienile. Pisatina:l’azione del pesare; trebbiare. Pistuluni: filone, forma di pane. Pruvenna: biada che si dà agli animali. Pruvulinu (a): a spaglio. Punenti: vento di ponente. Ristuccia: stoppia. Festuca, resta. Rituni: rete a maglia larga per il trasporto della paglia. Sacchina: tasca, carniere; bisaccia. Sacchetto con tracolla. Sagnaturi: mattarello. Sarma, munneddu, mitatedda: unità di misura. Sceccu: asino. Sidduni: sella. Spachetti; spaghetti. Strauliaturi: trasportatore. Sudda: sulla Tagliarina: tagliatelle. Tradenti:tridente. Vardeddu: bardella; specie di sella con piccolo arcione. Vestia: animale. In particolare: animali da soma. Zappudda: zappetta, da cui zappettare (zappuliari). Zotta: sferza, frusta.


Bibliografia essenziale -

G. D’Angelo, C’era ‘na vota, vol. I, Bergamo 2007 G. D’Angelo, C’era ‘na vota, vol. II, Bergamo 2008 G. D’Angelo, C’era ‘na vota, vol. III, Castel di Judica 2011 E. Giannone, Mia nonna cantava così, Palermo 1991 G. Puma, E. Minio, G. Pasciuta, Dalla semina al pane, Il museo etnoantropologico di Ribera, Palermo 2006 www. villachincana.it www. dalla Terra dei Santoni: l'aratura tradizionale Varie voci su Internet.

Agro ciancianese (Ph. E. Giannone)


Pagliaio (ph di M. Liberto)

Vecchia casa contadina (interno; Museo civico)


Indice

Il ciclo del pane L’aratura La semina La mietitura La pisatina La spagliata La spigolatura L’abbruciareddu Unità di misura Varietà di grano Affaccia, bedda Il pane I venti Il grano, la primavera, il mito Le stelle del contadino La pasta Glossario Bibliografia

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Edizione fuori commercio In copertina: Il Pane, tecnica mista su carta, di Pietro Arfeli. Repertorio fotografico: le foto, tranne quella del Bevaio del § 1, che è di Salvatore Giannone (1955), quelle rilevate da Internet e quelle attribuite, appartengono al Fondo ARCI-Giannone della Biblioteca Comunale di Cianciana

Pagliaio di L. Reina (ph. e. giannone)

Bevaio (ph. G. Di Rosa)


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