MINO CERETTI Carte 1956 / 2005
COMUNE DI SENIGALLIA Museo d’Arte Moderna, dell’Informazione e della Fotografia 8 - 29 luglio 2006
Nelle Marche il primo incontro con la pittura di Mino Ceretti è avvenuto ad Ancona nel 1964, nella galleria Fanesi, di corso Stamira. Una galleria, che, tra entusiasmi elitari e tradizionale disinteresse dell’atona borghesia locale, aveva assunto il ruolo di centro di diffusione, nel capoluogo regionale, delle novità di rilievo nazionale nel campo delle arti visive. Si trattava di novità che, in quegli anni, venivano tutte da Milano. Di Ceretti, Bruno Fanesi, che era anche il migliore dei pittori anconetani del tempo, oltre che il più sensibile ai richiami di quella che, genericamente allora definivamo pittura di avanguardia, aveva allestito una personale articolata su alcune opere che avevano impressionato per rigore compositivo. Però già prima, cioè dalla seconda metà degli anni Cinquanta, il nome di Ceretti era cominciato a circolare tra gli artisti urbinati, tenuti desti dalla presenza di Giorgio Bompadre. A portarne la fama erano stati la partecipazione alla formazione del gruppo di tendenza con Romagnoni, Guerreschi, Vaglieri, Banchieri, le mostre milanesi alla Galleria San Fedele, alla Galleria Bergamini, al Salone Annunciata e la presenza alla Quadriennale romana. Ancor più a richiamare l’interesse nazionale sulle opere di Ceretti e su tutto il gruppo, che verrà poi definito del realismo esistenziale, erano valsi gli articoli, apparsi sulla stampa quotidiana e firmati da Giorgio Kaisserlian, Giorgio Mascherpa, Leonardo Borgese, Marco Valsecchi, che si erano aggiunti, amplificandone la possibilità di ascolto, alle prime analitiche segnalazioni critiche di Mario De Micheli, Guido Ballo e Luciano Budigna. Si tratta di scritti, che si possono ritrovare oggi nel volume, curato da Alberto Montrasio, Daniele Astrologo, Flavio Arensi e Raffaele Bedarida, che costituisce la più com-
Alcuni grandi artisti milanesi del secondo Novecento sono stati tra i protagonisti della fondazione del Musinf, il civico museo comunale d’arte moderna Tra le memorabili mostre di quella fase, che ormai appartiene alla storia della cultura visiva a Senigallia, sarà sufficiente ricordare l’esposizione, allestita alla Rocca roveresca delle documentazioni relative alla vicenda di Ernesto Treccani e Corrente o l’esposizione che aveva allineato, sempre alla Rocca roveresca, le donazioni di Dova, Cappello e Migneco, di cui il Musinf sta ora curando una rinnovata catalogazione. Ciò in vista di una serie di mostre, che segnerà la ripresa della stagione espositiva del museo comunale, dopo l’ultimazione, in corso, dei lavori di sistemazione degli accessi e degli spazi di conservazione della raccolta della fotografia e delle altre civiche collezioni cartacee d’arte contemporanea. In maniera introduttiva a puntare l’attenzione sulla dinamica della pittura milanese del secondo Novecento, ci conduce l’attuale mostra delle carte di Mino Ceretti, che rientra nella programmazione estiva e che rende conto di mezzo secolo di lavoro di Mino Ceretti, la cui fama si lega a quello che è stato definito il “realismo esistenziale”. Si tratta di una suite di opere, la cui genesi, secondo una modalità critica che caratterizza il Musinf, Carlo Bugatti ha lasciato raccontare, nel catalogo della mostra, allo stesso Mino Ceretti, attraverso uno scritto autobiografico in cui si colgono le tensioni e le volontà di rinnovamento di un’intera generazione di artisti milanesi, che ha scritto una pagina nuova nella storia dell’arte italiana.
Luana Angeloni Sindaco di Senigallia 3
una serie di appunti (1949/1960) ed una conversazione probabile di Ceretti con l’amico Romagnoni. Si tratta di scritti, che ci sono sembrati il migliore strumento, o almeno, un utile strumento per l’accesso alla corretta lettura delle carte disegnate e dipinte, ora in mostra a Senigallia. Carte che guidano al difficile trapasso dell’arte all’attuale, provenendo dalle certezze, dalle contraddizioni, dalle alternative sperimentali estetizzanti del XX secolo. Nella premessa a questi scritti Ceretti ricordava di avervi messo mano alla fine degli anni Sessanta, quando Danilo Montaldi e Ambrogio Barili, insieme ad altri, avevano dato vita ad uno spazio espositivo a Cremona, denominato Gruppo d’arte Renzo Botti ed avevano chiamato Ceretti ad inaugurarlo con una sua mostra, sollecitandolo anche a scrivere “qualcosa che fosse autobiografico, ma che nello stesso tempo testimoniasse la sua diretta esperienza nelle vicende pittoriche che attorno alla metà degli anni Cinquanta furono definite realismo esistenziale”. Sollecitazioni che sul momento erano sembrate a Ceretti “premature e un po’ pretenziose”, perché a suo parere “occorreva capire meglio parecchie altre questioni a quel tempo ancora in fase evolutiva”. Tuttavia, per Ceretti il consiglio di Montaldi “divenne in seguito una sorta di necessità”. Redasse, a distanza di tempo, su fogli e foglietti, una serie di appunti, “con l’intenzione di trarne un giorno una narrazione possibilmente organica”. Negli anni Novanta, passando alla trascrizione ha preferito lasciarli come erano e così sono apparsi in varie pubblicazioni. Ceretti li ha definiti “una serie di segmenti mnemonici e descrittivi”. Come guida alla mostra li riproponiamo all’attenzione dei visitatori del Musinf.
pleta monografia esistente sull’itinerario del realismo esistenziale, tracciandone lo sviluppo 1954-64. Inoltre, nel 1960, essendo l’ambiente romano un punto di riferimento della cultura visiva anconetana, a rinforzare localmente l’attenzione sull’opera di Ceretti, era giunta una mostra che, negli spazi romani dell’Attico, aveva allineato le opere di questo artista, di Adami, Aricò, Bendini, Dova, Pozzati, Romagnoni, Peverelli, Ruggeri, Scanavino, Strazza, Vacchi e Vaglieri. Per l’occasione le possibilità di relazione, che costituivano il titolo della mostra, erano state vagliate dagli scritti di Crispolti, Sanesi e Tadini, che avevano fatto ampiamente risaltare le posizioni assunte da questi artisti, tutte, seppure in vario modo, accentrate sull’attenzione per i flussi empirici e accompagnate da prese di autonomia, apertamente assunte nei confronti dei grandi modelli stilistici e delle inerenti radici teoriche ed ideologiche. Erano apparse posizioni largamente innovative, che avevano avuto risalto nel dibattito interno al farsi dell’arte anche nelle Marche e nel centro Italia. In particolare dalle opere di Ceretti e Romagnoni era sembrata provenire un’indicazione di ricerca alternativa sia ai percorsi realistici sia a quelli informali, avviandosi verso una registrazione complessa e ansiosa del fluire empirico, dove l’identità sfugge nel disperdersi dello stesso senso dell’esistere. Nelle opere su carta di Ceretti (1955-2006), che costituiscono la mostra oggi allestita dal Musinf, risalta l’itinerario complessivo della sua concezione dell’arte come scrittura autonoma in cui rileva una sostanziale estraneità alla dimensione mimetica. Una concezione che Flaminio Gualdoni, nella presentazione della mostra delle opere su carta, tenuta alla galleria dell’editore Roberto Peccolo di Livorno, nel 1992, aveva rilevato come il tema personalissimo della ricerca di Mino Ceretti negli anni cruciali (1958-1970). Per chiudere voglio solo ricordare che, sotto il titolo “il caso di vivere” nel catalogo della mostra al Musinf abbiamo voluto riportare
Carlo Emanuele Bugatti Direttore del Musinf
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MINO CERETTI
IL CASO DI VIVERE Appunti 1949/1960
Mino Ceretti al Musinf di Senigallia durante la preparazione della sua mostra. Foto Alfonso Napolitano, 2006
superare certe perplessità convincendoci dell'opportunità di seguire i corsi regolari dell'Accademia di Brera, cosa che facemmo poi nel '51. L'originalità della "torre" coi suoi tre studi sovrapposti, collegati da un'interminabile scala a chiocciola e coi suoi cinque abtanti - al primo piano lavorava e viveva lo scultore Scaglioni - costituiva una certa curiosità, per cui c'era un continuo andirivieni di persone e di amici. Dura e precaria era in generale la vita in quegli anni: la mia particolarmente. Alla " torre" le cose andavano sempre in modo imprevedibile: ciascuno di noi , secondo carattere ed esigenze, contribuiva a mantenere un'atmosfera inquieta, un po' sovreccitata. Nell'insieme quell'esperienza di vita in comune, con tutta la sua complessità, risultò essere utile a ciascuno. Personalmente mi convinse che il dipingere necessitava di solitudine.
Nel '49 mi ero iscritto all'Accademia privata Cimabue perché intendevo dare l'esame di maturità artistica da privato entro l'anno successivo. Ma in primavera non mi fu possibile continuare, non ero più in grado di pagarmi la retta. Lavoravo allora in una impresa di costruzioni. Ero autonomo economicamente, ma il denaro non era sufficiente per impegni così ambiziosi. Comunque, durante la mia esperienza alla Cimabue, lavorando attorno al disegno di figura, l'interesse per la pittura, che in precedenza era oscuro e impalpabile come qualcosa che ci segua senza che ci si accorga, cominciò a mostrarsi e a farsi via via più evidente, più necessario. Presi contatto con l'ambiente di Brera e nell'autunno del '50 mi iscrissi alla scuola serale del nudo dell'Accademia. Vi incontrai parecchie persone interessanti, in particolare il De Gaspari, il Romagnoni, il Brusamolino coi quali si sviluppò una forte amicizia. Si discuteva di tutto: la pittura era al centro dei nostri discorsi. Allora in città c'era poco; la pittura italiana precedente era pregiudizialmente svalutata perché fascista; dilagava un certo picassismo, ma qualcosa cominciava a muoversi. Il Brusamolino, in quel periodo , ci indicò uno spazio da sistemare in un edificio dove già lui teneva lo studio. Io e Giorgio De Gaspari accettammo l'offerta. Situata in viale Pasubio, era una costruzione alta su tre piani, isolata, simile a una torre e così in seguito la chiamammo; per raggiungerla occorreva attraversare tre cortili. L'area era stata bombardata durante la guerra e della probabile distilleria preesistente si era salvata stranamente, appunto, "la torre". Lo spazio da sistemare era quello al piano terreno. I servizi igienici, in comune, erano nel cortile dove, da una fontana a muro si otteneva l'acqua manovrando un'asta di ferro a mano con un gesto ondulatorio del braccio. Fu il mio primo studio, anzi casa-studio perché vi abitai, ma non da solo poiché condivisi lo spazio, realizzando un soppalco, con gli amici Giorgio e Alberto (De Gaspari e Barbieri). Si formò in tal modo una specie di strana comunità: una novità. Tra me e Bepi Romagnoni si stabilì un'amicizia che divenne sempre più intensa e profonda, ci si frequentava quotidianamente. L'esperienza comune alla serale del nudo ci aiutò a
Varcare l'ingresso di Brera mi procurava sempre una specie di eccitazione, ma anche di inquietudine. Mi piaceva quella solennità calma e misurata del cortile. Spesso vi sostavo ammirato, specialmente quando, nelle belle giornate , il sole lo spezzava in due parti distinte. L'invadenza della statua del “Napoleone” del Canova nel mezzo, mi infastidiva: si capiva che quello non era il suo vero posto. Io e Romagnoni, superata l'ammissione, ci informammo e visitammo le tre scuole di pittura. Poi , avuta notizia della particolare libertà di lavoro che vi si poteva svolgere, optammo per la scuola di Aldo Carpi. Fu una scelta felice. Giorgio De Gaspari ci seguì. Vi incontrammo Guerreschi e Vaglieri, avanti di un anno, coi quali si stabilì quasi subito un rapporto di stima e di solida amicizia. Le nostre discussioni risentivano delle diverse realtà individuali, si allargavano sempre in più direzioni. Si partiva da considerazioni su un disegno e ci si trovava via via ad aggredire o difendere le vicendevoli opinioni attorno alla politica, a un film visto o all'ultimo libro letto. Pervasi da una grande voglia di capire e di penetrare nel terreno, per noi misterioso, dell'operazione artistica, guardavamo la pittura circolante con occhi critici e impietosi. Il nostro la7
Il quadro cubista del periodo analitico ha in sé fattori apparentemente inafferrabili, la forma spazio che vi domina sembra respirare, vi si produce un doppio movimento: esplosivoimplosivo. Stranamente il quadro sembra porre il superamento di un limite, ma nel contempo ci appare organizzato cartesianamente. Penso che funzioni da cerniera tra la pittura che lo precede e quella che verrà.
voro era sempre messo in discussione, non gli attribuivamo alcun valore particolare: era studio. Su di me quel tempo ebbe un'influenza profonda, mi permise di attrezzarmi in vista dell'applicazione delle idee che sarebbero venute, mi rivelò a poco a poco un'identità. E' incredibile come il tempo annulli e occulti una quantità inverosimile di fatti ed episodi che ci appartengono. La distanza interpone una fitta nebbia sulle cose e la vita di un tempo. Ma se è vero che i nostri atti ci seguono, il tempo lascia però filtrare nella memoria quegli aspetti e quei fatti che hanno inciso nella nostra storia personale e che hanno avuto per noi una particolare importanza, una loro evidenza. Le prime riproduzioni di quadri cubisti le avevo viste, negli anni del dopoguerra, nello studio di un giovane pittore, A. Mazzola, presso la cui famiglia, in quel periodo, ero ospite. Avevo, forse sedici anni. Quelle riproduzioni mi incuriosirono, le giudicavo delle stranezze. La pittura, allora, non era ancora nel mio orizzonte. Quelle forme riemersero qualche anno dopo, verso il '49-'50, quando ebbi modo di consultare alcune monografie di Picasso e Braque e il mio interesse per la pittura aveva ormai preso con decisione il sopravvento su qua! siasi altra ipotesi di orientamento. In qualche modo ero riuscito, forse, ad afferrare le ragioni della mia iniziale curiosità integrandole con la serie delle immagini che mi scorrevano sotto gli occhi. Quello spazio inafferrabile , quella mobilità delle forme, quella riduzione cromatica, mi apparivano sconcertanti, ma ne ero completamente affascinato. A modo mio ne avevo tentato anche qualche prova disegnata. Sentivo ormai la necessità di verificare quella profonda suggestione, risalendo certo a Cézanne, ma proponendomi anche di ricercare l'esperienza diretta. L'occasione si presentò nel maggio'52 con il mio primo viaggio a Parigi. La visione concreta e diretta di un gruppo di quadri cubisti accentuò il mio interesse, ne rimasi incantato. La galleria d'arte moderna parigina mi consentì di abbracciare con occhio avido, finalmente, le esperienze eccezionali della pittura di inizio secolo.
Ne parlammo parecchio al mio ritorno. Mi era quasi impossibile tenere insieme la massa delle sensazioni, delle emozioni, delle riflessioni e degli interrogativi che quel viaggio e quei quadri visti nei musei parigini mi avevano procurato. Potevo apparire saccente e supponente. Invece ero turbato e convinto della mia nullità: troppo intensa e complessa quell'esperienza. Con Bepi il ragionamento prendeva una via più calma e riflessiva. Gli impressionisti del Jeu de Paume, una sorpresa intima, portavano a Cézanne il muratore, l'analista dei nodi problematici del rapporto con la superficie; Cézanne portava ai cubisti che avevano rivelato e impiegato i mattoni della formaspazio. Insomma una condensazione forse eccessiva di dati coi quali fare i conti. Sentivo forte la mia arretratezza, la necessità di reperire strumenti utili per l'esperienza che volevo fare. Ne discutevo, ne discutevamo, perché molte incertezze erano comuni. Attorno a noi , qui a Milano, circolavano alcune idee, alcune esperienze: lo" Spazialismo" di Fontana, i lavori di quelli del MAC: Movimento arte concreta, e poi i " Nucleari" rumorosi e appena nati. Pur destando curiosità , nulla mi convinceva, anzi, meglio dire , ci convinceva dato che le perplessità su queste esperienze ci vedevano compatti. Ci sembrava che un po' tutto avesse il sapore del gioco , della fatuità. Insoddisfatti, mi pare si stesse facendo strada in noi un forte desiderio di serietà, di rigore. Lontana era da noi l'idea che la pittura potesse anche comportare motivi di gioco. Dada e Duchamp erano scarsamente conosciuti. Comunque ci sembrava che la pittura stesse in un altro luogo. Le tele di Gericault e di Courbet viste con meraviglia al Louvre, mi avevano lasciato nella 8
la città- museo avvolta da nastri di cielo e da vene d'acqua.
mente quel tipo di impressione difficile da smaltire. Parlandone provavo una sorta di inadeguatezza, le mie stesse parole non mi convincevano pienamente, eppure ne avvertivo l'importanza, la suggestione era persistente. Era forse utile tenerli sullo sfondo di un possibile panorama di riferimenti? Certo che molte cose premevano. Molta pittura si presentava con urgenza alla nostra attenzione, confusamente. Se ne avvertiva la necessità. Si voleva ragionare con tutto.
La questione del realismo, indifferente nei primi anni di Accademia, cominciò a prendere rilievo tra il '53 e il' 54, quando nelle nostre discussioni si posero sullo stesso piano le varie direzioni di ricerca che si presentavano davanti a noi per trarne, a nostro modo, una valutazione che ci consentisse di orientarci e di capire cosa convenisse alle idee che andavamo maturando. Per qualche tempo c'era stato un approccio a certe esperienze astratte nell'area di De Stijl e del Bauhaus, in particolare da parte di Guerreschi e di Romagnomi che completavano l'interesse per il cubismo da me sostenuto. Le nostre discussioni, attente alle varie fonti delle avanguardie storiche, consideravano con asprezza il ritardo di conoscenze e di esperienze ereditato e tendevano a sottolineare la situazione di marginalità della nostra cultura pittorica dovuta certamente alle censure del periodo fascista. Non si voleva con questo accelerare un recupero qualsiasi , ma si voleva arrivare alla comprensione di quei fatti per poi considerarli calati nella nostra attualità e da questo movimento trarre delle lezioni utili. Circolavano tra noi, sempre in quegli anni, molte attenzioni per le esperienze espressioniste. Sembrerà strano considerare e avvicinare l'area di Mondrian e del Bauhaus con quella dei pittori della Brücke, della Secessione viennese , di Soutine, eppure era così. Ciò dimostra che la nostra curiosità era totale; saggiava continuamente nel tentativo di recuperare una storia di cui ci sentivamo orfani. La generazione precedente, quella operativa durante il fascismo non ci aveva lasciato nulla di convincente: così almeno, noi giudicavamo.
L'estate dell'anno precedente, il '51, con Bepi avevamo fatto un viaggio molto impegnativo: Pisa, Firenze, Bologna, Venezia. Due o tre settimane o forse più, non ricordo. Vedemmo una quantità incredibile di opere. Giravamo nelle città a piedi e con pochissimi soldi. Un piacere e un entusiasmo incontenibili. Giovani studenti d'accademia prendevamo contatto con la sostanza estetica per antonomasia di cui ci nutrivamo quotidianamente. Ricordo Firenze, assolata e caldissima; poche automobili e invece, ancora circolanti, una quantità impensabile di carrozze a cavalli. Eravamo alloggiati nel quartiere alle spalle di Palazzo Vecchio. Una straducola. Al primo piano di un vecchio edificio avevamo una grande camera che si apriva su una terrazza ingombra di vasi di fiori e lenzuola stese ad asciugare, alcune tartarughe vi vagavano piacevolmente, spesso le avevi tra i piedi. Al piano terreno, sottostante la camera , c'era la stalla e il deposito per le carrozze. Ricordo ancora l'odore acre e fortissimo che invadeva la camera la mattina presto, quando veniva pulita la stalla. Per molti anni, in seguito, il ricordo di Firenze era per me associato a quell'odore pungente e insostenibile. Poi, il prato di Pisa con le architetture dello stupore. E Bologna, plasticamente compatta come le formelle di Jacopo Della Quercia. Infine Venezia , di cui avevo udito discorsi incantati ma anche corrosivi a proposito dell'igiene, mi rapì, incredulo e sorpreso, portandomi qua e là, in trance perenne. Percorrendo in treno quel lungo cordone ombelicale che ravvicina e la separa da noi, era come penetrare nel luogo segreto da cui si generano le meraviglie. Avidi, le andammo a cercare percorrendo in ogni senso
Si cominciò a parlare anche di “Corrente” come di una esperienza di qualche interesse, ricuperabile , ma da approfondire e conoscere meglio, data la scarsa conoscenza che ne avevamo. Qui si potrebbe innestare il problema del Realismo, movimento che nel dopoguerra era molto diffuso in particolare nel cinema con la formula del " Neorealismo", poi in letteratura . La tendenza o movimento era sostenuta dalla sinistra, sostanzialmente dall'area cultu9
glieri in particolare, il quale giustamente, con forza polemica , rivendica la socialità. Ma l'interrogativo problematico resta comunque: chi è quest'uomo che siamo noi? Qui, su questo punto, ci si aggrega.
rale facente capo al Partito Comunista che tramite un cospicuo numero di critici militanti e di un forte gruppo di artisti, operava una completa egemonia nel dibattito, prevalentemente ideologico, diffuso ad ogni livello. Guttuso era il pittore che ne rappresentava più compiutamente la tendenza e la sua influenza non era trascurabile su molti giovani pittori. Ci fu una certa sorpresa, ne discutemmo con Bepi e gli altri amici, quando si volle assimilare una certa esperienza picassiana a questa tendenza, in occasione della grande mostra retrospettiva di Picasso a Milano nel '53. La visione di "Guernica", e della "Fucilazione in Corea," provocò un grande dibattito sulla stampa e in altri ambiti sul rapporto tra forma e contenuto, che incuriosì e produsse anche qualche equivoco. Aderendo quasi tutti noi all'area politica e ideale della sinistra, l'influenza di alcuni aspetti inerenti la poetica realista, si fece sempre più evidente, via via che si andavano precisando i contenuti e le esigenze espressive derivanti dal nostro rapporto con la realtà circostante. Le nostre diversità di formazione culturale avrebbero avuto , di lì a poco, una loro incidenza nella costituzione di un'intesa operativa comune , ma non tale da impedire l'aggregazione delle molte affinità.
Come ricondurre a una lettura, a una interpretazione convincente e rigorosa la nostra giovane esperienza negativa, inesplicabile e dolorosa, della guerra che ciascuno di noi a suo modo aveva vissuto? La resistenza, i tragici campi di concentramento tedeschi, l'incredibile olocausto ebraico, Hiroshima e la bomba atomica che ha devastato gli animi per sempre... Insomma, come ritrovare un'identità accettabile dopo tutta questa devastazione dei cuori e delle intelligenze? Ecco ciò che si avvertiva di dover fare. E la pittura poteva forse essere usata nelle nostre mani come strumento di perorazione e di individuazione di tale identità? E quale incertezza e provvisorietà del senso del tutto poteva ancora perpetuarsi se appena ci si impegnava nel rapporto col reale? Eppure, la voglia di rappresentare la realtà circostante nei suoi momenti individuali, nel rapporto diretto, personale, diveniva sempre più una necessità, un impegno , una verifica. Ne valeva la pena, ci sembrava di scoprire la vita.
Il mio viaggio a Parigi, mi aveva anche dato l'opportunità di osservare da vicino l'atmosfera e certi aspetti dell'esistenzialismo di matrice francese nel quale, in precedenza, mi ero sentito coinvolto , dopo la lettura de " Lo straniero" di Camus e della "Nausea" di Sartre. Le tematiche esistenzialiste: l'uomo, la sua esistenza individuale, la sua nativa libertà, la ricerca di una giustificazione a questa sua esistenza impossibile da trovare, per cui l'assurdo della propria condizione , ma anche il progetto continuo di sé: "L'esistenza precede l'essenza", formula Sartre. Ecco una quantità di problemi per me trascinanti e impegnativi. Ma è Kierkegaard che ancor più mi sorprende col conflitto inestinguibile tra la propria soggettività e il reale. Da questo clima traggo alimento e molte ragioni interpretative, e queste, in qualche modo si possono dire anche comuni, almeno tra me e Romagnoni. Le discussioni si fanno a volte aspre, con Va-
Non avendo una vera casa , io e Giorgio De Gaspari frequentavamo fin dal '51 il bar Giamaica nel quartiere di Brera che allora , in alternativa al bar della Titta, stava diventando il punto d'incontro di alcuni pittori e letterati. Vi si incontrava anche molta gente che lavorava nei giornali e poi fotografi e in quegli anni anche un gruppo simpatico di inglesi. Tutti mescolati con gli avventori abituali del quartiere. Per noi era come vivere in un soggiorno accogliente, aperto e in continuo movimento. Il locale non era grande: d'acchito, al primo impatto, suscitava subito simpatia. Le pareti erano completamente rivestite di piastrelle che un tempo erano state bianche; ai tavolini era un continuo avvicendarsi di giocatori di carte e di scacchi; dietro il bancone l'operosa mamma Lina, proprietaria del locale, controllava ogni cosa. Ricordo sempre con piacere i circa quattro o cinque anni che frequentai il locale, ma non ne ho nostalgia. Gli incontri , molto 10
Burri e altre formule circolanti erano i riferimenti abituali del nostro giudizio scettico. La loro visione era per noi inappagante, vi si vedeva una pittura curva su se stessa, sterile. Il mondo, le cose, rimanevano fuori, indifferenti e questo era per noi inaccettabile, ci scandalizzava. Si sbagliava? Forse. Troppo radicali? Anche. Ma come era possibile che la massa di problemi e di interrogativi ereditati dall'ultimo conflitto mondiale che come macigni ingombravano il nostro cammino, non avessero dei riflessi incisivi nella pittura, non fossero presenti come materiale di lavoro nell'atto del dipingere. Picasso ci aveva già dato esempi straordinari in questa direzione. Ma ora era come se si dovesse ricominciare da capo, così almeno ci sembrava. Durante il '53 lascio lo studio della " torre" e mi trasferisco in via Pontaccio , nei pressi di Brera. Mi pare che sia anche l'anno dell'arrivo di Banchieri tra noi in Accademia. Con lui l'intesa è quasi immediata, ora le voci si moltiplicano: meglio.
spesso, procuravano amicizie immediate. Le discussioni, continue, erano interminabili, sovente accese e qualche volta al limite del litigio. Si parlava di tutto: politica, pittura, cinema, letteratura, musica, sport, le carte, gli scacchi, la cronaca, la vita e gli accidenti individuali... Forse era un unicum. Certe sere poteva capitare che , per iniziativa di qualcuno o per sanzionare nuove amicizie si finisse in una grande bevuta collettiva con canti finali di ogni genere. Che anni! Che gente! Mi interessa parlare di quel periodo per poter ricordare la fraterna amicizia che ebbi con Giorgio De Gaspari, abilissimo, geniale e innovativo illustratore. E l'amicale intesa che ci fu tra me e Alfredo Chighine in quei primi anni cinquanta. Da lui ho attinto certi umori, quelli che rendono intenso e passionale il nostro rapporto con la pittura. Uomo già maturo ( aveva quindici o sedici anni più di me) di grande simpatia, era un incredibile e tenace bevitore. Una volta, insieme a Giorgio De Gaspari e a Luigi Grosso, mi capitò di riportarlo al nostro studio, alla" torre", sdraiato su un carretto a mano trovato li attorno, attraversando la città a notte fonda, forse quasi l'alba, da Porta Ticinese a Porta Garibaldi: la bevuta per Alfredo era stata illimitata. Capitava anche che dopo una bevuta di quel tipo, crollasse inerte e impietrito... tornando al lavoro il giorno dopo come se nulla fosse. Chighine aveva della pittura una concezione molto seria e passionale. Visitando una volta il suo studio, avevo colto questo intenso rapporto, traducibile forse , in un rigore quasi religioso. Quella sua pittura costruita a masse e a larghi piani, con gamme armoniche di colori e accordi da sottobosco, mi colpiva , mi interessava. Più tardi, proseguendo nella mia esperienza di pittore, capii che in qualche modo gli dovevo qualcosa.
Una visione accentuatamente morale della vita credo che fosse per ciascuno e per tutti noi un valore imprescindibile. Da questo dato si facevano discendere una serie di comportamenti e di interpretazioni che presumibilmente operavano in noi delle scelte e delle discriminazioni vincolanti. L'eccesso di rigidità , ora incomprensibile, allora ci appariva inevitabile. Si giudicava bella e interessante la pittura che ci permetteva di riconoscere il rapporto diretto del pittore con la vita, con le cose, con le difficoltà. Si guardava un certo espressionismo, la "Nuova oggettività", Dix, Beckmann, ecc. anche Courbet. Le prove erano ancora confuse, rozze, insoddisfacenti: bisognava chiarire e insistere. Occorreva una tecnica esecutiva che consentisse un'autonomia di linguaggio inconfondibile. Ciascuno si adoperò per costruirsela, questa tecnica, adeguandola via via con ostinazione, ai propri scopi, alle proprie esigenze. Le influenze ovviamente non si occultarono, divennero anzi segni di riferimento strumentali. Ci sono anche le difficoltà economiche individuali che ostacolano in misura non secondaria l'intenzione operativa, le mie sono particolarmente dure, sempre al limite di rottura, ma non intendo assolutamente lasciare: troppo
Non era possibile in quel tempo, non lo era per me, non lo era per noi, guardare e considerare la pittura astratta nelle sue varie declinazioni, senza avvertire una sorta di sorpresa intima, spontaneamente dubbiosa. In quella pittura non si vedeva la vita, ma un che di decorativo, di sofisticata estenuazione di alcune formule provenienti dalle avanguardie storiche: Kandinsky, Mondrian, ecc. L'Ecole de Paris, 11
a Senigallia sull'Adriatico, con disegni e alcuni quadri dove il paesaggio è eseguito con un colore-materia scarno, essenziale, quasi grafico. Ricordo una tela o tavoletta dove un treno corre sul terrapieno ferroviario, sopraelevato rispetto al piano naturale: un'immagine insolita. Capita spesso in questo periodo che insieme si vada in bicicletta a disegnare, nella buona stagione, lungo la Martesana. L'estate del '55 poi, insieme, decidemmo di trascorrere un mese a Pellestrina nella laguna veneta. Paese singolare, collocato su una lunga isola tra l'Adriatico e la Laguna, allora abitato prevalentemente da anziani e da una miriade di bambini. Vi lavorammo molto su carta.
grande il piacere di dipingere, troppo forte la voglia di fare. In Accademia, Carpi ci consentì di utilizzare una parte dello spazio della ex chiesa di Brera adibita fino a quel momento a deposito. Gli fummo grati. Qui potemmo lavorare anche nel pomeriggio in completa libertà. L'uso di questo spazio ci consentì di fare esperienze molto utili e significative nell'ultima fase del nostro rapporto con l'Accademia. Ci si diceva che il concetto di realtà non poteva delimitarsi alle rappresentazioni dei problemi e dei temi politico-sociali come negli esempi circolanti. Occorreva dare secondo noi, maggiore evidenza al rapporto personale, individuale, col mondo delle cose, degli eventi. Ci sembrava più incidente dal punto di vista espressivo, la capacità di rendere in pittura quel modo e quel dato individuale che nell'esperienza diretta, quotidiana, era sentito come urgente, come necessario e vero. E questo, a costo di essere tacciati per individualisti in ritardo dato che, si diceva, la storia stava andando da un'altra parte. Forse era così. Ero io , eravamo noi ad essere incapaci di cogliere la giusta tendenza, a voler praticare una posizione astorica? Eppure di fronte al foglio o alla tela era proprio il dettaglio, l'aspetto inconsueto, appartato, marginale che attiravano la mia attenzione; era tutto ciò che non rientrava nei cliché usuali e collettivi che aveva per me valore. Era iniziata e si stava sviluppando qualcosa che anche per noi non aveva contorni chiari e definiti. Tutto era ancora in gioco e pertanto incerti e inconoscibili erano i percorsi e gli esiti. Queste idee promossero delle discussioni non sempre serene che in seguito portarono anche a qualche equivoco interpretativo, sul quale fu poi necessario un nostro chiarimento comune.
Nel mese di aprile del'55, Romagnoni tiene la sua prima personale alla galleria Schettini, in un locale, sottostante il salone, adibito alle nuove proposte, con un suo breve testo di presentazione, sintomatico e chiaro. Mi pare che le idee e le immagini si presentassero con coerenza. Il mese successivo, il maggio, espongo anch'io per la prima volta alla galleria S. Fedele. Sono una quindicina di quadri e il testo di presentazione lo scrive Giorgio Kaisserlian allora responsabile per le arti e la cultura del Centro Culturale dei gesuiti. Ci eravamo conosciuti qualche tempo prima e subito mi era parso che avesse colto, a suo modo, certi aspetti di novità nelle idee che gli comunicavo. I quadri credo che non li afferrasse ancora bene, confondendoli in parte col "realismo" sostenuto dalla sinistra da lui osteggiata. Questo aspetto della questione produsse, nell'ambito del nostro rapporto di amicizia, non poche discussioni e alcuni equivoci. Sarà poi uno dei nostri compiti impegnarci per fare chiarezza. Questa mia mostra mi procurò un invito (per me sorprendente) a partecipare a un programma televisivo tenuto da Garibaldo Marussig. Trasmesso in diretta , nella serata , mi darà l'occasione di mostrare in bianco e nero un paio di miei quadri, commentandoli con le idee che, tramite le due mostre, mia e di Romagnoni, stavano acquisendo consistenza. Kaisserlian, come dicevo, si accorse che le due mostre, con altri segni individuabili aprendo meglio gli occhi, costituivano degli esempi di una possibile direzione. Si disse subito interessato a mettere a
Verso la fine dell'estate del '54, tornando da Bari dove ero stato a lavorare nell'ambito della Fiera del Levante, lascio il quartiere di Brera e trasloco in un paio di locali nelle vicinanze della Stazione Centrale. Finalmente potevo disporre di un locale come studio! Solo! Tra il '54 e il '55 le idee che si andavano elaborando si traducono in disegni e in alcuni quadri: figure, oggetti, muri, la periferia... Dopo l'estate del '54, Bepi era tornato dalla vacanza, mi pare 12
Ciascuno di noi aveva impegnato le proprie energie per alimentare e chiarire i contenuti delle idee che ci animavano. Le opere, pur rilevando certe carenze, ci convincevano sempre di più. La mostra di Romagnoni e poi la mia, avevano messo in evidenza i dati e le ragioni su cui discutere, utili anche per rilevare la poetica di fondo e cogliere un possibile orientamento comune idoneo, forse, al dialogo e al confronto con le altre tendenze circolanti. Sentivamo ormai che la pittura ci riempiva le mani. Avevamo anche terminato il nostro rapporto con l'Accademia. Pertanto, nelle nostre intenzioni, la mostra in programma avrebbe dovuto costituire il banco di prova necessario per una valutazione obbiettiva e spassionata sia delle nostre idee che della congruità e qualità delle nostre opere. Avevamo sempre sostenuto che non ci fosse altro che il quadro, il suo risultato complessivo, ad essere decisivo per ogni fondato e qualificato giudizio. Ecco allora che l'organizzazione di questa mostra presupponeva, da parte nostra, una seria riflessione e un deciso vaglio dei fattori costitutivi l'atteggiamento comune. Era necessario arrivarci con un grado di convinzione pulito e inequivoco. La galleria S. Fedele, per questa circostanza si impegnò a fare un catalogo che, per quei tempi fu giudicato consistente. Kaisserlian volle scrivere il testo di presentazione della mostra, ci teneva molto. Pur accettando questa inevitabile presenza, non ci fidavamo completamente della sua prosa. Conoscevamo bene certe sue idee emerse nelle vivacissime discussioni tra noi. Erano idee che comportavano alcune forzature interpretative e in qualche caso strumentalizzazioni ideologiche che non ci piacevano. Non ci piaceva affatto l'eventualità di un discorso in cui si sarebbe rilevata l'inevitabile contrapposizione tra la nostra tendenza e il discusso realismo sostenuto dal P.C.I. Un'idea del genere non c'era mai appartenuta. Cercavamo altro. Partivamo dall'esperienza individuale, diretta, insistendoci, convinti che fosse la via per capire il resto.
disposizione lo spazio del Centro culturale S. Fedele per una impegnativa mostra di tendenza. Se ne discusse parecchio tra noi subito dopo l'estate. Guerreschi fu con noi subito disponibile, mentre Vaglieri tergiversò sottolineando in particolare l'equivoco della sede. In quegli anni la contrapposizione ideologica tra l'area marxista e quella cattolica era vissuta in molte persone con rigidezza manichea. E noi che avevamo naturalmente interessi ideologici e forti simpatie per la sinistra avvertivamo la possibile ambiguità interpretativa che ne sarebbe derivata. Già nel caso della mia precedente mostra avevo vissuto questo tipo di dubbio. Era comunque necessario non mancare l'occasione se si voleva comunicare la consistenza del nostro lavoro. Bisogna anche dire che a Milano in quel periodo, per un giovane pittore, l'opportunità di poter fare un'esposizione era difficoltosa , per non dire inesistente, dato l'esiguo numero delle gallerie private agibili. Pertanto le occasioni andavano evidentemente colte, lasciando possibilmente il compito di una chiarificazione all'efficacia di un testo scritto. Questa fu la posizione che prevalse dopo accese discussioni tra me, Romagnoni e Guerreschi. Vaglieri si ritirò adducendo anche il motivo che in quel momento non aveva quadri sufficienti e disponibili. Banchieri, da poco tornato dal servizio militare, non si sentiva ancora pronto. Di Ferroni mi fu riferito che , pur sentendosi solidale con noi, in quel momento e in quel modo la cosa non lo interessava. La tendenza di cui sarebbe stato interessante osservare le indicazioni individuali in un'unica mostra impegnativa, si ridimensionò lasciando a noi tre, io , Romagnoni e Guerreschi, la responsabilità immediata di comunicare col nostro lavoro quel particolare modo di guardare e rappresentare la realtà che in quegli anni, collettivamente si era individuato ed elaborato. Credo fosse 1' anno precedente che avevamo visto una mostra di Ferroni, sempre da Schettini, in cui alcuni quadri sembravano molto vicini, per spirito e tendenza alle idee che andavamo precisando. Fu questo il motivo di una sua possibile cooptazione nella collettiva di tendenza che si stava programmando.
L'esistenzialismo di origine francese ci intrigava perché vi trovavamo i problemi, gli interrogativi i discorsi propri della crisi seguita alla fine dell'ultima guerra. Durante il conflitto era
Durante quell'anno si era fatto parecchio lavoro. 13
riamo tutta aperta. Il nostro atteggiamento è di interesse e di attenzione nei riguardi di ogni rilievo critico. Del resto i quadri sono questi e ci si augura che il senso del nostro lavoro venga colto. Ora, staremo a vedere. I quadri, discussi e confrontati tra noi, pur nel continuo esame critico che applichiamo, ci convincono abbastanza. E' una pittura, la mia, molto asciutta. La gamma cromatica è ristretta alle terre, ai toni bassi, con interventi, qua e là, nei cieli, nei muri, di colori chiari, calcinosi. Raro è il colpo di colore che spicchi evidente. Non intendo gridare, ma sostare, guardare e rilevare: qui, in questa mia città.
avvenuta una parte della nostra formazione e cessate definitivamente le ostilità, ne era seguito un grande , generale smarrimento e un affliggente vuoto morale. In quegli anni le nostre esperienze e le nostre cognizioni si erano alimentate individuando i punti di riferimento culturali utili alla nostra formazione, e alcune tendenze pittoriche, già menzionate, e le letture dell'area esistenzialista vi avevano contribuito. Si considerava la pittura come il luogo a noi congeniale per far corrispondere contenuti e forme e intendevamo proseguire scartando subito, e inequivocabilmente, gli abiti che non erano per noi. Nessuna contrapposizione, dunque, ma disponibilità all'apertura. Nessun abito cristiano da indossare surrettiziamente. Semmai un'affermazione di laicità e ricerca di approdi oltre le fedi. Intendevamo , pertanto, circoscrivere l'intervento di Kaisserlian, proponendo l'inclusione nel catalogo di un'altra voce. Ci si aspettava che potesse produrre quell'alternativa interpretativa indispensabile per solleccitare una lettura più problematica, in più direzioni. La proposta fu accolta e la seconda voce (L. Budigna) fece il proprio intervento; ma il risultato alla fine ci lasciò delusi e dubbiosi.
La mostra è stata organizzata con una trentina di opere. Ciascuno di noi ne presenta dieci. L'inaugurazione è fissata per il 1° marzo '56. Due giorni dopo, io, parto per il servizio militare che mi impegnerà per 18 mesi. Lontano, tengo i contatti soprattutto con Romagnoni, il quale mi tiene informato di tutto ciò che accade attorno alla mostra e degli sviluppi probabili che ne potrebbero derivare. Infatti, di li a poco, mi comunica che nel mese di aprile tutta la mostra sarà trasferita alla galleria Alibert di Roma. Nel catalogo che mi spedisce leggo una presentazione infelice a firma di F. Bellonzi. Purtroppo non ha capito nulla o forse applica di proposito (per suoi fini) una sua visione personale creando in tal modo un certo equivoco... Di cristiano non è proprio possibile nessun realismo, tanto meno il nostro: ma tant'è, non si può rimediare. Per l'occasione chiedo un permesso che mi viene accordato. Sono a Roma dopo alcuni giorni , a inaugurazione avvenuta, e mi incontro con Romagnoni. Insieme commentiamo quel testo e dato che mi sta comunicando il successivo trasferimento della mostra a Venezia per il prossimo mese di maggio, decidiamo di sgombrare gli equivoci accumulati, proponendoci di pubblicare il testo di una nostra dichiarazione nel catalogo di Venezia. I punti di riferimento concettuali comuni li avevamo già espressi più volte, pertanto ora stendiamo degli appunti che saranno utili per la composizione del testo da pubblicare. Della corretta versione, quella da inserire nel catalogo, se ne incarica direttamente Romagnoni.
Non aveva alcun senso discutere che tipo di realismo fosse il nostro. Eppure la questione ci animò parecchio. Dal canto suo Kaisserlian, impostando il suo testo di presentazione della mostra, ha cercato di chiarire e di mettere in evidenza l'aspetto fenomenico del nostro rapporto con le cose. Ha accettato e forse ha capito che cosa noi si intenda per centralità dell'uomo nel suo drammatico scontro con gli opachi e ottusi aspetti della realtà che lo circonda. Desideriamo che non ci sia incomprensione tra noi su ciò che intendiamo per rapporto diretto e personale con le cose stesse. Poiché sappiamo che è da tale rapporto che deve provenire quella coscienzialità discorsiva sensibile ai mutamenti. Nei nostri contatti ed incontri continuiamo ad affermare che non ci interessa l'applicazione precostituita di una visione delle cose, e che l'apertura e la disponibilità che intendiamo applicare al nostro lavoro dovrebbero garantirci da possibili indugi verso ogni richiamo ideologico. La partita la conside14
con alcune riserve ideologiche da chiarire. L'altra stampa complessivamente, continuava a riproporre in diversi modi l'equivoco di cui ho già detto.
Infatti, una volta comparsa questa dichiarazione nel catalogo della mostra alla galleria del Cavallino di Venezia, le interpretazioni arbitrarie e di parte autonomamente scompaiono. Forse ora il significato del nostro lavoro viene finalmente colto, anche se con varie e diverse ragioni e con le comprensibili alterne adesioni. A tutt'oggi la sua lettura risulta ancora essere, forse, l'unica testimonianza inequivoca del senso di quella nostra vicenda. Bepi mi comunicherà che nello stesso periodo anche Vaglieri e Banchieri si presenteranno in una mostra comune alla galleria Pater di Milano con un testo di Mario De Micheli in catalogo. Bene.
Il 1956 fu un anno molto speciale. Durante l'autunno presero la ribalta i drammatici fatti di Ungheria, dai quali si dipanò la crisi della sinistra, alimentata irrimediabilmente dal rapporto segreto tenuto da Kruscev al XX Congresso del PCUS. La crisi fu radicale. Finalmente capimmo che la pittura aveva un suo alveo autonomo in cui scorrere e che il collegamento con l'impegno politico restava, comprensibilmente, un fatto del tutto personale. Sempre durante l'autunno, il mercante d'arte G. Bergamini che aveva la galleria in via S. Damiano, mi fece la proposta di acquistare ogni mese un certo numero di tele compensandomi con una cifra fissa, una specie di stipendio. La stessa proposta era già stata fatta anche agli altri amici( tranne Guerreschi). La cifra non era certo allettante: per cinque opere offriva 60.000 lire. Ma dati i tempi piuttosto difficoltosi e l'inesistenza di ulteriori possibilità, quel denaro mi consentiva almeno di lavorare garantendomi l'acquisto del materiale necessario e forse anche di sopravvivere. Fu comunque per me l'inizio di un rapporto che comportò periodi alterni, contradditori. Ci furono aspetti evidentemente positivi come l'opportunità di tenere periodicamente delle esposizioni nella galleria o in altri luoghi, ma alla fine il rapporto si esaurì implicando profonde e amare delusioni.
Se non ricordo male, verso l'inizio di maggio di quell'anno, ricevo una copia de "Il Giorno" in cui è pubblicata una recensione curiosa e interessante di Marco Valsecchi. Questo quotidiano era nato a Milano da poco tempo, mi pare in aprile , e subito si distinse , nel mondo della carta stampata, per alcune novità, in particolare nella grafica e nell'impaginazione e per una certa vivacità in generale. Era dunque interessante leggervi qualcosa che ci riguardasse. Nella recensione, infatti, Valsecchi faceva delle considerazioni sulle due mostre ( la nostra e quella di Vaglieri e Banchieri) e vi avvertiva un'aria comune, una sorta di tendenza abbastanza precisa, secondo lui derivata , curiosamente, da un certo cinema francese e da altre componenti della cultura urbana di quel tempo. Stranamente , per definire il nostro orientamento usa l'espressione " realismo esistenziale": etichetta che ci rimarrà applicata. Non conoscevo personalmente Valsecchi, di cui avevamo forse un'opinione un po' schematica: era considerato un critico d'arte dell'area astratta formalistica. Perciò mi sorprese questa sua attenzione per la nostra pittura. In seguito avemmo modo di conoscerci e di parlare diffusamente di quell'esperienza. Chiedeva con interesse le spiegazioni che gli fossero utili per farsi un'idea più precisa delle ragioni legate alla nostra vicenda. C'erano state molte altre recensioni relative alle nostre mostre, pubblicate nei giornali delle diverse città. Sulla stampa dell'area di sinistra, l'attenzione e l'adesione era completa, forse
Rabbia profonda. Desiderio di fuga. Voglia di uscire da quell'assurda situazione che intimidiva la volontà, che impediva ogni slancio, ogni fresco pensiero utile ai progetti, alle mie idee urgenti. A cosa serviva quello stupido gioco delle armi, quella disciplina coatta priva di un vero scopo formativo... Eppure lì, tra quei mille e mille occhi mortificati, ma avidi di vita, lucidi di febbre libertaria, lì, ho immaginato pittura: ho fatto quadri e li ho distrutti e poi rifatti... ho immaginato, certo. Ho trascorso ore e giorni guardando al di là di una finestra, osservando i ragazzi-soldato dalla mia branda-cuccia nel mezzo della selva di brande a castello intrise 15
Tra l'aprile e il maggio del '58, io e Romagnoni facciamo un lungo viaggio visitando alcune città europee: Parigi, Londra, Bruxelles, Amsterdam, Basilea, Zurigo. A Parigi cercammo dei contatti con alcune gallerie senza ottenere nulla di impegnativo. Le foto dei nostri quadri, che avevamo con noi, pur destando interesse, ottenevano immancabilmente il commento conclusivo: "Ce n'est pas notre esprit". Ci guardavamo con sorrisi ironici che esprimevano anche la reciproca delusione. Avevamo capito che la situazione non era semplice, che la concorrenza era enorme e che le iniziative autonome, senza "protezione", erano inevitabilmente condannate. Parigi in quegli anni era ancora il centro aggregativo delle esperienze artistiche: l'Ecole de Paris, gli epigoni del Surrealismo, l'Infòrmel, l'Art brut, la Rouche, il Salon de Mai, ecc. oltre al sempre vivace Picasso. Con determinazione vedemmo tutto il possibile. Poi ci sorprese con preoccupazione quell'enorme manifestazione della destra ai Champs Elysées che invocando fermezza e decisione dal governo francese nella guerra d'Algeria, allora in corso, riportò al potere il generale De Gaulle. Allarmati, partimmo per Londra. La traversata della Manica fu avventurosa. Mare agitatissimo. Gente sdraiata per ognidove e catini che scorrevano da un lato all'altro seguendo il forte rollio della nave. Londra, allora, aveva magnifici musei ma un numero stranamente esiguo di gallerie private. Non ci sembrava possibile. La fortunata vendita di un mio quadro, tramite foto, mi permise di proseguire il viaggio. A Bruxelles: l"Expo '58 e l'Atomium. Benny Goodman nella Grand Place. Qualche buon quadro al museo. Amsterdam ci colpisce e ci sorprende: il cielo enorme penetra le case. Da Rembrandt a Van Gogh, fluisce la magnifica pittura olandese inventrice anche del "paesaggio" che da allora ci incanta. C'è Berlage e De Stijl, terso come tutto il paese. Infine, prima di tornare a casa, Basilea e Zurigo con musei d'arte moderna e contemporanea invidiabili. Dove si dimostra che attenzione, sensibilità e denaro in stretta connessione, esemplarmente, possono cogliere e conservare certi valori del fare.
dei loro forti odori di cui anche l'aria che respiravamo era satura. La notte ci restituiva quell'aria col nostro faticoso respiro. Qui, dicevo, ho "fatto" pittura con tutte le varianti possibili, ho "fatto" le prove delle novità che solo in parte avevo intravisto. Poi, un colpo della mano nell'aria, qualche volta, mi toglieva dal delirio. Qualcosa avevo anche tentato nella soffitta di Reggio Emilia che avevo preso in affitto. E subito capii che non sarebbe più stato come prima. A volte erano le forme e le situazioni a mostrarsi vulnerabili, si deformavano continuamente. Altre volte era la materia stessa, la materia della pittura, che esigeva l'attenzione, che mi sollecitava, mi impegnava in lunghe riflessioni. Dopo il trasferimento a Milano verso la fine del '56 le cose per me si ricomposero un po'. Avevo modo, finalmente, per qualche ora al giorno, di mettere le mani di nuovo sul lavoro, nel mio studio. Allora le prove, prima immaginate, cominciavano a fornirmi gli spunti e le occasioni che a poco a poco mi portarono su un terreno nuovo a me sconosciuto. La realtà che fino allora aveva avuto pienezza e riconoscibilità poetica , stava gradualmente trasformandosi proponendomi sviluppi verso i quali mi sentivo aperto e curioso. Sentivo che il colore doveva avere tutta l'attenzione possibile, e che sarebbe stato il cardine di una mia inevitabile evoluzione. Entro l'anno successivo i motivi e la poetica del "Realismo esistenziale" cedettero il passo a interessi espressivi e a urgenze operative che mi spingevano in un'area di ricerca molto vicina a influenze espressionistiche. La mostra che tenni nel febbraio del '58 alla galleria Bergamini registrò drammaticamente questa mia evoluzione, procurandomi molte incomprensioni. Il testo di autopresentazione che avevo scritto per la circostanza e che in un primo momento mi era apparso delucidativo, contribuì forse ad alimentare le perplessità. D'altra parte per me era iniziata una nuova possibile avventura e non intendevo perdere il contatto con quel tipo di problemi che scorgevo sotto la visibile superficie della pittura , verso i quali ogni pittore avverte , credo, un'attrazione irresistibile.
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probabilmente inevitabile, che il pittore accorto non può che assecondare scorgendovi quei fattori di novità necessari al rinnovamento del profondo rapporto che lo lega alla pittura. Sentivo con forza questa urgenza di entrare nel tessuto stesso dell'operazione pittorica, di afferrarne e capirne la struttura organizzativa, la resa espressiva, l'indefinibile attrazione emozionale, la sua concettualità. Evidentemente era emerso con decisione quel momento critico e ineluttabile , interno al fare, che interroga il lato coscienziale del dipingere, che chiede di capire l'atto pittorico ponendo la riflessione sul cosa e sul come, al centro momentaneo della propria attenzione. Era chiaro, mi ero imbattuto nel fondamentale quesito che ogni pittore prima o poi deve risolvere: che cos'è e come si attua questa pittura che l'occhio e la mano producono?
Cosa spinge una mano a tracciare segni, a svolgere un suo complicato movimento sopra una superficie e a organizzare quei segni in forme o in sistemi di segni con una loro riconoscibile proprietà? E’ una necessità inconscia, oscura e incontenibile? E' qualcosa di cui non se ne viene a capo malgrado gli infiniti tentativi compiuti per coglierne la causa, la fonte? Si tratta forse di un impulso semplice e spontaneo, come un filo d'erba , che ci appartiene fin dall'origine? O, presa la decisione, si tratta di cominciare, di provare, ponendo attenzione alle implicazioni susseguenti, così come si comincia o si prova qualsiasi altra cosa? Si potrebbe continuare all'infinito nel porre gli interrogativi più insinuanti ed incisivi senza mai arrivare a una conclusione. E' partendo dall'esperienza del mio personale stupore nell'osservare il lavoro della mano che mi si è sempre posta la questione; e in questo lavoro in cui assaporavo l'effetto e l'evidenza figurale, avvertivo anche l'urgenza impulsiva, la necessità di insistere, di proseguire... continuamente. Che cosa fa si che anche nelle fasi più preoccupanti di una crisi, quella interna al proprio lavoro, emerga evidente il desiderio, la voglia di superamento dell'impasse e si avverta quell'ostinata energia premere perché l'atto pittorico si esprima e si concluda? E' pura coazione a ripetere? E' in qualche modo "patologia"? O forse è qualcosa di simile a un atto di fede e la pittura potrebbe intendersi come una specie di religione? Qui, penso sia opportuno fermarsi, poiché appare molto vicino quel margine oltre il quale è possibile smarrirsi.
Andavo facendo una serie di quadri dove la visione della pittura attingeva i propri umori e le proprie sollecitazioni nel curare e controllare il rapporto gestuale , ormai del tutto autonomo, con la superficie - spazio, col supporto: il colore vi dominava. In questa direzione molto stimolante si potevano notare le forti influenze di un certo informale europeo (Wols, Cobra, ecc.) e degli americani conosciuti sotto l'etichetta dell'Espressionismo astratto: da Gorki a De Kooning. Avevamo individuato nella biblioteca americana dell'USIS il luogo ideale dove attingere informazioni sull'arte americana di quel tempo, La scoperta di questo filone americano, la grande curiosità per la sua originalità, ci prospettò una certa quantità di problemi di nuova impostazione. Le letture, gli interessi culturali, le discussioni , si orientano, ora, verso nuovi orizzonti e prospettive di lavoro. Aspetti della fenomenologia husserliana influiscono su un certo modo di pensare e di guardare alle cose. Il "Nouveau roman" francese (Butor, Robe Grillet) suggerisce il senso di una continua modificazione della configurazione dell'immagine. E , ancora, per me basilare, Beckett ci rivela il fluire del discorso che supera l'impedimento e la condizione umana apparentemente afasica. Un po' tutti questi aspetti della circolazione delle idee e delle influenze contribuirono a determinare , in quel periodo, la definizione dei metodi e degli scopi operativi relativi alle ragioni e al
Fuori da ogni schema figurale precostituito, tutto il lavoro di conoscenza all'interno della pittura si andava ora costituendo attorno a un certo modo di considerare le relazioni tra l'atto del dipingere, lo strumento, la materia cromatica, la superficie-spazio o supporto. Tutta l'impalcatura precedente che dotava di riconoscibilità e contenuto le rappresentazioni della realtà si era a poco a poco esaurita bloccandone sia l'originalità che l'autonoma necessità. Gradualmente l'occhio scrutava questo venir meno delle ragioni finora attive e necessarie e rilevava il tendenziale dissolvimento della tensione operativa implicita nella pittura fin li perseguita. Stava avvenendo quel sommovimento, 17
senso del mio rapporto con la pittura. In tutta l'attività di quegli anni, pur ammettendo la serie delle influenze, io vedo comunque anche una evidente autonomia che permetterà di sviluppare un discorso molto credibile all'interno dell'esperienza individuale. Tant'è vero che , tra alcuni di noi, ci si sentirà di nuovo in sintonia nell'affrontare alcune tematiche operative che si prefiggevano di individuare le possibili vie di superamento delle poetiche dell'Informale. L' esposizione a tre Vaglieri, Ceretti, Romagnoni tenuta presso la galleria Bergamini nella primavera del '59, con le nostre dichiarazioni in catalogo, potrebbe essere considerata uno dei tentativi di avvicinamento al nocciolo del problema. L'esposizione seguente "Possibilità di relazione" organizzata da Enrico Crispolti alla galleria l'Attico di Roma nel '60 con la partecipazione di un gruppo numeroso di pittori e la pubblicazione di molti testi degli stessi artisti in catalogo, darà forse la misura e l'importanza di quel dibattito, la cui consistenza avrà effetti operativi fino all'invasione della Pop-art americana. La poetica dell'Informale aveva dominato per lungo tempo negli anni cinquanta, non solo in pittura, l'attività espressiva in generale. Il vitalismo che la caratterizzava aveva anche dato esiti di grande rilievo. Ora però, mostrando una serie di fragilità interne come la ripetitività di alcune formule e di certi stereotipi, si avvertiva un po' dovunque l'esigenza di una riflessione che si proponesse di ricercare altre vie ed altri orientamenti di lavoro. In questo clima ci si sentiva totalmente in gioco e molto disponibili a fare la propria parte. Credo che con il definirsi delle nostre ricerche personali, molto attive in quegli anni, si verifichi anche quell'allentamento, forse inevitabile, del rapporto stretto che aveva finora caratterizzato la mia amicizia con Romagnoni, Entrambi avvertiamo che le nostre esperienze divaricandosi stanno cercando le direzioni di marcia a loro più congeniali e convincenti.
CONVERSAZIONE PROBABILE CON L’AMICO PITTORE ROMAGNONI ANNI ‘59 - ’60 - Il gesto può esaurire tutta la tensione operativa? L' impulso che lo determina ha sempre continuità? Non so, ho molti dubbi. - Però, se tutta l'operazione del dipingere si chiude quando l'energia dei gesti si arresta e si sospende l’impulso, ciò che resta non è forse l’appagamento di quella tensione? - Si, certo, E' molto interessante questo rapporto, ma non credo sia sostenibile per molto. Si lavora in trance. Non è possibile continuare… si perde il senso... - Ma perché ci dovrebbe essere un senso. Non pensi che l'attività stessa del dipingere, l'azione diretta, immediata, l'umida e fresca pasta del colore che si aggrappa alla superficie della tela, la quantità e la qualità di questi fatti , non comporti già un'esperienza di senso? - Io vedo l'incanto, lo stupore di tutto questo. Ma ne avverto anche un che di fragile di limitato. E' un presentimento. La pittura non può vivere a lungo sulla casualità, penso che debba ricercare una ragione più ampia, più chiara. - E' vero , ma noi siamo impegnati qui, ora. Il nostro fare non può tenere conto dei dubbi, delle incertezze , pena la paralisi operativa. Qualcosa mi spinge e io spingo. - D'accordo non ci si può fermare. Ma il dubbio, la pausa hanno un loro peso, riportano l'azione in un ambito intimo, interno. La pittura si guarda: ecco il ritorno, il ritorno del guardato. - A volte siamo confusi nei risultati. Sono ciò che chiamiamo le ragioni che ci danno la possibilità di agire; da qui i modi del nascere di una pittura. - Ci sono momenti in cui mi sento come caricato da un tale impulso ad agire che lo spazio della tela mi appare come il luogo panico, stordente, del desiderio di pittura. Non vorrei finire mai. - Condivido. E' verissimo questo appetito incolmabile. In questi momenti avverti il senso e la pienezza dell'esistere. Gioia e piacere impastati. La pittura può colmare il vuoto esistenziale: problematizzando l'attitudine espressiva, sostanzia di valori ogni rappresentazione. Produce valori. Non credi che dovremmo poi disvelarli? 18
- Operazione difficile. L'indicazione e la circolazione di ciò che chiamiamo valore, non pensi che dipenda dalle esperienze complessive dei tuoi contemporanei? Oggi come oggi mi pare che il valore sia più un fatto soggettivo. - Concordo. Infatti parlarne produce un'impasse. Ciò che per me è un valore, per altri è un quesito o addirittura un dato indifferente. E' la pittura contemporanea, esplosa in mille direzioni, che impedisce considerazioni omogenee. Ciascuno è impegnato a rintracciare l'ambito in cui si crede inserito per potersi intendere. - Non vedo vie d'uscita. E' un problema ansioso.Ricuperare i frammenti per avviare una ricomposizione personale dell'insieme, può essere una follia. Ma che ci resta per costruirci un'identità? - E' vero ciò che per me è ricerca strutturale e per te,se non sbaglio, un'analisi quasi radiografica, per altri può non essere niente. Dobbiamo fare in modo che ci si convinca della necessità di una riqualificazione dell'immagine. - Forse si potrebbe dire che questa necessità è praticabile solo in solitudine. Scotto inevitabile, dati i tempi, per poter alimentare e mantenere la propria libertà d'azione. - Mi sento coinvolto. Non è proprio questa condizione solitaria il fattore costitutivo della nostra identità? Non abbiamo ormai più nulla da perdere. Sono convinto che in pittura, nella nostra pittura, nessuno può portare elementi di certezza: l'incognita del futuro si incaricherebbe di confutarli. - Non me la sento anch'io di alzare il dito contro chi diverge dalle nostre opinioni o ci è addirittura ostile. Ci muoviamo tutti su un terreno vago, difficoltoso. Ma rinunciare a muoversi può essere fatale. - E' vero può essere fatale, ma occorre allora indicare subito la sostanza, l'intima ragione di un movimento possibile. Infondo la pittura conosce da sempre momenti simili. Aggiungerei che gli scarti di percorso e le molte crisi superate hanno mostrato la sua forte e continua vitalità, offrendo gradi di valore altissimi nei risultati. - Quello che dici mi suggerisce l'esempio del cubismo. Ancora adesso di fronte a un quadro cubista del periodo analitico il mio stupore è profondo. Tuttora vi colgo un incredibile coraggio nel perseguire un'intuizione geniale i cui sviluppi era-
no imprevedibili. - Si, indubbiamente. In quelle prove stanno le fondamenta, le basi del modo nuovo di concepire la forma, lo spazio...tutta la pittura che ne è conseguita vi si appoggia. Anche l'Informale, mi pare. - L'autonomia della superficie è ormai un dato inalterabile. Insieme all'idea , lo spazio mentale è proiettabile el'oggettiva superficie vi collabora registrando gli accadimenti e tutti i possibili segni. Non credi che anche noi dovremmo avere più coraggio nell'affrontare le nostre questioni? Spingere le idee, eliminare gli indugi, fare ipotesi e produrre utili prove? - Hai ragione, occorre lavorare con maggiore incisività e lucidità. La tangenza con l'Informale ha offerto delle possibili soluzioni spaziali e strutturali alla mia pittura. Ora sono come in attesa. Vi intravedo altri problemi che mi intrigano. - E’ vastissimo il territorio da scrutare e da indagare. Qualche volta, soffermandomici mi prende la vertigine, sono incerto. Ma è evidente che non ci si può allontanare. E' qui, credo, in questa inafferrabile vastità che si dovrà tuttavia riconoscere e seguire il nostro personale percorso.
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Da sinistra: Guerreschi, Romagnoni, Ceretti in una foto di Ugo Mulas del 1956.
NOTE BIOGRAFICHE Negli anni successivi lavora nella direzione di una rinnovata ricerca figurativa con la necessità di rintracciare i valori costitutivi dell'atto pittorico, e al cui centro si collocano i problemi di frammentazione, di disgregazione e di riaggregazione dell'immagine. Ha insegnato nelle Accademie di Milano, Carrara, Venezia, Torino. Ha tenuto numerose mostre personali in Italia e ha partecipato a molte rassegne e a manifestazioni espositive in Italia e all'estero. Nel 1996 ha pubblicato parte degli appunti autobiografici, quelli relativi agli anni 50, sulla rivista d'arte TERZOOCCHIO, numeri: 78, 79, 80.
Mino Ceretti è nato a Milano nel 1930. Ha studiato all'Accademia di Belle Arti di Brera di Milano, diplomandosi nel 1955. Attorno alla metà degli anni 50 partecipa alla formazione di un gruppo con Romagnoni, Guerreschi, Banchieri e Vaglieri che con una serie di mostre, tra il '55 e il '56, determinò una tendenza che sarà definita "Realismo esistenziale". Dopo una fase espressionista si orienta verso esperienze che indagano problemi di analisi e formazione dell' immagine; in questo senso allestisce nel 1959, coi pittori Romagnoni e Vaglieri, una mostra di tendenza alla Galleria Bergamini di Milano. Partecipa nel 1960 a "Possibilità di relazione" alla Galleria l'Attico di Roma, mostra di riferimento interna al dibattito per il superamento dell'Informale. 45
Brera, Milano. 2005 Galleria Mazzoni, Piacenza. Galleria Il Bagolaro, Turbigo.
MOSTRE PERSONALI 1955 Galleria S. Fedele, Milano. 1956 Mostra di tendenza Ceretti, Guerreschi, Romagnoni. Galleria S. Fedele, Milano. Galleria Alibert, Roma. Galleria Del Cavallino, Venezia. 1958 Galleria Bergamini, Milano. 1959 Salone Annunciata, Milano. Mostra di tendenza “Ceretti, Romagnoni, Vaglieri” Galleria Bergamini, Milano. 1961 Galleria Bergamini, Milano. Galleria George Lester, Roma. 1963 Galleria Bergamini, Milano. Galleria La Ruota, Parma. 1964 Galleria Dei Balestrari, Roma. Galleria Fanesi, Ancona. 1965 Gruppo d'arte R. Botti, Cremona. 1966 Galleria L'Agrifoglio, Milano. 1967 Galleria Il Canale, Venezia. 1969 Gruppo d'arte R. Botti, Cremona. Studio Marconi, Milano. 1970 Galleria Bergamini, Milano. Studio Arco, Brescia. 1972 Studio Del Beccaro, Milano. Studio 3BI, Bolzano. Galleria Solferino, Milano. 1973 Studio Della Quaglia, Verona. 1974 Galleria Solferino, Milano. Galleria Stocco, Mestre. 1975 Galleria Correggio, Parma. Galleria Lo Spazio, Brescia. 1976 Galleria Solferino, Milano. 1978 Galleria Solferino, Milano. Galleria Anconadue, Milano. Banca Popolare di Milano, Milano. 1979 Studio D'ARS, Milano. 1983 Galleria Seno, Milano. 1989 Montrasio Arte, Monza. 1991 Galleria Palmieri, Busto Arsizio. 1992 Galleria Peccolo, Livorno. 1993 Montrasio Arte, Monza. Ass. cult. “II salto del Salmone”, Torino. 1994 Montrasio Arte a Lineart, Gand (B). 1995 Montrasio Arte in Artefiera, Bologna. 2000 OLIM Officina Linguaggio Immagine, Bergamo. Galleria Il Raggio, Lugano (CH). 2002 Montrasio Arte Brera 5, Milano. 2004 Biblioteca dell'Accademia di BB. AA. di
PRINCIPALI COLLETTIVE 1954 “Incontri della Gioventù”, Villa Reale, Milano. “7 Allievi di Brera”, Parma. 1955 VII Quadriennale di Roma. 1956 “Premio S. Fedele”, Milano. 1957 “Premio Tacquino delle Arti”, Roma. “Francese, Ceretti, Sughi, Zigaina”, Galleria Odyssia, Roma. “Premio S. Fedele”, Milano. “Premio La Spezia”, La Spezia. “VII Premio Diomira”, Galleria Spotorno, Milano. “II Rassegna”, Galleria delle Ore, Milano. 1958 “Giovani artisti italiani”, Il Giorno, Palazzo della Permanente, Milano. “Premio Spoleto”, Spoleto. “Premio Tacquino delle Arti”, Palazzo Strozzi, Firenze. “Giovani artisti”, Galleria Spotorno, Milano. “III Biennale dei Giovani”, Gorizia. 1959 “Jeune Peinture Mediterranee”, Nice, France. “Premio Repubblica di San Marino”, San Marino. Mostra di gruppo, Galleria Annunciata, Milano. VIII Quadriennale di Roma. 1960 “Possibilità di relazione”, Galleria L'Attico, Roma. “Premio città di Palermo”, Palermo. “Premio Apollinaire”, Galleria Le Noci, Milano. “Giovane grafica italiana”, Swansea, (GB). 1961 “Premio E.N.Z.”, Palermo. “Premio Francesco Torri”, Palazzo della Permanente, Milano. “Premio La Spezia”, La Spezia. 1962 “7 Italian Artist”, The Cambridge Art Association, Boston (USA). “Pittura italiana contemporanea”, Valencia, Siviglia, Madrid, Barcellona. “Nuove prospettive della pittura italiana”, Palazzo Re Enzo, Bologna.
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1963
1964
1965
1966 1967 1968 1969
1970
1971
1972
“Disegni e Parole”, Galleria Il Punto, Torino. “Premio del Fiorino, Nuova figurazione”, Palazzo Strozzi, Firenze. XIII Premio Internazionale Lissone, Lissone. II Premio Cinisello Balsamo, Cinisello Balsamo (MI). Premio Ramazzotti, Milano. “Festival dei due Mondi”, Spoleto. “24 Artisti contemporanei”, Palazzo della Permanente, Milano. “III Premio Scipione”, Macerata. “Mostra collettiva di pittura”, Biblioteca Civica, Sesto S. Giovanni. “Banchieri, Ceretti, Romagnoni, Vaglieri”, Galleria Narciso, Torino. “Cronaca di un’esperienza figurativa Milano 1955-59”, Galleria Bergamini Milano. XIV Premio Internazionale Lissone, Lissone. “IX Quadriennale Nazionale d’Arte”, Roma. “Proposte figurative”, Galleria Nuova Milano, Milano. “Pittori d'oggi in Lombardia”, Villa Olmo, Como. “XII Premio Ramazzotti”, Palazzo Reale, Milano. “6 Pittori “, Galleria Bergamini, Milano. “I giovani della scuola di Milano”, Galleria dello Scudo, Verona. “IV Rassegna Nazionale di Pittura”, Varazze. “XXVI Biennale Nazionale d'Arte città di Milano”, Palazzo della Permanente, Milano. 59° Biennale di Verona. “Grafica milanese contemporanea”, Museo Puskin, Mosca. “6 pittori a Milano 1955-60”, Galleria Eunomia, Milano. “Arte Contro”, Arezzo, Grosseto, Ravenna. “Possibilità di relazione, una mostra dieci anni dopo”, Palazzo dei Diamanti, Ferrara. XXVII Biennale Nazionale d'Arte città di Milano, Palazzo della Permanente, Milano. “Premio Campione “, Campione d'Italia.
1973
1974
1976 1977
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1980
1981
1982
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“Milano 70/70”, Museo Poldi Pezzoli, Milano. I Mostra d'arte grafica contemporanea, Edolo. “Figurazione”, Galleria Solferino, Milano. “Pittura in Lombardia 1945-73”, Villa Reale, Monza. “Paesaggio cercato”, Galleria Solferino, Milano. “...que bien resiste” l'idea di resistenza nell'arte contemporanea europea, Villa Manzoni, Lecco. XXVIII Biennale Nazionale città di Milano, Palzzo della Permanente, Milano. “Per Romagnoni”, Galleria Solferino, Milano. “Disegno e Piccola scultura”, Palazzo della Permanente, Milano. “Pratica/Milano 1977”, Studio Marconi, Milano. “A Danilo Montaldi”, Vecchio Ospedale, Cremona. Galleria Solferino a Artefiera, Bologna. “L'oggetto: interpretazioni a confronto”, Museo Civico, Lodi. “Paesaggio cercato”, Museo Civico, Lodi. “Astrazioni dal Paesaggio”, Palazzo Ducale, Urbino. “Dal Realismo esistenziale al Nuovo racconto”, Galleria Ricci Oddi, Piacenza. “Ceretti, Romagnoni, Vaglieri”, Galleria l'Incontro, Borgomanero. “L'altra satira”, Galleria Bergamini, Milano. “Genesi e processo dell'immagine”, Palazzo della Permanente, Milano. Rassegna nazionale del disegno e dell'incisione, Villa Cornaggia Medici, Rho. “Mostra Nazionale di Grafica”, Santa Maria della Pietà, Cremona. “Ceretti, Romagnoni, Vaglieri”, Montrasio arte, Monza. “Dal Realismo esistenziale al Nuovo racconto”, Galleria S. Fedele, Milano. “Pittura a Milano anni 60”, Montrasio arte, Monza. “25 anni dopo”, Galleria delle Ore, Milano.
1983
1984
1986
1987
1988
1989
1990 1991
1992
1993
“Il Pop art e l'Italia”, Castello Visconteo, Pavia . “L'arte contro la violenza” Palermo. “L'immagine esistenziale”, Galleria Annunciata, Milano. “Mostra Nazionale di Pittura città di Monza”, Villa Reale, Monza. XXVIX Biennale Nazionale città di Milano, Palazzo della Permanente, Milano. “Esperienze della pittura italiana 195060”, C.A.L.A. Fieschi, Sestri Levante. “Gli anni di Brera”, Galleria S. Michele, Brescia; Galleria Nike, Milano. VIII Biennale d'Arte Contemporanea, Galleria Ricci Oddi, Piacenza. XXX Biennale Nazionale d'Arte città di Milano, Palazzo della Permanente, Milano. “Paesaggio come ipotesi”, Montrasio arte, Monza. “Disegno Contemporaneo”, Galleria Civica, Modena. “Intorno al Sessanta” Aspetti dell'arte italiana dopo l'Informale 1958-1964, Chiostri di San Domenico, Imola. “Milano punto uno”, Studio Marconi, Milano. “Milano punto uno”, Galleria La Polena, Genova. Milanoarte, Palazzo della Permanente, Montrasio arte, Milano. “Interno-Esterno”, Montrasio arte, Monza. “Da Corrente a oggi”, Galleria Palmieri, Busto Arsizio. “Realismo Esistenziale”, Palazzo della Permanente, Milano. “Realismo Esistenziale”, Pinacoteca Accademia Ligustica, Genova. “Da Corrente al Realismo”, XXIV Premio Vasto, Vasto. “Anni 50: pittura in Lombardia, Piemonte, Liguria”, Castello di Sartirana Lomellina. “La Nuova Figura”, Banca Commerciale Italiana, Milano. “Pittura a Milano 1945-1990”, Palazzo della Permanente, Milano. XIX Premio Sulmona, Sulmona. “Pittura e Realtà”, Palazzo dei Diamanti, Ferrara; Palazzo del Governatore, Cento.
1994
1995
1996
1997
1998 1999
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“Tra Realismo e Informale”, Galleria Narciso, Torino. “I modi dell'Informale”, Banca Commerciale Italiana, Milano. Cascina Roma una Galleria d'arte, San Donato Milanese. “Reale e Immaginario”, Santa Maria della Pietà, Cremona. Montrasio arte a SAGA, Parigi. Montrasio arte a INEART, Gent, Belgio. “Milano cento artisti per la città”, Museo della Permanente, Milano. “Figure della Pittura - Arte in Italia 19561968”, Galleria Forni, Bologna; Palazzo Foscolo, Oderzo. “I luoghi dell'immagine”, Palazzo del Turismo, Marina di Massa; Palazzo della Ragione, Lucca. Progetto periferie: “Il centro altrove”, Triennale di Milano. “Pittura e Fotografia”, Arengario, Monza. “Il Segno della classicità. Riflessi e riflessioni”, Pinacoteca di Capo d'Orlando. “Papirnate sanje”, Sogni di carta, Aspetti del disegno in Lombardia 1946-1996, Lubiana, Slovenia. “Guerreschi e il Realismo Esistenziale”, Civica Galleria d'Arte Moderna, Gallarate. “Milano 1950-59”, Palazzo dei Diamanti, Ferrara. “I pittori del Giudizio “, Teatrino di Riva Valdobbia, Valsesia, (VC). “Milano 1956-1966: dal Realismo al Realismo Esistenziale”, Galleria Marieschi, Monza. “Di Segno in Segno”, Villa Borgia, Usmate Velate; Sarmede (PN). “Arte a Milano 1946-1959 Fra storie e cose: Realismo Esistenziale e dintorni”, Palazzo Sertoli e Palazzo Pretorio, Sondrio; Centro culturale S. Fedele, Milano. “Arte per Assisi”, “L'Arte Contemporanea per l'Arte antica”, Palazzo Reale, Milano; Palazzo della Provincia, Bari. “'99 Taegu Milano Arts Exhibition”, Korea. “II Rosso e il Nero “ figure e ideologie in Italia 1945-1980, CSAC Università di Parma, Palazzo della Piletta, Parma.
zo, Torino 1963. - R. Barilli, "Nuova figurazione", cat. Firenze 1963. - G. Ballo, "La linea dell'arte italiana", Mondadori, Milano 1964. - E. Crispolti, G. Kaisserlian, E. Tadini "Romagnoni", Alfieri, Milano 1966. - F. Russoli, "Spazialismo e altri aspetti dell'arte europea del dopoguerra" in "L'Arte Moderna", vol. XIII, F.lli Fabbri, Milano 1967. - E. Crispolti, "Ricerche dopo l'Informale", Officina Edizioni, Roma 1968. - G. Mascherpa, "6 pittori a Milano 1955-60", cat. Galleria Eunomia, Milano 1970. - M. De Micheli, presentazione, cat. Galleria Bergamini, Milano 1970. - F. Vincitorio, "Ceretti", in NAC, n. 34, Milano 1970. - M. De Micheli, "Arte Contro", Vangelista, Milano 1970. - M. Calvesi, "Le due avanguardie", vol.II, Laterza, Bari 1971. - "Milano 70/70", vol. 3°, Museo Poldi Pezzoli, Milano 1972. - "Pittura in Lombardia 1945-73", Edizioni Comune di Monza 1973. - G. Cavazzini, presentazione, cat. Galleria Correggio, Parma 1975. - A.C. Quintavalle, presentazione, cat. Galleria Solferino, Milano 1976. - G. Mascherpa, "Dal realismo esistenziale al Nuovo racconto", Ed. S. Fedele, Milano 1981. - R. Bossaglia, S. Zatti, "Il Pop Art e l'Italia", Mazzetta, Milano 1983. - E. Tadini, "Ceretti", Maestri contemporanei, Vanessa s.r.l. Edizioni d'arte, Milano 1984. - R. Sanesi, "L'immagine esistenziale 19581964", cat. Centro Annunciata, Milano 1984. - R. Bossaglia, presentazione, cat. Montrasio arte, Monza 1989. - M. De Micheli, G. Mascherpa, G. Seveso, M. Corradini, "Realismo esistenziale", Mazzotta, Milano 1991. - F. Gualdoni, R. Sanesi, "Mino Ceretti. Gli anni cruciali", "Opere su carta 1958-1970", Edizioni Roberto Peccolo, Livorno e Montrasio Arte Monza, 1991. - G. Seveso, L. Somaini, "Pittura a Milano 19451990", Mazzetta, Milano 1992. - F. D'Amico, F. Gualdoni, "Pittura e Realtà", Edizioni Ferrara Arte, Ferrara 1993.
2000 “Figurazione a Milano dal secondo dopoguerra a oggi”, La Posteria, Milano. “Miracoli a Milano 1955-1965, Artisti Gallerie Tendenze”, Museo della Permanente, Milano. “I Maestri e il S. Pietro” Rilettura degli affreschi del S. Pietro in Castello a Carpignano Sesia, (VC). 2000/2001 “Dal Premio alla Pinacoteca”, Civica Galleria d'Arte Conteporanea, Lissone. 2001 “Realismi”, Galleria Montrasio Brera 5, Milano. 2004 “L'incanto della pittura”, Casa del Mantegna, Mantova. 2005 “I cieli e la montagna”, Alagna V. (VC). “Interni Italiani”, Convento del Carmine, Marsala. “Ri-Esistenze”, Cascina Roma, S. Donato Milanese, (MI). “Silenzio e Splendore del Segno”, Disegni della Civica raccolta di Salò, Museo della Permanente, Milano. “Realismo Esistenziale 1954-1964”, Museo F. Bodini, Gemonio, (VA).
BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE - G. Kaisserlian, presentazione, cat. Galleria S. Fedele Milano 1955. - G. Kaisserlian, L. Budigna "Ceretti, Guerreschi, Romagnoni", Edizioni S. Fedele, Milano 1956. - Dichiarazione comune "Ceretti, Guerreschi, Romagnoni", cat. Galleria del Cavallino, Venezia 1956. - R. De Grada "Una giovane pittura Milanese", "Realismo", aprile-maggio 1956. - T. Sauvage, "Pittura italiana del dopoguerra", Schwarz, Milano 1957. - Autopresentazione, cat. Galleria Bergamini, Milano 1958. - Dichiarazione in cat. mostra "Vaglieri, Ceretti, Romagnoni", Galleria Bergamini, Milano 1959. - E. Crispolti, E. Tadini, R. Sanesi: "Possibilità di relazione", cat. Galleria l'Attico, Roma 1960. - G. Giani, presentazione, cat. Galleria Bergamini, Milano 1961. - M. Valsecchi, presentazione, cat. Galleria Bergamini, Milano 1963. - M. Valsecchi, in "Disegni e Parole", F.lli Poz-
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a cura di Marco Goldin, Treviso, Conegliano, Oderzo, Castelfranco Veneto, cat. Electa, Milano 1995. - F. Gualdoni, "Arte in Italia 1943-1999", Neri Pozza, Vicenza 2000. - "Dal Premio alla Pinacoteca", a cura di F. Gualdoni e C. Rizzi, Lissone, cat. Silvana Editoriale, nov. 2000 / gen. 2001. - E. Pontiggia, "Ceretti, opere 1954/1970", Profili braidensi, Montrasio Arte, Milano 2002. - S. Crespi, "Ceretti", cat. Il Bagolaro, Turbigo, 2005. - F. Arensi, D. A. Astrologo, R. Bedarida, A. Montrasio, "Realismo Esistenziale, 1954-1964", Gemonio (VA), cat. Silvana Editoriale, 2005. - C. Cerritelli, "L'incanto della pittura", percorsi dell'arte italiana del secondo novecento, Casa del Mantegna, cat. Mantova 2004.
- P. Mantovani, conversazione, cat. A. C. Il salto del Salmone, Torino 1993. - Mino Ceretti, "II caso di vivere. Appunti 194960", Terzoocchio nn.78-79-80, Edizioni Bora, Bologna 1996. - E. Fabiani, C. Malberti, "Milano 1956-1966 dal Realismo al Realismo Esistenziale", Marieschi, Monza 1997. - Martina Corgnati, "Arte a Milano 1946-1959, fra storie e cose: Realismo Esistenziale e dintorni", Credito Valtellinese, Sondrio 1999. - C.A.Quintavalle, "II Rosso e il Nero" figure e ideologie in Italia 1945-1980, Electa, Milano 1999. - F. Gualdoni e S. Mascheroni, "Miracoli a Milano 1955-1965, Artisti, Gallerie, Tendenze, cat. Museo della Permanente, Milano 2000. - "Figure della Pittura" Arte in Italia 1956-1968,
Mino Ceretti nel 1972.
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Composto e stampato presso il laboratorio digitale e calcografico del Museo d’Arte Moderna, dell’Informazione e della Fotografia di Senigallia giugno 2006
01 - “Anatomia studio” 1959” - China su carta - cm. 50x70
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02
03
02 - “Ritratto mancato” - 1969 Pastello su carta - cm. 50x70 03 - “Ritratto mancato” - 1971 Pastello su carta - cm. 50x70 04 - “Figura-paesaggio” - 1971 Pastello su carta - cm. 50x70 04
22
05 - “Figura in fuga nel paesaggio” - 1974 - Pastello su carta - cm. 50x70
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06
07
06 - “Studio per l’ingannato” - 1958/3 China su carta - cm. 50x70 07 - “Tracce-teste” - 1979 Grafite su carta - cm. 50x70 08 - Senza titolo - 1983 Pastello su carta - cm. 50x70 08
24
09 - “Figura interno” - 1977 - Pastello su carta - cm. 50x70
25
10 - “Studio” - 1956 - China su carta - cm. 50x70
11 - “Studio naufragio” - 1958/6 - China su carta - cm. 50x70
26
12 - “Pittore-pittura� - 1978 - Grafite e pastello su carta - cm. 50x70
27
13 - “Figurazione� - 1962 - Pastello su carta - cm. 50x70
14 - Senza titolo - 1964 - Grafite, pastello e olio su carta - cm. 50x70
28
15 - “Figura probabile� - 1994 - Pastello su carta - cm. 50x70
29
16
17
16 - “Identità” - 1983 Pastello su carta - cm. 50x70 17 - “Pittore” - 1983 Pastello su carta - cm. 50x70 18 - “Figura probabile” - 1995 Pastello su carta - cm. 50x70 18
30
19 - “Paesaggio staccato” - 1985 - Pastello su carta - cm. 50x70
31
20 - “Identità” - 1981 - Grafite su carta - cm. 50x70
21 - “Pietra” - 2004 - Pastello su carta - cm. 50x70
32
22 - “Tavolo di lavoro” - 1997 - Pastello a olio su carta - cm. 50x70
33
23 - “Identità-teste” - 1979 - Grafite su carta - cm. 50x70
24 - “Traccia di testa” - 1980 - Grafite e pastello su carta - cm. 50x70
34
25 - “Tavolo di lavoro” - 1997 - Pastello a olio su carta - cm. 50x70
35
26
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26 - “Pittore” - 1992 Pastello grasso su carta - cm. 70x100 27 - “Tavolo di lavoro” - 1997 Olio su carta - cm. 70x100 28 - “Rapporto col testo - 2001 Pastello su carta - cm. 50x70 28
36
29 - “Testa” - 1993 - Olio su carta - cm. 70x100
37
30
31
30 - “Provvisorio” - 1997 Olio su carta - cm. 70x100 31 - “Figura probabile” - 1996 Olio su carta - cm. 70x100 32 - “Valsesia” - 1998 Olio su carta - cm. 70x100 32
38
33 - “Figura probabile” - 1996 - Olio su carta - cm. 70x100
39
34 - “Tre figure” - 1996 - Grafite e pastello su carta - cm. 50x70
35 - “Tragico” - 1967 - Grafite e pastello su carta - cm. 50x70
40
36 - “Provvisorio” - 2002 - Olio su carta - cm. 70x100
41
37 - “Figura bersaglio” - 1968 - Pastello su carta - cm. 50x70
38 - “Interno” - 1979 - Grafite e pastello su carta - cm. 50 x 70
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39 - “Valsesia” - 1998 - Olio su carta - cm. 70x100
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