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Carlo Emanuele Bugatti

NATALE PATRIZI E ADOLFO MINARDI:

NOI E GIACOMELLI

QUADERNI DEL MUSINF 1


Lo storico Sergio Anselmi alla manifestazione di San Costanzo nel 1986

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1. LA MEMORIA STORICA In apertura della mostra al Musinf di Natale Patrizi e Adolfo Minardi, intitolata “Noi e Giacomelli”, sono state collocate, come bacheca di memoria storica e sestante di orientamento, le monografie, che erano state edite per documentare l’esperienza delle esposizioni nelle case rurali abbandonate. Un’esperienza che aveva visto la presenza attiva e propositiva di Mario Giacomelli, unitamente a quella dello storico dell’economia dell’agricoltura Sergio Anselmi. Fin dalla prima edizione di quegli interventi, che avevano la leggerezza dell’en plein air e, nel contempo, lo spessore dell’intervento sui reperti di una civiltà appena estinta, dispersa dalla diaspora migratoria, arsa ed in parte addirittura evaporata, per l’irrompere del magma e dei lapilli, prodotti dall’eruzione dell’era industriale, il pittore Patrizi (Agrà) e lo scultore Minardi (Fide) avevano avuto il conforto di tante presenze eccellenti: l’architetto Gianni Volpe, la storica dell’arte Grazia Callegari e i fotografi ed artisti, che si muovevano in sinergia con Giacomelli. A scorrere le pagine di quelle monografie, che sento un poco anche come mie per avervi contribuito con qualche scritto introduttivo e per via della veste editoriale, che è quella caratteristica della casa editrice mia e di mio fratello Marzio, vi si trovano le presenze di svariate personalità della cultura marchigiana. Tra tutte segnalerei quelle dei poeti Umberto Piersanti ed Eugenio Designoribus, del pittore ed incisore Walter Piacesi, dello scrittore Tonino Guerra, del regista Rai Terenzio Montesi. Ma segnalerei anche il contesto di filologia culinaria dei programmi, che tra esposizioni, concerti, spettacoli della Macina, tavole rotonde, interventi culturali, presentazioni di libri di pregio, allineava polente, sull’aia dei carbonari di Piobbico, degustazioni dei cereali biologici dell’Alce nero. Ancorata alla terra dalla triade Giacomelli, Patrizi, Minardi, la suite di esperienze, per l’evidente contributo stilistico di Anselmi, aveva attinto all’empireo universitario, in una sintesi che andava dalla manifestazione estetica del sentire drammatico dei nati in un fosso al tentativo di collocazione storica della vicenda epocale della civiltà rurale marchigiana. La ricchezza della sintesi aveva fatto scattare qualche meccanismo di attenzione della società civile, politica e dell’informazione, anche nelle Marche, sito solitamente impermeabile alle seduzioni della cultura, specialmente della cultura visiva, tanto lodata formalmente quanto abbandonata nel concreto quotidiano. Al tempo dell’intervento artistico a Ca’ Vitali, che segnò l’esordio dell’azione in case rurali abbandonate, ricordo che notai l’azione del volontariato della Pro loco di San 3


Opere di Fide e Patrizi, “Sette giorni in collina”, San Costanzo 1986

Installazione di Giacomelli, “Sette giorni fuori dal mondo”, San Cesareo di Fano 1988

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Costanzo, che si era attivata per ripulire la casa colonica, miracolosamente risistemata per l’agibilità del pubblico. Bonito Oliva, che resta l’unica intelligenza critica del secondo Novecento, ha formalizzato l’essenza dell’agire artistico ed intellettuale nel sentire difforme, nell’antipatia. Attirandomi dunque le dovute, meritate,comprovate antipatie, come Fide mi ha ricordato proprio in apertura della mostra “Noi e Giacomelli”al Musinf, avevo scritto che si sarebbe “spalato e ricoperto”. Cosa che è avvenuta puntualmente, ma in maniera magnifica, quanto antiteticamente creativa, dopo i sette giorni al Balì. Cosa è successo al Balì lo ha spiegato, con impolitica ingenuità, Natale Patrizi. Ringraziando il presidente della Provincia di Pesaro per un bellissimo ed affettuoso intervento di inaugurazione di una mostra tenutasi nell’alta Marca, Patrizi ha segnalato a Palmiro Ucchielli, presidente della Provincia di Pesaro, che, dall’azione di valorizzazione del Balì, come sede museale, posta in essere dall’equipe d’intervento sulle case abbandonate, era scaturita la fondazione di un museo scientifico. Con ciò sorprendentemente sostituendo, tout court, la proposta del museo artistico sottoscritta dalla triade dei nati in un fosso e formalizzata, bianco su nero (vedere il testo nella monografia dedicata all’intervento artistico al Balì). Riuscendo perfettamente nell’intento di globalizzare l’antipatia nei miei confronti, avevo cercato di spiegare a Patrizi, Fide e Giacomelli che la storia dell’arte avrebbe dovuto insegnare loro come la creatività della politica, quale scienza del possibile, strutturalmente fosse destinata a prevalere, nel concreto, sulla creatività artistica, che ne resta avvantaggiata comunque per avere, a ciclo continuo, la possibilità di creazione di sempre nuove possibilità di un sentito e sofferto pensare e conformarsi antiteticamente. D’altra parte Ennio Calabria, ai tempi del Sindacato artisti, era uso raccontare che Amendola gli avesse detto: “Se gli artisti avessero tutto quello che chiedono, chi lo farebbe più il metalmeccanico o l’imprenditore?” Non so con quale esito, ma avevo cercato di tranquillizzare Patrizi, spiegandogli che, in fondo, aveva fatto tutto da sé, perché se uno è tanto intelligente da inventare il fucile avrebbe dovuto essere anche tanto intelligente da porre nel conto che quel fucile sarebbe potuto servire a tutti gli scopi, anche a spararglici contro. Senza possibilità di recriminazione, giacchè, nel caso non si può negare che, per principio economico elementare, avrebbe dovuto essere chiaro a tutti che l’utilità marginale della scienza è superiore a quella dell’arte, specie in un paese che, si ritiene comunemente, produca pochi scienziati e troppi artisti, per di più anche grandi e perciò ingombranti. Non credo di migliorare, quanto a simpatia, la 5


Copertina del catalogo della manifestazione alla Villa del BalĂŹ, 1990

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mia situazione, ricordando che oggi nell’impero di Occidente, che, questa volta, sembra essere riuscito a ritardare, ma, si direbbe, non di molto, la sua caduta a dopo quella, già avvenuta, dell’impero d’Oriente, il modello degli scavi e dei recuperi di Fide e Patrizi è ampiamente riciclato, per ironia della storia, nei confronti del mondo industriale, i cui ruderi sono ormai numerosissimi. Fanno da corona alle periferie cittadine. Sono questi ruderi le nuove miniere speculative dei centri urbani. Hanno un pregio, quello dell’ampiezza. Basti pensare, dopo il restauro, alla Fiat Lingotto. Sono ruderi così numerosi e vasti da poter ospitare nugoli di storicizzande opere d’arte contemporanea, quindi anche di quelle che rendono omaggio alla terra. Presentendo le possibilità future gli artisti, in tutto l’Occidente hanno ampliato a dismisure la grandezza delle loro opere. Ma, sempre sul filo dell’ironia della storia, bisognerà pensare alle dinamiche future, anche, per dire, alle delocalizzazioni, e alle intuizioni creative dell’alta, bassa e bassissima finanza. Nell’intervento di apertura alla monografia per la manifestazione al Balì premettevo un concetto discutibile e prevalentemente contraddetto. Dicevo che la cultura non è un «optional». Aggiungevo che nel pellegrinaggio per case coloniche compiuto da Fide e Patrìzi c'era la volontà di testimoniare valori attuali e di recuperare valori in via di sparizione, o forse già di scavare reperti di valori scomparsi. La chiave di lettura adoperata mi sembrava estetica, cioè non politica, non sociologica, non naturalistica. Forse tutte queste insieme, ma non ciascuna cosa nei suoi specifici e nelle sue logiche. L'antipatia dell'artista, di cui parlava Bonito Oliva, la volta che non ebbe fortuna, sta probabilmente nell'imporre una comunicazione trasversale, per cui il recupero dell'albero o del filo d'erba si compiva in maniera sintetica dentro l'emblematica finestra paesaggistica di Patrizi, e non importando se il paesaggio fosse vero o dipinto come ugualmente non importando se la finestra fosse vera o dipinta. O si compiva nella forma magica dell'uovo di Fide, che non conteneva il contenuto dell'uovo, o infine si compiva nei sali d'argento variamente suggestionati da Giacomelli. In tutti i casi la realtà non c'entrava nulla con l'arte. Volendo fare uno sforzo dì coniugazione logiche, si potrebbe al massimo dire che l'estetica si trovava a costituire un presupposto, un invito a parlare della realtà. Tuttavia, o perciò, non esisteva e non esiste uno spazio di optionalità. Per essere umani sarebbe opportuno aleggiare nella dimensione culturale, apprestarsi al rito con l'abitualità con cui gli inglesi prendono il tea. Il paesaggio non è il paesaggio, la finestra non è la finestra, la casa non è la 7


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casa. D'altronde queste res ìnventae, che appartenevano alla realtà dì uno spazio che chiamavamo campagna, già da tempo non esistono più in natura. Sono già arte, in quanto invenzioni inconsuete, inconsuete proposte che vanno al di là dello spazio tempo. Se si volesse ridare una funzione alle cose probabilmente l'iperuranio potrebbe, con rapida mutazione, essere ricatturato nella scatola della quotidianità. Conviene fare della casa, abbandonata a un'improbabile esistenza di altro da sé, cioè nuovamente una casa? Io mi rendo conto di aver sempre proposto nel colloquio con Patrizi e Fide (li conosco e li incontro, di quando in quando, dal tempo in cui avevano i capelli tutti neri) una pregiudiziale scaramantica, nel senso che essi mi hanno sempre coinvolto della bontà dell'approccio ex tempore, mentre io li ho sempre convinti dell'altrettanta bontà della favola storica. Sarebbe il caso che alla fine rinunciassi a proporre di fare di un edificio, in spazi rurali, un museo? Forse sì, forse no. Patrizi e Fide sono degli alieni, ma la loro alienità non è pericolosa nel senso che sinora hanno spalato e ricoperto. I reperti dopo il loro passaggio sono tornati nella serenità del passato. All'inesistenza, che aspira giustamente all'eternità. Exìstere non è una bella faccenda. Comporta tutta la sequenza dei vizi d'Occidente. Carte, domande, relazioni, date. Forse anche computers. Settori dove ovviamente l'alienità si manifesta nelle estensioni multiple della pericolosità. Basta il libro-catalogo per perpetuare ciò che, in un tempo, è stato esistente? Probabilmente sì. Perciò mi ero già chiesto perché mai Fide e Patrizi sarebbero dovuti cambiare, avendo già cinque musei portabili, che possono contenere in una borsa, stringere nel palmo di una mano. Ironizzando avevo anche scritto che lo Stato li avrebbe dovuti aiutare a non fare un museo. Dicevo a suo tempo che la bellissima Villa del Balì non sarebbe dovuta cambiare. Il silenzio e l’abbandono sarebbero dovuti restare, lasciando allontanare nel tempo perfino i rumori della mostra di Fide e Agrà. Ex tempore. Ritenevo e ritengo, per piacevolezza metafisica o new dada, che tutto l'immenso sepolcro terracqueo avrebbe dovuto e dovrebbe restare come sta. La mucillagine, lievitando dal mare, avrebbe potuto dare la suspence finale, straboccando. Silenziosa. Occupando gli interstizi del mondo. A quel punto, Dio stesso, che immaginavo esperto ex-librista, con o senza musei, avrebbe saputo come mettere tutto dentro una sottile cornice incisa.

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2. LA CASA COLONICA COME FORO A premessa degli interventi nelle case coloniche di Ferretto e Monte Giove di Fano, realizzati dal 9 al 17 maggio 1987, Fide e Patrizi avevano spiegato, per il gruppo dei promotori, i vari perché dell’operare artisticoculturale su case coloniche. Si tratta di un testo che ritengo ancora essenziale, in cui, con la presa di distanze dalla musealizzazione e con il riconoscimento dell’autonomia dell’operazioni proprie dei musei di storia dell’agricoltura, veniva introdotta la necessità culturale di un luogo adibito a foro, a piazza per la comunicazione culturale. E’ una necessità che mi sono trovato a sostenere anche recentemente, in occasione della notte europea dei Musei, aperta al Musinf dalla mostra “Noi e Giacomelli”, attribuendo questo ruolo di piazza ai musei d’arte moderna, come del resto mi pare stia emergendo, massivamente quanto lentamente, in tutta Europa. Scrivevano Fide e Patrizi, che l’aver scelto la casa colonica, nella sua realtà architettonica con tutti gli spazi antistanti e i capanni non era un ripiego, ma una scoperta che diventava anche una proposta di studio per dibattiti e tavole rotonde. Consideravano, infatti, che l’aia avesse la stessa funzione architettonica di quella “ipotetica sala di rappresentanza”, “teatro romano”, “greco”, “foro”, dove venivano convocate le adunanze importanti, per discutere i problemi di allora. Ed ecco come Agrà e Fide motivano l’idea (necessità) di tavole rotonde “sotto il cielo”, in aperta campagna, in perfetta sintonia con gli spazi interiori dell’animo umano. Lì vedevano l’uomo esprimersi chiaramente, perché privo di quella retorica di cose convenute, di finta socializzazione, di diplomazia municipale. Secondo loro la sobrietà dell’ambiente metteva a parità le persone e a loro agio. Secondo loro lì l’uomo con facilità ritrovava “l’originalità di pensiero”, l’idea, perché espressa al cospetto delle piante, “l’agorà di querce” nell’eco della Valle Metauro, della terra di origine. Ne conseguiva un plurimo interesse: i temi trattati dagli artisti e dagli studiosi, stavano alla radice del discorso, che, pur partendo da una casa colonica, si faceva ampio e articolato (pluridisciplinare), per le varie specializzazioni dei diversi settori (artistico-scientifico-culturale); Si trattava dunque di un’occasione per leggere ad alta voce il “grande albero della natura”, fonte di tutte le energie e intuizioni dell’uomo. La casa colonica si poneva come centro di discussione, “musa ispiratrice”, chiara risposta al domani (alle problematiche future), segnalando gli aspetti architettonici e strutturali, tipici del modo rurale, pur riproponendoli in 10


un contesto artistico, consentendo l’esaltazione del passato e del presente, consentendo l’ esaltazione poetica e suscitando così nuove emozioni nuovi significati, nuovi parametri. Facevano poi notare che l’operazione nella sua molteplicità di interessi e specializzazioni non doveva essere scambiata per una semplice esposizione di opere, di nomi, ma uno stimolo ed una sensibilizzazione ai codici della natura e dell’arte visiva. Un’ operazione, che comportava da parte di Fide ed Agrà un impegno progettuale di un intero anno di lavoro. A Fide ed Agrà il confronto tra “arte” e “ambiente ispiratore” appariva un po’ come restituire l’idea stessa alla natura. La riscoperta della casa colonica, ovvero degli spazi ordinati secondo il bisogno di vivere, vista nella sua essenzialità architettonica, diventava componente di bellezza, specie quando la si confrontava con la casa di città. Una casa quest’ultima che peccava di vanità, per il mancato equilibrio dovuto all’eccessivo “scontro” (confronto) con le vicine. Dicevano tutto ciò mentre l’artistafotografo a volte si divertiva come un bambino, facendo tracciare sul terreno profondi e giganteschi teschi e segni incomprensibili (arature artistiche) giustificabili per l’estrosità e caparbietà di un artista e l’incisore si faceva testimone di grande sensibilità artistica ponendo l’attenzione su rane, rospi e uccelli. Si trattava di un’ottica in cui le sculture in bronzo non risultavano che amplificazioni delle voci della natura, dando la priorità a quegli elementi solitamente trascurati come l’umilissima lumaca (chiocciola). Le finestre, infine, confrontandosi con le vere, diventano chiave di lettura di un discorso poetico e pittorico di una storia vera, quella contadina. Fide ed Agrà avevano persino sentito l’importanza di chiarire, soprattutto, per il rispetto dei musei d’arte contadina, che l’operazione non fosse un recupero museale. Infatti per la trascrizione dei significati da loro la parola museo sarebbe suonata male, come di cose messe lì a tacere, in disuso. Invece loro, Fide e Patrizi, ma anche Giacomelli, puntavano al recupero carico di umori di vita e di proposte. Erano rimasti fieri quando avevano visto gli architetti aderire all’iniziativa, all’appello lanciato, per sensibilità artistica, a discutere insieme dei problemi sul degrado dell’ambiente. Poi erano rimasti conquistati dagli esperti di storia contadina, parlando delle tradizioni rurali e del percorso dell’uomo delle campagne. Si erano commossi con gli scrittori che avevano riproposto gli autori, che riconducevano al passato: “La quercia bella di Bartolini e Castellani”, parametri poetici che sopravvivevano e sopravvivono tutt’oggi nella contemporaneità. 11


Finestra rurale, foto di Natale Patrizi

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3. LA LOGICA ARTISTICA DELL’ASSENZA TEMPORANEA L’interpretazione dell’intera suite di interventi nelle case abbandonate sarebbe impossibile, o comunque incompleta, se si prescindesse da una testimonianza di Natale Patrizi, intitolata “Assenza temporanea”, che fa da premessa alla monografia “Sette giorni fuori dal mondo”, vissuti a San Cesareo di Fano, dal 7 al 14 maggio 1988, con dibattiti condotti da Roberto Giungi ed un concerto curato dal Conservatorio musicale Rossini di Pesaro. Per quell’occasione, nell’intervento su un rudere fatiscente, definito da Patrizi come molto suggestivo e nell’uso degli spazi intorno al rudere, l’azione artistica aveva assunto largamente il sopravvento sulle motivazioni di studio. Scriveva Patrizi che, se si fosse considerato il “rudere” fermento di idee architettoniche, si sarebbe rischiato di essere esposti ad una critica quanto mai uni-direzionale, poiché da ogni spiraglio o fessura di finestra, attraverso lo sganghero delle travi infracidate, da ogni materiale in bilico, immancabilmente e ad ogni istante, sarebbe arrivata la minaccia dello “sfondamento”, se non fosse stato per la “leggerezza” della poesia, capace di mantenere il tutto in equilibrio. Notava Agrà che se avessimo voluto poi una più logica, o meno irrazionale risposta, la avremmo dovuta avere dal “poeta” e non certamente dall’ “infelice” contadino, che ne uscì arrossito perché non riusciva più a dormire. Ed è il poeta che avrebbe dovuto farsi carico di questa “realtà” di ombre proiettate su bianche pareti, dove convogli di forme di ieri e oggi procedevano con estrema facilità, così da convincere che i luoghi, le strade, l’ambiente, avrebbero potuto essere modelli di pagine di autore. Non sarebbe stato dunque necessario pensare, ma solo “sottolineare” perché fuori della porta abbattuta, sopra il tetto senza coppi, c’era qualcosa che non si limitava al vero, ma andava più lontano di un soffitto chiuso. Patrizi aveva notato che la vegetazione si poneva sistematicamente all’interno del rustico , sicchè tutto ciò che era dritto diventava sinuoso, ogni linea retta tracciata dall’uomo incurvandosi, spezzandosi e ricomponendosi. Veniva notato che mentre un operatore edile si sarebbe affrettato a ricomprimere i muri rigonfi, a bruciare le ombre degli arbusti, opponendosi con tutte le sue forze al degrado, il poeta, invece, si sarebbe fatto complice della natura, favorendo ogni fermento di vita, ogni processo naturale, ogni nuova combinazione, per un risultato di architettura più vera e meno impropria. Patrizi aveva concluso che Il suo intervento sarebbe consistito nel non intervenire. Essendo talmente ovvia la scelta di questa fatiscente 13


architettura “rurale”. Patrizi aveva anche sostenuto che, se qualcuno gli avesse chiesto il perché non avrebbe saputo rispondere; ma con la convinzione che la casualità di averla trovata, quell’architettura , non fosse stata altro è che il risultato fortuito di una travagliata ricerca esteticoesistenziale. Quindi di una travagliata ricerca di contenuto.

Sette giorni in collina , San Costanzo 1986

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Mario Giacomelli nella bottega di Angelini

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Installazione di Giacomelli

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Natale Patrizi fotografa il suo “Contenitore di poesia�

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Adolfo Minardi e Natale Patrizi

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NATALE PATRIZI Opere

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Sequenze - 1998

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Piagiolino - 2007

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Piagiolino - 2007

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A Paolo Volponi, la sua terra - 2007 24


Piagiolino - 2005

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Fasce di luce - 2003 26


Infinito verde - 2003

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Terra gialla (part.) - 1998

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Finestra rurale Cerasa: “Stradine bianche� - 2003

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Ritratto femminile

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Ultime luci - 1995

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Vestito verde - 1997

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Il pittore Montanari - 1996

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La grande macchia - 2003

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Luci improvvise al tramonto - 1996

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Collinare marchigiano - 2004

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Recanati: “A Leopardi” - 2002

Cesano - 2001

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Piagiolino - 2004

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Ritratto dello scultore Fide - 1981

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Finestra rurale –1997

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Finestra verde - 1981

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Finestra rurale - 1985

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Finestra rurale “La ragazza di Piagiolino� - 2005

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Per Mario - 2007

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Donne del Cesano - 2006

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Donne del Cesano (libro di legno) - 2006

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La Sen. Anna Serafini davanti ad una delle finestre di Natale Patrizi

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NATALE PATRIZI (AGRÀ) TESTIMONIANZE

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Natale Patrizi e Tonino Guerra

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UNA PROGRESSIVA PRESA DI COSCIENZA I migliori esegeti della marchigianità (da Volpini ad Antognini a Troiani) si sono esercitati criticamente sull'opera di Natale Patrizi, pittore che testimonia, nella sua produzione, della cultura contadina di "quella Marca che sta fra Cesano e Metauro ". Nel caso l'individuazione di due specifici, quello territoriale e quello culturale, delimitando la classe di appartenenza ad una realtà di origine geograficamente compatta, definisce con proprietà un concetto che spesso è sfumato in un 'idea astratta, o in un'ideologia intesa nel senso purissimo della falsa, seppur fortemente creduta, rappresentazione di sé. Nella sua singolarità il caso di Patrizi semplifica con chiarezza estrema quanto il concetto di marchigianità potrebbe fruttificare se fosse applicato sistematicamente con i sostegni di un'approfondita analisi storica delle realtà locali, proprie di una regione che con Valentini potremmo risostenere come unità originariamente amministrativa, accomunante itinerari, storie, economie diverse e talora perfino contrapposte. Sul punto mi pare converga l'analisi, condotta in occasioni celebrative da Guzzini, percorrendo vie mediatrici sottili, ma ferme. Non a caso, dall'alto di un'esperienza letteraria compiuta e rilevante, Tombari, prendendo le mosse dal giudizio di Volpini, ricollega il senso dell'esperienza di Patrizi all'ancoramento alla terra di origine. Certo Tombari perviene a questa conclusione con il tramite di una concezione dell'arte che viene ad indicare nell'astratto e nel simbolico "la morte di ogni arte". Non di meno Tombari riesce a definire, per ulteriore approfondimento, le caratteristiche qualificanti di Patrizi nella capacità di immediatezza e di essenzialità: "Non è folclore: più ribelle che convenzionale, mezzo frate e mezzo anarchico, sia nell'impasto dei colori dalle larghe campiture quanto nelle grafie che tradiscono il graffio, non ha compiacenze". Come dire, insomma, che al di là delle radici, o meglio delle determinazioni di esse, ferve un presente e su questa strada ancora si spinge Maurizi quando scrive che "il potenziale morale di Patrizi si manifesta, quasi con urgenza, avvalendosi di impulsi e di frammenti linguistici, che nella caoticità esistenziale emergono come arcipelago di reminiscenze, di impressioni e di verità. In questa organizzazione sintattica si potenzia quella che in effetti è la vera essenza dell'artista: un uomo che vive la sua stagione nella terra natale e, nell'evocazione di visioni familiari, suggerisce un 'etica allitterazione dei giorni per esprimere i limiti entro i quali si muove l'esi51


stenza". Concetto questo che racchiude una visione di ampio respiro, pur contenendo un'angolazione da monadica leopardiana (e rispunta il "tormentone" della marchigianità) procedente dal particolare all'universale, per il tramite di un ostacolo, di una siepe qualsiasi che fa da buco della serratura per riguardare il mondo. Più però, come detto, questo concetto in sé racchiude l'intuizione dell'avvenuto superamento della pura filologia, che se ha una ragione di essere, come presupposto sine qua non, è pur sempre solo un presupposto che ha per fine quello di misurarsi con ritmi logici con la realtà presente, sintesi di quanto è stato, ma anche cosa "altra" (nel senso che si tratta di un muro non attraversabile, ma con il quale, viceversa, ci si scontra). La coscienza di essere in un modo determinato, in un luogo determinato, in un contesto storicamente determinato è lo strumento con cui Patrizi si confronta con il mondo; cioè senza alienazioni, con schiettezza e pieno sentimento di sé. Per chi poi ha visto recentemente la grande mostra di Orfeo Tamburi, nella Rocca della Rovere di Senigallia, un parallelo tra i disegni di Patrizi e quelli di Tamburi ("si parva licet...") sembra d'obbligo, con la differenza, anche, che agli spazi grandi dell'Europa Patrizi pare scegliere gli spazi grandi della sua "Marca". Una scelta che Tamburi, a suo tempo, avrebbe fatto, se avesse potuto.

Carlo Emanuele Bugatti

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IL PITTORE NATALE PATRIZI La pittura di Natale Patrizi muove da una situazione intima incandescente, soltanto a poco a poco placata nella stesura ritmica del colore, che scandisce le esuberanze cromatiche come elemento espressivo e come suggestione improvvisa di fatti e meditazioni a lungo conservate nell'intimo. Si ha, così, subitanea l'impressione di essere immersi nel vivo di una conversazione, che trasforma il naturale in strumento della ricerca di una identità sempre ignorata, ma squisitamente presente nell'atto creativo. Il paesaggio, per l'artista, è la forma più naturale e genuina della personale interpretazione della verità, perché in esso sa ritrovare infatti quei valori storico-culturali, sui quali è incentrata la sua indagine. Sarebbe semplice, infatti, per lui aprire il discorso sulla base dei soli fatti visivi, che legassero l'osservatore a un certo tipo di scelte, ma indubbiamente ciò gli apparirebbe impossibile per i collegamenti formalistici, capaci di proporre in racconto organico elementi disparati, anche se tra loro consimili. La sua pittura, perciò, vive intessendo eventi apparentemente conclusi, che interpretano l'intima essenza di una soggettività, vista come baluardo di istanze figurative, tali da precisarsi senza rinnegare quel processo interiore, dove nasce la sua poetica. I lati e le visuali, scontate e inquadrate nelle varie composizioni, partecipano tuttavia alla dimensione dell'intervento critico e lo autenticano in uno spessore di motivazioni, ricche e soddisfacenti. Il succedersi dei bruni, dei marroni, dei verdi, che ingabbiano in precise compiture gli spazi, trasporta nella stesura cromatica riferimenti e situazioni umane, che hanno necessità catartiche e il fine ultimo di risalire la china della realtà materica per giungere a uno spirituale essenziale per la comprensione del testo pittorico. La rappresentazione non interessa, perciò, soltanto per la sua resa formale, ma soprattutto per quella contenutistica, sempre determinata da quei fattori umani, capaci di respingere, a priori, qualsiasi limitazione, che non riguardi da presso la realtà socio-politica particolare nella quale si muove la ricerca. Il Patrizi più vivo è, perciò, il paesaggista: il pittore, cioè, che ama cogliere il succedersi delle stagioni nella loro sensualità e angoscia, nel tentativo di un recupero strumentale, ch'è anche ripresa di un dialogo interrotto, mediante lo studio in profondità di quelle costanti che qualificano il suo fare. Le sue possibilità di oggettivazione aumentano mano a mano che il lin53


guaggio si semplifica e si distacca nella intonazione generale dalla latitudine culturale, propria dell'opaco ristagno locale, aprendosi ad eventi ben più significativi di quello che, a prima vista, si crederebbe. Il suo potenziale morale, perciò, si manifesta quasi con urgenza, avvalendosi di impulsi e di frammenti linguistici, che nella caoticità esistenziale emergono come arcipelago di reminiscenze, di impressioni e di verità. In questa organizzazione sintattica si potenzia quella che in effetti è la vera essenza dell'artista: un uomo che vive la sua stagione nella terra natale e, nell'evocazione di visioni familiari, suggerisce un'etica allitterazione dei giorni per esprimere i limiti entro i quali si muove l'esistenza.

Elverio Maurizi

I RACCONTI DI NATALE PATRIZI Perché Patrizi, pur sapendo che il racconto si struttura in genere in parole, intitola i suoi quadri: "racconti poetici"? Ebbene, c'è un'antica risposta che legittima l'intitolazione: la "produzione di oggetti con colore e figure o con la parola, la musica e il ritmo" è dovuta a quella capacità originaria che è la mimesis (Aristotele, Poetica I,47a 19-20): conoscenza e tecniche. E se il racconto è, come dice P. Ricoeur, "intrigo", incastro di eventi o trame a incastro, tra memoria e tempo, anche la pittura di Patrizi narra una storia, la lunga storia del suo rapporto soprattutto con il paesaggio: un rapporto pieno di stupore, di gioia, di libertà di vivere con quel paesaggio che la sua sensorialità lirica non vede come ostile, ma come autentica, e oggi forse definitivamente perduta o comunque lontana, dimora dell'uomo. E' un racconto a incastro, anche tecnicamente, con quel bisogno di suddividere per quadri lo stesso spazio pittorico, perché in esso ci siano più episodi, o con quella sua felice invenzione della finestra che dal chiuso si apre all'aperto. Patrizi è preso,"intrigato" con la luce del paesaggio, mai incolore né trasparente, ma sempre come "corpo" colorato: un intrigo tra libertà e spazio, che lo costringe a operare tra campi e fossi, in una geografìa precisa, di preferenza nelle colline che si snodano tra il Metauro e il Cesano fino all'Adriatico: la geografia della sua memoria, delle prime emozioni e esaltazioni. C'è realmente racconto.

Graziano Ripanti 54


Natale Patrizi e Mario Giacomelli

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PATRIZI IN DIALOGO CON GIACOMELLI GIACOMELLI - Ma questo è bello in modo particolare, sarà che io mi lascio influenzare... vedi qui c'è una "a", se non fosse stata bloccata... e quindi secondo questo aspetto, secondo me è una cosa valida, hai fatto bene a farlo! Qui (nel tuo paesaggio) è tutto bloccato ed è tutto libero contemporaneamente; cioè respiri proprio l'aria della terra, della natura. Secondo me sei più personale nel paesaggio, perché sei te stesso, prendi la libertà che molti altri (pittori) non sanno prendere. PATRIZI - Il mio lavoro ha inizio con la prima pennellata e ha fine con l'ultima... non ci passo mai due volte! L'ultima pennellata chiude (conclude) il discorso iniziato, ma ci vuole molta esperienza e abilità. GIACOMELLI - E' come io ho paura di quelli che fanno il bozzetto e poi lo riportano sulla tela; per me il valore sta nel bozzetto e non nell'ingrandimento. A questo punto non ci crederei più neanche nell'arte... PATRIZI - Agli Uffizi, dove ho avuto occasione di entrare, i bozzetti sono lì che ti incantano, perché hanno un'energia maggiore delle "opere" medesime; ogni segno tracciato dall'artista contiene in sé una indescrivibile emozione: ovvero tutta l'energia ricevuta dalla natura e dalla mente che li ha originati. GIACOMELLI - Quando ho avuto modo di vedere il disegno preparatorio di un'opera, l'idea, quelle cose di getto, fresche... questi disegni sono stati sempre molto più grandi di quelle che poi finivano per essere chiamate le "opere". PATRIZI - Ecco Mario guardiamo quest’altro paesaggio. GIACOMELLI - Per me personalmente è molto pulito, è molto essenziale... sono cose che sembrano uguali ma sono molto diverse. Secondo me questo è molto sentito, molto calmo... è molto interiorizzato questo, mentre l'altro è invece una esplosione...! PATRIZI - Una esplosione di gioia... ! GIACOMELLI - Vedi Natale, i segni dell'altro fanno pensare ad altre cose...! delle cose bellissime (non ho detto brutto...!). Addirittura ci sento la pulizia di Burri... faccio per dire; io ho una stima matta per Burri; però 56


(questo dipinto) è anche bello perché è "bello"! A me sembra una cosa buona. PATRIZI - Vedi questi dipinti che ho fatto quest'anno, me lì sono visti e rivisti ripetute volte, finché ho sentito la necessità di portarteli; ero curioso di sapere il tuo pensiero. GIACOMELLI - Anche se avessi detto male... tu dovevi continuare a fare quelle cose... PATRIZI - Sì, io ero pronto, qualsiasi tuo giudizio non mi avrebbe fermato, né fatto cambiare direzione; ma nello stesso tempo ero convinto che queste mie ultime cose erano valide, e volevo sentirmelo dire da te. GIACOMELLI - Sono invece cose che fai godere agli altri... c'è una bella differenza! Se non vedevo questo, non godevo quello, né dicevo quest'altro. Certo troverai anche chi dice male. PATRIZI - Se dice male è perché non la capisce. GIACOMELLI - ...e, apposta, non conosce la traduzione, non conosce il linguaggio.

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STANZE PATRIZIE Preludio Natale Patrizi, al Conventino di Monteciccardo, presenta una antologica dei suoi dipinti di paesaggio, senza trascurare di fornire al visitatore tracce della sua opera pittorica rivolta al ritratto e all'arte sacra. Pittore di tempra robusta, Patrizi predilige il fare grande: sulle ampie tele distende con tale libertà e sicurezza il colore tanto da raggiungere effetti di una pura gestualità che fa dimenticare il soggetto, si tratti di paesaggio o di figura. All'insonne inquietudine del mare Patrizi preferisce il ritmo lento e rassicurante della circolarità della natura, che restituisce con gesti pacati nei quadri di paesaggio sulle colline che circondano Marotta e il territorio fanese. Anche Cézanne, sebbene con finalità più razionali che emotive, ha indagato insistentemente con la pittura la consistenza della montagna Sainte Victoire, il grande massiccio visibile appena si superi il confine fra l'Italia e la Provenza. Se con il paesaggio Patrizi riconosce all'uomo la dignità della contemplazione, con il ritratto approfondisce il perenne debito creaturale dell'uomo verso Dio: da qui scaturisce l'affascinante percorso delle tempere murali in spazi ecclesiastici, le sue vetrate. Il volto di Cristo, degli apostoli, di Maria sono veri ritratti di conoscenti o amici. Il percorso espositivo delle opere di Natale Patrizi intende suggerire un approfondimento critico delle tematiche attraversate dal pittore: in ognuna delle cinque stanze è sviluppato un tema. In ciascuna stanza costante è l'esposizione di una o più finestre: soglie fittizie per sensibilizzare il visitatore al paesaggio naturale, quando queste sono collocate nei pressi delle finestre reali; quando, come nel caso della Stanza degli sguardi, la finestra dipinta è posta sulla parete cieca e indica semplicemente l'accesso a una dimensione simbolica. La stanza degli sguardi Immagine centrale di questa stanza è la Madonna alla finestra. Patrizi raccoglie vecchi infissi, a volte anche privi del vetro, e, dopo averli sistemati su robusti supporti lignei, quasi si trattasse della cornice di un quadro, realizza sul supporto i suoi dipinti. Un procedimento singolare, questo dell'artista, che prende le mosse dalla cornice, piuttosto che dal soggetto del quadro. Prevalentemente i quadri incorniciati dalle finestre sono paesaggi agresti o di piccoli paesi, in questo caso è stato scelto il tema sacro. Il dipinto è in parte ricoperto di biacca bianca, quasi a volerlo in parte na58


scondere o cancellare. Sulle pareti circostanti sono esposti ritratti di bambini singoli o in coppia che sembrano osservare con uno sguardo stupito la scena che si sta svolgendo al di là dei vetri. Ma la vicenda che la Stanza degli sguardi intende narrare è più ricca di significato e si riferisce a un episodio di rilevante interesse esistenziale per Natale Patrizi. Nel 1980, su suggerimento di Fabio Tombari, il parroco di San Giorgio in Foglia commissiona al pittore l'esecuzione della decorazione delle pareti dell'abside e di due cappelle laterali. Patrizi dipinge con tempere all'uovo nell'abside San Giorgio e il drago, nelle cappelle una Madonna alla finestra e un Battesimo di Cristo. Dal 1997 le opere sono state coperte da spessi strati di vernice per un improvvido quanto definitivo intervento di ristrutturazione, che, tuttavia, nascondeva un giudizio negativo nei confronti dei soggetti trattati nei dipinti murali, ritenuti troppo realistici e quindi non consoni alle finalità didascaliche che l'arte sacra deve avere. La cancellazione ha provocato il giusto risentimento del pittore ed è proprio a partire da quella vicenda che Natale Patrizi ha restituito l'immagine della Madonna affacciata alla finestra, in parte cancellata, che viene esposta nella Stanza degli sguardi. La stanza dei fogliami "Agra", nome d'arte di Natale Patrizi, esplicita il progetto artistico del pittore, che trae dall'osservazione diretta del paesaggio i motivi del suo fare. È dalla conoscenza dei ritmi della natura che nascono le composizioni di ampio respiro sulle tele di Patrizi. Sentire la disponibilità al vento del fogliame delle querce, l'odore delle stoppie bruciate, la determinazione dei pampini nell'avvolgersi ai sostegni, sentire l'odore della pioggia prima dell'avventarsi del temporale, sentire freddo e caldo nell'alternanza delle stagioni. L'insieme delle sensazioni guida la percezione visiva fino al compimento della scelta del colore che sosterrà le linee del paesaggio, è naturale che nulla vada perduto di quelle impressioni originarie e che il pittore a quelle dedichi talvolta la sua attenzione. I fogliami, non solo si pongono come particolare del paesaggio, ma indicano un percorso molto personale di ricerca del linguaggio espressivo. L'aver proposto il grande quadro in verde a fronte dei paesaggi suggerisce il procedimento del pittore, che, pur pienamente consapevole della inafferrabilità del paesaggio, procede alla definizione dello stesso prendendo le mosse dalla sua esperienza della natura. Il desiderio di bellezza spinge l'uomo a ricercarla nella natura che in pittura diventa paesaggio, nel59


l'amore che nell'arte diventa il possesso simbolico della materia, in Dio che diventa conoscenza e superamento dei limiti umani. La stanza del paesaggio "La pittura di Patrizi impegna lo spettatore: si accetta o si rifiuta, è fuori luogo l'indifferenza. Nel momento che ci si lascia catturare dai suoi colori di terra, dalle sue impennate di rossi, dagli squarci improvvisi di azzurri si può riscoprire il mondo con occhi diversi, forse quelli dell'adolescente che è innamorato, forse quelli di un bambino che procede sicuro di essere amato." Scrivevo così nel 1997 in una breve presentazione richiestami dall'artista. Insieme avevamo visitato il convento di Mombaroccio, luogo dove l'artista ha lasciato più di una traccia del suo passaggio artistico. Patrizi è pittore di formazione accademica, ma la sua sensibilità si è maturata in modo personale a contatto con la spiritualità francescana, che gli ha consentito di raggiungere un rapporto con la natura lontano dagli ecologismi di moda, ma costruito sulla convinzione che ogni forma di esistenza è calata dentro un progetto di salvezza. Nasce da questa formazione complessa la sua trasfigurante capacità di rendere in modo del tutto inedito paesaggi noti a chi come lui frequenti questa fascia della provincia dove la collina confina con il mare Adriatico. La stanza delle mezze finestre o del dittico II Conventino di Monteciccardo, ampiamente utilizzato in anni non lontani per esposizioni importanti sull'incidenza della cultura figurativa contemporanea, offre al visitatore la bellezza di luoghi segnati dalla storia e ancora pressoché intatti. L'ampio salone, dove la maggior parte delle opere di Patrizi trova la sua collocazione, è ornato da un camino incorniciato da due finestre, aperte sul paesaggio di valli e colli dell'entroterra pesarese. La parete così segnata dalla insistita presenza di soglie di accesso all'esterno ha suggerito l'opportunità di collocare due mezze finestre di Patrizi che, con discrezione ripropongano il leitmotiv della mostra. Il visitatore potrà, in questa sala, respirare con libertà l'ampiezza del gesto pittorico di Patrizi che sa coordinare con grande sapienza l'estesa bidimensionalità delle sue composizioni. L'aver accostato due grandi dipinti, tanto da suggerire l'idea dell'antico dittico, nasce dal riconoscimento della coerenza stilistica di Patrizi, che ha fatto della sua totale immersione nella natura una costante ragione di ricerca.

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La stanza dell'orizzonte II potenziale narrativo, insito in ogni opera d'artista ed espresso nell'insieme dei lavori, si rinnova ogni volta che con una mostra si crea una sequenza. La costruzione di una sequenza di dipinti equivale alla tecnica cinematografica del montaggio, dove ogni fotogramma deve essere coerentemente connesso al precedente e al seguente al fine della coerenza narrativa. Guardare il paesaggio dalla parte dell'orizzonte risulta consonante con il punto di vista dell'artista che con l'opera primariamente tenta la soluzione dei problemi compositivi: cosĂŹ la comprensione dell'opera anche se rigorosamente figurativa tocca i termini astratto-geometrici. La costruzione prospettica, infatti, prevede che tutte le linee si congiungano in un punto collocato sulla linea d'orizzonte. Il colore, se steso sapientemente, distrae lo spettatore e fa dimenticare l'impegno disegnativo che sottosta a ogni composizione. Per questo motivo il cubismo nella sua prima fase di abbattimento delle ragioni costruttive prospettiche, fase analitica, ha usato il nionocromo al fine di mostrare una nuova organizzazione dello spazio. Appoggiare lo sguardo su quella linea di confine fra cielo e terra restituisce allo spettatore il senso di una conquista di lettura dell'impaginato figurativo diverso dalla classica lettura della pagina scritta, che da sempre condiziona l'occhio a percorrere il visibile dall'alto al basso e, nella tradizione della cultura occidentale, da sinistra a destra. L'arte, tanto piĂš se si impone con un affascinante linguaggio come quella di Patrizi, contribuisce a far scattare nuovi percorsi dello sguardo.

Silvia Cuppini

Dalla monografia “Natale Patrizi�, Silvana Editore 2003

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ADOLFO MINARDI Opere

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Testa di fanciullo - 1960

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Alessandra - 1971

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Patrizi (AgrĂ ) - 1971

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Oscar Marziali - 1974

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Il padre dell’artista - 1974

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Chiocciola n.1- 1977

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Chiocciola n. 2 - 1977

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Chiocciola n. 3 - 1977

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Chiocciola n. 4 - 1977

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Chiocciola n. 5 - 1977

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Chiocciola n. 6 - 1977

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Chiocciola n. 7 - 1978

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Chiocciola n. 8 - 1978

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Chiocciola n. 9

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Chiocciola n. 10 - 1980

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Chiocciola n. 11 - 1980

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Chiocciola n. 13 - 1980

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Chiocciola n. 14 - 1980

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Chiocciola n. 24 - 1981

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Chiocciola n. 16 - 1981

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Chiocciola n. 17 - 1981

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Chiocciola n. 18 - 1981

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Chiocciola n. 19 - 1981

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Chiocciola n. 20 - 1981

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Chiocciola n. 21 - 1981

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Chiocciola n. 22 - 1981

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Chiocciola n. 23 - 1981

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Chiocciola n. 28 - 1982/1983

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Chiocciola n. 29 - 1982/1983

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Chiocciola n. 31 - 1982/1984

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Metamorfosi di un cavallo n. 1 (1째, 2째, 3째 studio)- 1974/2003

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Metamorfosi di un cavallo n. 2 (1째, 2째, 3째 studio) - 1974/2003 95


Metamorfosi di un cavallo n. 2 (4째, 5째 studio) - 1974/2003

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La Sen. Anna Serafini e Adolfo Minardi davanti alla scultura

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Fide in fonderia

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ADOLFO MINARDI (FIDE) TESTIMONIANZE

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In Minardi dobbiamo principalmente notare l'arte caratterizzata dal drammatismo ispirato già alla concezione occidentale della narrazione animati dal sottofondo ligio alla tradizione bizantina con la chiara fusione del principio geometrico e organico. Espressioni queste di un ideale che l'artista è in grado di realizzare mirabilmente in forma figurativa, che sono ragioni psicologiche da cui l'artista è guidato ad esprimersi secondo uno schema originale, tutto particolare, che rivela, altresì, una visione personale dell'opera d'arte. Il patetico espressionismo difficile a esprimersi nella materia, Minardi lo traduce in maniera efficacissima in tutte le figure (il volto del Cristo, i ritratti ed i volti di bimbi, o le figure femminili), realizzato con senso di abbandono dell'equilibrio simmetrico in favore di un equilibrio distributivo. L'opera d'arte di Minardi ha un punto di riferimento immaginario - analogo ad un centro di gravità - intorno al quale si distribuiscono le linee, le superfici, le masse, in modo da farla riposare in perfetto equilibrio. Con tali sorprendenti effetti con cui lo scultore si rivela, traspare un altro elemento di notevole preziosità, che è l'armonia intesa nel senso della soddisfazione che noi abbiamo del bello. Ma in Minardi, in verità tutta l'armonia e la trascendente spiritualità di una grande religione si concentrano nella materia. Certamente, Minardi affida alle sue opere il proprio carattere, il sentimento d'insoddisfazione, quell'innato anelare verso una ricerca nuova, verso una legittima liberazione tendente a esprimere la perfezione formale dentro la quale possa entrare il nostro sentimento. E questi ideali per un artista, sono i presupposti per una carriera piena di successi. Giuseppe Catania (da “il Tempo”)

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ARMONIA E SINTESI ESPRESSIVA NELLE SCULTURE Nel ripercorrere l'evoluzione artistica di Fide si può notare come questo scultore, nato a Fano, si sia sempre affidato a un'elegante ed armoniosa risoluzione formale. Ora il suo discorso, dopo una bella serie di ritratti e d'intense figure, si è arricchito di un nuovo e delicato soggetto: «Le chiocciole». Un soggetto visto ed interpretato mediante una peculiare sintesi espressiva, colto e plasmato con profondo amore dopo una lunga ed appassionata indagine sulla forma, sui movimenti, sulle loro abitudini e «man mano che le plasmavo in piccolo formato - ricorda Fide - sentivo allontanarsi sempre più il desiderio d'ingrandirle, perché ebbi la sensazione ch'erano interessanti già così, finite in quel modo». Le «Chiocciole» sono divenute ben presto realtà tangibile, espressione di una ricerca che sfocia ineluttabilmente in una volumetria raccolta dove la raffigurazione assume una propria vita, una propria dimensione nello spazio atmosferico. In tale angolazione il linguaggio di Fide ci offre il segno di una seria ed elegante risoluzione dell'immagine che la fusione in argento concretizza e valorizza pienamente. Queste sue ultime condizioni appaiono legate alla sapiente linearità, alla vibrazione della luce sui piani, alla freschezza ed all'immediatezza del comporre e del narrare. La scultura diviene quindi il luogo ed il mezzo mediante il quale l'artista scopre se stesso, analizza la società contemporanea, comunica il sentimento vero dell'umana esistenza ed ogni sua «chiocciola» evoca istanti e sensazioni emergenti da una realtà rivisitata giorno dopo giorno. Fide giunge perciò a una linea compositiva ricca di fascino e sostenuta da una felice intuizione che gli ha permesso, senza ripensamenti e tentennamenti, di dare una forma estremamente elegante alle «chiocciole d'argento» quasi che l'indagine conoscitiva su questo piccolo animale rappresenti l'essenza di un'arte sensibile e delicata. L'arte di Fide (Adolfo Minardi, il cui pseudonimo nacque dallo scherzo d'un amico che scolpì profondamente su una sua scultura la parola «Fidel», da Fidel Castro al quale rassomigliava per via della barba e che non riuscì a cancellare completamente e rimase d'allora in poi «Fide») si segnala per quel senso di serenità e di poesia che contraddistingue l'iter del «suo far scultura». Angelo Mistrangelo

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DALLA FORMA LA PUREZZA E L'ARMONIA DELL 'ESSENZIALE Dal realismo al neorealismo e quindi la ricerca di una purezza armonica perfetta si trova nelle più recenti opere scultoree di FIDE (ADOLFO MINARDI) fino alle "chiocciole" che rappresentano la sua punta massima. Tecnica ed arte sono fuse, la luce corre attraverso lo spazio dove si muovono le figure (gli atleti del secondo periodo) e dove fermi, ma suggestivi come astri rotanti si stagliano i luminescenti gusci delle chiocciole (ultimo periodo) e queste appaiono quali luminose code di comete. Ecco che Fide nell'essenziale giunge a tre risultati: moto, armonia, luce. E vi giunge attraverso il massimo rigore stilistico e scientifico che non toglie d'altronde l'interpretazione liberatoria dell'arte. I suoi più recenti modelli, sempre simili e così diversi, possiamo definirli: piccole proiezioni cosmiche, armoniose creature fantascientifiche, moderne traduzioni dalle splendide linee canovesche, forme elissoiali in movimento, forme dinamiche e statiche. Questi effetti di grande seduzione e raro nitore li abbiamo analizzati, sia pur essenzialmente, sotto l'aspetto tecnico e scientifico e sotto il profilo formale; ora consideriamoli nel loro collocamento storico. L'arte di Fide non nasce innanzitutto da compromessi conformistici dovuti a pressioni esterne. L'arte sua nasce e si sviluppa proprio da una vocazione e da una concezione nella quale la nobiltà della forma (e della materia: argento, bronzo, marmo) si unisce ad una rigorosa stilizzazione. L a scultura di Fide è stata avvicinata ai grandi protagonisti marchigiani, dai Pomodoro ai Trubbiani, tuttavia - scrive Nunzio Solendo - se anche sono ravvisabili in Fide le stesse matrici, il suo risulta un percorso ulteriore tutto teso alla ricerca dei prototipi della forma, secondo uno schema che è più vicino alle poetiche di Marini e di Moore che non alle attenzioni strutturali di Mastroianni. Il suo collocamento è quindi fra gli artisti moderni che non s'affrancano neppure per un attimo - dall'armonioso e dal razionale. Ossani - Silipo (Da ''L'Arte Italiana nella seconda metà del XX Secolo: Tradizione e Avanguardia")

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Minardi, che sembra avere una fede assoluta nella forma, dimostra una sollecitudine tutta particolare per le virtù proprie della scultura, cioè la sensibilità al volume e alla massa, il giuoco dei vuoti e dei pieni, l'articolazione ritmica dei piani e dei contorni, l'unità della concezione. In Minardi, il soggetto assume, nel vibrante vigore plastico, l'effigie di personaggi profondamente sentiti e amati. Le sue sculture segnano le tappe di una lenta metamorfosi verso forme sempre più essenziali: da classiche espressioni formali (che comunque non sono quasi mai accademiche), a conclusioni di sintesi plastica concepite attraverso le problematiche immutabili dell'uomo: il dolore, l'amore, il lavoro, la preghiera. Configurate nello spazio che le avvolge, le sue sculture si animano in esso, in esso si muovono, ne fanno parte integrante e viva, nella loro intensa, arcana spiritualità; quasi che il cemento, la terracotta e il marmo riescano, matericamente, a estrinsecarsi in slanci vitali. Carlo Antognini (da “Avvenire”)

Fide, uno scultore che dimostra « come ancor oggi sia possibile l'arte d'ispirazione oggettivistica ». Personalmente non amiamo troppo questa possibilità, preferiremmo di più l'appassionato messaggio che l'artista vuole e deve comunicare; lo rispettiamo comunque tanto più che Fide ha solidi mezzi su cui impiantare la sua arte. Giuseppe Paciarotti (da “La Luce”)

Fide interpreta la scultura in modo assolutamente personale. Il suo interesse si incentra particolarmente sull'uomo, lievi busti estatici, racchiusi armonicamente nella curvatura della linea, priva di spigolature, sottolineata semplicemente da una leggera incisione. Il dinamismo si esprime meglio nel rilievo in cui diversi piani prospettici sintetizzano l'intensità del movimento delle singole figure. Una personalità molto spiccata che assume toni di assoluto valore. Giuliana Ralli (da “La Prealpina”)

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Ho visto le belle chiocciole di Fide. Le migliori sono quelle dove la fantasia si è più affrancata dalla realtà, perché solo in quel modo la chiocciola cessa di essere soltanto tale per diventare anche una forma artistica. La chiocciola comunque ha una bella forma, ma dove è riuscito a trasfigurarla con maggior coraggio ha ottenuto risultati ancor più interessanti. Giorgio Ruggeri (Il Resto del Carlino)

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Questo volume è stato composto e stampato presso il laboratorio calcografico e digitale del Museo dell’Arte Moderna, dell’Informazione e della Fotografia di Senigallia nel maggio 2007. A cura di Carlo Emanuele Bugatti, con la collaborazione di: Italo Pelinga Davide Patregnani Alice Sanviti

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