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PALINGENESI DI UN MITO di Domenico Defelice

Una Nazione intera in lutto. Anzi, un mondo intero, almeno quello del calcio, che lo adorava.

Domenica primo gennaio 2023: insediamento del nuovo Presidente della Repubblica Luis Inacio da Silva con cerimonia per certi aspetti affievolita, meno effervescente, com’è costume di quel popolo, giacché cuore e mente dei brasiliani erano solo per il loro Re, scomparso a 82 anni giovedì 29 dicembre, in quei momenti perciò irrigidito, pietrificato in una bara, segno che la vita e il destino non guardano in faccia e non risparmiano alcuno dal dolore e dalla morte.

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Lunedì 2 gennaio di esaltazione e lacrime: veglia funebre nello stadio Vila Belmiro.

Martedì 3 gennaio: trasporto della bara per le strade della città, così come si faceva un tempo anche da noi con le statue dei santi, con passaggio e sosta dinanzi alla casa della madre, la signora Celeste, ancora viva, centenaria, ignara, perché non avvisata, data l’età, della morte del figlio. Funerale e tumulazione nel cimitero di Santos.

La morte di un mito. Ma i miti possono morire? No, altrimenti non sarebbero tali. I miti si possono affievolire e rinvigorire, adombrare e schiarire, ingiallire e rinverdire, sfiorire e rifiorire, metamorfizzare, mai morire.

Edson Arantes do Nascimento - per tutti Pelé - era un mito dalla seconda metà del Novecento; è un mito; rimarrà un mito. È stato un mito anche per noi, che mai siamo stati tifosi di calcio. Era, è e rimarrà, un mito, perché venuto su da niente, esempio di come dalla povertà ci si può riscattare, conquistare ricchezza e fama col talento, la volontà, la tenacia. I miti servono e fanno capire che si può conquistare quasi tutto, realizzare anche quello che in principio potrebbe sembrare impossibile. Pelé ha iniziato a giocare con una palla di carta pressata e legata in un calzino; ha segnato, nella sua carriera, 1281 reti; ha fatto vincere al Brasile tre Mondiali, diventando l’idolo rappresentativo della intera Nazione che, per decreto, non gli ha permesso di andare a giocare all’estero, pur essendo richiesto dai club più blasonati. Per la sua celebrità, è stato fiondato in campi e ambienti che con il calcio hanno poco da spartire, come il cinema, la musica, la televisione, la pubblicità. Ha incontrato capi di stato, papi, personalità importanti; le Nazioni Unite l’hanno nominato ambasciatore per l’ecologia e l’ambiente; durante il governo di Fernando Henrique Cardoso è stato ministro dello sport.

I miti sono indispensabili all’umanità se sostanzialmente positivi (perché, purtroppo, ci son pure i miti del male); i miti sono stimoli, spingono all’emulazione. A volte, i miti, riescono in imprese impossibili a tutti gli altri. Pelé, per esempio, nel 1969 è riuscito a stabilire una tregua di 48 ore tra i contendenti nella guerra civile che si combatteva, allora, in Nigeria. Un respiro appena, ma pure benedetto. Ci vorrebbero miti del genere per le tante guerre combattute a scacchiera sul nostro pianeta ai nostri giorni, prima di tutte quella insensata (le guerre son tutte insensate) tra Russia e Ucraina. Miti, che convincessero i responsabili a respirare almeno per una giornata, durante la quale, può darsi, poter pensare pure all’insensatezza. Pelé è stato, è e sarà, un mito, ma prima di tutto è stato un uomo e come tale ha avuto pure le sue debolezze, non certamente da assecondare. Ha avuto ben sette figli – ciò che non è negativo, anzi! -, ma da ben quattro donne diverse e non per responsabilità addossabili solo a costoro; ha avuto altra figlia non riconosciuta; è stato al centro di chiacchiere, mondanità, pettegolezzi, che il tempo annullerà, oblierà, così come ha sempre fatto con altri miti. Palingenesi, per questo, come per tutti i miti. Pelé è stato un uomo che ha sofferto, specie negli ultimi anni, con la calcolosi renale, la prostata, il tumore al colon che, infine, l’ha stroncato. La povertà dell’infanzia e la sofferenza dell’anzianità: il crogiolo della vita che netta sempre le pepite e tempra. Noi l’abbiamo stimato per la sua carica umana e considerato mito fin dall’inizio. Lo testimonia questa nostra poesia del novembre 1963, facente parte della silloge La morte e il Sud. Le sue prodezze saranno ricordate nel futuro, interesseranno e commuoveranno le generazioni d’ogni tempo, così come gli altri miti, forse più degli altri miti:

Quando Moriremo

Quando moriremo, sotterrateci accanto i nuovi miti: una ruota, un transistor, la gamba di Pelé; regalateci un disco che ci conservi un pezzo di rumore.

E non più fiori nei pellegrinaggi. Vogliamo i nostri miti: quelli che verranno dopo il diluvio essi commuoveranno più che il latte e il miele dei nostri padri, gli unguenti, i silenzî arcani delle loro tombe, forse ancor più degli incensi.

Perché i miti, tutti i miti, non son ragionamenti, son poesia. Le prodezze calcistiche di

Pelé sono state poesia e come tale hanno sbalordito, perché non calcolo, ma primordiale istinto. Pelé aveva con la palla lo stesso rapporto che i bambini hanno coi giocattoli, che rapportano a se stessi e con i quali ci parlano. La purezza infantile: il mito. Pomezia, 4 gennaio 2023

La Divina Melodia

Con grande rassegnazione e profonda tristezza ho cancellato oggi dalla lista dei telefoni amici il tuo numero, Grazia.

Da tempo non ti chiamavo, perché l’ultima volta mi dicesti: “Ti chiamerò io, quando mi sentirò un po’ meglio”.

Ma poi da allora non mi hai più chiamato. Ti sapevo stanca, provata da lunga sofferenza, ormai costretta su una sedia a rotelle.

Ma ti ricordo quando ci conoscemmo alla scuola di inglese, ricordo i nostri discorsi sulla musica, la vita, i libri, la filosofia…

Ricordo il tempo delle confidenze, e poi le giornate trascorse insieme in famiglia, con te e i bambini e tuo marito Adolfo, altro caro musicista amico.

Ed il primo bagnetto al vostro primo nato. Venni da te, che eri rimasta sola, essendo Adolfo in tournée con l’orchestra della Scala.

Ora tu forse sei con lui nel Cielo ed ascoltate insieme la Divina Melodia.

Mariagina Bonciani Milano

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