OPERE 33

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corsi di formazione / programma 2012 ACUSTICA > Percorso formativo per tecnico competente in acustica ambientale > 120 ore AGGIORNAMENTO COORDINATORE SICUREZZA > ai sensi dell’all.XIV Dlgs.81/2008 > 40 ore CERTIFICAZIONE ENERGETICA DEGLI EDIFICI > direttive europee e indirizzi regionali > 32 ore COMMISSIONI TECNICHE CONSULTIVE > corso per candidati membri delle commissioni edilizie, paesaggistiche e giudicatrici di gara > 28 ore CONSULENTE TECNICO PER IL TRIBUNALE > corso di specializzazione per consulente tecnico quale ausiliario del giudice nei procedimenti civili, penali, amministrativi e nell’arbitrato > 84 ore

COORDINATORE SICUREZZA > corso di formazione per le figure professionali di coordinatore della sicurezza per la progettazione e per l’esecuzione dei lavori (ai sensi del dlgs 81/2008) > 120 ore IL GOVERNO DEL TERRITORIO IN TOSCANA > 3 moduli frequentabili anche separatamente sulla disciplina urbanistica, paesaggistica ed edilizia > 56 ore PREVENZIONE INCENDI > ai fini dell’iscrizione nell’elenco del Ministero degli Interni ex L.818/84-Art.16 D.Lgs.n.139/2006 adeguato al D.M. 5 agosto 2011 > 120 ore SEMINARIO DI ILLUMINOTECNICA > organizzato con MEF: dalle nozioni base alle normative, sino all’applicazione di apparecchi luminosi in contesti particolari > 32 ore

CORSI CON STRUMENTI E PROGRAMMI OPEN SOURCE (BASE e AVANZATO con esercitazione) –––-------------------------MODELLAZIONE 3D, RENDERING > corso modellazione tridimensionale, rendering e fotosimulazione > 28 ore GIS > gestire un progetto gis dalla fase di preparazione ed analisi dei dati, fino alla predisposizione dell’output > 28 ore GRAFICA FOTORITOCCO E IMPAGINAZIONE > strumenti semplici e pratici per una produzione grafica e fotografica di qualità professionale > 28 ore

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COLOPHON

CONTRIBUTORS

Rivista trimestrale anno X – n.33 dicembre 2012 chiuso in redazione — dicembre 2012 finito di stampare — gennaio 2013

Giovanni Avosani Architetto, si laurea discutendo una tesi di progettazione sul recupero di un’area industriale dismessa trasformata in polo universitario. Dal 2005 svolge attività di collaborazione alla didattica presso la Facoltà di Architettura di Ferrara. Dopo la laurea ha svolto workshop ed esperienze professionali in ambito internazionale. Dottorando di ricerca presso la Facoltà di Architettura di Ferrara, svolge attività di ricerca sui temi del “Social Housing” e sulle implicazioni che legano “Tecnica e Architettura”. Consegue il titolo di “Dottore di Ricerca”, discutendo una tesi sulla qualità dello spazio pubblico nell’edilizia sociale. L’attività professionale è orientata all’analisi dei modi dell’abitare e delle nuove forme della città contemporanea. Marina Ciampi Ricercatrice presso il Dipartimento di Scienze Sociali della Sapienza — Università di Roma, dove insegna “Metodologie di valutazione e ricerca sociale applicata”. È membro del Collegio dei docenti del RASS (Dottorato in “Ricerca Applicata nelle Scienze Sociali”) presso lo stesso dipartimento. I suoi principali interessi di studio e di ricerca sono orientati alla teoria sociologica, alle problematiche della sociologia del rischio e alle metodologie di analisi visuale. Michela De Poli Architetto con specializzazione in “Landscape Planning and Design” ottenuta alla Wageningen Agricultural University (Olanda), forma con Adriano Marangon lo studio MADE associati di Treviso. Si occupa di progettazione architettonica, pianificazione urbana e architettura del paesaggio. Ha partecipato a concorsi nazionali e internazionali ottenendo numerosi premi. Consulente e progettista di enti pubblici e privati per la progettazione paesaggistica ed ambientale. Claudia Faraone Architetto, specializzata in Urbanistica e phD in “Studi Urbani” con un’attenzione particolare all’etnografia visuale, dal 2007 indaga il rapporto tra spazio urbano e terremoto in varie città tra cui Skopje e L’Aquila. Attualmente è assegnista di ricerca FIRB presso lo IUAV di Venezia. Marco Gamannossi Nato nel 1983, laureato in “Storia dell’arte”, è segretario comunale del Partito Democratico di Scandicci dal gennaio 2008. Iscritto alla Sinistra Giovanile nel 2002, dal 2003 al 2004 è in segreteria metropolitana. Eletto segretario dell’Unità di base Democratici di Sinistra di Vingone nel 2004, nel 2007 è tra i promotori delle Primarie del Partito Democratico a Scandicci. Dal 2008 al 2009 è membro dell’esecutivo metropolitano del Partito Democratico e responsabile del Programma. Il 6 e il 7 giugno 2009 è eletto “Consigliere provinciale” nel collegio Scandicci I. Consigliere di amministrazione di PubliEs dal 2006 al 2008, lavora nel settore immobilia-

direttore Guido Incerti

OPERE OPERE piazza Stazione 1 50123 Firenze tel. 055 2608671 fax 055 290525 email opere@architoscana.org rivista toscana di architettura ISBN 978-88-6315-494-8 ISSN 1723–1906 Pubblicazione trimestrale Spedizione in abbonamento postale 45% — art. 1, comma 1, CB Firenze. D.L. 353/2003 (conv. L. 27/02/04 n. 46) -•Registrazione tribunale Firenze n. 5266 del 15 aprile 2003 -•Proprietà Fondazione Professione Architetto dell’Ordine degli Architetti Pianificatori Paesaggisti e Conservatori della Provincia di Firenze e dell’Ordine degli Architetti Pianificatori Paesaggisti e Corservatori della Provincia di Prato. -•Prezzo di copertina numero singolo € 10,00 numero monografico € 10,00 arretrati € 10,00 Abbonamento annuale (Italia) (4+1 numero monografico) € 40,00 Abbonamento annuale (estero) € 70,00 -•Garanzia di riservatezza per gli abbonati. L’editore garantisce la massima riservatezza dei dati forniti dagli abbonati e la possibilità di richiederne gratuitamente la rettifica o la cancellazione.

redazione Filippo Boretti Fabio Fabbrizzi Ginevra Grasso Michele Londino Cristiano Lucchi Marcello Marchesini Tommaso Rossi Fioravanti Antonella Serra Graziella Sini (segreteria) Davide Virdis direzione artistica D’Apostrophe, Firenze

-•Realizzazione editoriale e stampa

Pacini Editore via A. Gherardesca 56121 Ospedaletto (Pisa) www.pacinieditore.it -•Spazi pubblicitari rivista mfinotti@pacinieditore.it -•copyright ©2012 Fondazione Professione Architetto -•Tutti i diritti di proprietà letteraria e artistica riservati. Manoscritti e foto, anche se non pubblicati, non vengono restituiti.


ERRATA CORRIGE re e collabora con enti e associazioni per corsi di arte e cultura del territorio. Marcelo Martel Architetto brasiliano, si specializza in “Design del Prodotto” presso la Ponteficia Università Cattolica di Rio Grande do Sul, Brasile (1989), e poi presso l’Istituto Europeo di Design di Milano (1990-91). Nel 2008 ottiene il titolo di “Dottore di Ricerca” in “Disegno Industriale” discutendo la tesi “Design for social emergency: strategies, systems and products for the aid of populations affected by catastrophes” presso il Politecnico di Milano. Dal 1998 è docente presso la Ponteficia Università Cattolica di Rio Grande do Sul e dal 2003 anche presso il Centro Universitário Ritter dos Reis di Porto Alegre (Brasile). Stefano Morelli Nato nel 1979, fotoreporter italiano (ODG della Toscana, n. 113686), con sede in Toscana. Si è laureato in “Psicologia” con una tesi fotografica di ricerca nel campo della “Antropologia Visuale” dal titolo “Istruzione in Ruanda nel post-genocidio periodo”. I suoi lavori sono pubblicati da importanti newspaper italiani e riviste. Attualmente sta collaborando con le ONG e con la cattedra di “Antropologia visiva” dell’Università degli Studi di Firenze. I suoi progetti personali si sta concentrando sulla società albanese durante il suo ingresso nell’Unione Europea. Emanuele Piccardo Genova 1972. Architetto, fotografo e filmmaker si occupa di critica architettonica attraverso le arti visive. Ideatore, insieme a Luca Mori e Luisa Siotto, della webzine “Archphoto.it” (2002), nel 2011 ha fondato la versione cartacea “Archphoto2.0”. Elisa Poli Critica e storica dell’architettura indaga nel suo percorso di studi le complesse relazioni tra arte contemporanea, architettura e urbanistica. “Dottore di ricerca” in “Storia dell’architettura” presso l’Université de Paris 1 Pantheon-Sorbonne, si interessa di temi legati alla storiografia del modernismo architettonico e alla teoria dell’architettura. Insegna “Storia dell’architettura contemporanea” presso lo IUAV di Venezia e svolge attività didattica alla Facoltà di Architettura dell’Università di Ferrara e all’Accademia di Belle arti di Bologna; collabora con diverse riviste di architettura tra cui “Domus”, “Arch’it”, “AND”, “Abitare” e “Archphoto”. Andrea Sarti Architetto, svolge attività di fotografo professionista dal 2005 a Venezia, all’interno di CAST1466 di cui è uno dei fondatori. I suoi lavori riguardano le trasformazioni urbane e territoriali, l’archeologia industriale, l’architettura e gli allestimenti artistici. Stefano Sgambati Nato a Napoli nel 1980, vive a Roma dove “fa” il giornalista: “esserlo” è un’altra questione che non gli interessa. Almeno così dice lui, avanzando strambe pretese ideologiche. Ha realizzato

documentari per RaiEducational. “Il Paese bello” (Intermezzi Editore), il suo libro d’esordio, è una raccolta di sette racconti che compongono una panoramica della società: Abitudine, Omosessualità, Dipendenza, Violenza, Corruzione, Disoccupazione, Religione: sette “dannazioni quotidiane”. Il suo secondo libro, la narraguida “I bar a Roma” (Castelvecchi Editore) è un originale percorso narrativo e antropologico lungo la città di Roma attraverso i suoi occhi più vispi e antichi: i bar e i personaggi che li animano. Carlo Terpolilli Nato a Casalbordino (Chieti) nel 1953, vive e lavora a Firenze. Socio fondatore di Ipostudio architetti associati. Professore associato in “Tecnologia dell’Architettura” presso il TAED — Dipartimento dell’Architettura e Design (Facoltà di Architettura dell’Università degli Studi) di Firenze. Coordinatore del “Comitato Scientifico” dell’International Festival of Architecture and Media di Firenze. Membro del “Comitato Scientifico” del S.E.S.V. Spazio Espositivo della Facoltà di Architettura di Firenze. In particolare, l’attività di Carlo Terpolilli ha come campo di indagine le relazioni tra la progettazione architettonica e quella tecnologica. Ha partecipato a numerosi concorsi di progettazione di cui è risultato vincitore del primo premio. In Nasce in Cacopertina Ray Oranges labria. La sua vocazione per il disegno era già evidente sin da piccolo quando, con l’uso di una lente di ingrandimento e con l’aiuto del sole, disegnava tutto quello che vedeva e immaginava su piccoli fogli di compensato. Dopo una laurea in “Disegno Industriale” a Firenze e anni di viaggi in giro per l’Europa, decide di cambiare aria per un po’. Destinazione Copenaghen. Fino ad ora Ray ha percorso 2.378 km da casa sua, ma si promette di ridurre la distanza tra lui e il sole.

Da Opere 33 pagina 16 Si segnala un refuso che riguarda l’articolo firmato da Lian Pellicanò Immagine, ideniden tità e icone: Immagine e identità competitiva. La parte terminale del saggio pubblicata nel seguente modo: «Oggi, «Oggi, nel territorio diffuso e consumato della città europea, proporre padiglioni che siano modelli architettonici sperisperi mentali dovrebbe significare reinreinterpretare l’esistente, vivificare contenitori dismessi valorizzando così le vocazioni e le identità urur bane già esistenti, attraverso la rinuncia ad ogni possibile riuso futuro degli edifici l’evento svizsviz zero può garantire una maggiore spettacolarità dei padiglioni coco struiti, che non devono corrisponcorrispon dere a nient’altro che al tempo e all’eccezionalità della festa e che si rendono speciali per la collocacollocazione sull’acqua e per tipologia e dimensione»» è da considerarsi corretdimensione corretto dal seguente testo «Oggi, nel terterritorio diffuso e consumato della città europea, proporre padiglioni che siano modelli architettonici sperimentali dovrebbe significare reinterpretare l’esistente, vivificare contenitori dismessi valorizzando così le vocazioni e le identità urbane già esistenti, attraverso operazioni deboli, non costruite ma effimere, che ricompongano le premesse del luogo temporaneo e restituiscano al padiglione il suo ruolo innovativo».


INDICE

1 2 RICERCHE

9

L’Aquila e le sue ricostruzioni Una cronaca urbanistica Claudia Faraone

14

Disastri e dissesto sociale Un’analisi socio-antropologica Marina Ciampi

5

✺ servizio fotografico di Andrea Sarti

PROJECTS

65

mohurd no.1 Edward Ng, Jun Mu, Li Wan, Jie Ma /// Ma’anqiao, Repubblica Popolare Cinese

EPICENTRI

18

Terremoto e politica Un silenzio assordante Carlo Terpolilli

30

Catastrofe democratica Legami spezzati Marco Gamannossi

6

✺ servizi fotografici di Andrea Sarti e Stefano Morelli

ALTRE ARCHITETTURE

70

homE For ALL KISYN no Kai > Riken Yamamoto, Hiroshi Naito, Kengo Kuma, Kazuyo Sejima, Toyo Ito /// Giappone

64

Fertili macerie Ginevra Grasso

74

ouTdoor ChAPEL Fundación Proyecta Memoria /// Arauco, Cile

82

C’era una volta una città... Marcello Marchesini


3

PROGETTI

4

SCuoLA mAnTovAni E gonnELLi MCArchitects /// Mirabello, Ferrara

40

AudiTorium dEL CASTELLo Renzo Piano Building Workshop, Architects con Atelier Traldi /// L’Aquila

46

DESIGN

CEnTro PoLiFunzionALE inFAnziA Studio AS Architetti Associati /// Bazzano, L’Aquila

55

Banalità della rovina versus rovina della banalità Elisa Poli

7 8 9 Ricostruzione a sistema Tommaso Rossi Fioravanti

50

Architettura&Catastrofe Emanuele Piccardo

35

34

FOCUS

57

Emergenza Lo-Fi Giovanni Avosani

60

Paesaggi interrotti Michela De Poli

MISCELLANEA

APPUNTI DI VIAGGIO

93

Tre porte Stefano Sgambati

87

Prodotti e sistemi per il soccorso di popolazioni colpite da catastrofi Marcelo Martel

90

Smitizzare la catastrofe Muji Antonella Serra

Compendio letterario

94


EDITORIALE

Guido Incerti Questo numero di “Opere” è differente da tutti quelli che l’hanno preceduto. Non nasce da un evento o da una tema che ha il capoluogo toscano come “epicentro” della discussione. “Opere 33” deriva, invece, dalla volontà di denunciare la scomparsa del tema terremoto e disastri naturali dalle prime pagine dei giornali nonché da quei luoghi in cui si parla di architettura e città. E, conseguentemente, stimolare un dibattito sul pre e post conseguenti ad un evento di tale portata. Negli ultimi anni, come tutti ben sappiamo, l’Italia è stata bersagliata da una serie di alluvioni, smottamenti e terremoti che hanno dimostrato come il nostro territorio non solo è fragile, spesso grazie anche alla sfiancante e poco intelligente opera dell’uomo, ma sia, realmente, un territorio ove è sospesa la spada di Damocle della catastrofe. Partendo da quest’assunto, omesso sistematicamente da chi governa il territorio tanto quanto dai media, abbiamo immaginato — senza porci il problema della superstizione e sorvolando sulle perdite umane — memori de L’Aquila e dell’Emilia Romagna, che un terremoto possa, come nella realtà potrebbe, colpire Firenze e il suo territorio. Dipendentemente dall’intensità della scossa la città potrebbe non subire alcun danno visibile, ma potrebbe anche essere totalmente distrutta come successo per i centri storici e monumenti negli esempi sopra citati, e come accaduto nel Belice, in Friuli e in Umbria per citare quelli che sono i terremoti maggiormente presenti nella memoria collettiva recente. Che cosa succederebbe se il mondo intero, con la Cupola del Brunelleschi crollata, il battistero in pezzi e il centro storico di Firenze in macerie, perdesse l’immagine del

Rinascimento così come lo conosce? Dopo quanto si placherebbe l’onda mediatica? E si placherebbe? Tenendo conto che una catastrofe naturale è anche un processo urbanistico ed è una possibilità nella storia millenaria di una città quali sarebbero le ipotetiche reazioni? Ma soprattutto, oggi, sono in atto delle misure atte a prevedere tutto questo e di conseguenza a dare delle risposte “strutturate” agli scenari — sociali, urbani e architettonici — che nell’attimo conseguente al sisma si verrebbero a disegnare? Ed è, questa possibilità reale, immaginata e dibattuta in un ambito locale tanto quanto nazionale che veda al suo interno la pubblica amministrazione, le università, gli ordini professionali e chi si occupa di diffondere l’architettura? Difatti, se in questa sede possiamo tralasciare l’interesse mostrato da meschini uomini d’affari, che nel tepore del loro letto si sfregano le mani pensando a ciò che hanno da guadagnare sulla ricostruzione, o a Presidenti del Consiglio che, per aumentare il loro appeal nei sondaggi, sembrano “giocare” sulla tragedia delle persone, meno possiamo sorvolare su quelle che sembrano le colpevoli mancanze di chi si occupa localmente di amministrazione, di chi fa ricerca accademica, di chi tutela l’architettura, tanto quanto di chi la comunica. Riguardo questi ultimi, rimasi sgradevolmente colpito quando al Fest’Arch di Perugia del 2012, a poche settimane dal sisma avvenuto in Emilia Romagna in nessuno dei tavoli di discussione venne sollevato il problema. Uno dei motivi che ci spinse affinché, oggi, abbiate questo numero di “Opere” tra le mani. E più spiacevolmente sorpreso rimasi quando, entrando nel Padiglione Italiano curato da Luca Zevi — presidente, tra l’altro, dell’Inarch Lazio — alla recente Biennale di Architettura di Venezia, capii che dei terremoti che avevano colpito il nostro paese, negli anni e nei mesi precedenti, non vi era traccia. Se non in uno dei piccoli monitor relegati ai bordi delle installazioni centrali, che rendevano omaggio al mondo dell’imprenditoria, dimenticando così, totalmente, la possibile o meglio necessaria rinascita, che un territorio e un popolo ferito hanno insite in loro. Nulla poi trovai nelle varie “Casabella”, “Domus” etc. Il terremoto sembrava non esistere che sulla

pelle di chi lo aveva vissuto. Mi rivenne così alla memoria quanto avevo visto solo due anni fa nel padiglione cileno, sempre alla Biennale di Architettura. Il Cile, che nel febbraio del 2010 era rimasto colpito da un terremoto di magnitudo 8.8, nel giro di pochi mesi era stato capace di presentare alla più importante rassegna di architettura del mondo, la Biennale appunto, un progetto denominato Chile 8.8 che metteva al centro della discussione le strategie sociali, urbane e architettoniche che il sisma aveva, di fatto, avviato. In quel padiglione la ricostruzione conseguente al terremoto era il punto d’inizio di una rinascita. Non solo per alcune branche disciplinari e per la ricerca quanto per la società di quel paese. Lo stesso valeva nel padiglione giapponese del 1996 curato da Arata Isozaki tanto quanto per quest’ultimo, vincitore del leone d’oro, curato da Toyo Ito e che troverete recensito. E questa rinascita è un processo che, seppur sommessamente, poco comunicato e con mille difficoltà, sta avvenendo anche in quelle che sono le terre emiliane. Lì dove la sfortunata esperienza della deportazione aquilana non sta avvenendo, si stanno proponendo strategie di ricostruzione, e di futura prevenzione, che nascano in primis dai simboli della comunità — gli edifici pubblici e gli spazi comuni — e non solo da strutture commerciali e case private. Percorrendo quelle strade, superando il trauma per la non percepita disastrata realtà di luoghi quali Mirandola o Finale Emilia, appare evidente infatti come il terremoto, oltre alla perdita di patrimoni architettonici che mai più verranno recuperati, in quanto non sostenibili per i privati che li possiedono, con la sua distruzione ed il suo sciame di traumi personali non sta semplicemente riscaldando l’amore per una terra, ma sta rinsaldando i legami sociali e l’identità di una comunità che rinascerà più forte di prima ed in spazi forse migliori di quelli precedenti al sisma. Perché oggi, in quei luoghi, vi è la coscienza che un disastro naturale potrà accadere di nuovo. Anche fosse tra duecento anni. Ed è per questa sentita ricostruzione morale e sociale, posteriore alla distruzione fisica di un luogo e stante i traumi ed i lutti che un evento del genere porta con se, che un terremoto ci potrebbe salvare.


↑Una fenice illustrata in un libro di creature mitologiche di Friedrich Justin Bertuch (1747-1822)


Ricerche


L’LAQUILA AQUILA

E LE SUE RICOSTRUZIONI

Claudia Faraone

Doppio disastro L’antropologia dei disastri e le sue indagini rivelano aspetaspetti problematici riguardo le ininterconnessioni tra credenze, strutture politiche, istituzioistituzioni sociali e relazioni di potepotere. Ad es., l’analisi dei procesprocessi sociali di attribuzione di colcolpa dopo effetti catastrofici momostra una fondamentale relaziorelazione tra i sistemi sociali, raziorazionalità delle credenze native ririspetto ai nessi causali e rapprerappresentazioni simboliche dell’amdell’ambiente naturale. La comprencomprensione di come le istituzioni sosociali contribuiscano a costruicostruire la percezione del rischio e le categorie di colpa, pericolo, caso e causalità — e di come queste percezioni e categorie determinino il grado di vulnevulnerabilità a un disastro — si lelega a difficili problemi di natunatura decisionale, politica e etica. (Gianluca Ligi, Ligi, Antropologia dei disastri,, Laterza, Bari 2009 disastri 2009)) In Italia negli ultimi quatquattro anni ci sono stati terremoterremoti, smottamenti ed esondazioesondazioni, ma malgrado questo nelle corrispettive ultime due BienBiennali di Architettura di VeneVenezia non si è trovata proposta o pensiero che si occupassero di ricostruzione a L’Aquila, di recupero paesistico delle CinCinque Terre in Liguria o di MesMessina. L’elenco sarebbe lunghislunghissimo. Nella vetrina internaziointernazionale dell’innovazione nella teteoria e nella pratica architetarchitettonica non c’è stata traccia di dibattiti che mettessero in didiscussione il come e perché tuttutto ciò fosse accaduto, che propro-

Una cronaca Urbanistica

vassero a ipotizzare delle proprospettive d’intervento. Nelle sesedi che si occupano di architetarchitettura, spazio costruito e progetprogetto, tutto ciò che accade in gigiro per l’Italia, al suo territoterritorio e alle sue città, non interesinteressa, pare non esistere. Nel PaPadiglione Italiano della BiennaBiennale di quest’anno a cura di LuLuca Zevi, il terremoto in EmiEmilia è presente con una scherschermata di monitor da scrivania sullo sfondo delle video-instalvideo-installazioni e allestimenti centrali, troppo poco visibile per “una delle aree più produttive d’Itad’Italia” (cito l’informazione che trasmetteva la slide). Durante le stesse edizioni della BiennaBiennale d’Architettura, il Padiglione Cileno ha presentato i progetprogetti per il post-terremoto e mamaremoto avvenuti nel 2010 2010,, il Padiglione Giapponese è stastato premiato col Leone d’oro 2012 col progetto per uno spaspazio condiviso a Rikuzentakata letteralmente rasa al suolo daldallo tsunami tsunami,, infine il gruppo cicileno Elemental s.a. ha messo in mostra al Padiglione Centrale dei Giardini il progetto di ricostruzione per Constituciòn dopo il terremoto del 2010 2010,, The MaMagnet.. Questa indifferenza del gnet dibattito mainstream e delle ararchistar italiane potrebbe ananche essere a sua volta ignorata, anzi da alcuni esser vista come un bene perché in certi casi lalascia spazio a un dibattito localocale più vivace. È però preoccupreoccupante ascoltare un noto comicomico di satira politica interpreinterpretare in tv l’architetto-tipo che, esternando i luoghi comuni e le opinioni del pubblico e dei

cittadini sulla sua categoria, ririversa proprio sugli architetti la responsabilità di quel che sta succedendo al territorio e alalle città italiane. I convegni nanazionali degli urbanisti sono anandati un pò meglio, l’I.n.u. l’I.n.u. Isti Isti-tuto Nazionale di UrbanistiUrbanistica ha organizzato delle sessessioni tematiche sulle leggi ananti-sismiche ai suoi eventi anannuali UrbanPromo, la siu So So-cietà Italiana degli Urbanisti si è posta il problema del ririschio nella gestione del territerritorio nelle sue conferenze anannuali; ancora l’I.n.u. l’I.n.u. a L’AquiL’Aquila, insieme all’A.n.c.s.a. all’A.n.c.s.a. Asso Asso-ciazione Nazionale dei Centri Storico-Artistici ha promosso un laboratorio urbanistico-arurbanistico-architettonico, il LaurAQ LaurAQ,, culminato nella pubblicazione di un libro bianco per la ricostruzioricostruzione. Insomma, qualcosa hanno provato e provano a farla. Governance dell’Eccezione In questo senso, l’eccezione appare come lo spazio ideale per collocare l’emergenza. Per collocarla non dentro l’eccel’eccezionalità dell’evento (terremo(terremoto, alluvione, o crisi politicoistituzionale), ma dentro l’inl’incapacità strutturale di far funfunzionare i processi di concerto con le reti sociali e il vincolo del consenso (senza che quequesto comporti, necessariamennecessariamente, corruzione o clientelismo). “…” Al tempo stesso, non è meno problematica la riproriproduzione dell’illusione carismacarismatica del potere speciale, speciale, destinadestinato a riprodurre possibili opaciopacità e nuovi particolarismi. Per

9

non parlare degli effetti, mormortificanti, del dispositivo fatto di eccezioni sulla capacità di apapprendimento delle istituzioni, e sulle possibilità di interferiinterferire con prassi e comportamenti all’origine dei problemi. (Daniela De Leo, Leo, Il posto dell’eccezione,, Daily Planum, dell’eccezione Planum.net, 27 febbraio 2010 2010)) Il terremoto a L’Aquila del 2009 è stato un evento ececcezionale, la prima volta dal 1908 a Messina e Reggio CaCalabria, che un terremoto didistruggeva un’intera città capocapoluogo di regione. Una città cacaratterizzata da un centro antiantico molto ampio e secondo più vincolato d’Italia, con una popopolazione di circa 70.000 abi abi-tanti che, d’improvviso dodopo il terremoto, sono divendiventati tutti sfollati, senza contacontare i residenti nella costellaziocostellazione di paesi circostanti. A buon titolo dunque all’eccezionaall’eccezionalità dell’evento si è affiancaaffiancata l’eccezionalità della risporisposta all’emergenza, con decredecreto del Presidente del Consiglio del 6 aprile 2009 si dichiaradichiarano lo stato di emergenza e la nomina del capo del DipartiDipartimento della Protezione CiviCivile della Presidenza del ConsiConsiglio dei Ministri, Guido BerBertolaso, a Commissario delegadelegato per l’emergenza terremoterremoto in Abruzzo. Nel primo ananno d’emergenza il centro storistorico viene dichiarato zona rossa e con il decreto-legge 28 apri apri-le 2009 n n.39 .39 si costruiscono 4.500 alloggi per 15.000 per per-sone, di concerto con i deledelegati del Comune de L’Aquila,


1 2012-08-03, L’Aquila, Piazza Santa Maria di Paganica. Paganica. (©AndreaSarti/Cast1466 (©AndreaSarti/ Cast1466)) 2 2009-11-18, L’Aquila, Progetto C.A.S.E. frazione di Cese di Preturo. (©AndreaSarti/ (©AndreaSarti/Cast1466 Cast1466))

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il cosiddetto progetto C.a.s.e. (acronimo per complessi anantisismici sostenibili eco-comeco-compatibili), affiancati dai M.a.p. (acronimo per moduli abitaabitativi provvisori). Questi nuonuovi interventi vengono localizlocalizzati a fianco delle frazioni de L’Aquila, quasi sempre a riridosso di sacche di espansione della città precedenti al terreterremoto, o dove era geologicageologicamente sicuro, facendo la scelscelta di tenere il più distante pospossibile questi interventi dal cencentro consolidato della città, per non intaccarne l’integrità. InInterventi residenziali che sono diventati dei dormitori perperché sprovvisti dell’obbligatodell’obbligato-

rio 30% di servizi, che nel dedecreto dovevano essere costruicostruiti dallo Stato ma la cui realizrealizzazione è rimasta a carico del Comune una volta ritirataritiratasi la Protezione Civile NazioNazionale. Le pratiche del finanziafinanziamento per la ricostruzione dedegli edifici privati erano inveinvece legate al tipo di danno deldelle abitazioni e inizialmente al tipo di proprietà (prima o seseconda casa) e l’istruttoria dei progetti si articolava in diverdiverse fasi (che cambieranno nel 2013),), alcune gestite “a distan2013 distanza” da Fintecna, Cineas, ReReluiss, che ha molto rallentato l’inizio dei lavori di ristrutturaristrutturazione. Dopo dieci mesi dal terter-

remoto, il presidente della ReRegione Abruzzo Gianni ChioChiodi è nominato Commissario delegato per la Ricostruzione e con i suoi primi due decredecreti istituisce la S.g.e. S.g.e.,, struttura di Gestione dell’Emergenza e la S.t.m. Struttura Tecnica di Missione diretta dall’architetdall’architetto Gaetano Fontana, incaricaincaricata di affiancare i Comuni e i Sindaci nell’elaborazione dei piani di ricostruzione, insieinsieme a quattro “saggi” consuconsulenti e consiglieri per il ComCommissario alla Ricostruzione. A febbraio 2012 2012,, il Ministro per la coesione territoriale FabriFabrizio Barca è incaricato di proprocedere al decommisariamento

del processo per la ricostruzioricostruzione. Con l’emendamento per la ricostruzione al Decreto-SviDecreto-Sviluppo, l’art. 67 67-bis, -bis, si chiude dopo tre anni lo stato di emeremergenza a L’Aquila. CommissaCommissario delegato e relative struttustrutture di missione, o qualsiasi alaltro tipo di struttura e soggetsoggetto a supporto del commissacommissario Chiodi vengono chiuse. AlAlla fine del suo mandato, ChioChiodi consegna i piani di ricostruricostruzione promossi dalla legge 77 del 24 giugno 2009 2009,, per i quali la maggioranza dei comuni si è affidata alle università. QueQueste da un lato hanno garantito un’alta qualità delle proposte e una convenienza economieconomi-

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ca non trascurabile in tempi di crisi, dall’altro hanno prodotto una tempistica di elaborazioelaborazione dei piani più lenta rispetrispetto alle proposte dei privati e delle amministrazioni. IniziaIniziati con la ri-perimetrazione dei centri storici, che poteva anandare oltre i confini della “zo“zona A” stabiliti dal dm 2 apri apri-le 1968 1968,, n. 1444 1444,, i piani comcomprendono quindi anche alcune zone limitrofe riconosciute cocome strategiche, anche se di popoco valore architettonico. Il CoComune de L’Aquila ha adottaadottato il suo Piano di RicostruzioRicostruzione il 9 febbraio 2012 2012,, sta proproponendo programmi integrati mettendo a bando di concorso

alcuni contesti strategici, in ririferimento al “Piano 2020” 2020”.. È il caso del parco urbano a PiazPiazza d’Armi, vinto lo scorso luluglio dallo studio di architettuarchitettura Modostudio di Roma. In conconclusione quindi è evidente cocome tutti questi cambi repentirepentini nella governance, nell’assetnell’assetto e organizzazione degli uffiuffici di gestione dell’emergenza e della ricostruzione, così come tutti i differenti, a volte conflitconflittuali, livelli di governo del terterritorio post-sisma, non hanno giovato allo spirito della ricoricostruzione né a quello della citcittà, che invece richiedeva linee chiare e precise d’indirizzo sin dall’inizio.

Fisiognomica della ricostruzione La ricostruzione del Friuli montano e pedemontano, fatfatto di piccoli centri e di miniminime città (dal terremoto sono rimasti fortunatamente escluesclusi i quattro capoluoghi proprovinciali) costituisce un capitolo unico nel libro delle ricostruricostruzioni riuscite: solitamente avavvenute nelle città capitali, rerestando le catastrofi delle aree minori sepolte nelle rinascite spontanee e secolari, sprofonsprofondate in cicli naturali fuori dalla storia. E pertanto può rapprerappresentare un modello importanimportante per la riabilitazione di zone non metropolitane, ad armaarma-

tura urbana policentrica, ananche se ogni evento catastroficatastrofico propone di per sé situaziosituazioni speciali e irripetibili. Ciò per cui, appunto, nessuna riricetta è direttamente esportaesportabile a causa sia del momento storico-politico economico-soeconomico-sociale, sia dell’entità del danno, della sua natura, della morfomorfologia del territorio, della tipotipologia dell’insediamento umaumano, del tipo di sviluppo in atatto; e anche in rapporto a fattofattori profondi come la cultura, le tradizioni, e perfino il carattecarattere delle popolazioni di cui venvengono improvvisamente messi a nudo pregi e difetti, cadendo ogni mascheramento retorico.

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3 2012-08-03 2012-08-03,, L’Aquila, Via XX Settembre. (©AndreaSarti/Cast1466 (©AndreaSarti/ Cast1466)) 4 2012-10-09, L’Aquila, Parco del Castello e nuovo Auditorium. (©AndreaSarti/Cast1466 (©AndreaSarti/ Cast1466))

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(Giovanni Pietro Nimis, Nimis, Ter Ter-re mobili. Dal Belice al Friuli dall’Umbria all’Abruzzo. Saggine, Saggine, Donzelli editore, 2009 2009)) La frammentazione della ricoricostruzione fisica a L’Aquila è — anche — diretta conseguenconseguenza della governance post-terpost-terremoto precedentemente dedescritta. La frammentarietà deldelle decisioni e delle scelte fatfatte dopo il terremoto, nell’amnell’ambito pubblico e privato, si ririflette inevitabile nell’aspetto che il territorio aquilano sta prendendo. L’urbanistica orordinaria deve quindi fare i conconti con tutti questi frammenti e sospensioni dati da due fatfat-

ti davvero eccezionali, la manmancanza del riferimento urbano del centro storico, inaccessiinaccessibile per motivi di sicurezza, e la presenza ancora più diffusa della parte periferica su un terterritorio provinciale particolarparticolarmente esteso. Il primo e l’ultil’ultimo passaggio dell’emergenza — la zona rossa del centro e la costruzione di case “durevoli” in periferia — possono essere visti come il primo passo della ricostruzione in virtù del temtempo lungo che presuppongono. Dove non è stato possibile sodsoddisfare il fabbisogno di allogalloggio temporaneo, un’ordinanun’ordinanza del Comune ha permesso la costruzione autonoma deldel-

la propria “casetta di legno”, con un vincolo a tre anni, orormai scaduti, evidentemenevidentemente disatteso. Se era palese che la popolazione avrebbe dovudovuto rimanere nelle case d’emerd’emergenza per decenni e che per riricostruire gli edifici pubblici e privati in centro non c’erano fondi, allora le decisioni, ananche quelle prese nel momenmomento dell’emergenza, avrebbeavrebbero già dovuto essere cosciencoscienti della loro prospettiva di alalmeno due-tre decadi. NessuNessuna attenzione è stata data alalle reti di vicinato o parentela, perché l’alloggio nel progetprogetto C.a.s.e. o nei M.a.p. è stastato considerato una soluzione

temporanea, di qualche anno, in attesa della ristrutturazione o ricostruzione delle case dandanneggiate. L’urbanistica ordiordinaria si è ritrovata senza strustrumenti, mentre quella emeremergenziale, cui tutto era conconcesso in virtù dell’eccezionadell’eccezionalità della situazione, ha guarguardato al contingente. A partipartire dal disastro aquilano, alcuni gruppi di ricerca architettoniarchitettonica e urbanistica nell’I.n.u. nell’I.n.u. nel D.p.c. (Dipartimento di ProteProtezione Civile), insieme ad alcualcune università, stanno cercancercando di sviluppare delle propoproposte operative e metodologiche che considerino la prevenzioprevenzione della catastrofe e l’emerl’emer-

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genza nella prassi urbanistica ordinaria, come nel caso deldella C.l.e. (Condizione LimiLimite di Emergenza), della S.u.m. (Struttura Urbana Minima) e della Microzonazione SismiSismica per la Pianificazione UrbaUrbanistica. D’altra parte però papare che non ci sia modo di ococcuparsi di vulnerabilità urbaurbana, rischio sismico e idrogeidrogeologico in termini progettuaprogettuali, di spazio costruito. NessuNessuno si espone, come se l’eredità delle passate esperienze fosse troppo pesante, come se il BeBelìce e la sua ricostruzione “ali“alitassero sul collo”. Certamente è necessario tenere in consideconsiderazione il contesto di crisi ecoeco-

nomica e scarsezza di risorse, che connota l’attuale periodo storico e che non ci rende parparticolarmente audaci nelle proproposte, ma in generale la sensasensazione è di un profondo disindisinteresse per le sorti di una citcittà e di un patrimonio che sosono di tutti. Alcuni tentativi e idee, forse inascoltati perché troppo premonitori, sono stastati proposti sia a livello locale che nazionale nel primo anno di emergenza da alcuni comicomitati, come il Comitatus Aquilanus e il Collettivo 99. 99. Ciò che si vede a L’Aquila a tre anni e mezzo dal terremoto è una costellacostellazione di nuovi interventi resiresidenziali dispersi nel territorio,

intere zone urbane abbandoabbandonate e in rovina, infrastrutture per la mobilità sovrabbondansovrabbondanti, casette di legno a pioggia, architetture isolate. Tanto prepreziose quanto estemporanee, quest’ultime sono degli edifiedifici di buona qualità progettuale e sicuramente un investimento per il futuro, tuttavia appaiono ridondanti o superflue rispetto alle reali esigenze della città. L’Auditorium di Renzo Piano, l’Auditorium di Shigeru Ban, il Centro polifunzionale per l’infanzia della Fiat per il proprogetto C.a.s.e. di Bazzano, sono “regali” posizionati in luoghi scelti dai donatori, che predipredilogono una certa visibilità deldel-

le loro architetture, a scapito a volte di un buon inserimento urbanistico. Vedremo se il piapiano di ricostruzione de L’AquiL’Aquila sarà capace di quest’azione di ricucitura urbana e territoterritoriale e nello stesso tempo sasaprà tenere sotto il suo coordicoordinamento le singole iniziative e i diversi tempi della ricostruricostruzione. Architetture simbolo di una generosità che non soddisoddisfa la necessità di progetto ururbano, ma che si spera possano essere almeno il passe-partout per la prossima Biennale di Architettura 2014 2014,, innescando un dibattito, “riparatore” sepseppur tardivo, intorno alla ricoricostruzione de L’Aquila.

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Un’analisi socio-antropologica

Dare un nome alle cose, in genere, non significa solo dedefinirle per poi classificarle, ma anche inserirle in un ordiordine mentale di riconoscimenriconoscimento e controllo, nel tentativo di sottrarre alla aleatorietà fatti o eventi: forse per tale motivo si va sempre più diffondendo un lessico dei disastri, disastri, come tendentendenza ad assegnare nomi propri, o attinti alla mitologia, a fenofenomeni climatici o meteorologimeteorologici estremi (si pensi alle ondate di calore in paesi a clima temtemperato come l’Italia o ad urauragani sempre più violenti come Sandy).). Sandy Ciò non è ancora avvenuto nei confronti dei terremoti, in nessuna parte del mondo, il che ne confermerebbe la parti parti-colare aleatorietà. aleatorietà. Ogni scossa sisismica, infatti, sembra cogliere sempre impreparati i cittadicittadini, le istituzioni, la comunità scientifica, i tecnici. Mentre è ancora vivo lo spettro del terterremoto abruzzese e di quelquello emiliano, l’Italia MeridioMeridionale trema di nuovo, ma tretrema anche per la notizia della condanna a sei anni dei sette esperti della Protezione CiviCivile, accusati di omicidio colpocolposo plurimo nei confronti deldelle vittime del terremoto aquiaquilano. Il 31 marzo 2009 2009,, dopo quattro mesi di sciame sismisismico, la commissione Grandi RiRischi dichiarò che la situazione era favorevole (nonostante dal dicembre 2008 stesse divendiventando sempre più allarmanallarmante) e che i cittadini erano fuofuori pericolo. La comunicazione del rischio fu piuttosto rassicuranrassicurante, anche se calamità naturali

come i terremoti rendono vulvulnerabili le congetture scientiscientifiche e fallibili le misurazioni strumentali. La comunità scientifica non era quindi in grado di prepredire il sisma del 6 aprile che ha distrutto il cuore pulsante della città aquilana e causato la morte di 309 persone, ma non poteva neanche predire il contrario, cioè che l’evento disastroso non si sarebbe mamanifestato. Non è questa la sesede opportuna per analizzare le eventuali connessioni comcompromissorie tra rappresentanrappresentanti del potere politico e sismosismologi (con la conseguente cricrisi del dogma dell’indipendendell’indipendenza di giudizio degli scienziati), ma tale sentenza mette in luluce un aspetto gravissimo che impone una riflessione di orordine etico-sociale: le dichiaradichiarazioni rassicuranti della ScienScienza hanno reso ancor più vulvulnerabili i cittadini de L’AquiL’Aquila e dei paesi limitrofi, auaumentando l’impatto effettivo dell’evento fisico. Un disastro, infatti, non è «qualcosa che semplicemen semplicemen-te accade, accade, ma è una situaziosituazione estremamente critica che si produce quando un agente potenzialmente distruttivo — di origine naturale o tecnotecnologica — impatta su una popopolazione che viene colta in condizioni di vulnerabilità fifisicamente e socialmente proprodotta» (G. Ligi, Antropologia dei disastri,, Laterza, Roma-Bari disastri 2009,, p. 5). 2009 Un fenomeno disastroso non può essere considerato rischio rischio-so in sé, sé, perché il rischio non

è una realtà oggettuale, fisifisica, un dato calcolabile in tertermini assoluti, ma una categocategoria mentale, cognitiva, un cocostrutto che consente di raprappresentare e controllare una serie di eventi concreti in tertermini statistici, socio-antroposocio-antropologici ed epidemiologici. L’approccio tecnocentrico alallo studio e alla gestione dei didisastri può inquadrare la proproblematica sul piano dei momodelli esplicativi geofisici e dedegli strumenti di rilevamento e parametri quantitativi (come le scale di magnitudo, le stistime numeriche sul tipo e la didimensione dei danni), ma non è sufficiente per comprendere o prevedere una strage. Eventi naturali di uguale mamagnitudo e intensità, caratterizcaratterizzati da variabili fisiche simili, possono infatti causare danni molto diversi a livello colletticollettivo, perché l’entità non è solo insita nell’evento disastroso, ma varia in rapporto al sistesistema sociale colpito. Le reazioreazioni collettive che si sviluppasviluppano durante e dopo eventi cocosì estremi sono legate profonprofondamente alla cultura e al sistesistema simbolico della società ininteressata. Se per cultura si inintende, come vuole Mary DouDouglas, il modo in cui «l’indivi«l’individuo percepisce l’ambiente sosociale, allo stesso tempo antaantagonista e di sostegno, nel quaquale deve battersi per i propri ininteressi, per il bene e in nome della comunità», allora è ananche vero che essa sembra esessere «il principio codificatocodificatore mediante il quale si ricoriconoscono i pericoli» (M. DouDou-

Marina Ciampi

glas, Risk acceptability according to the social sciences, sciences, Russel SaSage Foundation, London 1985 1985;; tr. it. Come percepiamo il pericopericolo. Antropologia del rischio, rischio, FeltriFeltrinelli, Milano 1991 1991,, p. 91 91).). Oltre alle condizioni prettaprettamente tecnocentriche, dundunque, è opportuno considerare le caratteristiche socio-antrosocio-antropologiche dei disastri. QuaQualunque sia il punto di vista adottato, non si può pretenpretendere di esaurire l’analisi di tali fenomeni solo come eventi fifisici, ma piuttosto come fenomeni sociali, sociali, che si rivelano attraattraverso la disintegrazione deldella struttura sociale e il crollo del sistema originario di signisignificati che orienta e dà senso all’agire collettivo. Si potrebpotrebbe allora formulare la seguenseguente relazione: D (disastro) = I (variabili fisiche) x V (variabili socio-antropologiche), dove il fattore V, ossia il livello di vulvulnerabilità socio-culturale deldella comunità colpita, può eleelevare o ridurre (talvolta anche annullare) gli effetti distruttivi dell’agente fisico I. Nella dedefinizione di disastro, proposta da Enrico Quarantelli (fonda(fondatore nel 1963 del Disaster ReResearch Center, Center, la maggiore istiistituzione statunitense per la riricerca sociale sui disastri) e da Dennis Wenger, si ritrovano le principali coordinate concetconcettuali della visione socio-antrosocio-antropologica al problema: «I disadisastri sono eventi sociali, osserosservabili nel tempo e nello spaspazio, in cui entità sociali (dalle società fino a subunità minominori come le comunità) subiscosubiscono uno sconvolgimento delle


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loro attività sociali quotidiaquotidiane, come risultato di un imimpatto effettivo o di una perpercezione di minaccia a caucausa dell’apparire relativamenrelativamente improvviso di agenti natunaturali e/o tecnologici, che non possono essere controllati didirettamente e completamente dalla conoscenza sociale esiesistente. Pertanto un terremoto o un’esplosione chimica non possono essere considerati didisastri, dal punto di vista sociosociologico, se non accompagnati da tutte le caratteristiche sudsuddette» (cfr. la voce “Disastro” in F. De Marchi, A. Ellena, B. Catarinussi (a cura di), Nuovo Dizionario di Sociologia, Sociologia, San PaPaolo, Milano 1987 1987,, p. 675 675).). Ogni disastro è il prodotprodotto dell’interazione — molmolto spesso imprevedibile — tra vulnerabilità fisica e vulneravulnerabilità sociale. sociale. Ed è proprio su quest’ultima e sul concetto di rischio ad essa legato che si orientano gli studi delle scienscienze sociali e dell’antropologia dei disastri, con l’intento di inquadrare l’impatto del disadisastro sul contesto sociale, storistorico e culturale. Agli eventi cacatastrofici fanno seguito lasciti drammatici e stress profondi nei costrutti mentali degli indiviindividui, che di volta in volta vanvanno inquadrati, gestiti e supsupportati per attenuare lo shock antropologico (inteso anche, sesecondo Ulrich Beck, come condizione di incertezza che impedisce di credere appieno nella scienza e nella moralità pubblica). L’esperienza fisica e personale del dolore e della perdita che si concretizza con

l’evento catastrofico produproduce un vacillamento dei sensi, sususcita spavento, sospetto e ininquietudine, perché attiene ad un universo di significati che non è noto, familiare e che necessita di un’interpretazioun’interpretazione e una ri-formulazione. In ogni catastrofe ciò che si tratrasforma ha carattere di irreverirreversibilità, nonostante il passagpassaggio da uno stato all’altro non corrisponda in senso assoluto ad una fine, ma ad una muta muta-zione di forma (secondo la defidefinizione del matematico franfrancese René Thom che ha elaelaborato la teoria della catastrofe). catastrofe). Tra lo stadio iniziale e quello fifi-nale si collocano fasi intermeintermedie instabili che alterano la vivita quotidiana — «argine «argine lungo il quale scorre e si agita il fiufiume dei percorsi della storia» (A. W. Gouldner, Sociology and the Everyday Life, Life, in The Idea of Social Structure. Papers in Honor of R. K. Merton, Merton, Harcourt BraBrace Jovanovich, London 1975 1975;; tr. it. La sociologia e la vita quotiquotidiana,, Armando, Roma 2008 diana 2008,, p. 42 42)) —, le ritualità collettive, l’identità e la memoria, proproducendo, in alcuni casi, ano ano-mia.. In questi interstizi prov mia prov-visori le comunità ferite reareagiscono aiutandosi reciprocareciprocamente e abolendo il principrincipio egoistico in nome di una rafforzata solidarietà e condicondivisione, al fine di ri-costruire la propria storia in una nuonuova esperienza di temporalità e spazialità. L’evento disastroso diventa, infatti, un livellatore sociasociale che ripristina l’uguaglianza tra gli uomini, abolisce le didi-

stinzioni di status e ruoli, scuoscuote le coordinate spazio-temspazio-tempo, ruba all’individuo i rifeririferimenti del proprio esser-ci sulsulla Terra. Una dimensione ininteressante della vulnerabilivulnerabilità sociale riguarda, per l’apl’appunto, la relazione tra gli inindividui e il loro contesto amambientale. Il problema architetarchitettonico e urbanistico della riricostruzione fisica del territoterritorio si traduce inevitabilmeninevitabilmente nel problema socio-antrosocio-antropologico della comprensione del senso di spaesamento vissu vissu-to dai superstiti e della ri-cori-costruzione del loro paesaggio culturale. Le strutture fisiche si intrecintrecciano con quelle simboliche ed entrambe contribuiscocontribuiscono allo sviluppo del Sé individuale e sociale. L’alterazione formale e sostanziale del papaesaggio comporta un’alteraun’alterazione psichica di tipo soggetsoggettivo, perché l’essere umano viene catapultato in un visibile complicato che stenta a riconoriconoscere: ciò avviene «quando gli uomini non sono al loro poposto giusto. Ma non soltanto gli uomini ma anche gli alberi, le case, non sono al posto giusto. Si è prodotto un mutamento. Gli uomini “…” non hanno più le loro cose presso di loloro, ed ora le cercano “…”, vovogliono riottenere le loro cose e la loro patria. Il bel mondo non si può più ricomporlo in modo giusto. Il mondo di priprima non c’è più, il bel mondo ordinato» (E. De Martino, La fine del mondo. Contributo all’anaall’analisi delle apocalissi culturali, culturali, EiEinaudi, Torino 1977 1977,, p. 207 207).).

L’analisi focalizzata sulla cri cri-si della presenza consente a ErErnesto De Martino di chiarichiarire come la perdita degli indi indi-ci di senso spaziali, dei rifeririferimenti domestici e del micromicrocosmo circostante comporticomportino una crisi radicale dell’indidell’individuo quale essere storico, storico, quaquale essere-nel-mondo. La cacapacità dell’uomo di pensarpensarsi nel mondo, infatti, coincide con la sua capacità di pensapensare il mondo, di proiettarsi nel suo spazio vitale, di muoversi in un habitat familiare, che gli è parente. Secondo Maurice Merleau-Ponty non è corretcorretto asserire che il corpo è nello spazio, dal momento che esso abita lo spazio, nella mimisura in cui — percependolo e vivendolo — lo assume organi organi-camente entro la propria espeesperienza vitale. vitale. L’Io L’Io è in relaziorelazione con l’esterno, è aperto alalle cose, e viceversa queste ne sono il punto di riferimento e di appoggio. «La relazione Iospazio non dovrebbe essere af af-frontata solo come corpo che si muove nello spazio, ma cocome spazio del corpo, perché si tratta di una relazione indisindissolubile» (M. Ciampi, Forme dell’abitare. Un’analisi sociologisociologica dello spazio borghese, borghese, RubbetRubbettino, Soveria Mannelli 2011 2011,, p. 23 23).). L’improvviso evento disastrodisastroso inghiotte edifici, case, strastrade, scuole, luoghi di culto e profani, spazi della socializsocializzazione e del loisir loisir,, e annulla — in un istante più o meno lungo — i riferimenti concreconcreti del paesaggio quotidiano e con essi tutto il corpus di sisi-


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gnificati che orientano l’agire individuale e collettivo. In alaltre parole, la comunità perde i luoghi-cardine che orientaorientano le pratiche sociali, i valori, le abitudini capaci di rafforrafforzare il senso del noi. noi. Il rapporto con i luoghi e le cose è l’abita l’abita-re,, una condizione che non si re esaurisce esclusivamente nella protezione muraria, muraria, nella dispodisponibilità di uno spazio domestidomestico ove sentirsi protetti (aspet(aspetto comunque ineludibile), ma che chiama in causa fattori socio-culturali e storici. L’individuo abita tanti spaspazi quanti sono quelli formati dalla società, dal gruppo, daldalla collettività: lo spazio è un luogo praticato, un incrocio di mobilità poiché sono gli inindividui che si muovono a tratrasformare, ad esempio, in spaspazio la strada geometricamente definita come luogo dell’urbadell’urbanesimo. L’esperienza dell’abidell’abitare si articola, infatti, attraattraverso la familiarità con un sisistema di segni che è fortemenfortemente intessuto alla materialità dei luoghi. Quanto detto sinora è narrato con semplicità ed estrema auautenticità da una sopravvissuta al sisma aquilano, che ha racraccolto in un toccante diario — Ricomincio da zero anzi da 3,32 — il suo personale bilancio post res perditas: perditas: «Si può stare in una casa e basta senza sentirsentirla tua, senza sentirla parte di te “…”. Queste case sono stastate costruite con i soldi e la sosolidarietà di tutti “…” ma dendentro di me hanno creato una seconda catastrofe “…” una devastazione psicologica enorme.

“…” Questa casa ha tutto e sembra che non abbia niente, fuori per ora c’è il silenzio, silenzio, come nei vicoli de L’Aquila. Si sensentono solo gli operai che lavolavorano per costruire altri edifiedifici, altre case “…” dentro quequeste case scaricheremo le nonostre buste di plastica che non hanno avuto il tempo di didiventare valigie “…”. La mia memoria è stratificata da anni e anni di vita, è fatta di ricordi “…” questa casa non mi apappartiene, non appartiene alalla mia vita vissuta fino ad ogoggi. Non l’ho costruita come la volevo io, non ho scelto io il luogo, il paesaggio intorno, i vicivicini di casa. casa. “…” Poi penso che in fondo questa è un’altra vivita “…”. Ieri immaginavo un certo domani, quel domani ormai è sotto le macerie di ieri “…”. Forse è calando il nuovo nell’antico che possiamo tortornare a immaginare quel dodomani di ieri» (P. Aromatario, Ricomincio da zero anzi da 3,32, 3,32, Easy Libro, L’Aquila 2009 2009,, pp. 134-136 134-136).). La sindrome da stress posttraumatico generata dai didisastri è legata al senso di ano ano-mia territoriale delle vittime, cocostrette a impostare un nuonuovo modo di esistere e di raprapportarsi con il mondo esterno. Nella devastazione dei luoghi del proprio vissuto, nella solisolitudine e nel silenzio, l’indivil’individuo perde la domesticità ed è costretto ad accogliere l’estral’estraneità del mondo. Niente è più collocato al posto giusto, il suolo non è più sal sal-do sotto i piedi, piedi, metaforicamenmetaforicamente ma anche concretamente,

l’Io si muove tra gli scricchiol’Io scricchiolii delle macerie, dei vetri rotrotti, delle travi spezzate, dei calcalcinacci, degli oggetti perduperduti: «Solo una catastrofe, oggi, è in grado di produrre effeteffetti paragonabili alla lenta eroerosione del tempo. ParagonabiParagonabili, ma non simili. La rovina, infatti, è il tempo che sfugge alla storia: un paesaggio, una commistione di natura e di cultura che si perde nel passapassato ed emerge nel presente cocome un segno senza significato, o, per lo meno, senza altro sisignificato che il sentimento del tempo che passa e che dura contemporaneamente. Le distruzioni operate daldalle catastrofi naturali, tecnolotecnologiche o politico-criminali apappartengono all’attualità “…” sono datate e la funzionalità perduta (per la quale si cercercano “d’urgenza” delle solusoluzioni di ricambio) deve ritroritrovare il suo posto». (M. Augé, Le temps en ruines, ruines, Éditions GaGalilée, Paris 2003 2003;; tr. it. Rovine e macerie. Il senso del tempo, tempo, BolBollati Boringhieri, Torino 2004 2004,, pp. 94-96 94-96).). Se le rovine danno ancora sesegno di vita e contemplarle sisignifica fare esperienza del tempo puro puro,, senza storia, che allude a una molteplicità di passati, le macerie accumulaaccumulate costituiscono paesaggi ininnaturali, segnano come il rin rin-tocco di una campana l’attimo in cui avviene il cambiamencambiamento, il passaggio fra un prima e un dopo spazio-temporali ben definiti. È l’attimo del disastro, l’evil’evidenza di un tempo che apparappar-

tiene ad una storia specifica e a una collettività precisa. TutTutto sembra divenire sommario sommario,, vago, improvvisato: luoghi, relazioni, punti di riferimenriferimento. E non sono certo le città gegeneriche — agglomerati anonianonimi, senza passato né avveniavvenire, privi di originalità — la ririsposta adeguata per risarcire i danni e ripristinare il senso del genius loci. loci. La città ricostruita senza sentimento e priva di una vocazione socio-antropologisocio-antropologica perde di autenticità, comcompromettendo l’interazione ininter-soggettiva e quella fra citcittadini e tessuto urbano radiradicalmente compromesso. Gestire uno stato di emergenemergenza non significa solo ricostruiricostruire celermente edifici e strade, ordinare le macerie in un nuonuovo sistema architettonico, ma preservare il senso di appartenenappartenenza che tiene unita la comunità e che può conservarne l’identità. l’identità. L’individuo, in quanto tatale, è un soggetto in relazione con Alter.. Se alla decomposizione Alter del tessuto urbano corrisponcorrisponde una decomposizione delle relazioni, se scompare il monmondo in cui l’individuo ha semsempre vissuto e svolto le sue funfunzioni e i suoi ruoli, resta solo l’individuo “fisiologico”, “fisiologico”, in quanquanto essere biologico. Se è vero — come sostiene Augé — che la storia futura non produrprodurrà più rovine, perché non ne ha il tempo, è anche vero che «l’umanità non è in rovina, è in cantiere. Appartiene ancoancora alla storia. Una storia spesspesso tragica, sempre ineguale, ma irrimediabilmente comucomune» (M. Augé, op. cit., p. 16 16).).


Epicentri


TerremoTTo e POLITICA Terremo 18

Quali sono, se ve ne sono, i ritardi e i limiti della cultura architettonica in Italia rispetto alle catastrofi naturali? Le Facoltà di Architettura, quale contributo scientifico disciplinare hanno dato alla messa a punto di strategie di intervento riguardanti l’impatto che le catastrofi naturali hanno sul territorio, le città e gli edifici, ovvero gli oggetti del progetto di architettura? E poi, le riviste di architettura, pur numerose nel nostro paese, quale contributo hanno dato e danno alla riflessione critica sulle esperienze fatte? Quali sono i metodi e gli strumenti di pianificazione che mettiamo in campo prima che i fenomeni accadono, che tipo di contributo progettuale definiamo durante la fase di emergenza e, non ultimo, che posizione culturale teniamo dopo, quando bisogna indicare le linee ricostruttive? Terremoti, alluvioni, frane, eruzioni segnano e hanno sempre segnato il nostro territorio da millenni. Solo per i terremoti, si parla di circa 560 eventi sismici negli ultimi 2.500 anni di intensità uguale o superiore all’viii grado della scala Mercalli, in media uno ogni quattro anni e mezzo. D’altronde, non c’è bisogno di andare troppo indietro nel tempo. È l’esperienza del nostro tempo che ci racconta di eventi catastrofici di cui siamo stati diretti testimoni: Belice, Friuli, Irpinia, Umbria e Marche, San Giuliano di Puglia, Abruzzo e, di questi giorni, l’Emilia e il Pollino. Solo per parlare di terremoti. Ebbene,

UN SILENZIO ASSORDANTE

di fronte a tutto ciò, cioè al fatto imprescindibile di prendere atto che per com’è la nostra terra, il nostro Paese, dobbiamo imparare a vivere, come comunità e come individui, nella consapevolezza statistica e scientifica che, o stiamo vivendo un prima, cioè tutte quelle realtà territoriali definite a rischio, oppure drammaticamente un durante, gli emiliani oggi, o un dopo, gli abruzzesi. Dobbiamo chiederci se siamo solo in attesa di sapere a chi toccherà questa prossima volta, o piuttosto domandarci che misure dovremmo mettere in campo per ciascuna di queste fasi e, per quello che ci riguarda come architetti, quale contributo tecnico e culturale possiamo dare per ciascuna di queste fasi, sia in tempo di guerra sia in tempo di pace. Premetto che molto è stato fatto in questi anni e che la Protezione Civile Italiana, sia a livello centrale che locale, è cresciuta molto. Molte delle energie intellettuali e operative sono state indirizzate però, per la maggior parte, nella fase del durante, cioè quella dell’emergenza. E non poteva che essere così. Molto è stato fatto sul piano delle leggi in tema di sicurezza antisismica riferita alle nuove costruzioni e, in parte, sulle metodiche d’intervento sulla messa in sicurezza dell’edilizia storica. Molto è stato fatto sullo studio della geologia dei nostri territori, sulla carta dei rischi, sulle micro-zonizzazioni. Ma poco, molto poco, sulla fase della ricostruzione. Per quello che riguarda

le proposte di pianificazione territoriale e progettazione architettonica e urbana, cioè per quello che chiamiamo il prima, il durante e il dopo, è stato fatto poco o niente. In altri termini, sono state privilegiate le culture tecnico-scientifiche di stampo militare, come la logistica per l’organizzazione e la definizione strutturale dell’accoglienza, l’ingegneria per quello che riguarda essenzialmente la sicurezza statica degli edifici e la geologia per gli aspetti analitici e costitutivi dei territori: la cultura architettonica è stata messa ai margini, come se il problema delle città, dei territori, degli edifici, non fosse un argomento tecnico e scientifico proprio della disciplina architettonica. Questo la dice lunga sul ruolo, la funzione e la credibilità con cui è tenuta in conto l’architettura in Italia. Per non essere generico e non cadere nel facile gioco della denuncia senza fornire dati e fatti concreti, e cercare, al contrario, di descrivere e dimostrare quanto affermato, concentrerò la mia attenzione sul caso de L’Aquila e dei comuni del cosiddetto cratere del terremoto in Abruzzo, e delle vicende che hanno ruotato intorno a questo evento. Veniamo ai fatti! Dopo il 6 aprile 2009 per L’Aquila nulla è più come prima, da quel giorno è una città divisa, un centro senza vita, ferma al dramma di quell’istante e una periferia che si è trasformata in un grande suk. Sessanta secondi, tanto è bastato: il luogo della memoria, dell’appartenenza,

Carlo Terpolilli

dell’identità, svanisce di colpo, seppellito sotto un cumulo di macerie. Trecentotto morti. Ci sono alcune date significative, nella storia di una città, di una comunità — come la data della sua fondazione, quando questa è conosciuta, oppure eventi gloriosi così come dolorosi, guerre, feste — quest’ultima data rimarrà senz’altro nella memoria individuale e collettiva. Il 6 aprile 2009. Era circa un secolo che una città capoluogo italiana non era investita da un cataclisma del genere (è del 1905 il sisma e il susseguente maremoto che devastò Messina e Reggio). La singolarità di questo evento, vista la natura della città e i numeri in gioco, ha posto problemi enormi nella fase di emergenza. Le questioni af affrontate, e non sempre risolte o addirittura irrisolte, pongono questioni che vanno oltre gli aspetti etici e riguardano la possibilità di riflettere sul modo in cui si è agito e quale contributo la cultura architettonica e accademica ha dato o non ha dato: questioni che riguardano la gestione e la progettazione della realtà relative al durante, cioè l’accoglienza il dare alloggio a migliaia di senza tetto, la messa in sicurezza degli edifici, e al dopo, cioè approntare rapidamente piani di ricostruzione e definire caratteristiche e modalità ricostruttive. Cosa accade quando una città come L’Aquila viene colpita da un terremoto? Una città di circa 70.000 abitanti? Il primo dato sono i morti e i feriti. La conta straziante e dolorosa dei


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morti e il soccorso ai feriti e la speranza di ritrovare vivi i dispersi. E poi, le centinaia e le migliaia di persone traumatizzate, sconvolte, impaurite, da alloggiare, rifocillare e assistere per mesi. Di colpo, un capoluogo di regione e di provincia smette di funzionare, si fermano attività pubbliche e private, una sospensione temporale di cui nessuno può definire la durata. Il centro storico, il cuore della città, viene chiuso e militarizzato, in attesa di verifiche e della sua messa in sicurezza. Il centro storico de L’Aquila da quel momento entrava in un sonno, in una sorta di coma terapeutico da cui non riesce ancora a svegliarsi, se mai lo farà, mentre la disinformazione televisiva di quei giorni dava una falsa immagine di una città che si stava riprendendo, grazie agli sforzi del grande conducator. La protezione civile si muove bene, e rapidamente assiste e sistema in tende e in alberghi, in quei giorni, più di 60.000 persone. Però il problema si pone immediatamente: come affrontare il tema della sistemazione di migliaia di persone per toglierli al più presto dalle tende? La protezione civile nei suoi programmi di intervento aveva già una modalità di azione e una tempistica, tra l’altro messa a punto negli anni, e revisionata più recentemente da un gruppo di lavoro di cui facevo parte insieme al professor Bologna del Dipartimento TAeD dell’Università degli Studi di Firenze, insieme alla protezione civile della Regione Toscana: co-

struire dei villaggi sparsi nel territorio, temporanei e transitori, in modo da passare rapidamente dalle tende a un insediamento più stabile e confortevole. In altri termini: un breve periodo in tenda, nel frattempo individuare le aree disponibili per accogliere dei container, più confortevoli delle tende, e, appena la produzione di casette di legno lo consentiva, sostituire i container per accogliere per un tempo programmato e transitorio le popolazioni in attesa della ricostruzione. Questo programma d’intervento non fu mai utilizzato per due ordini di motivi: — il primo, per la difficoltà oggettiva di calare nella realtà grandi numeri concentrati in un territorio ristretto, un programma nato per risolvere all’opposto l’accoglienza degli sfollati di un grande numero di piccole comunità diffuse nel territorio; — il secondo perché vi fu una volontà politica e ideologica, in accordo con i vertici della protezione civile, di saltare la fase temporanea e realizzare nei tempi brevi delle New Town ((sic sic)) con abitazioni non sic più transitorie ma permanenti. Con l’idea che finita l’emergenza e la ricostruzione, le case sarebbero state assegnate agli studenti e alle giovani coppie. Con questa volontà nasce il progetto C.as.e., l’acronimo di Complessi Antisismici Sostenibili Ecocompatibili, che consiste in un’operazione che ha visto la realizzazione di 185

edifici e altrettante piastre anti-sismiche (di cui molto si discuterà), 4.600 appartamenti per più di 15.000 persone. Case sicure, confortevoli, ecosostenibili, arredate con il televisore al plasma e con le iniziali del capofamiglia ricamate sulle lenzuola. Che cosa si poteva avere o volere di più? Era difficile, molto difficile, in quei momenti, mettersi di traverso, dire che tutto ciò era un errore. Mettersi contro, criticare, significava non voler dare casa ai senza tetto, un abominio. Perché mettersi contro, allora, sembrava voler impedire alla gente di vivere in case confortevoli, mettendo in discussione il programma della Protezione Civile, capace di realizzare, come abbiamo visto, quasi 5.000 alloggi in pochi mesi. Un’azione dimostrativa, un’azione di forza che doveva mostrare la capacità del governo di rispondere rapidamente e con efficienza al problema dei senza casa. Una nuova stagione nei confronti della lentezza e inefficienza del passato. Una sperimentazione anche tecnica e procedurale, nata in fretta e furia di cui non si conoscevano gli esiti, una scommessa, però, fatta sul corpo vivo di una città piegata dalla sofferenza e dalla necessità. «Il terremoto de L’Aquila del 6 aprile 2009 è stato il peggior disastro in Italia negli ultimi 29 anni. Nel medio termine, i finanziamenti del governo sono stati concentrati nelle abitazioni transitorie e nei puntellamenti degli edifici danneggiati dal sisma, nel

mentre il centro storico è rimasto off-limits per tutta la popolazione. Da questo è risultata una frammentazione sociale, incertezza del futuro e perdita di slancio nel processo ricostruttivo» (D. Alexander, 2012). Quali sono stati gli errori principali? In primo luogo il costo eccessivo, pari ad un costo al metro quadro, al lordo delle opere di urbanizzazione, di €3.750, cioè circa venti volte il costo dei M.a.p. utilizzati nello stesso contesto per i borghi del cratere, e a circa tre volte il costo di edilizia residenziale corrente. In secondo luogo l’idea di costruire in tempi brevi case definitive, ha prodotto una moltiplicazione di periferie ai margini della città che ha avuto come risultato la messa in crisi del sistema territoriale ed infrastrutturale della città de L’Aquila che ha pagato e che purtroppo pagherà in futuro. Di fatto ipotecando il futuro urbanistico della città. In terzo luogo tutto ciò ha avuto come risultato immediato il rallentamento della ricostruzione del centro storico, che prefigura uno svuotamento dello stesso centro in futuro. Non solo in quei giorni ma anche in quelli successivi, e per mesi, abbiamo assistito al silenzio impotente della cultura architettonica italiana, e la sua abdicazione alla cultura tecnicista, a quella che dava risposte immediate ed efficienti, che dava certezza a fronte della devastazione della città. Poche voci si sono levate contro la posizione espressa dal governo e dai ver-


1 2012-10-09, L’Aquila. (©AndreaSarti/ (©AndreaSarti/Cast1466 Cast1466)) 2 2012-08-03 2012-08-03,, L’Aquila, Corso Umberto I. (©AndreaSarti/Cast1466 (©AndreaSarti/ Cast1466))

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tici della protezione civile, per quanto fosse già chiaro già nelle prime fasi del dopo terremoto aquilano, quali sarebbero stati i pericoli. Il 16 dicembre 2009 alla Facoltà di Architettura di Firenze si inaugura una mostra sul tema “il futuro de L’Aquila” costruita dal basso da studenti e dottorandi sotto il mio coordinamento, e dove furono invitati alcune voci provenienti dall’area del cratere, tra i quali il professore Properzi, l’architetto Perrotti e il Collettivo 99, collettivo di giovani ingegneri e architetti aquilani che posero in evidenza in mo-

do lucido e documentato gli errori che si stavano compiendo. Per il resto, un silenzio assordante. Buona parte della nomenclatura dell’architettura e dell’urbanistica italiana e dell’accademia universitaria, nonché delle riviste di architettura andò in stand-by, impotente, in attesa di sviluppi. In alcuni casi, nascondeva un lavorio sotterraneo, a livello sia professionale che universitario, per acquisire rendite di posizione per ottenere future commesse o convenzioni. Non che questo sia commendevole, ma il tutto è stato fatto, alme-

no per quanto riguarda l’università, senza coordinamento, senza, per esempio, convocare una conferenza nazionale per discutere e proporre iniziative anche a supporto della stessa protezione civile, e soprattutto della città de L’Aquila e dei suoi amministratori. Proprio questi ultimi, infatti, sono stati abbandonati a se stessi di fronte alla forza decisionista del governo e del vertici delle protezione civile. Solo recentemente, commenti da parte di personaggi del livello dell’urbanista Vezio De Lucia e di Renzo Piano denunciano pro-

prio questi errori, a livello politico innanzitutto, di offrire nuovi «quartieroni sconnessi l’uno dall’altro “…” fatti oltretutto con un eccesso di misure antisismiche — che — sono costati troppo, lo Stato ha pagato un prezzo tre volte superiore a quello dei moduli provvisori. È dura decidere di abbatterle. “…” Non si può af affrontare la ricostruzione del centro storico mandando via tutti quanti “…” lo restauri, ma diventa un presepe senza vita». Si poteva agire diversamente? In Giappone, dopo il terremoto e lo tsunami che han-

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no colpito il nord-est dell’isola nel marzo 2011, e che causarono migliaia di morti e la distruzione di interi villaggi, è stato chiesto uno sforzo intellettuale ai migliori architetti, per dare un contributo alla realizzazione di case confortevoli e a basso costo temporanee. Vedi il caso di Shigheru Ban e di Kazuyo Sejima. In Italia, invece, sono state chiamate alle armi le imprese, le quali hanno dato un contributo mediocre, e non a basso costo. In questo ambito, cioè quello della fase dell’emergenza, il ritardo della cultura architettonica è sotto

gli occhi di tutti. Un ritardo culturale che nasce dall’indif dall’indifferenza di fronte a temi come la temporaneità, la transitorietà, la reversibilità del progetto architettonico, aspetto al contrario necessario per programmare e progettare strutture edilizie temporanee, appunto, e a basso costo. Come se tutto ciò non appartenesse al progetto di architettura, ma a quello dell’ingegneria, cioè come se fosse solo un problema tecnico. Perché il problema da affrontare era quello di alloggiare decine di migliaia di persone in tempi brevi e in condi-

zioni confortevoli. È chiaro che questo non può essere risolto con la strategia della bassa densità, cioè attraverso l’uso di moduli abitativi provvisori mono piano. Era ed è quindi necessario andare oltre la casetta, con strutture ad alta densità, ma che siano al contempo temporanee e quindi dismettibili e, proprio per questo, a basso costo, che abbiano la capacità di rispondere alla complessità del problema attraverso una semplificazione delle procedure e con una sperimentazione di un ampio repertorio di tecnologie capaci

di garantire un’azione rapida. Case temporanee, a impatto nullo, perché, pensate e progettate come strutture edilizie reversibili e dunque dismettibili, low cost, capaci di liberare il suolo nel momento in cui progressivamente le persone rientravano nelle proprie case. Difficile? No! Pensabile in termini architettonici? Certamente! Certo è che bisogna riprogrammare il pensiero e la cultura architettonica nazionale e aprirsi a un pensiero contemporaneo che guarda al futuro con uno sguardo nuovo, come per i temi e le questioni

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3 2012-10-10, L’Aquila, Via Filomusi Guelfi Francesco. (©AndreaSarti/Cast1466 (©AndreaSarti/ Cast1466)) 4 2012-10-10 2012-10-10,, L’Aquila, Via XX Settembre. (©AndreaSarti/Cast1466 (©AndreaSarti/ Cast1466))

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che pone la ricostruzione oggi del cuore della città de L’Aquila ma anche dei borghi e della città emiliane. Per esempio! Ricostruiamo L’Aquila? Dov’era? Com’era? E quando? Domande semplici, chiare, inevitabili. Domande che gli abitanti de L’Aquila si sono posti immediatamente. Domande necessarie perché l’atto, la scelta di rifondare non è un atto amministrativo o burocratico, deciso nelle stanze segrete, o da valutazioni scientifiche, o da una micro zonizzazione, ma un’azione corale e consapevole tra abi-

tanti e istituzioni. Domande necessarie perché le domande costruiscono la via e definiscono il primo tassello di un percorso lungo e articolato. Le risposte però non possono essere altrettanto semplici e chiare; il processo di ricostruzione è certamente un percorso non lineare, che va dispiegato nel tempo e messo a punto continuamente. Gli esempi che conosciamo ci danno risposte varie, articolate e opposte. Nella storia dell’umanità dopo un sisma, i comportamenti, le scelte, vanno dall’abbandono dei siti originari — Noto, Gibelli-

na — alla ricostruzione negli stessi luoghi — Gemona —, alla ricostruzione di alcune parti dell’abitato e l’abbandono di altri — molti esempi anche in Abruzzo. Ci sono città che si sono costruite e ricostruite più volte su stesse sia in un percorso lineare senza traumi, sia di fronte ad emergenze catastrofiche come Siracusa. L’Aquila stessa ne è un esempio, ricostruita dopo il terremoto del Settecento. Infatti, la città de L’Aquila prima del terremoto era il frutto di una formidabile e lungimirante ricostruzione, fatta anche in

tempi piuttosto rapidi e con una qualità architettonica straordinaria. Una ricostruzione fatta nello stesso sito, demolendo dove andava demolito, ristrutturando quello che andava ristrutturato, costruendo dove andava costruito. Nello stesso tempo altre città sono state abbandonate, a un certo punto della loro storia, abbandonate all’oblio della storia, morte per consunzione o per trauma, il cui risultato è la rovina. Nello stesso tempo — aldilà delle scelte logistiche e localizzative — le decisioni prese sulle modalità ricostruttive,

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sulle procedure amministrative e sulle tecnologie da adottare, sono state le responsabili, nel bene e nel male, o di accelerazioni positive o di tragici ritardi. La definizione dunque non solo dei modi, ma soprattutto dei tempi, meglio dei modi in funzione del tempo, diventa la condizione necessaria e sufficiente per prefigurare un qualsiasi processo di ricostruzione. Il tempo è una variabile fondamentale, bisogna fare presto e bene per evitare l’oblio, la perdita di valore, la frustrazione, l’assuefazione: l’abbandono non più per scel-

ta. Allora quale strategia per L’Aquila? Quali scenari si possono immaginare e definire per la Comunità? Quale speranza dare agli abitanti oltre al pessimismo della ragione e all’ottimismo della volontà? La condizione irrinunciabile era ed è quella di ricostruire L’Aquila dove sono ancora le sue macerie, lì dove c’è la sua storia, la sua memoria, la sua identità. Ricostruire dov’era per non accettare né l’idea di sparire dalla faccia della terra né quella di collocarsi in un altro luogo; e poi quale? Dov’era ma

non semplicemente com’era. Dov’era ma non necessariamente com’era! Questa è la considerazione su cui immediatamente si è concentrato il dibattito culturale, perché indietro non si torna, perché non è per niente detto che la condizione precedente fosse la migliore. Com’era, sarebbe tecnicamente possibile, forse, si può fare per alcuni brani di tessuto edilizio e soprattutto per alcuni monumenti; tutto ciò nella storia è stato già fatto, ma per la maggior parte dei casi ciò è avvenuto di fronte ai traumi realizzati dall’uomo —

guerre, bombardamenti — Varsavia, Potsdam. Vale la regola aulica del “caso per caso” senza ideologismi, senza pregiudizi, ciò che vale per una situazione non è detto per niente che valga per l’altra. La realtà del dramma de L’Aquila ci spinge ad accettare di misurarsi con il difficile compito di mantenere la memoria di un borgo, del suo carattere e della sua identità, trasferendola però secondo un linguaggio contemporaneo: risolvendo l’annosa e difficile distanza tra la contemporaneità e la tradizione, fatta di materiali, di tecno-

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5 2012-07-30, L’Aquila, Stadio di Acquasanta. (©AndreaSarti/Cast1466 (©AndreaSarti/ Cast1466)) 6 2012-08-03 2012-08-03,, L’Aquila, Via Poggio Santa Maria. (©AndreaSarti/Cast1466 (©AndreaSarti/ Cast1466))

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logie costruttive, di uso del colore, ma anche d’ibridazione, di stratificazione. Non solo ridare a L’Aquila ciò che già aveva, ma per aggiungere ciò che non aveva. In altri termini, pensare al terremoto come a un’opportunità, per ripensare la sua struttura, intervenire nelle sue debolezze, nelle sue criticità, per migliorare la sua natura attraverso: — la riqualificazione dello spazio pubblico, inteso come restituzione e innovazione di quello spazio vitale costituito da piazze, percorsi e funzioni a valenza collettiva;

— la salvaguardia e la valorizzazione di un patrimonio storico architettonico; — la riconversione energetica finalizzata al contenimento del consumo di fonti non rinnovabili in un’ottica di sostenibilità; — la rigenerazione degli spazi abitativi in considerazione delle esigenze di fruibilità e benessere e dell’evoluzione dei modi d’uso; — la riconfigurazione delle tecnologie costruttive in vista di un adeguamento prestazionale e normativo. La ricostruzione è, certamente, un problema di program-

mazione. Come spesso è accaduto, però, ci si attarda a definire una serie di regole, di norme e di procedure, più che dare soluzioni attraverso la definizione di progetti collettivi/ individuali, pubblici/privati, dentro una grande cornice che dia immediatamente ossigeno e vita alla città e non la faccia morire di attesa. La ricostruzione, quindi, non solo come atto unico finale in cui il tempo ha un valore assoluto, ma come atto che si dispiega work in progress: incominciare subito dalle piccole cose per riattivare, poco a poco, parte della cit-

tà, in modo non episodico ma programmato, e gestire contemporaneamente i micro e i macro interventi. Una precondizione è necessaria, perché sia possibile immaginare e programmare un dopo di fronte a qualsiasi evenienza. Una qualsiasi azione di ricostruzione è possibile se ogni città, in tempo di pace, costruisce un archivio della città (alcuni esempi esistono in giro per l’Europa) dove realizzare un back-up continuo di se stessa, attraverso una memoria attiva, dove venga sempre archiviata l’immagine della città, la

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sua conformazione, il suo rilievo, la sua documentazione. In primo luogo, perché è utile per definire le strategie evolutive della città e la sua pianificazione, ma soprattutto perché quello di cui ci si è accorti è che nel momento in cui si mette mano alla ricostruzione, anche se volessimo ricostruire dov’era e com’era, mancano sempre i dati, sia quantitativi che qualitativi. Ed è quello che sta accadendo in tanti borghi e città colpiti dal terremoto. Questo perché, anche quando, sotto la spinta sociale e la determinazione di una volon-

tà politica, trovassimo le risorse economiche per cominciare a definire dei piani di messa in sicurezza delle nostre città, dei nostri borghi, del nostro territorio, dovremmo compiere necessariamente delle scelte, dovremmo stabilire delle priorità, perché le risorse economiche non saranno mai sufficienti. E queste scelte possono essere fatte solo sulla base di dati e di una documentazione puntuale ed accurata. Tutto ciò può sembrare un discorso cinico, ma non lo è; questo si chiama semplicemente, e tragicamente, realismo. Ma ci

vuole la consapevolezza che un’operazione di questa natura può essere attuata solo coinvolgendo tutti i cittadini, cittadini consapevoli, sensibilizzati alla conoscenza della loro città e del loro territorio, in modo che, anche individualmente e insieme con gli interventi pubblici, possano partecipare alla realizzazione di una grande opera collettiva, quella di mettere in sicurezza la maggior parte del patrimonio edilizio nazionale. È chiaro ed evidente che, se affrontiamo la questione in questi termini, il contributo della cultura architet-

tonica diventa centrale, sia per ciò che possono dare le università, che per il lavoro professionale, perché il rilievo, l’analisi tipologica e morfologica della città, la stratificazione e l’evoluzione storica della stessa, lo studio sistematico delle tecnologie costruttive, sono materia che definisce il corpus teorico normativo della disciplina architettonica. C’è spazio e lavoro per tutti, a condizione che tutto questo sia all’interno di un quadro omogeneo e consapevole, tale da ricomporre quella frattura tra architetti e società.

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↑ ŠStefano Morelli > Una notte a Mirandola.



↑ ŠStefano Morelli > Una notte a Mirandola.


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Quando la terra trema, le ferite nelle facciate degli edifici corrispondono a ferite ancor più profonde nelle vite di chi li abitava e frequentava. Un grave limite della discussione pubblica è quello di gettare continuamente i riflettori addosso alle lesioni sui palazzi e non prestare troppa attenzione ai legami spezzati. È la dura legge dello share: immagini ad effetto, nessun secondo concesso alla riflessione, al carotaggio, all’analisi (non dico profonda, ma almeno approfondita). Dopo le scosse, senza avere neanche il tempo sufficiente per dare un ultimo sguardo all’universo costrui-

LEGAMI SPEZZATI

to in un’intera vita, migliaia di persone sono obbligate dagli eventi ad una transumanza senza sapere quale e quando sarà l’arrivo. Poi, man mano che passano i giorni, le stesse cercheranno di somatizzare gli eventi e di ricostruire la catena della propria vita. Ma lo faranno altrove, in un luogo lontano — seppur vicino in linea d’aria dai loro luoghi cari —, in un tendone, assieme a centinaia di altre persone, alcune riconoscibili, altre appena intraviste, altre ancora sconosciute. È la fase dell’emergenza, dicono. La fase successiva è quella della ricostruzione. E allora giungono puntua-

Marco Gamannossi

li — in certi casi la puntualità non manca — i mega progetti a cui far corrispondere finanziamenti altrettanto giganteschi; qualcuno sghignazza pure al cellulare e si strofina le mani dinanzi alla quantità di quelle risorse messe a disposizione, in attesa di capire quale sarà la cibatura per il suo guadagno. Tanto i soldi non mancheranno. A L’Aquila in effetti le risorse per il post-terremoto non sono state poche e la ricostruzione via via si è materializzata: new towns, casette linde e asettiche utili per essere riprese in uno speciale di Porta a Porta, gli immancabili, giganteggianti, centri commer-

ciali. La dura legge dello share approva l’operazione. Poi ci si accorge, ad un certo punto, che forse qualcosa manca, al di là delle copertine patinate. Esaurita l’emergenza e la novità, emergono le difficoltà. Un centro storico spettrale, il 95% dei bar, dei circoli, dei locali, sono solo delle cornici per delle saracinesche tirate giù. Quelle piazze, animate per settecento anni, sono oggi una quinta deserta. Quando manca la democrazia, non ci sono risorse che tengano. La ricostruzione (o nuova distruzione) de L’Aquila lo dimostra. Quella comunità non ha partecipato alla ricostruzione, semplice-

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1-2 Una notte a Mirandola. (©Stefano Morelli)

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mente perché non ne ha avuto modo e rischia di essere distrutta per la seconda volta. La grande — e non sempre apprezzata come meriterebbe — solidarietà che tutti noi ci siamo sentiti di tributare, non si è materializzata là in una partecipazione consapevole e democratica al processo ricostruttivo. La città, la comunità, invece, intreccia spazi pubblici e privati, relazioni consolidate e fugaci, luoghi della memoria individuale e collettiva. Ricostruire senza democrazia porta alla rottura di questi delicati equilibri. E la democrazia non è ascolto distratto, rituale ed inconcludente, quel-

lo si chiama temporeggiamento. La democrazia è un progetto. L’esempio del terremoto è, se vogliamo, estremo. Eppur molto concreto. Più in generale, il ripensamento delle città e del territorio, se avviene senza democrazia, diventa soltanto sensazionalismo. Se riflettiamo un momento in più alla parola democrazia, spesso bistrattata, rimasticata, appiccicata e guardiamo contemporaneamente al terremoto de L’Aquila, essa ci apparirà finalmente per la sua reale essenza, come elemento ineludibile per una reale tenuta delle nostre comunità. E poi c’è l’eterno dibattito sul rappor-

to tra il prevenire e/o il curare. La crisi che stiamo attraversando spero porti in prima linea un pò più di concretezza, programmazione delle risorse, indicazione di priorità, oltre che ad una buona dose di intelligente sobrietà. La bulimia degli anni passati ha partorito ultrapoteri straordinari, anche per organizzare eventi risolvibili per vie ordinarie. Ha creato l’emergenza continua per veicolare troppo spesso clientele, risorse straordinarie, poteri altrettanto sproporzionati. Celando il tutto con la parola efficienza. E la dura legge dello share, ha approvato a lungo pure questo. La politica deve ri-

trovare invece il gusto di programmare e stavolta sì, con ef efficienza. Faccio una proposta su tutte. Una verifica seria del patrimonio edilizio esistente, per capirne i punti di forza e le fragilità, anche in chiave antisismica. Penso ai centri storici consolidati, penso però soprattutto alle periferie cresciute in fretta e furia sulla spinta di boom demografici racchiusi in pochi anni. Come saranno questi edifici tra venti, trenta, quarant’anni? Basterà un riconsolidamento, una ristrutturazione corposa, oppure una demolizione propedeutica? La critica a questo punto può sorgere abbastanza spon-

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3 Una notte a Mirandola. (©Stefano Morelli)

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tanea. Dove troviamo le risorse? Il tema è giusto, ma riflettiamo però su un punto: lo Stato ha speso centinaia di milioni di euro per un’opera faranoica ma tutto sommato secondaria rispetto al necessario sviluppo del paese. Certamente un’operazione che rimarrà soltanto su carta: parlo del ponte sullo Stretto di Messina. Ripeto: centinaia di milioni di euro, e altrettanti da erogare in caso di penale per

la mancata concretizzazione. Un’impostazione doppiamente castrante, perché fa buttare via risorse a fronte dell’irrealizzabilità dell’opera, e non li investe in opere più piccole (ma certamente più concrete), meno imbellettate ma capaci comunque di generare lavoro e — magari — miglioramento della qualità territorio e dell’edilizia. La mia non è una critica al concetto di grande opera, ve ne sono di necessarie ed

io sono tutt’altro che un conservatore. La mia è una critica alle grandi opere inutili. Se vogliamo, il Paese che non riscopre appieno la democrazia, un giusto e moderno binario di sviluppo, un rapporto più corretto col territorio (e che questo sia il pasto dei soliti sviluppisti e dei soliti conservatori travestiti da progressisti), è un paese che è destinato a vivere nell’emergenza, talvolta reale, talvolta costruita a tavo-

lino. Il cambiamento passa anche dal ridare ad alcune parole chiave la loro vera e strutturale valenza. Forse, anche così, costruiremo un’Italia che non viaggia sempre su sensazionalismi (solo in parte bilanciati da uno spirito solidale che pure esiste), ma che sappia correggere la sua strada e reagire come si deve ad aventi, che pure avvengono e coi quali bisogna purtroppo avere a che fare, come i terremoti.

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Progetti


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testo di Tommaso Rossi Fioravanti

--L’architettura può tremare per esprimere l’instabilità dei tempi, e gli architetti possono sentirsi come aghi di sismografo che vibrano alle convulsioni dello Zeitgeist, ma vi sono circostanze in cui le metafore sismiche diventano drammaticamente reali e all’architettura e agli architetti, allora, si richiede più un rimedio che una rappresentazione. Luis Nandez-Galliano

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Non è facile parlare di architettura ed eventi catastrofici, sembra quasi un ossimoro. Dove tali eventi sprigionano la loro forza devastatrice niente può sopravvivere, spesso neppure l’architettura. Ma esiste un’architettura della ricostruzione che invece è reale, più reale dell’architettura di tutti i giorni perché ridà vita a chi una vita non ce l’ha più. Architettura come sinonimo di rinascita quindi, architettura come modo di pensare il domani. Se infatti per semplificare il nostro lavoro dovessimo cercare di capire il vero ruolo dell’architettura a seguito di un cataclisma potremmo iniziare classificando gli interventi in quattro tipologie. Nei primi interventi, quelli immediatamente a seguito dell’evento, quelli dei soccorsi immediati per capirsi, non si può ancora parlare di architettura ma sarebbe interessante invece studiare il ruolo che può avere il design. Per chi fosse interessato uscirà a breve un libro dal titolo What can do design in the event of an earthquake? a cura di un gruppo di architetti giapponesi coinvolti nello studio dell’organizzazione dei primi soccorsi dopo lo tsunami del loro paese. Negli interventi di secondo e terzo livello, il ruolo dell’architettura

irrompe prepotentemente. Essi riguardano entrambi la ricostruzione e si differenziano solo perché nel primo caso le opere fornite sono temporanee mentre nel secondo già definitive. Queste due categorie in Italia si confondono molto visto che tanti interventi provvisori finiscono — ahimé — per essere poi praticamente permanenti. La quarta categoria infine non si occupa più di ricostruzione, ma di sviluppo. In un’ottica di lungimiranza è la programmazione dell’opportunità di un evento calamitoso. È una categoria importante perché permette di usare il territorio per sperimentazioni che in situazioni quotidiane sarebbe difficile poter mettere in atto. I progetti di seguito riportati raccontano due esempi di edifici temporanei e uno permanente, rari sono gli esempi della quarta categoria in Italia. Mi vengono in mente, a tal proposito, solo il Cretto di Burri a Gibellina, che in fondo però andava a rimediare una decisione alquanto discutibile e il bell’esempio friulano dell’albergo diffuso, firmato dall’architetto Carlo Toson e nato da un’idea del poeta e scrittore Leonardo Zanier, unico vero esempio a mio avviso di progetto lungimirante di ricostruzione.


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3A mcarchitects

miraBeLLo Ferrara

testo di Tommaso Rossi Fioravanti

La regione Emilia-Romagna a seguito del terremoto di maggio 2012 ha indetto un bando pubblico che promuoveva la ricostruzione di ventotto scuole nelle zone maggiormente colpite dal sisma. Caratteristica saliente del bando il punteggio molto alto (70 punti su 100) assegnato alla qualità tecnicoarchitettonica dei manufatti, nonostante questi fossero tutti interventi temporanei. L’architetto Cuccinella insieme alla C.m.c. Prefabbricati si aggiudicava nel ferrarese il lotto di Mirabello, in cui era prevista la ricostruzione sia della scuola d’infanzia che di quella primaria.

L’edificio, che si articola su un solo piano, è costituito planimetricamente da cinque aree, che si sviluppano longitudinalmente affiancate una all’altra. Le fasce più esterne sono destinate alle aule didattiche in quanto hanno la possibilità di avere illuminazione e ventilazione naturale e vista verso l’esterno. Adiacenti ad esse corrono gli spazi di distribuzione, mentre la fascia più centrale, comune alle due scuole, concentra i servizi igienici, i magazzini, gli spazi amministrativi e quelli per i docenti oltre a prevedere un cortile interno che oltre a spezzare la monotonia


竊全chizzo di progetto

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↑ ©Veronica Santandrea > Vista del complesso in costruzione

↓Planimetria generale

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↑Pianta e prospetto di progetto


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scuole generano stecche di lunghezza variabile che creano un bordo indefinito verso il giardino quasi che l’edificio si andasse dissolvendo nella campagna. La sequenza di piani riesce comunque a conferire un aspetto di leggerezza al complesso che nel suo insieme misura circa 1.000 mq e rifugge dall’immagine monolitica e compatta tipica di molte scuole. Lodevole è che l’edificio sia stato concluso nei ristrettissimi tempi previsti

dal bando, ossia soli quarantacinque giorni. L’intero complesso infatti è basato su un sistema costruttivo a setti longitudinali e trasversali portanti realizzati in calcestruzzo prefabbricato che ha permesso una buona rapidità nella fase di prefabbricazione e assemblaggio. Anche le prestazioni energetiche sono state studiate in modo da prevedere un consumo annuo di 7,68 KWh/mc anno permettendo all’edificio di essere classificato in “classe A”.

↑ ©Veronica Santandrea > Vista del fronte del complesso in costruzione

del complesso serve concretamente a mettere in comunicazione le due scuole. Gli ambienti di distribuzione, larghi quattro metri contro i sei delle altre fasce, sono pensati ad altezza maggiore per ottenere illuminazione naturale e ricambio d’aria, ma anche per dare al complesso un aspetto sfrangiato, come lo stesso Cuccinella ci racconta. Tale aspetto è riproposto, oltre che in sezione, anche in pianta dove le diverse necessità funzionali delle due


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3B renzo Piano BuiLding WorkshoP, architects con ateLier traLdi

testo di Tommaso Rossi Fioravanti

L’aquiLa

Il nuovo auditorium della città de L’Aquila è stato inaugurato a ottobre 2012 con un concerto di Claudio Abbado. L’idea progettuale è nata proprio grazie all’impulso del grande maestro che, col sostegno economico della Provincia Autonoma di Trento e la professionalità di Renzo Piano e dell’Atelier Traldi, ha fatto prendere vita a questa esperienza in brevissimo tempo. Il complesso nasce all’interno del bosco che circonda il cinquecentesco Forte Spagnolo, in cui prima del terremoto era ospitato l’auditorium per musica sinfonica della Società Baratelli. Posto quindi a metà strada

tra il castello e la così detta zona rossa, il nuovo intervento diviene luogo di rinascita accanto all’antica città ferita e contribuisce a proseguire la consolidata tradizione musicale di una comunità che ha sempre fatto della cultura, e in particolare della musica, uno dei propri motori culturali. Le necessità di ritrovare riferimenti urbani e sociali perduti, senza ulteriori traumi o stravolgimenti ambientali e di mantenere unita una comunità che rischia di sgretolarsi e disperdersi sono state, per il team di Piano, premesse imprescindibili per qualsiasi successivo intervento.


↓ŠMarco Caselli Nirmal > dettaglio vista esterna


Nasce così l’idea di creare un luogo di aggregazione urbana il più prossimo possibile a quello che era stato il naturale centro della città e in quest’ottica viene proposta una piazza «con un magnete attrattivo — come lo stesso Piano lo definisce — uno spazio destinato alla cultura che potesse diventare anche un luogo di incontro per le diverse attività sociali». Morfologicamente l’auditorium è composto da tre cubi di legno di dimensioni differenti, dislocati uno accanto all’altro in modo irregolare. Il cubo centrale, il magnete, è quello più grande ed è interamente occupato dalla sala per concerti, che può ospitare duecentocinquanta spettatori e un’orchestra di circa quaranta musicisti. I cubi laterali, su più livelli, albergano servizi primari come la caffetteria e il bookshop per rendere il luogo fruibile ventiquattrore su ventiquattro, creando il mix funzionale necessario a dare vitalità ad un luogo urbano. Il complesso è stato studiato in modo da poter ospitare anche altre funzioni come conferenze e videoproiezioni all’interno e all’esterno dell’edificio. L’aspetto stereometrico dei tre cubi affiancati genera una composizione che si affranca dall’immagine classica di edificio vero e proprio. Il cubo centrale poi, affondato nel terreno, sembra quasi voler alludere alla sua precarietà. La rotazione però, oltre che per ragioni compositive, nasce per necessità distributive. L’inclinazione di uno dei lati inferiori infatti corrisponde alla gradonata della platea interna. La composizione planimetrica, anche se a una scala diversa, in qualche modo ricorda l’intervento al Parco della Musica di Roma, ma la stereometria dei volumi e la maggior compattezza

↓©RPBW > pianta piano terra ↓©Marco Caselli Nirmal > vista esterna, il giorno dell’inaugurazione 7 ottobre 2012

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↓©RPBW > sezione trasversale


↑ ŠMarco Caselli Nirmal > dettaglio vista esterna


↓©RPBW > Sezione longitudinale dell’auditorium ↓©Marco Caselli Nirmal > interno, il concerto del 7 ottobre 2012

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dell’insieme rendono il complesso aquilano particolarmente gradevole e proporzionato. Vale sottolineare che l’intervento è stato interamente realizzato in abete rosso di risonanza del Trentino, un materiale che ha ottime qualità acustiche e antisismiche. L’utilizzo del legno, materiale eco-sostenibile per eccellenza, e la prefabbricazione sia degli elementi strutturali che degli elementi di completamento ed arredo tendono verso un’unica finalità: una ricostruzione veloce e poco invasiva sul territorio rispetto alle tradizionali tecniche di cantiere. La struttura dell’edificio, realizzata in legno lamellare, è composta da un

graticcio di travi a cui sono collegati pannelli sia sul lato esterno che su quello interno, in modo da formare elementi strutturali tipo sandwich. I pannelli sono costituiti da strati di legno lamellare, sovrapposti, incrociati e collegati mediante resina secondo la tecnologia costruttiva che prende il nome di X-lam. La struttura in legno lamellare è connessa a una soletta in cemento armato che distribuisce il carico verticale su sedici isolatori elastomerici, con funzione di limitare le forze sismiche agenti sul fabbricato. In facciata alcune lame di legno sono state dipinte con dieci diversi colori. Gli effetti di colore sono stati concentrati

principalmente in prossimità degli spigoli in modo da rendere non troppo invasivo l’effetto cromatico sull’insieme. Il risultato è veramente piacevole e riesce anche a dissolvere quel sapere un po’ troppo tecnicistico di alcuni lavori di Renzo Piano. Se l’intervento rappresenta un modello di solidarietà, organizzazione e partecipazione (giovani studenti sono stati coinvolti durante il cantiere) niente si può eccepire anche alla qualità del manufatto sia essa realizzativa che formale. L’unico aspetto quindi di cui mi posso rammaricare è che questo edificio, una volta completato il restauro del Forte Spagnolo e del relativo auditorium, sarà smantellato.


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3C

studio as architetti

Bazzano

L�aquiLa

La frazione di Bazzano è adagiata su una bella pendice collinare, in posizione elevata, ed è stata scelta per ospitare il quartiere edilizio del progetto C.a.s.e.. Il nuovo centro polifunzionale per l’infanzia nasce come servizio a questo giovane quartiere. A differenza del progetto emiliano il complesso non si sviluppa a partire da un bando pubblico, ma da una iniziativa privata. È un dono del Gruppo Fiat al capoluogo abruzzese. Pur avendo una metratura simile alla scuola di Mirabello — circa 1.300 mq — il terreno e l’ampiezza del lotto hanno permesso al gruppo di progettisti

torinesi di sviluppare la volumetria a disposizione in più corpi di fabbrica sfruttando il naturale declivio del terreno e la bella vista sulla vallata. Il complesso si articola in cinque volumi puri di diverse dimensioni, dal più grande all’ingresso al più piccolo che chiude la composizione. Il più grande (20x29 ml), è un modulo polivalente che ospita, oltre agli uffici gestionali e di servizio, un ampio spazio pluriuso per le attività ludiche e motorie dei bambini e una sezione di scuola materna. I restanti quattro moduli, raggruppati due a due da spazi comuni, ospitano rispettivamente un blocco di scuola

associati

testo di Tommaso Rossi Fioravanti


↓→ Rendering di progetto


↑Prospetti ↑Planimetria generale

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materna per due sezioni (14x10 ml) e uno di asilo nido con lattanti e divezzi (10x8 ml). I cinque blocchi sono collegati da un bruco, come gli stessi architetti lo definiscono, che funge da elemento distributivo e che inizia sinuoso all’interno del primo modulo per poi divenire elemento indipendente in legno lamellare a ridosso della scarpata della collina. Il fronte verso valle è invece completamente vetrato. L’idea iniziale di progetto secondo lo Studio AS è stata quella di proporre

dei parallelepipedi elementari che richiamassero la vocazione automobilistica della casa torinese, in cui le grandi vetrate aperte verso valle potessero essere lette come dei parabrezza di autovetture. Non so quanto questo parallelismo tra fabbrica e luogo d’infanzia possa giovare. L’impressione che il complesso ha evocato invece in me, sin dal primo colpo d’occhio, è quella di un giocattolo che un bimbo si è divertito a smontare e ha lasciato sparso nella stanza per la gioia delle maestre.


Focus


architettura&catastroFe

Emanuele Piccardo

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Alluvioni, terremoti, tornado, uragani, sono alcune delle catastrofi naturali/ artificiali che, sempre con maggior frequenza, si verificano nel mondo. Dalle Cinque Terre in Liguria, al Cile, dal Giappone agli Usa è l’azione dell’uomo la causa principale dei disastri ambientali. L’incuria del territorio e il suo abbandono, l’assenza di una politica di difesa del suolo e di una pianificazione ragionata, la sottovalutazione dei rischi di alluvioni e terremoti impedisce una prevenzione sia in termini di sicurezza dei cittadini sia in termini di architetture residenziali in grado di resistere alla forza della natura. Si tende così a intervenire a catastrofe avvenuta. Infatti cercando su Google architetture per l’emergenza non appare nessun progetto antecedente gli eventi ma solo architetture post-disastro. Una ricca bibliografia di studi, ricerche e report sul post-Katrina e post-tsunami non riesce a incidere nelle politiche ambientali e gestionali dei disastri. Le cause che scatenano le catastrofi non sono entrate neanche dentro la recente campagna elettorale americana, mentre l’uragano Sandy e la gestione dell’emergenza da parte della Fema (la protezione civile americana), hanno consentito a Barack Obama di essere percepito come quel commander in chief in grado di guidare la nazione fuori dalle difficoltà. Un cambio nella prevenzione e nella preparazione dei cittadini al peggio, rispetto al 2005, quando la stessa Fema, gestita dai repubblicani, aveva dimostrato, con Katrina, di non aver previsto un piano adeguato per l’evacuazione con il risultato che i morti furono 1.833 per un totale di 100 miliardi di dollari di danni, contro i 50 di Sandy e le 182 vittime (110 in Usa). Basta scorrere le pagine del sito della Fema per rendersi conto della

distanza che ci separa nell’affrontare la catastrofe. Confrontando il sito internet della Protezione Civile Italiana con quello della consorella americana inerente l’emergenza dell’alluvione, nel primo caso, in una pagina si esauriscono le istruzioni come ascolta la radio, guarda la televisione per apprendere eventuali avvisi di condizioni meteorologiche avverse, chiudi il gas, avere a disposizione una torcia, insomma regole di buon senso. Quando, però, si scorrono le fasi dell’emergenza nel capitolo che riguarda il dopo la prima regola è così spiegata: «raggiunta la zona sicura, presta la massima attenzione alle indicazioni fornite dalle autorità di protezione civile, attraverso radio, Tv e automezzi ben identificabili della protezione civile». Infatti gli abitanti della Val di Vara, contesto appenninico dell’entroterra spezzino, a ridosso delle Cinque Terre, con la popolazione a maggioranza di anziani, dopo essere scampata all’alluvione, torna in casa e accende la Tv per sentire, chissà in quale canale, le indicazioni della Protezione Civile? Il vero problema è che la maggior parte dei cittadini non sa quale comportamento adottare durante lo svolgersi di una catastrofe naturale, in quanto non vengono fatte ne esercitazioni ne prevenzione per educare i cittadini. Nel sito della Fema alla voce flood si consultano Before, During, After, Flood Insurance, Spring Flooding. In Before viene visualizzata una mappa delle aree geografiche soggette al rischio dell’alluvione, le cause, le regole per guidare l’auto durante il fenomeno. Nella sezione During, invece, vengono definite le procedure per proteggere se stessi e i propri immobili ma la vera sorpresa è in After. Qui i cittadini sono invitati, attraverso un manuale redatto dalla Croce Rossa, Repairing your flooded home,

a fare le prime riparazioni per rendersi indipendenti dai soccorsi in modo che non venga distolta l’attenzione verso coloro che necessitano, maggiormente, di aiuto, ma soprattutto di far capire che lo Stato Federale non è il padre che ti accompagna in ogni istante della tua vita come accade in Italia. È possibile, inoltre, attraverso il National Flood Insurance Program (http://www.fema. gov/national-flood-insurance-program-2/ flood-insurance-rate-map-firm), individuare l’agente assicurativo per stipulare contratti contro i danni da catastrofe. Per non parlare delle indicazioni dettagliate fornite per difendersi dagli altri natural disasters come uragani, terremoti, tornado, tsunami, incendi, desertificazione. Insomma il confronto ci vede soccombere, nonostante l’Italia sia un paese con terremoti e alluvioni sempre più frequenti, dovrebbe aver sviluppato strategie di prevenzione e di azione da molto tempo, ma così non è. La causa va ricercata nell’assenza di una politica di gestione dell’emergenza senza prevenzione, senza educazione civica sulla catastrofe, senza un impegno diretto degli architetti nel progettare alloggi per l’emergenza o in grado di resistere ai fenomeni naturali. Purtroppo le inadeguatezze di Protezione Civile, architetti e cittadini vanno ascritte all’assenza di una cultura del disastro. La mancanza di quella tensione di temporaneità e nomadismo, propria del popolo americano non ci appartiene, ancorati come siamo alle famiglie e al feticismo nei confronti delle case di proprietà. In questo senso la catastrofe prima di tutto è una questione culturale. Una catastrofe va conosciuta e si devono sistematizzare le problematiche che essa causa, per fare esperienza e ridurre al


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minimo le perdite di vite umane. Insomma occorre una progettualità ad ampio raggio e non solo una risoluzione militaristica dei problemi con l’uso di tende e spazi buoni per l’Afghanistan ma non per comunità di anziani e bambini. In questo senso il ruolo degli architetti è centrale nell’affrontare il problema dell’alloggiamento post-disastro. Purtroppo dobbiamo constatare come gli architetti preferiscano divertirsi nel disegnare architetture formali, piuttosto che fare ricerche serie utili alla società civile. Un esempio in questo senso è il concorso What If New York City. Organizzato nel 2007 dal New York City Office of Emergency Management, dalla Rockfeller Foundation e da Architecture for Humanity, ha dimostrato come venga trattato il tema degli alloggi provvisori, con soluzioni formali che non considerano, all’interno di uno scenario di uragano, le tecnologie costruttive che possano resistere alla sua forza. D’altronde la stragrande maggioranza delle case in America è costruita con il sistema del balloon frame, inadatto a resistere alle forze e ai venti di uragani e tornadi. Il materiale più adatto è il cemento come dimostrano alcuni studi della Mississipi State University Southern Climatic Housing Research che evidenziano, come una sorta di edificio bunker, senza tetto sporgente e ben ancorato al suolo, possa resistere ai fenomeni naturali sempre più frequenti. Ovviamente esistono anche altre soluzioni, come il rinforzo con strutture metalliche da applicare internamente a case costruite in legno, di cui esiste un variegato catalogo di siti web commerciali, ma il cemento rappresenta una difesa molto più stabile, proprio per le caratteristiche del materiale, dalla catastrofe. Forte di questi studi e di una

ricerca ventennale sul tema dell’abitare, Anna Rita Emili/altro_studio, da alcuni anni sta studiando il fenomeno della natura in movimento, in relazione al progetto di architetture resistenti alle catastrofi. In questo modo la catastrofe è un tema di ricerca affrontato sia dal punto di vista scientifico sia da quello progettuale. Due architetture, per ora solo sulla carta, ma studiate nei minimi dettagli, rappresentano una soluzione al problema: la Casa Pozzo (2007) e la Bunker House (2008). La casa pozzo si basa sul principio di uso dell’acqua, non solo come fonte della vita, ma come elemento generatore dello spazio. Così viene proposta un’unità abitativa «che vede proprio nell’acqua la principale componente architettonica, e non solo: l’acqua si può bere; con l’acqua si può mangiare; (attraverso l’acqua coltura) si possono coltivare prodotti ortofrutticoli (serre idroponiche); si può fare sport (piscina); si può fare fisioterapia (vasche idromassaggio); si può riscaldare gli ambienti (pompe geotermiche); si può illuminare (attraverso generatori elettrici e inverter) gli ambienti». Questi elementi vengono introiettati nel progetto definendo un volume puro e brutalista, realizzato in cemento armato, resistente ai fenomeni delle inondazioni. «La casa pozzo — continua la Emili — si trasforma dunque in un rifugio, uno spazio intimo, protetto dall’esterno, tutto rivolto verso la corte interna caratterizzata da una grande piscina. Da sempre il pozzo è considerato come uno strumento in grado di ricevere e recuperare l’acqua e nello stesso tempo assume caratteri architettonici, diventa cioè uno spazio: posto fuori terra per un piano e per molti piani sotterraneo. La corte di forma quadrata presenta (al contrario del pozzo

di San Patrizio) degli elementi aggettanti sul vuoto centrale, dei parallelepipedi trasparenti che contengono acquari per l’acquacoltura, serre idroponiche. “…” Nel volume fuori terra trovano disposizione: una zona giorno e una notte, così come nel piano inferiore, mentre nei livelli sottostanti vengono disposti i locali di servizio: una cisterna per il raccoglimento dell’acqua piovana proveniente anche dalle vicine foggare (un sistema di recupero dell’acqua piovana tipico dei paesi caldi e del sud Italia, in cui l’acqua viene convogliata in canali sotterranei) e tutti i sistemi necessari per l’acquacoltura, le serre e il riscaldamento». Una evoluzione della Casa Pozzo è la Bunker House, vero e proprio manifesto brutalista contemporaneo, non è un caso che Emili sia autrice di ben due ricerche sul New Brutalism: Puro e Semplice. L’architettura del Neo brutalismo e Architettura estrema. Il neo brutalismo alla prova della contemporaneità. Il progetto della casa «punta alla strumentalizzazione di un determinato fenomeno catastrofico, ponendolo a servizio dell’architettura. Natura e architettura insieme in un rapporto che si colloca tra ragione e immaginazione. La contemplazione della natura e dell’architettura che è meraviglia e stupore ma allo stesso conferisce, all’osservatore, un senso di smarrimento. L’architettura si inserisce così in una espressione di potenza annientatrice della natura, di fronte alla quale l’uomo prende coscienza del proprio limite razionale, riconoscendo la possibilità di una dimensione sovrasensibile, da esperire sul piano puramente emotivo. La casa si pone come un bunker in cemento armato trattato e impastato con scorie di alto forno, (resistente, quindi a qualsiasi intervento caratterizzato dal materiale


1-3 Bunker House di Anna Rita Emili/altro_studio

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acqua). Parliamo di una casa a corte che presenta delle fessure, in ciascun lato del volume, per consentire all’acqua (in caso di piena) di defluire, senza alcun problema, verso la corte interna, trasformandola in un grande acquario. Il volume in cemento presenta degli elementi in ferro: una passerella di ingresso, i pannelli oscuranti delle finestre, una piattaforma sulla copertura e dei semplici ferri a vista che fungono da eventuali ormeggi, nei casi di totale allagamento della casa». Certo, occorre un cambio radicale di mentalità per adottare una tipologia abitativa così estrema ma è una soluzione alle banali

casette altoatesine in legno realizzate dal governo Berlusconi, per costruire nuove città satelliti, concetto ormai superato e inadeguato. Ciò che è evidente è l’assenza di una pianificazione urbana che, nel momento della realizzazione di alloggi provvisori, conferisca un nuovo senso urbano all’insediamento attraverso l’inserimento di spazi pubblici come piazze, centri di aggregazione sociale e religiosa. Questo consentirebbe alle comunità di sentirsi meno isolate e astratte dal loro contesto abituale, tuttavia in Italia non si è mai proceduto in questa direzione. Shigeru Ban, invece, fin dal 1995 ha agito

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in maniera differente. Per il terremoto che distrusse Kobe progettò, su invito dell’Onu, le Paper Log Houses, realizzate in tubi di cartone, facili e veloci da montare, riutilizzate nel 2005 per il terremoto di Fukuoka. Proprio lì utilizzò, per la prima volta, il Paper Partition System che consiste in una serie di tubi di cartone, incastrati gli uni agli altri, a formare un telaio di base quadrata, piccole unità spaziali modulari, a seconda della densità del nucleo famigliare, delimitate da teli bianchi per preservare la privacy. Questo sistema consente, nelle prime fasi dell’emergenza, con un alto numero di rifugiati, un veloce


4-7 Casa Pozzo di Anna Rita Emili/altro_studio

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montaggio e la risoluzione rapida al problema dell’alloggio pensato all’interno di strutture non danneggiate dal sisma. Anche per il terremoto del 2011 nella prefettura di Myagi a Onagawa, oltre all’uso del Paper Partition, la seconda fase attuata da Ban consiste nel progettare unità abitative formate da container assemblati con metrature di 19,8 mq per un nucleo di due persone, 29,7 per tre o quattro persone e infine 39,6 per più di quattro. Inoltre la disposizione disegna dei veri isolati urbani, con un’attenzione alla scelta delle funzioni. Non è un caso che l’architetto giapponese non pensi

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solo all’abitare ma anche al centro di aggregazione sociale e all’atelier dove far giocare i bambini. C’è molta demagogia nell’affrontare il tema delle architetture per la catastrofe. È il caso di gran parte dei progetti di Architecture for Humanity, esemplare il Biloxi Program, elaborato per la ricostruzione post-Katrina, dove si mischiano architetture contemporanee che re-interpretano le tipologie del cottage, come nei progetti di Marlon Blackwell e Huff & Gooden, ad edilizia residenziale che invece li riproduce uguali; peraltro, in entrambi, si ricostruiscono

le case con la stessa tecnologia senza pensare che il prossimo uragano le spazzerà via nuovamente. Il fenomeno delle onlus del progetto da Architecture for Humanity a Architecture sans frontières è in atto da un decennio e rappresenta un modo banale nell’affrontare problemi complessi, velate da una eccessiva ideologia. Il valore di aiutare i rifugiati da guerre e catastrofi non è in discussione ma il modo strumentale con la quale si usa l’architettura è controverso. Molti sono gli esempi, dove architetti e ingegneri non producono progetti di architettura ma bensì


8-9 Paper Partition System di Shigeru Ban 10-12 Onagawa Container Temporary Housing di Shigeru Ban

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edilizia (che poi chiamano architettura sostenibile), perché si innamorano del processo e delle finalità sociali, senza risolvere i problemi attraverso l’architettura ma riproponendo, tali e quali, modelli linguistici e tecnologici tipici del vernacolare; una modalità operativa determinata da un’assenza di ricerca progettuale in cui, spesso, confluiscono architetto di scarso valore. All’interno di questa idea di architettura al servizio del sociale spiccano i progetti di Rural Studio, fondato da due professori Dennis K. Ruth e Samuel Mockbee nel 1993, per intensità e qualità degli spazi. Progetti che, coinvolgendo gli studenti della Auburn University, nella realizzazione pratica delle loro tesi di laurea, riescono nel duplice obiettivo di risolvere un problema contingente di case, fermate degli autobus o chiese, per uno degli stati più poveri degli States, l’Alabama, e consentono ai giovani progettisti di fare subito esperienza sul campo. Questa nuova frontiera della progettazione rappresenta, anche in Italia, l’unico modo per affrontare i problemi connessi alle emergenze ambientali e sociali, concentrandosi non solo nelle aree degradate degli slums africani e sudamericani, ma in quegli interstizi delle città italiane dense di difficoltà che aspettano politiche urbanistiche e sociali che ne migliorino le condizioni di vita. Occorre che la politica si faccia carico delle istanze dei cittadini, che si attui un progetto di Stato più efficace uscendo dal concetto del vivere quotidianamente in emergenza. Così come la recente cronaca ci ricorda ogni settimana, dove una intera nazione viene vessata da alluvioni, frane e morti, un détournement nelle pratiche e nelle azioni sul territorio consentirebbe minori rischi, sia nella salvaguardia del territorio sia delle comunità locali.


BanaLità deLLa rovina versus rovina della banalità Elisa Poli

«Or tutto intorno Una ruina involve, Dove tu siedi, o fior gentile, e quasi I danni altrui commiserando, al cielo Di dolcissimo odor mandi un profumo, Che il deserto consola». Giacomo Leopardi, La Ginestra, o il fiore del deserto Pars destruens “Tu n’as rien vu à Hiroshima” dichiara affettuosamente la voce fuori campo del protagonista a quella un po’ infantile e meccanica di Emmanuelle Riva nell’incipit del film di Alain Resnais, Hiroshima mon amour1. È il 1959 e l’ospedale della città giapponese, distrutta dalla bomba atomica, raccoglie come una wunderkammer dalle tinte macabre i corpi vivi e mostruosi di una catastrofe caratterizzata da un tempo di accadimento fino ad allora sconosciuto. I cataclismi ambientali nulla possono in confronto alla durata degli effetti della tragedia progettata dall’uomo: il potere della scienza perverte definitivamente il rapporto classico tra natura e cultura eliminando in modo quasi definitivo il primo termine dalla dialettica fenomenologica della Storia. Il corpo umano diviene perfetto omologo della cultura materiale prodotta per il suo stesso benessere: reperto archeologico sospeso tra passato recente — dettagliatamente noto — e futuro prossimo — volutamente imprevisto — il corpo in rovina viene monitorato in ciascuna fase della sua obsolescenza fino a trovare collocazione non più nella tomba, lutto privato, ma nel memoriale della tragedia, compianto pubblico. Nella piazza bombardata, ormai svuotata del suo significato storico di luogo d’incontro e aggregazione — quale rappresentazione dove ogni confine è stato violato? — su di un plateau asettico

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e asfittico emerge il totem dell’ossessione moderna per l’eternità misurabile e farmacologica: il museo, ultima difesa contro l’inarrestabile avanzata del nulla. Pietre, cocci, suppellettili, automobili, gioielli, vestiti, scarpe, cappelli e capelli, esposti con precisione millimetrica, sono i tristi reperti del testamento umano, accompagnati da minuziose didascalie che raccontano di quando, appena dopo l’esplosione, le donne della città si pettinavano perdendo ciocche intere dalla testa. Il museo di Hiroshima progettato da Kenzo Tange è paradigma di un genere: la ragione del collezionare non è più legata alla possibilità di studio e di verifica dei dati empirici contenuti nei singoli oggetti esposti, quanto piuttosto alla tutela stessa dei dati. Leggi sempre più numerose impongono all’uomo metodi e tempi per salvarsi, almeno apparentemente, dall’oblio. Un’inversione di fattori si compie: la scienza diviene il mezzo utilizzato per la conservazione della forma delle cose mentre le cose non sono più utili a formulare una conoscenza. E il reperto — resto — trova la sua collocazione nell’unico luogo che ormai può accoglierlo: una struttura — edificio, parco o città — immaginata per astrarlo dal divenire del tempo, isolandolo in un racconto tanto dettagliato quanto falso. Museo/tomba, sineddoche del trattamento riserbato alla città novecentesca che, distrutta, deve essere ricostruita. Ma anche la ricostruzione possiede una sua rapida obsolescenza — di materia e di uso — così da richiedere la soluzione di un problema: cosa fare di un territorio la cui storia è legata alla presenza di un numero altissimo di edifici privi di qualità e di architetture la cui parabola di vita sembra concludersi con la cessazione del sistema di funzioni per

cui erano state progettate? La catastrofe c’impone di lavorare con urgenza su di un tema dal metabolismo lentissimo: cosa salvare e cosa raccontare dopo il tempo spezzato del danno? La chirurgia plastica che applichiamo ai luoghi sembra non salvarci dalla putrefazione del significato che li animava. Non vi è più alcun piacere nella conservazione della rovina novecentesca e il sublime è rimpiazzato dal sinistro senso d’ingovernabilità di una tecnica che si è fatta scopo. Calcolabile, misurabile, prodotta, indotta, verificata, la rovina rimanda esattamente a tutte le sue omissioni laddove l’uomo può decretarne l’esistenza, rallentarne il collasso o la definitiva trasformazione ma mai ricomporne la ragione. La rovina della postmodernità/oscenità è una memoria di fallimento del credo scientifico perché dichiara attraverso la propria incompiutezza di senso oltre che di forma il limite stesso della cultura che la mantiene in vita: ora, ormai, è finalmente un simulacro. Pars construens Tokyo, 2019, due squadre di motociclisti si affrontano lungo le bande di asfalto e neon che attraversano la metropoli come indicatori di un tempo eternamente presente. Le musiche di Shoji Yamashiro scandiscono il disegno della trasformazione urbana: layer di grattacieli si sormontano in un arcipelago di roccaforti in calcestruzzo e vetro immaginati per formare almeno tre livelli di racconto. Lo spettatore/archeologo compie un ribaltamento rispetto allo studio classico del reperto e invece di scavare nella terra alza gli occhi al cielo per vedere come, attraverso i decenni, il gigantismo verticale abbia implementato le proprie capacità realizzative. La città di Akira, capolavoro di Katsuhiro Ōtomo,


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ha sviluppato un sistema di rigenerazione cellulare rapidissimo, e nuclei abitativi appena progettati sostituiscono a ritmo incalzante quelli precocemente obsoleti. La violenza dei gesti corrisponde ad una ossessiva pratica di travestimento spaziale: negata la memoria storica — nulla del passato viene conservato — qualunque trasgressione è concessa2. Le rovine, ancora, esistono, ma appaiono per un tempo brevissimo e vengono subito fagocitate all’interno di un progetto di bigness. Se il museo/memoriale ci spinge a verificare la catastrofe al microscopio, come progressivo deterioramento della cellula, la megalopoli/autoimmune ci richiede d’introiettare il macrocosmo dell’eterna rinascita, come incessante autoriproduzione del corpo, per rassicurarci su di un destino che cancella il dolore della perdita. Il farmaco più potente non risulta più essere la preservazione dei luoghi ma, piuttosto, la loro vertiginosa sostituzione. La rovina adesso è solo un breve momento nello svolgersi del racconto sull’eterna giovinezza: il prezzo da pagare per aver appreso a governare il decadimento delle forme è l’autarchia stessa dei corpi che vengono curati con dosi massicce di chemioterapici. L’unicità/verità del reperto archeologico è sostituita dalla riproducibilità dell’opera per cui l’originale risulta ormai essere solo un’ultima falsificazione possibile. Se le forme più antiche di compianto e di memoria collettive lavorano sulla capacità di creare una narrazione plausibile, la rovina contemporanea, salvata e curata, dichiara piuttosto la propria volontà di offrire una cronaca esatta. Le domande su cosa, come e perché conserviamo un dato reperto si sommano a quelle del voyeurismo meno educato: se la rovina classica nella sua ambiguità di senso rimandava alla

seduzione del luogo, quella postmoderna, esplicitando ogni sua possibilità d’uso, non rinvia più a nulla se non alla pornografia della propria stessa apparenza. La precisione della conservazione scientifica diventa così castrazione di senso e il potere metaforico di ogni tragedia si risolve nell’impotenza della propria rappresentazione. «Lo spettacolo di quelle rovine recenti — racconta Marc Augé — costituiva una specie di enigma di cui avvertii immediatamente l’esistenza senza identificarne i termini né coglierne la natura»3. Esistono almeno due possibili declinazioni della rovina contemporanea: una legata all’obsolescenza e alla perdita di significato funzionale dell’oggetto/ luogo, l’altra riferibile alla cessazione del discorso che la rappresenta. Così come nella Tokyo di Akira è lecito sostituire, aggiungere, interpretare ovvero reiterare infinitamente il rito della comunicazione dei segni, nella Berlino post 1989 si produce una improvvisa schizofrenia di senso. Tre istanze convivono: preservare il vuoto, praticare le rovine, anche quelle più banali, e costruire il nuovo. La complessità del progetto si risolve in una convivenza dolorosa tra memoriali silenziosi, bordi grevi, case occupate e quartieri firmati da archistar. Neanche Ridley Scott in Blade Runner, immaginando la Los Angeles del 2019, aveva ostato tanto4. Pars ludens Nel 2011 Rem Koolhaas e Hans Ulrich Obrist pubblicano Project Japan: Metabolism Talks, la prima ricerca di carattere internazionale sulle plurime vicende che hanno interessato il movimento metabolista giapponese5. Alla radice delle ricerche di questo gruppo di architetti operanti soprattutto negli anni Sessanta convivono tre forme d’inquietudine per il futuro del paese: il

rapidissimo sviluppo economico che porta alla produzione di una cultura urbana incontrollata, la disponibilità di tecnologie avanzate prive di orientamento etico e una perdita di radici profonde nelle aree più urbanizzate. La risposta megastrutturale proposta dal Gruppo Metabolista risolve attraverso un processo di convivenze imposte il dialogo tra passato e presente. Edifici monumentali sovrastano le città a due dimensioni della provincia nipponica come gigantesche teche chiamate a sorvegliare la precarietà della memoria umana. Dall’altra parte dell’oceano, negli stessi anni, Robert Venturi, Denise Scott Brown e Steven Izenour stanno mappando l’iconografia ludica di Las Vegas producendo un’attenzione altissima sugli stessi temi introdotti dai metabolisti6. Ma qui le risposte sono efficacemente ribaltate e la luttuosa gravità del paese colpito dalla bomba atomica viene rimpiazzata dalle stroboscopiche luci di una 24 hour party people in pieno deserto. La trasgressione elevata a sistema si espande anche sull’architettura della città che diviene un enorme pachwork di stili, stilemi, plastiche e insegne luminose. Catturati dalla valenza dei simboli, i tre autori ci offrono più di quanto vorrebbero, trasformando Las Vegas in una teoria urbana contemporanea. Finalmente privata di qualunque argomentazione morale, la città ludica può eliminare senza colpa ogni traccia di obsolescenza e introdurre la falsificazione come nuovo elemento di memoria. Alla Biennale d’architettura del 2008, Diller&Scofidio+Renfro presentano Chain City, un’installazione che si compone di due schermi sui quali sono proiettate immagini della Venezia reale e immagini delle imitazioni di Venezia nel mondo. La memoria non è più legata al riconoscimento di


emergenza Lo-Fi Giovanni Avosani

elementi originali dei luoghi, anche se frammentari e frammentati, quanto, piuttosto, all’estrapolazione di caratteri distintivi presenti in ciascuna memoria condivisa, siano essi originali, falsi, imitati o interpretati. La genericità della megalopoli futuribile dialoga con dignità insieme alle pietre descritte da John Ruskin a proposito della Venezia ottocentesca. E un manipolo di turisti fotografa ammirato un finto Ponte dei Sospiri collocato dentro un casinò del Nevada. Le rovine di Venezia, ossessivamente musealizzata e conservata, si trovano in ciascuna di queste riproduzioni che ne rivelano la profonda disfunzione di senso: controllata da un’oligarchia di tassidermisti le è ormai negato il ritorno alla vita ma, anche, un degno trapasso. Sovraesposta a se stessa consuma l’eterno rito del proprio valore intrinseco senza sapere che il vero esotismo ormai si è spostato nelle sue riproduzioni. Banalizzata, è proprio la banalità del suo falso contemporaneo a interpretarne la fascinazione senza cadere nella paura dell’abbandono. Lo stereotipo, nella sua banalità, salva la città dalla disgrazia della conservazione e la rovina, finalmente, è solo un falso.

--1 Alain Resnais, Hiroshima Mon Amour, Francia-Giappone 1959. 2 Katsuhiro Ōtomo, Akira, Giappone 1988. 3 Marc Augé, Rovine e macerie. Il senso del tempo, Torino 2004, pp. 20-21. 4 Ridley Scott, Blade Runner, Usa, 1982. 5 Rem Koolhaas, Hans Ulrich Obrist, Project Japan: Metabolism Talks, Taschen, Köln 2011. 6 Robert Venturi, Denise Scott Brown e Steven Izenour, Imparare da Las Vegas, Quodlibet, Macerata 2010.

«Viaggiando nelle campagne della valle padana è difficile non sentirsi stranieri. Più dell’inquinamento del Po, degli alberi malati, delle puzze industriali, dello stato d’abbandono in cui volge tutto quanto non ha a che fare con il profitto, e infine d’un edilizia fatta per domiciliati intercambiabili, senza patria né destinazione — più di tutto questo, ciò che sorprende è questo nuovo genere di campagne dove si respira un’aria di solitudine urbana». Gianni Celati, Verso la Foce Ripercorrere fisicamente i luoghi del terremoto, spazi che sono nella memoria condivisa legati alle descrizioni non retoriche di Celati, condiziona in maniera sensibile la percezione dell’evento sismico, non più sofisticata dal filtro delle televisioni e dei giornali. La parabola d’attenzione mediatica oggi è arrivata a conclusione, il tema della ricostruzione, del recupero del tessuto produttivo e delle dinamiche sociali sono fuori dai sistemi di divulgazione di massa. Come già accaduto dopo L’Aquila la diminuzione dello sciame sismico ha indotto un progressivo superamento della necessità di cronaca. Augé definisce Supermodernità come «l’effetto combinatorio di una accelerazione della storia, di un restringimento dello spazio e di una individualizzazione dei destini»1, così questo evento diventa il vero esempio di emergenza supermoderna, non più capace di indurre una necessità di narrazione ma una riduzione alla sola cronaca. La sensazione che raggiunge lo spettatore quotidiano di quei luoghi è di ordinaria banalità, se si escludono i centri storici dove i percorsi di ripristino impiegheranno tempi lunghi, la diaspora urbana ha prodotto una

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costellazione di problematiche minori, episodi disaggregati che nonostante la ripetitività, non raggiungono la massa critica per superare la soglia dell’attenzione. L’emergenza è Lo-Fi2, a bassa definizione, non permette a causa della conformazione urbana dei territori colpiti di identificarne un simbolo, un archetipo da difendere; la diaspora urbana ha definitivamente compromesso il sistema di riconoscibilità del territorio emiliano. Il terremoto come emergenza ha colpito un sistema privo di identità collettiva, un territorio ambiguo ancora incerto nel percorso di affrancamento dalle realtà agricola. Micro frammenti similurbani punteggiano una superficie produttiva: l’agricoltura come tessuto connettivo ha perso il proprio ruolo, superata dalla volgare rincorsa alla dimensione industriale. Non senza colpa il governo del territorio si trova a dover combattere con una dispersione che complica infinitamente il lavoro di ricostruzione. Si assiste ad una emergenza connettiva nuovo paradigma dei sistemi di condivisione, palesando la definitiva scomparsa dell’intelligenza collettiva3 anche nei luoghi ancora profondamente territorializzati. Questa tragedia è personale, non colpisce una comunità univoca, uniforme, stratificata e strutturata, invece definisce una situazione non ancora visibile, non ha la forza comunicativa de L’Aquila ne colpisce l’immaginario collettivo come le Cinque Terre. L’immagine che sintetizza il pensiero sull’evoluzione del nostro territorio — vedi immagine 1 — evidenzia una situazione intermedia a bassa risoluzione: l’edificio storico che comincia un lento declino, forse per colpa del terremoto forse per incuria e


1 Sintesi del pensiero sull’evoluzione del territorio.

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abbandono. Questa fotografia potrebbe essere l’archetipo dell’emergenza, dove il patrimonio rurale incerto viene colpito definitivamente, ogni prospettiva di conservazione, riutilizzo o riconversione scompare. Il panorama dell’abbandono si sovrappone perfettamente al

panorama del terremoto, si colgono con difficoltà le dinamiche che hanno portato alla configurazione attuale, si potrebbero scambiare, fraintendere o mescolare; il terremoto è l’ultimo atto di un processo di disinteresse, un condono definitivo per il panorama

padano. L’arco temporale trascorso giustifica un approfondimento ulteriore che, superi la sola ed inevitabile ricostruzione, ma che permetta di introdurre temi di discussione funzionali e limitare le dinamiche fallimentari che hanno prodotto l’attuale stato


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delle cose. Urbanistica, politica e cultura progettuale hanno permesso e giustificato la perdita del patrimonio culturale, fisico, architettonico e sociale che trovava nei territori della bassa una tipicità raccontata da Zavattini come Tondelli, Celati. Questa prima analisi non vuole dimostrare un eccessivo cinismo inteso come forma di disprezzo per l’evento di cui parliamo, invece è pragmaticamente orientata, vuole contribuire alla costruzione degli strumenti di comprensione del territorio prima ancora che investigare le strategie di ricostruzione. Non si può affrontare la lettura dell’emergenza, delle disgrazie esclusivamente tramite l’impulso irrazionale, si vuole invece superare la prima e giustificata reazione come atto di liberazione verso quanto non si può comprendere. A questo punto l’evento catastrofico rappresenta il primo momento dopo una stagione di progressiva urbanizzazione per stabilire nuove prospettive di costruzione del paesaggio rurale. Occorrerebbe prendere spunto dalla crescente richiesta di difesa dei centri storici colpiti: quando fino al giorno prima, ogni strumento urbanistico era stato pensato, strutturato e realizzato per favorire la rendita fondiaria dei terreni non ancora urbanizzati, togliendo materia prima per le produzioni agricole di eccellenza che qualificano queste provincie. Abbiamo assistito ad una continua modificazione del concetto di territori rurali, fino al quasi totale disinteresse nei confronti di questi ultimi, questi condensavano già agli aspetti di urbanità che si vuole promuovere nella ricostruzione in quanto portatori delle istanze sociali culturali e storiche. Questi luoghi indifferenti mancano della componente

urbana della stratificazione, la strategia insediativa originaria; famiglie e generazioni si sono susseguite nella costruzione, fruizione e manutenzione dei manufatti, come semplice estensione del legame intrinseco con il territorio. L’indifferenza verso le case sparse4 nasce forse nell’interruzione di questo logico susseguirsi di generazioni legate al proprio dominio fisico e sociale. Le dinamiche di abbandono che anche i centri dei piccoli paesi hanno subito sono la conseguenza di scelte portate a compimento tramite una programmazione irresponsabile, coerente ad un modello di crescita mai compreso. Come uscire dall’immobilismo di un territorio che ha reagito solo dopo l’emergenza senza comprendere come il processo di decadimento ed abbandono della loro stessa cultura fosse già in corso? Celati sottolinea la logicità dell’allontanamento dalle case sparse, ma non le giustifica, sarebbe il caso di pensare alla ricostruzione, non solo edilizia, come all’ultima occasione per comprendere quanto si è perso ben prima del terremoto stesso. Si potrebbe costruire un ponte con il lavoro di Incompiuto Siciliano5, dove la ricerca e disvelamento delle architetture incompiute diventa uno strumento per la comprensione del territorio così le architetture abbandonate (case sparse per usare un tema già codificato da Celati) porterebbero a mettere in risalto le strutture residuali dell’ambiente rurale. Le dinamiche che hanno prodotto gli incompiuti sono distanti da quelle responsabili degli abbandoni, ma questo supporta ulteriormente la tesi che il governo del territorio abbia prodotto una costante indifferenza tra gli

operatori che lo gestiscono, gli abitanti e le prospettive di appropriazione dei luoghi. Esiste una doppia possibilità: continuare, come sembra già accadere, una riproposizione del sistema che ha prodotto l’emergenza, oppure immaginare e progettare una prospettiva capace di far comprendere come il sistema culturale debba confrontarsi con il tema Lo-Fi, bassa definizione come strategia di approccio programmatico al tema della ricostruzione. Visioni e narrazioni prima di edifici, comprensione prima di ricostruzione, il non finito come scelta programmatica che possa indurre trasformazioni ambientali reversibili e dinamiche modificabili: strumenti per la costruzione di un processo critico.

--Marc Augé, Rovine e macerie, Bollati Boringhieri, Torino 2004, p. 49. 2 Il concetto di Lo-Fi viene esplorato nel saggio LO-FI: architecture as curatorial practice (Mario Lupano et al.), Marsilio Editori, Venezia 2010. 3 Silvano Tagliagambe, Lo spazio intermedio, EGEA, Università Bocconi Editore, Milano 2008. 4 Si rimanda al lavoro di Gianni Celati di investigazione del territorio attraverso il documentario Visioni di case che crollano (Case sparse), Fandango libri, 2011. 5 Incompiuto Siciliano è un progetto di Alterazioni Video in collaborazione con Claudia D’Aita ed Enrico Sgarbi, che pone l’attenzione sul patrimonio pubblico incompiuto, promuovendo strategie di lettura del fenomeno ed interventi locali fino al Parco Archeologico dell’Incompiuto, come intervento di promozione turistica. 1


Paesaggi interrotti Michela De Poli

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Il paesaggio racconta le storie degli uomini, scrive Eugenio Turri. Nel caso del paesaggio della valle del Vajont c’è un’unica storia in cui confluiscono molte vite (e morti). Un racconto presuppone un inizio, uno svolgimento, e una conclusione, presuppone una trascorrere, una sequenza in cui gli avvenimenti si succedono. Questo non sembra avvenire nei paesaggi del Vajont, perché quello che appare nei luoghi del disastro, non è il fluire degli eventi, il passare del tempo, il muoversi tra passaggi temporali diversi in cui ogni fase riesce a segnare (nel bene e nel male) il terreno in cui transita. Qui il tempo ha la durata di quell’istante, inciso nella memoria e nei luoghi. Da questo preciso istante, dal momento della catastrofe, si conforma una temporalità anomala, che condensa il fluire nel permanere del momento. Questa valle diventa da allora un luogo senza tempo o meglio un luogo deformato da un unico tempo, lungo cinquant’anni. Il 9 ottobre 1963, a seguito della costruzione della diga del Vajont, frana il Monte Toc. Nel bacino artificiale generato dalla diga cadono 270.000.000 metri cubi di roccia: nell’impatto l’acqua contenuta nell’invaso fuoriesce saltando la diga, rimasta intatta, invadendo i paesi vicini. 1.910 i morti, molti i borghi e i paesi distrutti. I connotati del disastro sono chiari e rimandano all’uomo come fattore causale principale, incapace di interpretare una conoscenza ambientale locale ed evidente responsabile del disastro. Da quel momento l’effetto drammatico di perturbazione diventa l’immagine paralizzata di un paesaggio che fissa su di sè la vita degli abitanti, la forma degli

abitati, l’apparente stato della natura. Da elementi/soggetti di partecipazione minuta e silenziosa (qual è la vita in montagna) le persone e i luoghi si fanno fondale, scenografia. In particolare nel villaggio di Erto la fisicità del paesaggio dell’attimo dopo è l’anima di una immobilità visitata (migliaia di visitatori l’anno frequentano i luoghi del disastro) e di una staticità vissuta (staticità legata alle forme macrovisibili perché la montagna nel suo muoversi millimetrico continua a evolvere). L’instabilità stabile si rafforza attraverso alcuni punti di riferimento forti nella loro forma e autorappresentazione: una successione di immagini, ogni giorno sempre uguali, legano il luogo del disastro alle piccole azioni ordinarie degli abitanti costruendo un microcosmo impenetrabile. I punti di collegamento sono tre e generano una risonanza visiva che si autoalimenta in un contesto montano silenzioso: quasi ci si trovasse chiusi tra quattro mura in cui lo sguardo rimbalza da una parete all’altra: 1. la grande superficie liscia documenta il distacco della montagna e appare netta nella sua conformazione: uno sfondo muto. È la traccia, l’orma, il piano di scivolamento della massa montuosa caduta; 2. gli originari paesi, Erto e Casso, poco abitati, monocromatici, composti di pietre in successione a formare un aggregato urbano inerpicato sulla montagna, in cui le curve di livello stratificano la disposizione delle strette e alte case; 3. sopra a tutto, ad una quota sicura, si colloca il nuovo paese ricostruito immediatamente dopo il disastro, con una vista privilegiata: dall’alto coglie in

una drammatica geometria la montagna e il vecchio paese quasi disabitato. Da qui si controllano i termini della catastrofe. È un punto di vista specifico che prende posizione (è all’interno e all’esterno della catastrofe, ne è il successivo prodotto non meno estraniante) ed enfatizza il trauma. Questa triangolazione si chiude su di sé, generando una figura rigida dove paradossalmente è il paesaggio della catastrofe ad essere rassicurante perché riconosciuto. I tre punti hanno bisogno di coesistere, diversamente gli ultimi due, se lasciati soli, spezzano ogni possibilità di interrelazione. I termini di indagine sono il tempo e lo spazio. Ma se il tempo dà il senso e la misura allo spazio, questo paese come si configura? Si rivede in questa condizione instabile la città del tempo Chronopolis1, la città del racconto di James Graham Ballard, in cui l’ambiguità dello stare si muove tra due condizioni urbane diverse in cui si cerca di controllare il tempo. Qui, in particolare nel paese di Erto, come nel racconto l’incertezza si divide tra la città nuova, simbolo della ciecità umana e della catastrofe, della società del presente nella quale si è instabili ospiti e dalla quale ci si vuole liberare ma nella quale si vive, e la città vecchia, il paese disabitato e decadente, luogo della memoria, dello stare che riporta al passato. Passare dall’una all’altra, visivamente e fisicamente, è continuamente muoversi tra confini temporali di un prima e di un dopo impossibili da congiungere, perché la consequenzialità è dolorosa, è una ferita cronologica2. È muoversi anche tra confini spaziali, in cui il senso della posizione (riconosco dove sono e in questo essere mi colloco)


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sfugge: i residenti della città alta hanno le loro vecchie abitazioni nel paese di pietra vuoto, ma è più in questo agglomerato di case nato addensandosi progressivamente che vanno i ricordi di micro-esperienze stratificate, spazio di connessione tra esperienze umane che hanno contribuito a costruire i valori sociali del paese originario. All’interno di questa dicotomia (fatta di elementi esterni, quasi architettonici) se ne sovrappone un’altra che si coglie entrando negli spazi intimi domestici: il nucleo storico è stato costruito nel tempo, casa dopo casa crescendo fino al punto in cui l’arresto drammatico ha interrotto qualsiasi tipo di evoluzione (fisica, tecnica, emozionale…); il nuovo paese è formato da un insieme di abitazioni edificate in emergenza in un sol colpo, lì le persone sono state costrette a trasferirsi ma lì il loro sistema di vita si è immediatamente sviluppato. Da questa posizione il senso di radicamento appare affievolito e lo sfasamento, l’interruzione evidente: le persone, entrando nel paese d’origine Erto vecchia, cercano un senso evolutivo della modernità che non possono trovare. Il legame è fatto di memoria emozionale, di immagini personali. Gli scenari molteplici costruiti da un paesaggio a doppia velocità segna il territorio attraverso processi di accumulo anomali. Il passare da un paese all’altro avviene per diverse ragioni così per i locali che per chi vi arriva dall’esterno: camminano per il paese vecchio, persone in movimento e sono li per riprendere, filmare, registrare, descrivere i diversi gradi di un silenzio anomalo (il rimando sembra andare alla ricerca dei suoni sovrapposti di Lisbon Story3).

Il passare, osservando, da un paese all’altro è un’operazione di lettura e interpretazione di aggregati umani/urbani resi immagine di se stessi. Un’immagine quasi senza luogo che nel rimando alle foto del tempo passato non si ritrova. Il meccanismo è di straniamento per la presenza/ assenza del lago artificiale che altera la conformazione morfologica, celandola o mostrandola, riferimento per gerarchie posizionali coglibili nell’addensarsi di case sui fianchi della montagna. Una geografia della memoria si confronta geografia sospesa costruita attraverso l’evento catastrofico. In questa successione di condizioni di aritmia i due centri urbani, quasi come la città specchiata di Valdrada di Calvino4, si guardano ma non si amano. Franco Farinelli sostiene che non c’è paesaggio per chi abita un luogo5: in questa visione i due centri si sfuocano ulteriormente nell’impossibilità di coesistere, gli abitanti (di quale dei due paesi?), muovendosi attivano paesaggi diversi di cui sembra impossibile immaginare una coesistenza. Serve il terzo punto, la frana, per oggettivarli. Chiudendo il cerchio la narrazione si arresta e il fotogramma dell’immediatamente dopo si ripropone permanente. L’isolamento è il prodotto di una volontà originatasi anche dall’evento, il microcosmo difeso è ambiguo e instabile e l’interruzione vitale del legame persona/luogo nelle sue diverse forme esperenziali è esasperato; la condizione estrema sembra appartenere al mondo di Home6, il film di Ursula Meier in cui una strada riattivata e frequentata da migliaia di auto interrompe l’accesso all’abitazione e rende ossessionante

il rapporto di una famiglia con la loro casa, nascondendo in questa condizione estrema la negazione della civilizzazione, una resistenza all’omologazione, un rifiuto verso il mondo e la sua evoluzione in una interpretazione dei luoghi come assoluti, da difendere nella loro immobilità: lo stato inflessibile ne sancisce consapevolmente l’esclusione della vita dalle temporalità molteplici, ne decreta la fine. In questi luoghi di montagna, la necessità di una condivisione del paesaggio multitemporale sembra necessaria, attivando azioni progettuali con capacità di dialogo e di visione per fornire strumenti di comprensione, operando attraverso rivitalizzazioni sensibili di punti nel territorio. Riattivare il racconto può avvenire solo inserendosi in quella geometrica trilaterazione quasi ossessiva, perché è nel terreno tra le cose che sembra celarsi la superficie su cui agire, costruendo un quarto punto capace di raccontare i due paesi, l’evento e il suo superamento garantendo il prosieguo della storia, la rivitalizzazione dei luoghi e la ripresa di paesaggi interrotti. --1 James Graham Ballard, Chronopolis and Other Stories, Putnam, London 1971. 2 Gianluca Ligi, Antropologia dei disastri, Edizioni Laterza, Bari 2009. 3 Lisbon Story, film di Wim Wenders, Germania-Portogallo 1995. 4 Italo Calvino, Le città Invisibili, Einaudi, Torino 1972. 5 Franco Farinelli, Geografia. Un’introduzione ai modelli del mondo, Einaudi, Torino 2003. 6 Home, film di Ursula Meier, FranciaBulgaria 2008.


1-2 Concorso per il Miglioramento della zona frana del Vajont. Progetto di Made associati. Modellino della struttura percettiva e rendering di progetto. Il Concorso per il Miglioramento della zona frana del Vajont indetto dall’Amministrazione Comunale di Erto e Casso aveva a base di gara un budget di € 200.000 per la realizzazione di un primo stralcio ma l’impegno di spesa è stato usato per altre finalità. Le opere non sono state eseguite per mancanza di finanziamenti. L’approssimarsi del cinquantenario non ha generato nessuna nuova attenzione per il tema.

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testo di Ginevra Grasso

--Nel profondo sappiamo che la vita […] è, come si dice correntemente, appesa a un filo. Ma poi i giorni passano, passano gli anni, la terra obbediente fa il suo giro e noi finiamo col credere di aver afferrato qualche briciola dei manicaretti dell’eternità. È questo che ci aiuta: così, andiamo facendo progetti per il domani, per l’estate ancora lontana. Fino a che venti o trenta secondi di scosse (e che sono trenta secondi?) ci mostrano quanto poco significhiamo. Qualche milione di animali spaventati, con l’anima tremante come il mondo che ci sfugge sotto i piedi. Tutto finirà, sta finendo, ormai è finito. Ma la terra torna alla serenità, si finge solida e sicura […] e allora quell’irresistibile desiderio di continuare a vivere raccoglie i pezzi (i nostri e quelli delle cose) e li ricompone, gli dà senso e persistenza. Abbiamo vinto la partita: non abbiamo sconfitto il terremoto, ma abbiamo sconfitto la paura, non le abbiamo permesso di mettere radici nell’animo che si è spaventato — e che si spaventerà ancora.

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Non so che cosa unisca di più, se le grandi catastrofi o le grandi gioie. Le catastrofi sono una buona marea per far venire a galla l’istinto di conservazione, l’egoismo istintivo […]. Dopo una catastrofe […] c’è un bisogno impellente di abbandonarci, di comunicare, come se tutti insieme acquistassimo forza per far fronte a quel che ancora potrebbe succedere. […] Di colpo, le persone vogliono delle soluzioni, si afferra il terremoto con entrambe le mani, virilmente. Stavolta è così. Non abbiamo vinto la paura, ma abbiamo guadagnato solidarietà. Siamo un blocco saldo, senza crepe. José Saramago

Parlare di terremoti e, in generale, di catastrofi mi mette a disagio. Il senso di inadeguatezza è schiacciante. Oltre al fatto che sull’argomento il dispendio di discussioni è perfino superiore a quello di lacrime. E se entrambe sono vane, risultano indubbiamente eccessive le prime e mai sufficienti le seconde. La verità è che non ci sono parole capaci di calibrare il peso della tragedia.

Non esiste un punto di vista univoco o sufficientemente ampio. Non c’è un modo né un rimedio. Quando c’è un sisma di mezzo, c’è solo un prima e un dopo. Poiché “terremoto” è una parola impossibile da declinare al presente. Specie per un architetto. Se esiste quindi una maniera più appropriata per accostarsi al problema in chiave architettonica essa è da ricercarsi nella duplice prospettiva ante/post. Perché è proprio il passato la direzione per andare avanti. In quanto non esiste ricostruzione senza memoria. Perché è proprio il futuro la base cui aggrapparsi. Dal momento che senza prevenzione non ci sarà domani. Su questa direttrice si muovono i progetti selezionati. Scelti non in base alla loro riuscita estetico compositiva, ma in quanto portavoce di un messaggio. Corale e positivo. Il fiore da cogliere fra le macerie è l’occasione di cambiare. Migliorando. Così, se la terra si muove, l’architettura si sposta da alcuni capisaldi talvolta limitanti mettendosi, icasticamente, in discussione.


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Jun mu, Li Wan, Jie ma

testo di Ginevra Grasso

PoPoLare ma'anqiao

Certe volte il destino si accanisce. Perché se una tragedia è, per definizione, sempre un avvenimento drammatico in certi luoghi lo è più che in altri. Come a Ma’anqiao, piccolo villaggio di fango fra i più poveri del Sichuan: una manciata di anime che campano coltivando la terra e lottando quotidianamente con il clima monsonico, la mancanza di mezzi e la povertà1. I violenti terremoti del Sichuan del 2008 hanno totalmente lacerato il villaggio: la prima scossa, a maggio, distruggendo la maggior parte delle abitazioni; la seconda, ad agosto, finendo di abbattere

cinese

gli edifici superstiti. È complicato riuscire a recuperare la forza per risollevarsi quando non si ha più niente. Ancora più difficile quando, oltre ad essere totalmente sprovvisti di mezzi, di materie prime e di adeguate sovvenzioni statali, si perde anche la fiducia nei tradizionali metodi di costruzione. Perché le case dei contadini di Ma’anqiao erano tutte in terra battuta. Ed improvvisamente quella stessa terra che li sosteneva e forniva loro riparo, li tradisce, trema, crolla, seppellisce. È stato allora che un gruppo di ricercatori universitari2, sostenuti dalla Zhi Wu Qiao Charitable Foundation e


↑Piante di una delle unità abitative per famiglie da 3/6 persone ↑©Wan Li > vista del nuovo villaggio di Ma'anqiao

↑Planimetria generale

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dal MoHURD (Ministry of Housing and Urban-Rural Development, Ministero cinese per l’edilizia popolare e lo sviluppo urbano e rurale) ha scelto Ma’anqiao per lanciare un progetto pilota di ricostruzione dei paesi terremotati. Vivendo per diverse settimane a stretto contatto con la popolazione locale, i ricercatori hanno individuato nella tradizione del passato la maniera più economica, ecologica e sostenibile per ricostruire il futuro del villaggio. La soluzione più efficace e praticabile per Ma’anqiao, si è rivelata, infatti, proprio il ritorno alla terra battuta che doveva però essere migliorata in termini di resistenza antisismica. Studi e ricerche scientifiche in sito hanno portato ad una serie di migliorie tecniche nei metodi costruttivi: inglobando telai in legno all’interno dei muri di fango, aggiungendo calce e cemento alla lavorazione della terra, ridimensionando le fondazioni ed utilizzando attrezzi più efficaci, si è notevolmente migliorata la resistenza alle scosse. Tutte queste innovazioni sono state trasmesse passo passo agli abitanti del villaggio, in modo che essi stessi potessero ricostruire con le proprie mani le case in cui sentirsi nuovamente al sicuro recuperando la fiducia persa nella terra battuta. Nel villaggio oltre alle abitazioni è stato costruito un nuovo centro civico con clinica, asilo nido, negozi e una biblioteca in modo che la comunità potesse avere un punto di riferimento. Sono stati migliorati gli accessi, le strutture di servizio, gli spazi pubblici, le condizioni igieniche. È stato costruito un nuovo ponte in modo che gli abitanti ed


↓©Mu Jun > una delle case antisismiche in terra battuta

↓↓©Mu Jun > gli edifici prima e durante la ricostruzione

↓Vista prospettica renderizzata di una delle unità abitative per famiglie da 3/6 persone

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i bambini potessero attraversare il fiume in maniera più comoda e sicura. Utilizzando per la maggior parte materiali provenienti da prodotti naturali e dal riciclo delle macerie, il costo totale della ricostruzione del villaggio è ammontato a 96.000 euro, con una media di appena 15 euro/mq. Il MoHURD ha deciso di ospitare all’interno del centro civico di Ma’anqiao alcuni seminari di formazione per gli abitanti delle regioni limitrofe nelle cui tradizioni fosse radicato il metodo di costruzione in terra battuta. L’intero villaggio di Ma’anqiao è divenuto, quindi, esempio concreto

e dimostrativo di come la terra, in architettura come in agricoltura, possa essere rivoltata per divenire di nuovo fertile anche dopo esser stata macerie.

--Il reddito pro capite annuo degli abitanti di Ma’anqiao è di 850 Yuan, all’incirca 100 euro. 2 Gli architetti Un Mu, Edward Ng, Li Wan insegnano presso la Xi’an University of Architecture and Technology di Xi’an e la Chinese University di Hong Kong. 1

↓©Jun Mu > costruzione del cortile del nuovo centro civico

↑ Pianta del centro civico di Ma'anqiao

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↓©Mu Jun > il centro civico del villaggio

↑ Vista prospettica del centro civico

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kisYn-no-kai > riken Yamamoto, hiroshi naito, kengo kuma, kazuYo seJima, toYo ito

giaPPone

testo di Ginevra Grasso

anche nell’intro1, ad aiutarmi nuovamente a sottolineare il bisogno di fratellanza, comunicazione ed umanità che segue un evento tragico. Nella ricerca di progetti inerenti il tema trattato in questo numero di Opere, sono stata, infatti, colpita dalla grande quantità di proposte volte alla creazione di piccole abitazioni monofamiliari, alloggi temporanei pensati come gusci e privi di connessioni gli uni con gli altri, tende ed altri elementi divisori da erigere nei centri di accoglienza a garanzia della privacy. Luoghi essenziali, intimi, privati, legittimi. Spazi necessari ma non sufficienti. Nel post-emergenza, il tema della casa

«Dopo una catastrofe, quando ci ritroviamo alla luce del giorno, ancora non del tutto ripresi dallo spavento, forse vergognosi delle fughe dissennate, della ferocia del “si salvi chi può” — ci guardiamo l’un l’altro negli occhi e ci vediamo uguali, un po’ fratelli e amici. Perciò parliamo tanto di quel che ci è accaduto, con questo, con quello, con lo sconosciuto che ci è capitato davanti per caso. C’è un bisogno impellente di abbandonarci, di comunicare». José Saramago Sono sempre le parole di Saramago, tratte dal medesimo racconto citato


↓©D’Apostrophe > modelli di progetto per la seconda versione della Home-for-All da realizzare a Rikuzentakata


↑↑©D’Apostrophe > modelli di progetto per la seconda versione della Home-for-All ↑↑da realizzare a Rikuzentakata

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è sicuramente prioritario ed urgente ed è anche quello a cui si è dedicato Toyo Ito, curatore del padiglione Giapponese dell’ultima Biennale di Architettura di Venezia, la prima dopo il terribile terremoto dell’11 marzo 2011. Il progetto si intitola infatti Home, a cui però fa seguito l’indicazione for All. Si tratta infatti di uno spazio pensato per incontrarsi, riposarsi, parlare, mangiare, condividere preoccupazioni e speranze. Lo stesso Ito spiega in un’intervista le intenzioni progettuali: «Coloro che vivono negli alloggi temporanei costruiti nella zona della catastrofe potranno forse godere di un po’ di privacy, ma avendo perso le loro comunità di appartenenza, sono costretti a vivere un’esistenza isolata. Le abitazioni sono piccole e non favoriscono le attività di socializzazione. Il semplice parlare con il proprio vicino costringe a starsene in piedi su una stradina coperta di ghiaia. A colpirmi è

stata la possibilità di fornire dei piccoli edifici in legno, dei luoghi in cui le persone possano riunirsi»2. La Home-for-All, progettata dal gruppo Kisyn no Kai3, comprende uno spazio chiuso, ma anche un piccolo porticato. Volutamente è stata creata una continuità, tipicamente giapponese, tra interno ed esterno, in modo che anche chi si trovi al di fuori dell’edificio possa sentirsi parte di ciò che accade al suo interno. La prima residenza del progetto Homefor-All è stata realizzata a Sendai, mentre la seconda versione del progetto, presentata attraverso decine di modelli alla Biennale, verrà costruita a Rikuzentakata. Si tratta indubbiamente di piccoli edifici, che tentano però di porsi una domanda su quale sia il ruolo dell’architettura nei confronti della catastrofe. E ne danno una risposta positiva

«centrata sulla capacità di ripartire che è propria dell’uomo. Trattiamo l’inizio della ricostruzione su una terra spazzata via dallo tsunami, come se, a ricominciare, fossero gli animali o i germogli delle piante»4. --1 Saramago J., Speculando sul sisma in Di questo mondo e degli altri, Finaudi Editore, Torino 2006. 2 Intervista a cura di Angela Rui pubblicata su “Abitare Special 05”, Toyo Ito http://www.abitare.it/it/biennale-curatori/ toyo-ito/. 3 Il gruppo, di cui fanno parte Kengo Kuma, Toyo Ito, Kazuyo Sejima, Riken Yamamoto e Hiroshi Naito, ha preso il nome, Kisyn no Kai, dalle lettere iniziali dei cognomi dei membri. Quando è scritto in caratteri kanji, significa ritorno al cuore. 4 Toyo Ito, nell’intervista di Angela Rui, “Abitare Special 05”. Cfr. nota 2.


↑©D’Apostrophe> modelli di progetto per la seconda versione della Home-for-All da realizzare a Rikuzentakata

↓→©Emanuele Piccardo > modelli di progetto per la seconda versione della Home-for-All da realizzare a Rikuzentakata

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5C

Fundación ProYecta testo di Ginevra Grasso

memoria

arauco

ciLe

Il Cile è situato in uno dei territori più sismici del mondo. Dopo aver subito, nel febbraio del 2010, uno dei terremoti più forti della storia dell’umanità1, il paese ha dovuto affrontare ancora una volta anche la tragedia della perdita costante del suo patrimonio storico. Una storia caratterizzata dal continuo sbriciolamento dei suoi più importanti elementi architettonici e dal conseguente problema dello smaltimento delle macerie. Proyecta Memoria, fondazione privata senza fini di lucro con sede a Concepción, si propone di fronteggiare la catastrofe della fase post-sisma

con un atteggiamento flessibile e costruttivo: considerare i detriti non come spazzatura, ma come ultima preziosa testimonianza di quello che una volta era una scuola, un teatro o una chiesa. La fondazione si prefigge, quindi, di affrontare il problema della conservazione e ricostruzione del patrimonio architettonico attraverso il riciclaggio simbolico delle macerie, utilizzandole come materiale per i nuovi progetti. L’idea non è certo una novità. A Lisbona, i marciapiedi della Baixa sono stati realizzati incorporando nella calçada i frammenti degli edifici distrutti dal


↓ Š FundaciĂłn Proyecta Memoria > Abitanti che mostrano i frammenti delle macerie della chiesa


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↑Approccio conservativo di Proyecta Memoria ↑Prima e dopo la ricostruzione del campanile della chiesa di San José de Arauco

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devastante terremoto del 1755. Proyecta Memoria parte dallo stesso principio mettendone in evidenza il forte impatto simbolico. Le macerie vengono utilizzate come antidoto all’amnesia sismica, consolidando il legame d’identità tra i cittadini e i nuovi spazi pubblici ricostruiti dopo il terremoto. Il progetto pubblicato in queste pagine è stato scelto fra le proposte di Proyecta Memoria per il suo valore spirituale, come esemplificativo del modus operandi della Fondazione. Si tratta di una cappella all’aperto da realizzare nella città di Arauco, nello stesso sito in cui sorgeva la chiesa di San Josè. Quest’ultima, già fortemente danneggiata durante i terremoti del 1939 e 1969, fu completamente distrutta dalla scossa del febbraio 2010. Il progetto propone il riutilizzo delle macerie dell’antica chiesa per la realizzazione di uno spazio di contemplazione all’aperto dotato di sedute, sculture e un altare. In questo modo s’intende, non solo dare nuova vita ai preziosi frammenti superstiti, ma anche educare la cultura sismica delle generazioni future ricordando il patrimonio architettonico del loro territorio.

--Il sisma del 27 febbraio 2010, con una magnitudo di 8,8 Mw, è durato per circa tre minuti. È stato il più forte terremoto al mondo dopo il maremoto dell’Oceano Indiano del 2004. La scossa ha, infatti, liberato un’energia mille volte maggiore rispetto al terremoto di Haiti dello stesso anno ed è stato trentamila volte più potente del sisma de L’Aquila del 2009. 1


↑Planimetria generale

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↑Rendering di progetto della sistemazione della piazza

↓Pianta e sezioni dell’intervento

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6 Altre Architetture


C’era una volta, una città... 82

1 / Tokyo Magnitude 8.0 / serie anime giapponese trasmessa su Fuji TV / diretta da Masaki Tachibana e Natsuko Takahashi

Marcello Marchesini

Un’organizzazione criminale minaccia di abbattere, mediante terremoti, alcune zone dell’Italia e del mondo. Una commissione speciale italiana si riunisce per decidere sul da farsi. Tra questi c’è anche l’ispettore Zenigata che identifica l’organizzazione criminale con la banda di Lupin, in quanto sa della sua venuta nel paese. Durante la riunione arriva però un messaggio da Paolo, ex ricercatore dell’istituto di sismologia, cacciato per esperimenti illegali. Egli minaccia il governo italiano di far crollare con un terremoto la Torre di Pisa se non gli saranno dati 1.000 milioni di lire1. L’idea che uno scienziato pazzo possa inventare una macchina per fabbricare terremoti fa sorridere, ma quella che nessuna tecnologia, ad oggi, consenta di prevederli, ancora ci angoscia. Da architetto quello che più mi sorprende e terrorizza è che non esistono teorie o progetti, in grado di affrontare seriamente l’emergenza terremoto. Teorie intendo, capaci di considerare i terremoti come eventi non eccezionali che condizionano la durata della vita di una città. È come se l’architetto non si rendesse conto che anche la città ha una sua vita e una sua morte. L’uomo, da sempre, ha paura della morte e cerca di allontanarla non pensandoci: l’architetto fa la stessa cosa nei confronti della città minacciata dai terremoti. Non si pensa mai che anche la città possa avere una vita limitata da un arco temporale definito; non si pensa mai ad un possibile e repentino suo decesso improvviso! A tale proposito Arata Isozaki si esprime così, in occasione della presentazione del suo padiglione progettato per la sesta Biennale di Venezia del 1996, Sensori del futuro. L’architetto come simografo curata da Hans Hollein2: «Il terremoto di Kobe del 1995 è sfuggito a ogni previsione. Particolare degno di nota è che nessuna teoria lineare, sistematicamente programmata e accuratamente messa a punto, è risultata di qualche utilità: e questo ci mostra che la realtà non corrisponderà mai alle previsioni»3. È impossibile ignorare il Giappone se il tema da trattare sono i terremoti. Non è un caso che anche nell’ultima Biennale di Venezia, il padiglione giapponese abbia riproposto, stavolta con Toyo Ito, la necessità di confrontarsi con questo tema4. Non è un caso che il Padiglione Italia abbia deciso di ignorare il tema urbano legato alla ricostruzione o alla prevenzione dei terremoti. Se è vero che la città può essere parogonata ad un organismo vivente, allora è altrettanto vero che le sue cellule hanno la possibilità di rinnovarsi solo attraverso processi in divenire. «Al fine di mantenere la città come un organismo vivente, costruzione e distruzione dovrebbero essere effettuate insieme, nello stesso tempo. Un organismo sussiste grazie alla sistematica morte delle sue cellule, anche se un procedimento così organico non può essere applicato alla città. Invece, un colpo violento come un terremoto o una distruzione graduale come quella indotta dal diffondersi dell’inquinamento — fattori che recano gravi danni a un organismo vivente — sono componenti proprie del processo vitale di una città. È ormai tempo di tenere conto nell’ambito urbanistico di questo fattore, impossibile da evitarsi nel divenire di una città. Dopo tutto, la costruzione, se considerata in tutte le sue implicazioni, è sempre, nello stesso tempo, distruzione. La distruzione di una città, a causa di un terremoto o di un’altra calamità, è una fase di urbanizzazione; fa parte del divenire di una città. Lungi dal porre termine alla vita di una città, il disastro tende piuttosto a farla sussistere»5. Dai giapponesi quindi c’è tutto da imparare. In Giappone infatti il terremoto non viene ignorato. È qualcosa di familiare, qualcosa

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La trama è quella tratta dal 6° episodio della seconda serie di Le avventure di Lupin III dal titolo La fabbrica del terremoto, andato in onda in Giappone il 7 novembre del 1977 e trasmesso in Italia nel 1981 . 2

In quell’edizione l’allestimento di Isozaki permise al Giappone di vincere il Leone d’oro per la migliore partecipazione nazionale. 3

A tale proposito si consiglia la lettura dell’articolo scritto da Arata Isozaki dal titolo On Ruins (=Fratture), il cui testo integrale è stato pubblicato sul n. 93 di “Lotus International”, stampato nel giugno 1999, ed. Electa. 4

Non è altrettanto un caso che il padiglione Giapponese abbia vinto anche stavolta il Leone d’oro. 5

cfr. sempre n. 93 di “Lotus International”, stampato nel giugno 1999, ed. Electa.


1


2-3 / Tokusatsu: Special Effects Museum-Craftmanship of Showa and Heisei Eras Seen Through Miniatures / Museo di Arte Contemporanea di Tokyo / 2012 / La mostra è stata una raccolta impressionante di scenografie della città di Tokyo in miniatura create tra il 1958 e il 1988 per varie serie cinematografiche, come Godzilla, Mothra, Gamera e Ultraman.

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con il quale non si può fare a meno di confrontarsi. Il terremoto è una cosa importante e conoscerlo può essere utile per salvare la vita delle persone. A chi conosce il mondo dell’animazione giapponese, non può certo essere sfuggita la stretta relazione tra finzione e realtà, usata come strumento indispensabile per educare le persone su come reagire e comportarsi in caso di calamità naturali come terremoti o tsunami. Attraverso anime (cartoni animati) e manga (fumetti), è possibile raccontare in modo diretto ed esplicito le conseguenze devastanti provocate dal terremoto. Tokyo, che nelle puntate di Mazinga Z, Il Grande Mazinga, Goldrake6, Jeeg Robot d’Acciaio che è stata spesso distrutta, incendiata, rasa al suolo, travolta e inondata da tsunami giganteschi, lacerata da terremoti, è realmente caduta vittima di un devastante evento naturale l’11 marzo del 2011. Tokyo Magnitude 8.07. Ore 15:46. Nel 2008 un terremoto di grado 8.0 della scala Richter, distrugge completamente la capitale del Giappone. La storia viene vissuta attraverso il punto di vista di due ragazzini, fratello e sorella, di 7 e 11 anni che da soli cercano di ricongiungersi ai propri genitori. La città, posta in condizioni estreme, si trasforma in un vero e proprio labirinto. Niente mezzi di trasporto, niente mezzi di comunicazione, problemi per trovare dei servizi igienici: attraversare la città di Tokyo in queste condizioni risulta essere molto difficile. Nonostante l’elevatissimo numero di morti annunciato e le continue scosse di assestamento, per le strade della città non si notano grandi fenomeni di panico o di isteria collettiva. Per le strade non appaiono scene di sangue, né il dolore delle persone (con qualche piccolissima eccezione) che hanno perso i propri cari. Quello che si vede è un popolo che affronta la tragedia cercando di apparire quanto più possibile maturo. Quindi l’obiettivo non è mostrare le conseguenze emotive di un terremoto ma le sue conseguenze logistiche. Con l’eccezione dei protagonisti, ovviamente. Altrettanto interessante, dell’autore di Goldrake, Go Nagai, è il manga Violence Jack8. Sembra una giornata come tante in una caotica Tokyo. All’una e mezza del 10 settembre la capitale giapponese viene sconvolta da un terribile terremoto di magnitudo 9 della scala Richter che colpisce l’area pianeggiante del Kanto, radendo al suolo tutti gli edifici, seminando ovunque morte e distruzione e trasformando Tokyo da una megalopoli di dieci milioni di abitanti a una città fantasma, formata da cumuli di macerie che non verranno mai rimosse, se non dai sopravvissuti al sisma che continuano disperatamente a vivere tra i resti di quell’area urbana. Il terremoto è talmente forte da provocare il distacco del Kanto dal resto del Giappone, trasformandolo

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in un’isola dove si ritrovano a vivere solo i sopravvissuti alla catastrofe (poi soprannominata apocalisse del Kanto), i quali vengono abbandonati dal governo che preferisce cambiare la propria capitale e sospendere i piani di ricostruzione. Il terremoto più disastroso che la storia dell’umanità ricorda, è quello del 23 gennaio del 1556, avvenuto in Cina a Shaanxi che provocò 830.000 morti. Il terremoto di Haiti del 12 gennaio 2012, causò invece 300.000 vittime. Terremoto di Messina e Reggio Calabria, 28 dicembre 1908, 130.000 morti. Terremoto di Sendai, 11 marzo 2011, 15.704 morti. Terremoto di Kobe, 17 gennaio 1995, 6.477 morti. Terremoto dell’Irpinia, 23 novembre 1980, 2.914 morti. Terremoto de L’Aquila, 6 aprile 2009, 308 morti. Terremoto in Emilia, 20 maggio 2012, 27 morti. Per avere una misura di raffronto con altre catastrofi che si sono verificate nel passato, possiamo ricordare i due attacchi nucleari sempre in Giappone. Il primo su Hiroshima il 6 agosto 1945, ore 8:16, con la bomba Little Boy: 166.000 morti. Il secondo su Nagasaki il 9 agosto 1945, ore 12:00 con la bomba Fat Man: 80.000 morti. La pazzia dell’olocausto provocò 6.000.000 di morti. In Giappone anime e manga, per la loro popolarità e diffusione tra la popolazione giovanile, rivestono un’importanza fondamentale per la formazione socio-culturale delle persone. Ciò ha permesso di rappresentare in modo esplicito i devastanti effetti di una catastrofe naturale e nello stesso tempo a sensibilizzare le persone nei confronti dei luoghi urbani che, per loro natura, sono dei luoghi potenzialmente a rischio. Da essere al servizio delle persone, con le sue infrastrutture, i suoi edifici, le opere ingegneristiche, le case e i suoi sottoservizi come luce, acqua, gas, la città può diventare un luogo estremamente pericoloso e assolutamente inadatto a garantire la sicurezza necessaria dell’individuo in caso di terremoto. Anche un treno in una galleria può diventare una trappola letale e niente può fare il realismo espresso da un anime come Dragon Head9, per comprendere a pieno le dinamiche di sopravvivenza prima e dopo il disastro. Lo stesso maestro Hayao Miyazaki, sensibile alle conseguenze del terremoto e alle catastrofi naturali in genere racconta, attraverso due dei suoi numerosi capolavori, Conan10 e Nausicaä della Valle del vento11, l’impossibilità per un qualsiasi territorio, di essere adatto a garantire l’incolumità assoluta delle persone. Al momento pertanto, non sembra esserci soluzione all’inevitabile destino dell’uomo se non quello di rimanere in balia della propria sorte, prigioniero della fatalità degli eventi. E sperare che la città ci assista!

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Segnaliamo che nell’episodio n. 15 di Goldrake, l’esercito del malvagio Re Vega tenta di scatenare un devastante terremoto per distruggere l’area pianeggiante del Kanto, in cui si trova Tokyo, e uccidere così milioni di persone. 7

La serie animata Tokyo Magnitude 8.0 è un anime scritto da Natsuko Takahashi e realizzato dagli studi Bones e Kinema Citrus, dietro la regia di Masaki Tachibana per un totale di undici episodi. Andato in onda per la prima volta nel 2009 su Fuji TV, anticipa in maniera impressionante il catastrofico terremoto che sconvolse il Giappone l’11 marzo di due anni dopo. Nel 2009 è stato premiato con l’Excellence Prize, al Japan’s Media Art Festival. 8

Prodotta in anime tra il 1986 e il 1990 è l’opera più impegnativa e matura di Go Nagai che ha impiegato ben diciassette anni per concluderla. 9

L’autore, Minetaro Mochizuki, ha cercato di raccontare le drammatiche conseguenze di un terribile terremoto descrivendo le scene claustrofobiche proprio all’interno di un treno ad alta velocità che attraversa una lunga galleria. Le fortissime scosse fanno crollare tutte le pareti del traforo e i vari macigni bloccano il convoglio, isolandolo da ogni uscita. I viaggiatori sono così chiamati a sopravvivere al disastro, ma purtroppo tra di loro c’è chi è pronto a tutto sfruttando ogni mezzo necessario per sovrastare l’altro… anche riti tribali! 10

Luglio 2008. La Terra quasi distrutta dalla guerra; armi elettromagnetiche hanno causato violentissimi terremoti che hanno provocato l’inabissarsi delle terre emerse, costringendo i pochi sopravvissuti a rifugiarsi su qualche isola. Tratto dal romanzo di fatanscienza per ragazzi, The Incredible Tide, di Alexander Key, è un anime televisivo in ventisei episodi andato in onda per la prima volta in Giappone nel 1978 e in Italia nel 1981. 11

Dal carattere fortemente ecologista, la storia di Miyazaki, mette in evidenza la capacità di sopravvivenza dei pochi sopravvissuti che sono costretti a vivere in mondo ostile e pericoloso provato dalle numerose guerre che hanno distrutto quasi interamente la civiltà umana e buona parte dell’ecosistema terrestre.


Design


Prodotti e Sistemi p e r i l s o cc o r s o d i p o p o l a z i o n i colpite da catastrofi Marcelo Martel

In tempi come questi, in cui i cambiamenti climatici sono spesso all’origine di catastrofi naturali, è fondamentale che dalla progettazione vengano risposte efficaci ai temi della prevenzione e del soccorso delle popolazioni colpite. Investire su soluzioni efficaci non è mai stato così importante. L’intensità e la frequenza senza precedenti di disastri naturali causati dallo squilibrio ambientale sono aggravate dalla crescita della popolazione, che in alcune zone è andata ad occupare aree a rischio; oltre ai terremoti ed alle eruzioni vulcaniche periodiche, che accadono in luoghi noti e sotto osservazione, l’aumento della temperatura media sta provocando siccità storiche e modifiche della biosfera, con conseguenti diffusioni di pesti e malattie tropicali in regioni finora immuni a questi problemi. L’Onu organizza gli interventi di assistenza internazionale, coordinando le attività delle varie Organizzazioni. Sulla base di questa esperienza ha stilato il Progetto Sfera, che da indicazioni sugli standard minimi da seguire per l’ottimizzazione delle risorse umane, la diffusione delle migliori pratiche di soccorso e la riduzione dei costi. La definizione del periodo di emergenza varia a seconda delle agenzie internazionali di soccorso. Possiamo però indicare in maniera teorica che riguarda un periodo compreso tra il verificarsi dell’evento fino a sei, otto settimane dopo, quando ha inizio la fase di ricostruzione. I fattori decisivi per la sopravvivenza in questa fase sono costituiti da: salute, alloggio, acqua, alimentazione e sanità. La sopravvivenza umana dipende dalla combinazione di questi fattori minimi, che incidono con pari importanza. L’Unicef, nel suo manuale Emergency Field Handbook definisce come critiche le prime settantadue ore post-disastro, che rappresentano il tempo

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massimo per la sopravvivenza di un bambino senza acqua e senza alimentazione. Dopo settantadue ore la debolezza fisiologica si aggrava e aumenta notevolmente la mortalità. Quando si parla di prodotti, sistemi e servizi per l’emergenza la complessità dell’evento e la quantità delle variabili coinvolte determinano la priorità delle scelte. È necessario prendere in considerazione l’interdisciplinarietà delle variabili presenti per non incorrere in decisioni casuali. Si tratta infatti di una progettazione che coinvolge l’aspetto delle prestazioni, della sicurezza e dell’affidabilità; per questo motivo si consiglia l’applicazione di una metodologia di progettazione sistemica, che assicuri il controllo del processo e riduca conseguentemente i margini di errore ad ogni passaggio. Inoltre, poiché il progetto viene elaborato a partire dall’esperienza del progettista, che costituisce una componente discrezionale, è facile compromettere la presunta scientificità del processo. Baxter1 riassume le diverse metodologie che possono essere adottate nella progettazione del prodotto e dei sistemi per l’emergenza e quasi tutte misurano l’importanza dei parametri che guidano le decisioni del progettista. Inoltre è necessario distinguere le metodologie per la gestione delle emergenze dalle metodologie utilizzate nella definizione del progetto. Sulla scia di questa indagine, la mia ricerca individua parametri da utilizzarsi nella progettazione di prodotti e sistemi utilizzati nel soccorso ed adotta le priorità provenienti da una ampia e diversificata ricerca teorica, ricostruita attraverso manuali, libri, cataloghi, relazioni e seminari delle grandi organizzazioni internazionali che si occupano di aiuti umanitari2. La serie di parametri scelti varia in base alle caratteristiche specifiche del disastro e le loro qualità trasversali han-

no permesso di raggrupparli in tre livelli secondo un ipotetico ordine decrescente di importanza. La sintesi è riassunta dallo schema grafico a lato che, non pretende di essere prescrittivo o obbligatorio, ma di creare uno strumento di riferimento per la progettazione sul campo. Il centro corrisponde al progetto ideale e teoricamente possibile, ma oggi ancora lontano. I fattori presenti sono: a. tipologia del disastro; b. background del contesto in cui avviene; c. funzionalità del prodotto/sistema; d. trasportabilità; e. sistema di assemblaggio; f. logistica; g. costo; h. tecnologia; i. sostenibilità; l. tipologia di materiale utilizzato; m. affidabilità. Alcune puntualizzazioni: a. la tipologia del disastro influenza direttamente la scelta sia del tipo di soccorso da attivare che delle soluzioni adottabili, a parità di stessa tipologia di problema; b. il background è costituito dalle condizioni sociali e fisiche del sito in cui si verifica la catastrofe naturale e determina la tipologia dei mezzi di assistenza. Secondo il Progetto Sfera, in materia di servizi è fondamentale dare alle differenze culturali un ruolo chiave nei progetti; c. qualsiasi prodotto o sistema di soccorso deve avere ottima funzionalità e prevedere un utilizzo flessibile. Il progetto deve corrispondente pienamente alle aspettative del servizio prestato. Nel soccorso infatti, non è ammissibile che un prodotto o un sistema abbia una prestazione inferiore al minimo sperato; d. è necessario tenere in considerazione le limitazioni dei mezzi di trasporto a disposizione (trasportabilità); e. ll montaggio dei prodotti e dei sistemi di soccorso deve essere facile ed intuibile (assemblaggio); f. i prodotti e i sistemi impiegati devono essere accessibili e trasportabili nei contesti di intervento a cui sono destinati (logistica); g. il costo determina l’applicabilità di qualsiasi soluzione; h. una tecnologia


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appropriata al contesto è indispensabile per rendere attuabile il soccorso ed il materiale (l) utilizzato influenza fortemente le soluzioni di soccorso; i. qualsiasi soluzione deve puntare a ristabilire l’equilibrio ideale tra ambiente e società (sostenibilità); j. dall’affidabilità della soluzione (m) dipende direttamente il successo del soccorso. Le tre fasce individuate, sono, in ordine di importanza: 1. tipo di disastro, background, funzionalità, trasportabilità/assemblaggio, logistica; 2. costo, tecnologia; 3. sostenibilità, materiali, affidabilità. Attraverso l’analisi comparata del catalogo dei prodotti e dei sistemi utilizzati delle maggiori organizzazioni internazionali di soccorso umanitario si evidenzia la necessità di un rinnovamento e diverse carenze. Un caso esemplificativo tra quelli analizzati è rappresentato dal cono purificatore Watercone, progettato dal tedesco Stephan Augustin. Si tratta di un dessalinizzatore solare che potabilizza l’acqua, testato dall’organizzazione umanitaria Care nello Yemen. Ha un uso semplice, è leggero e portatile ed è realizzato in policarbonato Makrolon. Tuttavia le dimensioni del cono (h=30cm e diametro=80cm) rendono difficoltoso il suo uso e trasporto, e rendono la sua capacità giornaliera di purificazione dell’acqua limitata — 1,5 l/g rispetto al consumo minimo previsto dall’Onu di 7,5 l/g a persona — non corrispondente al suo potenziale. Il concetto di semplicità e sostenibilità deve essere ancora migliorato. Un secondo caso potrebbe essere quello del filtro Lifestraw. Si tratta di un purificatore d’acqua ad uso personale, che rimuove batteri e virus che causano le malattie più comuni, quali diarrea e parassitosi. Il progetto è dei danesi Thomas Gundersen & Øyvind Grønlie and Vestergaard Frandsen a/s ed ha nel costo il suo problema principale: 100-500 unità per us$20/unità; 500-

3.000 unità per us$17/unità e oltre 3.000 unità per us$15/unità. Medici senza frontiere utilizzano un impianto idraulico e pompa a pressione Oxfam il cui modello è pratico e semplice, ma con un concetto superato. L’analisi condotta individua enormi potenzialità derivanti dai contributi di designer ed architetti, sia con progetti che diminuiscano le sofferenze delle popolazioni colpite o che contribuiscano al miglioramento delle condizioni di vita. La situazione di rischio e le condizioni estreme che si creano nella fase del soccorso dovrebbero incrementare la sfida progettuale. L’ideale sarebbe disporre di dispositivi multifunzionali adatti a qualsiasi situazione, seppure questo porta a problematiche note quali perdita di efficienza, progettazione difficile ed attrezzature costose. Le organizzazioni umanitarie hanno la tendenza a standardizzare i loro sistemi e le loro attrezzature in funzione della riduzione della quantità di materiale trasportabile e puntando a soluzioni universali. È necessario migliorare i sistemi edilizi e i prodotti che ripristinano i requisiti minimi di comfort post-catastrofe. Nella maggior parte dei disastri naturali accade un’assenza simultanea o un’interruzione parziale della fornitura di acqua potabile, elettricità e gas. La sfida è quella di ripristinare la fornitura di servizi pubblici in modo rapido, pratico e sostenibile per il maggior numero di persone possibile. In caso di terremoto infatti, l’imprevista interruzione dei servizi aggrava il trauma e il disagio rende ancora più duro il ritorno alla normalità. L’uso di tecnologie avanzate merita un ulteriore sviluppo. Vi è la necessità di scansioni 3d più semplici, meno costose e più veloci che permettano di rilevare con facilità le problematicità delle strutture edilizie e di consentire lo sviluppo di tecniche preventi-

ve di rinforzo più efficaci, che evitino danni irreparabili ai patrimoni e alle persone. Attraverso l’uso della realtà aumentata è possibile contrassegnare punti strategici che permettano di individuare percorsi, segnalare possibile rifugi e rendere utilizzabili servizi che agevolano il soccorso e la ricostruzione. La geolocalizzazione dei sopravvissuti attraverso segnali di cellulari è già una realtà. L’uso di etichette codificate in posizioni strategiche permetterebbe inoltre, anche in assenza di energia elettrica e reti cellulari, di raggiungere i sopravvissuti e ristabilire parametri di riferimento. Altre possibilità sono date dal recupero di soluzioni costruttive tradizionali dell’area o dallo sviluppo di tecnologie appropriate per sostenere il terreno nel caso di terremoti o frane, utilizzando soluzioni sostenibili. A volte, è soltanto necessario interpretare i segni della natura e comprendere dove è possibile costruire. È sempre attuale la lezione che ci deriva dall’osservare su una collina l’inclinazione e il diametro del tronco degli alberi nativi per capire da quanto tempo il sito è stabile. --1

Mike Baxter, Product design a practical guide to systematic methods of new product development, Nelson Thornes, Cheltenham 2000. --2

Cataloghi disponibili sul sito di Inter-Agency Procurement Services Office of the United Nations Development Programmes (Undp/Iapso), http://old. sheltercentre.org/shelterlibrary/items/pdf/Emergency_ Relief_Items_vol1.pdf, International Federation of Red Cross and Red Crescent Societies (Ifrc), http://procurement.ifrc.org/catalogue/, Médecins Sans Frontières (Msf), http://intra.msf.org/msfhtmldocs/refbooks/ msf_docs/en/msfdocmenu_en.pdf, (Unhcr), http:// www.hrdlab.eu/?page_id=40


1 / Adattamento libero dal grafico Introduction to an afternoon on reconstruction di Elisabeth Babister, Care International, Shelter Meeting, 31 Maggio-1 Giugno 2007, Genova. --2 / Rappresentazione dei fattori di priorità nei progetti di prodotti e sistemi da applicare in caso di catastrofi naturali. Graficizzazione dell’autore. --3 / Filtro LifeStraw Personal Family (©www.vestergaard-frandsen.com). --4-7 / Watercone 2-5-6 sequenza. Watercone – 1999 (©www.watercone.com) .

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SMITIZZARE LA CATASTROFE 90

Muji

testo di Antonella Serra Itsumo, Moshimo – In ogni momento, qualsiasi cosa. Lo slogan esprime, con una compostezza ed imperturbabilità tutta orientale, l’invito ad essere vigili e preparati poiché in qualsiasi momento potrebbe verificarsi uno stato di calamità, e di conseguente privazione, per il quale potremmo avere bisogno di qualsiasi cosa. E seppure il contesto culturale in cui il messaggio è introdotto mostra di assimilarlo in una sorta di quotidianità allertata, trapela di sottofondo l’irruenza della catastrofe. Nello spazio temporale costituito dall’emergenza, vengono capovolte le relazioni e le priorità consolidate, creando un nuovo rapporto tra persone e oggetti. Oggetti risolutivi e salvifici, oggetti della quotidianità che perpetuano gesti abituali e rassicuranti, oggetti detentori di una sfera affettiva. Tre stati di relazione con l’oggetto fortemente caratterizzati, ma non rigidamente settoriali o immuni da sovrapposizioni. Itsumo, Moshimo è un progetto di Muji, azienda giapponese particolarmente sensibile a questo tema (vedi anche kit per l’ancoraggio di mobili alle pareti), che comprende dieci kit per l’emergenza ideati sempre per il mercato giapponese, e costituiti da oggetti utili da portare con sé al momento dello sfollamento. Packaging di dimensioni contenute, leggeri e facilmente trasportabili, realizzati con materiali compatibili ad uno stato di emergenza e collocabili senza invadenza nei luoghi dove vengono svolte le azioni quotidiane (a casa, in ufficio, in viaggio ecc..), in modo da poter essere sempre a portata di mano. Ma non solo. La proposta sottolinea la necessità di familiarizzare in precedenza con essi — indumenti, piccoli utensili, oggetti per l’igiene quotidiana — in modo da superare il senso di estraneità e la poca praticità che si viene a creare nel momento del bisogno. Il kit oppone all’evento catastrofico prodotti dal design piacevole, che alleggeriscono la drammaticità dell’evento con oggetti atti a non far venir meno la

dignità delle operazioni basilari e quotidiane di cui si può venir privati al momento dell’emergenza: mangiare, lavarsi, vestirsi ecc.. Ricordiamo che, oltre allo choc dovuto alla catastrofe, il dolore ed il disorientamento è acuito dalla mancanza di un contesto adeguato ed accogliente. Su un altro livello semantico, la campagna associa il kit all’area affettiva di chi lo compra, proponendolo quale regalo per una persona cara. La top ten viene assemblata pensando di rispondere alle esigenze dei due soggetti che mette in contatto: da una parte la ricerca della giusta combinazione di oggetti per i suoi possibili destinatari — kit per una giovane donna che vive sola (kit 3), per una famiglia (kit 1), per un uomo che viaggia tanto (kit 4), etc. — dall’altra interpreta il gesto di attenzione o di affetto di chi lo acquista per una terza persona — kit che una madre regala alla figlia che vive sola (kit 3), kit per i genitori anziani (kit 2) o per un figlio che abita fuori casa (kit 6), oppure per una collega di lavoro che ha appena avuto una promozione (kit 7). ©www.muji.net 1 / Elenco graficizzato dei vari kit 2 / Logo della serie di prodotti Itsumo, Moshimo 3 / Kit 6 4 / Kit 1 5 / Kit 2 6 / Kit 3 7 / Kit 9 8 / Kit 5 9 / Kit 7

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MISCELLANEA 93

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APPUNTI DI VIAGGIO 94

Stefano Sgambati

tre Porte

“Tommaso apri! Tommaso apri alla mamma, apri!”.

da un’altra preoccupazione, più ingombrante del terremoto:

Accarezzare suo figlio le è sempre parso un atto

non dovrebbe trovarsi lì adesso, per strada alle tre di notte,

masturbatorio: non ha mai imparato a elargirgli tenerezze

col freddo, ma a casa, a letto, chiuso a chiave nella sua stanza:

senza provare l’imbarazzo di chi viene sorpreso a toccare

un disastro naturale fa coi segreti ciò che una bomba esplosa

la propria stessa carne.

in un lago fa con le carcasse dei pesci.

Contro la porta della sua cameretta Lucia non si accorge

Tutti e due si tengono stretti in piedi osservando il parabrezza

di pensarlo ma sta pensando che non è mai stata addossata

dello Scarabeo basculare come se il mezzo fosse

a Tommaso come a quel legno: vorrebbe girarsi verso il marito

in movimento: solo trenta secondi prima si stavano baciando,

e domandargli perché gli hanno dato il permesso di chiudersi

emanando una pretesa di sesso manierista, presa in prestito

a chiave di notte, dirgli che non avrebbero dovuto farlo,

dall’unica estetica che possono conoscere bene,

ma il marito non c’è, Paolo è a Chicago e se adesso dove

quella cinematografica.

sta è ancora giorno può darsi che tra poco i primi lanci

C’è un gorgoglio profondo che arriva dall’utero della terra

di agenzia lo informeranno.

e che per quanto sia neonato già sta impartendo la sua severa

Sbatte le mani sul legno coi palmi: “Apri! Tommaso apri!”.

lezione alle cose degli uomini, sgretolandole, sollevandole,

Orecchio alla porta, prova a sentire: tutto il suo regno

facendo riaccendere per un momento tutte le luci

per una voce, per un respiro, per sentirlo russare. Da quand’è

nelle abitazioni, prima di tagliare la corrente nello stesso

che non sente suo figlio respirare nel sonno? Da quant’è

istante a circa cinquantamila persone. Da quel buio

che non lo sveglia toccandolo? In salone qualcosa precipita

improvviso arrivano i primi urli e i primi urli generano

sul pavimento: i bicchieri e le posate nei mobili fanno tutto

i secondi e quella è la spirale definitiva che divelle

il rumore possibile, mentre Tommaso non ne vuole sapere.

anche l’abbraccio di Tommaso e Cristina per sempre.

C’è polvere.

“Oddio!”.

“Apri! Apri!”.

Prima erano tutto l’uno per l’altra, goffamente, ingenuamente:

E via col rosario delle inadempienze: tutta quella reticenza

adesso si guardano negli occhi senza riconoscersi e nessuno

al contatto fisico, tutto quella pudicizia. I palmi le bruciano

dei due saprebbe dire perché ha messo a repentaglio

contro la durevole porta di noce: adesso le sembra

il proprio quieto vivere famigliare per sgattaiolare di nascosto

di battere su dei portaspilli.

in quell’abbraccio senza permesso.

“Tommaso, rispondi!”. *

**

Mamma non è forte abbastanza, dice a Cristina.

*

**

Paolo si spazzola i denti senza espressione davanti alla tv a Led del bagno. È attaccata a un perno di alluminio,

Poi il motorino comincia a tremare e mentre si abbracciano

ci sono i sanitari sospesi, una doccia rettangolare di otto metri

riconsidera tutto: non vuole che quella sia l’ultima cosa

quadrati e uno specchio periscopico che ha usato pochi minuti

che ha pensato di sua madre prima di morire, perciò si mette

prima per passare il filo interdentale. Sono le sette di sera,

di impegno per cercarne subito un’altra, ma non gli viene

la riunione è andata bene, fuori c’è ancora luce, il suo petto

in mente niente di utile, anche perché la sua testa è affollata

nudo comincia a cadere ma c’è dignità in quell’inevitabile


95

precipitare gravitazionale: l’unica parte del corpo non nuda

che c’è la culla e corteggia. Il legno gli sembra più morbido

sono i piedi, avvolti in un paio di pantofole spugnose

e se col bacino bascula avanti e indietro qualcosa di bello

con la griffe dell’albergo.

si irradia fino alla cervicale.

Ha compagnia: al di là della porta bianca chiusa a chiave c’è

Non vorrebbe pensare proprio adesso a Lucia, né al perché

una donna dell’apparente età di ventidue anni, ma forse sono

da un anno ha sconfitto il terrore dell’aereo e accetta tutte

diciotto o quaranta. Qualcosa sull’anagrafe è stato l’unico

le trasferte, ma la giornalista di RaiNews24 alle sue spalle

preambolo di conversazione che si sono concessi durante

lo afferra svuotandogli il cazzo e riempiendo il condotto

i veri preliminari, quelli peggiori, quelli retorici

uditivo dell’orecchio inutilizzato con il nome della sua città

della prima conoscenza. Fingere che non ci sia stato

e un valore altissimo della scala Mercalli.

un esborso economico è il passo di normalizzazione di un processo a cui Paolo non è abituato.

*

**

Sfiora la maniglia della porta del bagno.

La chiave a un centimetro dalla toppa e da tutte

Non sa dare un nome a quel metallo ma è freddo.

le conseguenze. La terra ha smesso di tremare smaltendo

Anche le sue mani sono fredde. Poco più in basso vorrebbe

le urla umane in sirene. Nonostante il frastuono, si riconosce

avvertire un’erezione, invece niente.

un silenzio: il sollievo colpevole degli scampati.

L’unica cosa che gli viene da fare è accostare un orecchio

La chiave a un centimetro dalla toppa trema visibilmente:

al legno: si concentra ma gli arrivano solo i suoi stessi rumori

il fatto di essere vivo non significa niente se non

corporei riverberati dai complicati meccanismi fisici e chimici

lo può comunicare alla madre.

del solido contro cui sta aderendo.

Tommaso tentenna. Perché?

Il fatto è che è passato troppo tempo: non soltanto da quando

Tutto potrebbe essere così facile adesso. La macchia del suo

è entrato in quel cesso, scusandosi “a second”, ma anche

peccato di figlio unico divorata da quella tragedia corale:

dall’ultima volta, dall’ultimo atto di tenerezza autentica

sua madre non vorrebbe altro che abbracciarlo, che

e quindi di sesso. La notte, con Lucia, è una frazione di riposo

perdonarlo. Quella fuga vigliacca e insaputa, chi lo sa,

soltanto necessaria: i corpi supini divisi come da un altro che

potrebbe anche avergli salvato la vita. Eppure la chiave rimane

non si può scavalcare: un terzo incomodo generato da loro.

a un centimetro dalla toppa: il pianerottolo è intero,

Non è sicuro di ricordarsi come si fa a sovrastare

hanno avuto fortuna.

fisicamente qualcun altro, a non ignorarlo.

Mamma non è forte abbastanza aveva detto a Cristina,

Mano fredda su maniglia fredda: l’orecchio sinistro sul legno

Cristina chi?, in riferimento all’incapacità della donna

che non sente nulla di utile. Pericondrio immobile: qualcosa

di separarsi dal marito, con cui ormai c’era solo distanza,

si muove, nel bassoventre, pulsa reagendo a una fantasia

la stessa che Tommaso per primo aveva voluto prendere

involontaria fatta del ricordo delle calze nere intraviste

con piccoli accorgimenti dimostrativi, chiudersi

poc’anzi. Non passano che pochi secondi e il pene aumentato

la notte a chiave, ad esempio.

raggiunge anch’esso la porta. La puntella: un ariete di carne.

E se fosse morta?

Il contatto improvviso prima lo sorprende, poi gli piace.

Se in casa non ci fosse altro che niente?

Non aveva sentito l’eccitazione arrivare, ma adesso

Se la trovasse riversa, sepolta, dilaniata, uccisa? Se questa


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porta di ingresso nemmeno si aprisse? Se fossero finite

che cosa deve fare, cioè uscire dal bagno, girare la maniglia

le seconde occasioni? Chi avviserà suo padre?

e uscire subito da quel bagno, affrontare il suo ospite, vestirsi

Così sente la voce:

e poi affrontare il suo ospite, tanto è già stato pagato

“Tommaso!”.

per il disturbo, non soffermarsi mai sul suo abbigliamento,

Un richiamo che gli ferma la mano e che rende trasparente

per esempio sulle calze o sulle scarpe o sulla quantità di seno

la porta: all’improvviso gli è chiara l’immagine di sua madre

nudo, liberarsi del suo ospite, chiamare l’Italia, chiamare

impietrita anche lei a poca distanza da una maniglia, la vede

qualcuno, preparare la valigia, anzi no, nessuna valigia, dare

esile e sola, col marito lontano i soliti settemila chilometri,

l’incarico al concierge di occuparsi del suo bagaglio, prendere

in pigiama e ciabatte, le scorge i capelli rimasti appiattiti

solo le cose necessarie, uno spazzolino, i documenti,

dalla forma del cuscino; capisce che per lei la terra non si

il telefono, un cambio d’abito, e acquistare un biglietto

è affatto fermata, che non si fermerà finché quel richiamo

di ritorno anticipato, precipitarsi a casa, sperare che il peggio

resterà senza risposta, e che quella è la forza di una madre,

sia toccato ad altri, aiutare a ricostruire, precipitarsi a casa

compresa la sua, la forza di rimanere ancorata alla vita, perché

e rimettere in piedi i cocci, letteralmente e metaforicamente,

un figlio non si può concepire morto fino a prova contraria.

acquistare un biglietto anticipato e comunicare all’ufficio

“Mamma!”, urla anche Tommaso, ma invece di aprire

che non accetterà più trasferte per un po’di tempo,

la porta la prende a calci, incapace di affondare la chiave,

ma sperare che sia tutto a posto, ecco, solo questo conta,

incapace di pensare alla giusta sequenza di gesti:

sperare per il meglio, semmai pregare, trovarsi un dio,

non ce la fa a capire che la chiave che sta inutilmente cercando

precipitarsi a casa, fare telefonate, riunire i punti,

di usare è quella della sua camera.

fare ordine, ma prima di tutto deve spegnere il televisore

*

**

perché lo ipnotizza, spegnerlo e aprire la porta, uscire dal bagno, liberarsi del suo ospite, che è solo carne

Con le spalle contro la porta del bagno, Paolo si pente

a pagamento, niente a cui non possa resistere, niente

della sua nudità e di istinto nasconde i genitali: gli occhi poco

che non possa rimandare, liberarsi dell’ospite e vestirsi,

truccati della conduttrice lo imbarazzano e lo imbarazzano

se possibile prima vestirsi e poi liberarsi dell’ospite, vestirsi

le prime immagini trasmesse di una città diroccata

mentre si libera dell’ospite, ecco il cervello che torna

e irriconoscibile, illuminata solo dal blu intermittente

a regime, fa elenchi, mette in moto l’intelligenza, cerca

dei mezzi di soccorso: la sua. Lo imbarazza giacere nudo

di non badare ai toni allarmati del capo della protezione

davanti a quel disastro. Non sono immagini nuove, fanno

civile e ai terribili suoni di minaccia e all’effetto Doppler

parte di un immaginario trito, plasmato da decine

che aumenta o assottiglia le urla delle persone,

di telegiornali simili trasmessi negli ultimi trenta,

gira la maniglia e apre la porta e guarda la stanza, il letto,

trentacinque anni, dall’Irpinia all’Emilia. Oggi è diverso,

guarda quell’ordine grandioso, i suoi vestiti piegati, le tende,

oggi è nudo e adesso, se la smette di tremare — perché lui

le cravatte allineate sulla chaise longue, guarda una stasi

non può tremare, non se lo merita di tremare, non a settemila

magnifica rotta solo da un leggero russare di donna

chilometri di distanza da tutto quello — sa perfettamente

e pensa va bene, solo dieci minuti.




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