OPERE 34

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COLOPHON

CONTRIBUTORS

Rivista trimestrale anno XI — n.34 marzo 2013 chiuso in redazione — febbraio 2013 finito di stampare — marzo 2013

Francesco Alberti Nato a Firenze nel 1964, è architetto, ricercatore e docente di Progettazione Urbanistica presso il Dipartimento di Architettura di Firenze. I suoi interessi scientifici e professionali sono riconducibili a due filoni principali: il rapporto fra piano urbanistico e disegno urbano e il ruolo delle infrastrutture e dei servizi della mobilità sostenibile nelle politiche di riqualificazione della città contemporanea. Su tali argomenti ha scritto numerosi saggi, articoli e il volume monografico Progettare la mobilità (Edifir, Firenze 2008), partecipato a convegni nazionali e internazionali, tenuto lezioni in master universitari e corsi di aggiornamento per professionisti e amministratori pubblici, offerto consulenze ad amministrazioni pubbliche e supporto tecnico a processi partecipativi, organizzato seminari e svolto ricerche sia universitarie, sia per conto di centri studi come l’IRPET. I due temi informano anche i suoi studi più recenti, tesi a conciliare l’uso delle nuove tecnologie nella gestione urbana e ambientale con la dimensione del progetto spaziale. Roberto Bottazzi È un architetto impegnato nella pratica, ricerca ed insegnamento. Dopo aver conseguito la laurea con lode all’Università di Firenze e un master in Advanced Studies alla Ubc (W. Gerson Award), collabora prima con lo studio Lwpac (Vancouver) e poi dal 2004 al 2010 con Chora (Londra) su diversi progetti e ricerche fra cui: il concorso per lo spazio publico The Landing, Arnhem (primo premio) e l’installazione Xiamen City Energy Masterplan. La sua ricerca sull’impatto delle tecnologie digitali nella progettazione urbana è stata pubblicata a livello internazionale attraverso lezioni ed esibizioni tra le quali: Honk Hong/Shenzhen Biennale, Fargbabriken Institute (Stoccolma) e aicsa conferences (Los Angeles), Design Museum (Londra). Dal 2005 insegna al Royal College of Art — in qualità di master tutor e cordinatore del programma di dottorato — e alla Westminister University entrambe a Londra. Maurizio Carta Professore ordinario di urbanistica all’Università di Palermo, dove è anche pro-rettore allo sviluppo territoriale e direttore vicario del Dipartimento di Architettura. Dal 2009 al 2011 è stato assessore al piano strategico e al centro storico del Comune di Palermo. Esperto di pianificazione urbana e territoriale, pianificazione strategica e progettazione urbana, consulente di numerose amministrazioni pubbliche in Italia e advisor in alcune esperienze estere, per le quali ha seguito la redazione di piani urbanistici, piani paesaggistici e piani strategici. È autore di più di duecento pubblicazioni, tra le più recenti: Creative City (2007), Governare l’evoluzione (2009), Culture, communication and cooperation: the three Cs for a proactive creative city (2009). Pietro Giorgieri Professore associato di urbanistica alla Facoltà

direttore Guido Incerti

OPERE OPERE piazza Stazione 1 50123 Firenze tel. 055 2608671 fax 055 290525 email opere@architoscana.org rivista toscana di architettura ISBN 978-88-6315-520-4 ISSN 1723-1906 Pubblicazione trimestrale Spedizione in abbonamento postale 45% — art. 1, comma 1, CB Firenze. D.L. 353/2003 (conv. L. 27/02/04 n. 46) -•Registrazione tribunale Firenze n. 5266 del 15 aprile 2003 -•Proprietà Fondazione Professione Architetto dell’Ordine degli Architetti Pianificatori Paesaggisti e Conservatori della Provincia di Firenze e dell’Ordine degli Architetti Pianificatori Paesaggisti e Corservatori della Provincia di Prato. -•Prezzo di copertina numero singolo € 10,00 numero monografico € 10,00 arretrati € 10,00 Abbonamento annuale (Italia) (4+1 numero monografico) € 40,00 Abbonamento annuale (estero) € 70,00 -•Garanzia di riservatezza per gli abbonati. L’editore garantisce la massima riservatezza dei dati forniti dagli abbonati e la possibilità di richiederne gratuitamente la rettifica o la cancellazione.

redazione Filippo Boretti Fabio Fabbrizzi Ginevra Grasso Michele Londino Cristiano Lucchi Marcello Marchesini Tommaso Rossi Fioravanti Antonella Serra Graziella Sini (segreteria) Davide Virdis direzione artistica D’Apostrophe, Firenze

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di Architettura dell’Università degli Studi di Firenze. È stato professore incaricato del Corso di Analisi dei Sistemi urbani e Pianificazione del territorio presso la Facoltà di Architettura del Politecnico di Milano. Partecipa a seminari, studi e convegni promossi da enti pubblici e privati ed è titolare di ricerche d’Ateneo, finanziate dal Ministero della P.I. e della Ricerca scientifica. Responsabile, per il Dipartimento di Urbanistica e Pianificazione Territoriale dell’Università di Firenze, della ricerca “Disegnare la città eco-compatibile”, selezionata dalla Regione Toscana per l’assegnazione dei finanziamenti del bando “Ricerca e Innovazione 2009”. Justin Justin Mallia è un architetto pratiMallia cante dall’Australia. Ha insegnato, criticato e tenuto conferenze in design presso la Monash University, l’Università di Melbourne, il Royal Melbourne Institute of Technology e la Royal Australian Institute of Architects. Oltre a lavorare in uno studio privato è stato un associato presso Peter Elliott architettura e design urbano per oltre dieci anni. Le sue opere hanno vinto numerosi premi di architettura e sono stati pubblicati ed esposti a livello internazionale. Architetto, si laurea nel Sara Naldoni 2010 discutendo una tesi in progettazione ambientale dal titolo “Organismo urbano: sviluppo sostenibile a Santiago del Cile” presso il Dipartimento di Tecnologia di Firenze. L’interesse per la soste-

nibilità la porta a Lima (Perù) dove collabora, con il Centro ABITA, a progetti di cooperazione internazionale, formazione rivolta ai dirigenti delle pubbliche amministrazioni locali, pianificazione territoriale e progettazione architettonica ecosostenibile. Vive a Firenze, dove svolge attività di ricerca con l’università sui temi legati alla smart city ed al suo disegno urbano. EmanueNato a Firenze nel 1980 si le Nappini diploma in lingue negli anni del boom di internet e inizia a lavorare come grafico e web designer. Nel 2001 decide di dedicarsi al sociale, collabora con associazioni non profit e lavora diversi anni all’estero principalmente a Cuba e in Cina, avendo la possibilità di fare una delle esperienze più significative della sua vita. In questo stesso periodo si avvicina alla fotografia come autodidatta, ripercorrendo le principali tappe ed evoluzioni tecniche del mezzo: dal foro stenopeico, alla camera oscura al digitale. L’interesse nel confrontarsi, nel condividere esperienze e nell’apprendere direttamente dalle persone e dai professionisti, lo porta a conoscere diversi punti di vista e approcci. Nel 2011 si diploma presso la Scuola Internazionale di Fotografia di Firenze. Attualmente vive e lavora a Firenze come grafico e Critica fotografo indipendente. Elisa Poli e storica dell’architettura indaga nel suo percorso di

studi le complesse relazioni tra arte contemporanea, architettura e urbanistica. “Dottore di ricerca” in “Storia dell’architettura” presso l’Université de Paris 1 Pantheon-Sorbonne, si interessa di temi legati alla storiografia del modernismo architettonico e alla teoria dell’architettura. Insegna “Storia dell’architettura contemporanea” presso lo IUAV di Venezia e svolge attività didattica alla Facoltà di Architettura dell’Università di Ferrara e all’Accademia di Belle arti di Bologna; collabora con diverse riviste di architettura tra cui “Domus”, “Arch’it”, “AND”, “Abitare” e “Archphoto”. Nato a Roma nel 1975 Fabio Viola e ha vissuto quattro anni a Osaka (Giappone). Ha pubblicato “Italia 2 – viaggio nel Paese che abbiamo inventato” (con Cristiano de Majo, minimum fax 2008), il romanzo “Gli intervistatori” (Ponte alle Grazie 2010) e vari racconti in antologie e in e-book, tra cui “Ritorno” (Feltrinelli 2012). Nell’aprile di quest’anno uscirà per Marsilio “Sparire”, romanzo di ambientazione Goran è giapponese. In copertina Goran Marco Romano. Camicia di flanella, jeans neri e scarpe da ginnastica. Ama la birra fredda, salatini e olive verdi. Viene dalle terre assolate pugliesi, anche se il sole lo fa sudare. Colleziona tazze, pennarelli e taccuini neri. Non smette mai di disegnare. Dimenticavamo. Ha un gran paio di baffi!


INDICE

1 2 RICERCHE

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Città dialogante Città del dialogo Justin Mallia traduzione di Michele Londino

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A good city form Disegnare la città eco-compatibile Pietro Giorgieri, Francesco Alberti

PROJECTS

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EPICENTRI

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Della sostenibilità delle città toscane Dialogo con le Amministrazioni Francesco Alberti, Sara Naldoni

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servizi fotografici di Emanuele Nappini e Davide Virdis

ALTRE ARCHITETTURE

ENDESA PAVILION Iaac /// Barcellona, Spagna

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WEStErN hArbOur Malmö, Svezia

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Città Intelligenti Ginevra Grasso

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MASDAr CIty Foster + Partners /// Masdar, Emirati Arabi Uniti

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Mappa mundi Il gedankenexperiment è servito! Marcello Marchesini


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PROGETTI

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FOrNACE DEL bErSAgLIO Lelli & Associati Architettura + Magazè /// Faenza, Ravenna

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7 8 9 Sustainable development Elisa Poli

URBAN DESIGN

PrOgEttO bAItE Carlorattiassociati, Walter Nicolino & Carlo Ratti /// Bersone, Trento

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Il cammello è un cavallo disegnato da un comitato? Michele Londino

MISCELLANEA

APPUNTI DI VIAGGIO

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Isola Fabio Viola

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Open Urbanism progettare città senzienti e dialogiche Maurizio Carta

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Firenze Alle radici della città dialogante Fabio Fabbrizzi Città dialoganti versus città intelligenti Roberto Bottazzi intervista a cura di Guido Incerti

hOuSINg SOCIALE RPA Rossi Prodi Associati /// via Cenni, Milano

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FOCUS

Compendio letterario

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EDITORIALE

Guido Incerti Questo numero di “Opere” nasce in maniera atipica per una rivista di architettura trimestrale. È infatti conseguenza del numero precedente. Un’evoluzione dello stesso racconto. Partendo dal presupposto che una città, qualunque essa sia può essere fortemente danneggiata da una catastrofe, qual è la modalità per, eventualmente, ricostruirla? O meglio qual è oggi l’orizzonte di sviluppo dei sistemi urbani? E anche delle architetture e degli spazi che li costituiscono? La risposta a queste domande pare, oggi, estremamente scontata. Le città devono evolversi in maniera intelligente diventando “smart cities”. Ma che cosa intendiamo quando parliamo di città intelligenti? Tenendo conto che la città non diventa intelligente di per se stessa, la prima cosa che mi sento di dire è una affermazione lapalissiana e un po’ spiritosa: una città per ambire alla qualifica di “intelligente” deve essere amministrata, gestita e disegnata intelligentemente. Una caratteristica quest’ultima non sempre così scontata. Mentre è scontato che l’eventuale intelligenza di una città è un percorso continuo frutto dell’attività di soggetti pubblici e privati. Discutendo di smart city delineiamo quindi lo scenario prossimo delle nostre città e l’oggetto della discussione è il futuro degli ambienti urbani nell’epoca dell’IT, dell’Information Technology. Detto questo noi di “Opere” abbiamo deciso di declinare il termine smart city in città dialoganti. Un aggettivo che crediamo meglio possa prestarsi al futuro delle nostre città tanto quanto al loro passato che, da sempre, è frutto di un dialogo. Non credo infatti che le città potranno mai definirsi intelligenti se prima non comunicheranno, a tutti i livelli, con i loro cittadini e viceversa, se i loro cittadini

non potranno interagire in maniera semplice con essa. L’Anci nel lanciare la costituzione dell’”Osservatorio nazionale smart city” parla infatti di un processo che nasce dal basso “per contribuire a trasformare le modalità con cui il paese si rapporta con i problemi della modernità”. Il problema di questa affermazione sta però nel fatto che i paradigmi moderni con cui la maggior parte dei costruttori, degli urbanisti e degli architetti, nonché degli amministratori, si rapporta derivano direttamente dal movimento moderno. Figli cioè dello sviluppo economico industrialista e fordista, ove i luoghi, le funzioni dei luoghi e i tempi della città erano facilmente, ed idealmente, prevedibili nonché pianificabili. Ma questi elementi oggi si sono liquefatti e vanno, di conseguenza, totalmente ripensati. La ricerca naturalmente a questa necessità è giunta da anni. E ha aperto vari scenari possibili: smart enviroment, smart energy, smart waste sono infatti alcuni dei risultati di questo percorso. Nonostante ciò la gestione politica e progettuale risulta ancora deficitaria, sempre rallentata dai tempi lunghi degli organi decisionali. Anche se, pur in mancanza di un chiaro disegno organico, persino l’Italia sembra finalmente muoversi. Sostenibilità, modelli di trasporto alternativo, open data, carbon free, strategie di pianificazione oraria cittadina e metropolitana che incentivi forme di lavoro “decontestualizzato” e “nomadico”, piattaforme di cloud computing, i device mobili, il social networking fanno si che venga sempre meno il significato tradizionale di funzione, orario, luogo e, forse, della città stessa come risultato di questi. Pubblico e privato assieme potrebbero quindi cercare nuovi approcci alla progettazione, sostenibile, dei vari pezzi

che fanno il puzzle città intelligente. Anche se ci troviamo in uno scenario storico in cui, mentre noi parliamo di città intelligenti e sostenibili, l’ultima conferenza sul clima di Doha ha visto passare il concetto di “adattabilità” sociale a quelli che saranno i prossimi sconvolgimenti climatici causati dall’uomo — il cui sviluppo insostenibile continua nonostante tutto — piuttosto che cercare ricette per uno sviluppo effettivamente sostenibile. Detto questo quindi smart o dialogante è un aggettivo che non può definire solo le città dove le nuove tecnologie mediatiche (o IT-Information Technology) permettono il continuo scambio di flussi di informazioni tra la città e i suoi abitanti. Quanto, probabilmente, quelle città figlie di una società che ha deciso di avvalersi di queste tecnologie e di quelle più tradizionalmente sostenibili — in primis la buona progettazione — per ripensare se stessa. Anche se sarà poi così vero che le ipotetiche città intelligenti saranno così intelligenti, se il cittadino sarà “costretto” a schematizzare la propria vita in base ai flussi energetici che la “animeranno”? Sarà intelligente quella città che limiterà la libertà del cittadino in base alla sua supposta “sostenibilità”? E queste limitazioni, piuttosto, non saranno figlie di una mancanza di dialogo, per assurdo, tra città e cittadino. Un dialogo interrotto perché tutto avverrà in funzione del giusto funzionamento dell’organismo urbano. Ecco che quindi ritorna il tema della città effettivamente dialogante? Che potrebbe non essere altro che la città progettata a misura d’uomo o, ancor meglio, a misura di ambiente, perché in fin dei conti uomini e città fanno parte di un unico grande contesto che va sotto il nome di Terra.


竊選nception, 2010, di Christopher Nolan (ツゥOnlyHDWallpapers.com 2013)



cittàdialogante Justin Mallia

Dal 1928 al 1945 il tedesco Gerd Arntz, graphic designer ha progettato oltre 4.000 simboli per indicare in maniera sintetica ed immediata i dati fondamentali del mondo dell’industria, della demografia, della politica e all’economia. Simboli creati per stabilire un dialogo fra le persone e la città attraverso l’informazione asciutta della sintesi del disegno. Nella società contemporanea questi temi sono sempre più attuali soprattutto e a causa del continuo aumento di informazioni e degli effetti che queste producono nella città del futuro. I simboli creati da Arntz, (il sistema internazionale chiamato Typographic Picture Education), sono stati successivamente sviluppati dal sociologo e filosofo austriaco Otto Neurath. Il lungo e fruttuoso lavoro si è concluso con l’atlante Gesellschaft und Wirtschaft: Bildstatistisches Elementarwek, traducibile in Società ed economia: Statistica e immagine, pubblicato in Lipsia nel 1930. Il catalogo, composto da cento “cartelle visive” fornisce una panoramica su una grande quantità di dati empirici della società di quel momento storico. Attraverso i grafici si racconta la storia di paesi e continenti, di potenze politico militari e le loro relazioni, il rapporto tra commercio e industria, infine la crescita delle città e la struttura sociale delle popolazioni. Questo sistema di trasmissione dell’informazione attraverso dati è stato sviluppato durante il periodo in cui c’è stata una cronica mancanza di informazioni e soprattutto di

traduzione Michele Londino

disponibilità di informazioni da parte della popolazione. Stimolato dal periodo cosiddetto del socialismo, Otto Neurath ha creato un linguaggio semplice indirizzato alla crescita e nell’interesse del proletariato e nell’interesse soprattutto della promozione sociale. Il sistema Isotype è stato sviluppato per trasmettere queste conoscenze direttamente e attraverso immagini semplici, in modo chiaro e coerentemente strutturato. I pittogrammi disegnati da Arntz sono stati sistematicamente impiegati in combinazione con mappe stilizzate e diagrammi con l’intenzione di poter finalmente superare le barriere culturali, la lingua e l’analfabetismo, e per essere quindi universalmente comprese. In contrapposizione a tale contesto storico fatto appunto da una sistematica mancanza e disponibilità di informazioni, nella società contemporanea c’è invece una notevole disponibilità di dati. Viviamo una sorta di rivoluzione dell’informazione in cui la disponibilità di informazioni, immediatamente accessibili è letteralmente a portata di mano. Basti pensare all’uso di strumenti come gli smartphone. Abbiamo oggi la disponibilità di rapporti ufficiali di governi, enormi quantità di dati statistici, dati personali pubblicati su piattaforme come Facebook per esempio, foto, mappe e persino accessibilità a documenti e relazioni personali; Tutto disponibile online. La città è “navigata” quindi mappata dai sistemi Gps e documentata dalle migliaia di tele-

città del dialogo

camere di Google e dalle applicazioni Apple. Quasi nulla sembra eludere questa visibilità digitale universale. Allo stesso tempo, il presente è ancora opaco. Non ci sono dati precisi di dettaglio, ma all’interno di così tante informazioni è difficile trovare orientamento e ottenere una panoramica di ciò che è importante e ciò che non è importante. La società del recente passato ha già sperimentato una oscurità di informazione attraverso la mancanza di dati disponibili, oggi sperimentiamo una oscurità di informazioni a causa di una saturazione di dati. Di conseguenza si può affermare che i progressi della tecnologia non creano necessariamente trasparenza delle informazioni, non permette il dialogo, o se vogliamo, non promuove l’uguaglianza sociale. Come nel caso di Neurath, ciò che è stato importante, per lui è l’uso che realmente facciamo delle informazioni, il modo in cui utilizziamo le tecnologie, e come si recupera il dialogo con la città. Una città dialogante non è necessariamente costruita sulla tecnologia, ma come sempre è stato, è una città costruita sulla società. La rivoluzione dell’informazione in atto si ripercuoterà sulle società, una società basata sull’informazione, la comunicazione e le reti. Per orientarsi nello spazio opaco dovuta alla eccessiva informazione bisogna capire cosa rappresenta la rivoluzione di Internet e come si ripercuote sulle persone e infine sulla città stessa. Così come la rivoluzione

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industriale ha avuto un impatto notevole sui movimenti architettonici e lo sviluppo della città fisica, la rivoluzione di internet avrà anche un effetto importante. Tuttavia questi nuovi cambiamenti non saranno come nel passato. Per comprendere questo nuovo fenomeno dobbiamo riformulare completamente la nostra percezione della storia delle rivoluzioni. La trasformazione delle nostre città stanno subendo non un passaggio successivo rispetto alla rivoluzione industriale, ma qualcosa di completamente diverso. La rivoluzione industriale è ampiamente accettata come fenomeno di trasformazione della società, ma questo impone una questione: quale età è questa in cui ci troviamo? Utilizziamo ancora le categorie come la fabbrica, la produzione di massa, l’automazione, la robotica. Anche se tutto questo non ha più un impatto su di noi nel senso della rivoluzione e cambio di atteggiamenti. Non viviamo più nell’Età Industriale, così come non stiamo vivendo nell’epoca della pietra, del bronzo o del ferro. Si potrebbe dire che viviamo in un’era tecnologica o comunque dominata dal computer, ma questa descrizione della realtà fotografa solo una parte di ciò sta avvenendo attualmente. Pensare ad una età tecnologica o del computer è un pensiero in linea con il modo di vedere noi stessi, la città, e la nostra storia in termini di materiali fisici. Le classificazioni e la terminologia per definire le varie epoche (Età


Esempi di stampe digitali del sistema Isotype di Gerd Arntz, 1928/45. (©www.gerdarntz.com)

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della Pietra, Età del Bronzo e del Ferro), sono terminologie create nel 1850 e legate intimamente al tempo della industrializzazione. Queste classificazioni sono state create in riferimento a ciò che era importante per la società in quel tempo. In un’epoca di standardizzazione, meccanizzazione e di fabbricazione, era ovvio ed opportuno leggere la storia dell’umanità dal punto di vista dei materiali. Non viviamo più nel periodo della rivoluzione industriale, quindi non è più adatto questo riferimento soprattutto per la ricerca e per una adeguata risposta al cambiamento che stiamo vivendo. In realtà, per capire ciò che sta accadendo nelle nostre città e interpretare il nostro prossimo futuro, dovremmo riconsiderare comple-

tamente e aggiornare la nostra percezione della storia. Abbiamo bisogno di guardare alla storia in maniera innovativa. Ciò che la società dell’informazione propone non ha avuto inizio in California nel 1970 con l’invenzione di internet, perché infondo tutte le società sono da sempre state società dell’informazione. Come riformulate dai sociologi svedesi Alexander Bard e Jan Söderqvist, dobbiamo invece ripensare la cronologia completa dello sviluppo umano, in termini di comunicazione. Bard e Söderqvist suggeriscono di adottare l’uso della pietra come punto di partenza, possiamo allora far coincidere lo sviluppo umano all’inizio di 200.000 anni fa con l’avvento del linguaggio. Il linguaggio come ri-

voluzione originaria dell’informazione che ci ha fatto nettamente diversi dagli altri animali e ci ha permesso di comunicare tra noi e organizzare noi stessi. La seconda rivoluzione si è verificata intorno al 3000 a.C. in Mesopotamia con l’invenzione della scrittura. Per la prima volta questo nuovo strumento ha permesso agli esseri umani di memorizzare le informazioni in modo efficiente al di fuori del proprio cervello. Ha permesso quindi di registrare e condividere le informazioni attraverso le generazioni. Se un individuo informato muore, la sua conoscenza non muore con lui, ma può essere registrata e trasmessa ad altri, ciò ha permesso alle persone di costruire sulle conoscenze dei loro predecessori e di creare

una società più saggia. La stampa è stata inventata in Germania nel 1500 e questo è stato ancora una volta una rivoluzione dell’informazione, perché la possibilità di stampare libri, invece di scrivere a mano ha aumentato il numero di copie disponibili nel mondo a favore di una quantità di persone sempre più grande. Vista nel contesto di una storia della comunicazione, la prossima rivoluzione, quella che stiamo vivendo, sarà la rivoluzione dell’informazione di internet. Internet è una rivoluzione dell’informazione particolare perché cambia completamente il modo attraverso cui una società si relaziona utilizzando le informazioni. Se il libro, giornale, radio e televisione tutti i mass media coinvolti, avevano


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una figura dominante che dettava le regole verso il basso, Internet al contrario consente ai membri della società di impegnarsi tra loro individualmente e direttamente. Questo è un cambiamento di orientamento. Dall’informazione proveniente da un’unica direzione quella verticale verso il basso, si genera e si contrappone un movimento in orizzontale. Questo nuovo flusso di informazioni è un flusso paritario tra i membri della società che agisce direttamente, senza la necessità di una figura di mediazione. In questo modo si definisce la storia dell’umanità come lo sviluppo in termini di discorso, scrittura, stampa e infine internet. Con ciascuna di queste rivoluzioni la quantità totale di informazioni a disposizione si

espande enormemente. Pertanto ognuna di queste ha creato un nuovo paradigma, un nuovo tipo di contenuto e quindi una nuova società e nuovi cambiamenti per la città. La quantità di informazioni che l’umanità ha prodotto dopo la nascita di internet può essere quantificato come più di quanto non sia stato prodotto in tutta l’intera storia del genere umano prima di Internet. Il cambiamento che una rivoluzione dell’informazione porterà sembra essere inevitabilmente enorme, cosi come gli effetti sulle nostre città. Vi è la tendenza, nella scienza nella fiction o nei manifesti futuristi del modernismo, di immaginare la città del futuro come qualcosa di freddo ed estraneo. Con questa visione, che il filo-

sofo tedesco Martin Heidegger aveva intuito, a fianco del dominio di altri elementi naturali, la figura umana sembra spesso isolato in un contesto tecnologico come una macchina appunto. Tuttavia, la realtà della rivoluzione dell’informazione sulle nostre città in realtà si tradurrà in un rafforzamento del dialogo tra l’umano e la città stessa. Gli ultimi anni hanno visto la nascita di un movimento delle Smart City. L’uso di questa terminologia è ancora in via di sviluppo ed è prevalentemente pensata nel significato di innovazioni tecnologiche, tuttavia città come Amsterdam o Copenaghen includono già un forte elemento sociale nel loro svilupparsi e modificarsi, al pari della tecnologia. Allo stesso tempo, dobbiamo anche trova-

re esempi di città impegnate in un ritorno ai fondamentali elementi umani. L’esperienza di Newcastle in Australia e Hornstull in Svezia coinvolge il semplice dialogo umano e l’interazione della comunità (facilitata dalla tecnologia ovviamente) come forza rigeneratrice della città stessa per esempio qualora la società fosse stata devastata dalla scomparsa di grandi industrie alle quali essa in precedenza basava l’intera economia. Come la rivoluzione modernista delle nostre città è stata guidata dalla rivoluzione industriale allo stesso modo la rivoluzione informatica della società contemporanea nella visione di una città in un dialogo troverà la vera rivoluzione architettonica della nostra città del futuro.


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Opte Project di Barrett Lyon, 2005. (©MoMA)


Agoodcityform Pietro Giorgieri, Francesco Alberti

Come già enunciato nel titolo, la ricerca Di.E.Ci. “Disegnare la città eco-sostenibile” — svolta dal Dipartimento di Architettura di Firenze con il sostegno della Regione Toscana — ruota intorno a due nuclei tematici: “forma” e “sostenibilità” urbana. Di questi, il secondo rappresenta una paradigma con cui ogni operazione di trasformazione sulla città contemporanea deve necessariamente misurarsi, fornendo risposte tecniche adeguate alle problematiche ambientali ed energetiche pertinenti ad ogni scala d’intervento e facendosi al contempo carico delle ricadute economiche e degli effetti sociali ad esso legati. L’accentazione sulla dimensione ambientale — nel riferimento all’ecosostenibilità — è da mettere in relazione alla formulazione di quello che la Strategia tematica sull’ambiente urbano dell’Unione Europea definisce come “obiettivo globale”: «rivitalizzare le città europee, per farne luoghi sani, piacevoli e accoglienti in cui vivere e permettere alle comunità e alle economie locali di prosperare. Al centro di questo processo deve essere l’ambiente». Una rappresentazione icastica di questo concetto è rintracciabile nel programma EcoCity messo in atto a Vancouver, città in prima linea nella sperimentazione di politiche orientate alla sostenibilità urbana, la cui amministrazione, nel febbraio 2011, ha approvato all’unanimità un piano d’azione per arrivare al traguardo del 2020

Disegnare la città eco-compatibile

fissato dal Protocollo di Kyoto come the greenest city in the world. Nell’introduzione della parte del programma dedicata alla densità insediativa, il “triangolo della sostenibilità” è presentato in forma di triciclo: la ruota anteriore, che dà la direzione di marcia, è la sostenibilità ambientale, mentre le ruote posteriori, che danno stabilità al mezzo, rappresentano la sostenibilità sociale e quella economica. Intorno al tema del “disegno” ruota invece quella che può essere considerata la tesi della ricerca, ovvero l’affermazione secondo cui qualsiasi discorso sulla città — a maggior ragione se traguardato sulla lunga durata e sulla valorizzazione delle risorse locali, come il paradigma della sostenibilità impone — non può esimersi da una riflessione sulla forma, sulle relazioni e sul significato che ogni intervento di modificazione del suolo incarna nel contesto in cui si inserisce. Tale affermazione contiene in sé una valenza programmatica, particolarmente appropriata nell’affrontare la “questione urbana” nella Toscana contemporanea, se solo consideriamo questi due aspetti fra loro interconnessi: • il carattere strutturato e morfologicamente connotato dei centri storici, che nell’immaginario collettivo continuano a interpretare, sia a livello locale che a scala globale, il ruolo dell’insediamento toscano tout court, svolgendo una funzione identitaria “di supplenza” anche per tutto il ben più esteso

— ma per la gran parte anonimo — insediamento contemporaneo; • l’esigenza, da tempo sentita ma ad oggi sostanzialmente elusa, di strategie incisive nel campo della riqualificazione urbana, volte appunto a correggere gli squilibri funzionali e la debolezza morfologica della città che si è sviluppata dal secondo dopoguerra in poi: un’esigenza che oggi si incontra con le istanze della sostenibilità urbana, e che in esse può trovare una nuova fonte di legittimazione anche rispetto al tema delle risorse economiche — inevitabilmente ingenti — da investire sul territorio. Possiamo dire che dal bilancio sulle esperienze internazionali di progettazione urbana sostenibile, alla cui analisi è dedicata una parte significativa della ricerca, il problema della qualità morfologica dei nuovi insediamenti appare a tutt’oggi quello meno risolto, come se l’introduzione di livelli prestazionali molto elevati nei fabbricati e una più ampia dotazione di zone verdi possa da sola costituire un surrogato alla qualità degli spazi fisici in cui vivono e si muovono gli uomini, secondo un approccio analogo a quello degli standard nell’urbanistica tradizionale. Molto più interessanti e innovativi appaiono invece, nel complesso, quegli interventi che inserendosi negli interstizi della città esistente mirano a modificarne l’uso e la percezione da parte degli abitanti, trasformando aree mar-

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ginali o snodi di traffico in luoghi vissuti e “figurabili”. Il quadro che deriva dall’ampia casistica di situazioni analizzate, incrociata alle informazioni desunte dalla letteratura — compresa quella, assai abbondante, prodotta dall’Unione Europea — consentono comunque di enucleare alcuni principi generali. Al netto di numerose variabili, vi è una sostanziale convergenza sulla relativa maggior sostenibilità dei modelli insediativi organizzati per ambiti morfologicamente definiti e compatti (a cui sono assimilabili anche i quartieri delle città esistenti) percorsi e interconnessi da reti ecologiche e di mobilità; fra queste, un’importanza strutturante — rispettivamente alla scala locale e a quella urbana-metropolitana — è assunta dai sistemi pedonali e da quelli dedicati al trasporto pubblico. La declinazione più nota di questi modelli è il Tod (Transit Oriented Development), teorizzato dall’americano Peter Calthorpe nel libro The Next American Metropolis (1993), a cui fanno riferimento, in modo più o meno esplicito, alcuni programmi di riorganizzazione funzionale di aree metropolitane in corso in tutto il mondo (da Portland negli Usa, a Ginevra, a Napoli). Entro questa “cornice”, un ruolo fondamentale è poi attribuito alle prestazione funzionali ed ecologiche, ai connotati spaziali e alle reciproche relazioni delle varie componenti: strada, spazio pubblico, edifici, ecc.


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1 Matthew Carmona et al., Se tutti gli elementi di potenziale “uso misto” sono collocati sui margini dell’insediamento, il ruolo del centro è a rischio, (da Public Places - Urban Spaces: The Dimensions of Urban Design, 2003) 2 Gordon Cullen, Una vittima della pianificazione di un grande spazio traccia la sua pubblica protesta per ricordare la necessità di una città giustamente concentrata, (da Townscape, 1961). 3 Pietro Giorgieri et al., Possibile metamorfosi del sistema urbano, (schemi tratti dallo studio svolto per il Comune di Firenze La mobilità sostenibile a Firenze come strumento di riqualificazione urbana, 2011)

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Altro tema ricorrente è quello relativo all’uso del verde come elemento di compensazione ambientale e di riqualificazione paesaggistica delle aree urbane e metropolitane, secondo un approccio che attribuisce al paesaggio un ruolo strutturante per la città contemporanea, in sostituzione a quello svolto dall’architettura nella città tradizionale. Un ruolo che può anche essere giocato expost, grazie alla flessibilità dei materiali vegetali, permettendo di intervenire in situazioni di avanzato degrado. Secondo lo studioso australiano Peter Newman (2009), Tod, Pod (Pedestrian Oriented Development) e God (Green Oriented Developement, in cui i sistemi degli spazi pubblici urbani si intersecano con le infrastrutture ambientali) sono i tre profili che insieme caratterizzano la “città resiliente” (una città capace

cioè di adattarsi ai mutamenti ambientali e all’andamento dei cicli economici). Al di là del richiamo ricorrente al paradigma della città compatta e di un’attenzione sicuramente più marcata, rispetto al passato, ai temi dell’accessibilità e della qualità ambientale (affiancati, in molti casi, da applicazioni innovative per quanto riguarda l’approvvigionamento energetico), non esiste un modello “ideale” per quanto riguarda il disegno urbano a cui ricondurre, anche solo concettualmente, la molteplicità delle soluzioni adottate o proposte; esistono invece elaborazioni interessanti sopratutto nel trattamento degli elementi del progetto di suolo, in particolare per quanto riguarda l’articolazione degli spazi viari (marciapiedi, fasce alberate, percorsi ciclabili, aree di sosta, ecc.). Si

tratta di un tema più importante di quanto non sembri, come dimostrano, per contrasto, realizzazioni anche recentissime nei nostri contesti urbani (basti pensare all’inadeguatezza degli spazi pedonali in tutti i principali interventi di trasformazione fatti a Firenze negli ultimi anni). Il recupero di una razionalità minimale nel disegno dello spazio pubblico è evidentemente una pre-condizione rispetto a qualsiasi avanzamento culturale. Tuttavia, è evidente come la qualità delle parti sia necessaria ma non sufficiente a qualificare l’insieme. Dal punto di vista dell’urban design non si registrano, nel complesso, particolari innovazioni direttamente rapportabili al nuovo approccio sostenibile ai temi della città; anzi, preoccupa una certa tendenza verso mecca-

nici assemblaggi delle singole componenti progettuali, sia pure entro un’immancabile cornice “verde”. In molti casi — anche fra quelli più celebrati, come il quartiere Vauban di Friburgo — il problema della forma appare in effetti fortemente sottovalutato. Struttura e gerarchizzazione dello spazio pubblico in relazione al contesto di riferimento, mixité, e “dosaggio” delle densità in ragione di un ”effetto città” sono i fattori da cui dipendono maggiormente l’equilibrio funzionale e compositivo di ogni intervento e il suo significato urbano. Alla luce di queste considerazioni, un ripensamento sulla natura degli strumenti che disciplinano la trasformazione delle città toscane appare a nostro avviso necessaria. Il Piano strutturale in particolare necessita di essere profon-


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damente modificato nei contenuti e nella forma, sia per come è proposto dalla vigente legge 1/2005 sul governo del territorio, per altro in via di revisione, sia per come viene elaborato dai Comuni. Avendo assunto come temi “strutturali” il sistema della mobilità e il sistema dello spazio aperto, lo stesso Ps dovrà prioritariamente darne conto e includere come parte essenziale e strutturante il progetto della mobilità nelle sue strategie fondamentali (senza demandarlo a studi successivi e di settore), così come dovrà necessariamente contenere il progetto del sistema dello spazio aperto — in particolare pubblico — declinato nella forma di strategie di riqualificazione urbana spazialmente definite (schemi direttori, ideogrammi, abachi di sezioni stradali, caratteristiche morfo-

logiche dei luoghi e del sistema delle loro relazioni). Questo significa definire anche i rapporti e le modalità attuative in relazione agli strumenti perequativi, che dovranno pertanto essere opportunamente calibrati anche in ragione di queste finalità e priorità. I Ps che non rispondono a queste tematiche dovranno essere considerati incompleti nei loro elementi fondativi e non potranno quindi essere approvati. Altro punto che dovrà essere profondamente rivisto è quello del significato e del ruolo delle Utoe (Unità territoriali organiche elementari). Il concetto stesso — per altro abbastanza vago — di Utoe, dovrà essere profondamente rivisto e riarticolato in ragione del “progetto di città” che si vuole perseguire. E se, ad esem-

pio, si pensa a sistemi urbani a forte valenza pedonale e ciclabile, queste articolazioni interne del territorio comunale non potranno avere dimensioni “illimitate” né dal punto di vista spaziale né da quello degli abitanti insediati. Si dovrà infatti dar conto della necessità di raggiungere pedonalmente almeno i servizi e gli spazi pubblici principali, e più in generale il sistema dei luoghi centrali che strutturano lo spazio aperto e la rete del trasporto pubblico. La stessa struttura interna delle varie porzioni urbane dovrà necessariamente legittimarsi, non solo in termini di standard quantitativi, ma anche di relazioni e di struttura morfologica dotata di valori identitari e urbani. E sopratutto si dovrà indicare qual è il “sistema di luoghi centrali” senza il quale non può esserci alcuna autonomia funzionale,

alcuna “unità urbana organica”, sia pure elementare. Si dovrà superare il tanto deprecato calcolo quantitativo come unico elemento di valutazione e indicare i necessari elaborati grafici che diano evidenza iconografica al progetto dell’organizzazione per parti dell’insediamento, considerando la struttura un problema connesso alla forma, alla disposizione, alla complessità funzionale del sistema dei luoghi. Infine si dovrà evidenziare l’esistenza all’interno dei sistemi insediativi di un articolato sistema di layer urbani (comunità locale, quartiere, distretto urbano, città, ecc.) che richiedono e presumono diversi livelli prestazionali e di organizzazione dello spazio aperto. L’obiettivo è comunque sempre quello di riorganizzare i tessuti urbani di recente for-


4 Qualità urbana e prestazioni innovative di un quartiere sostenibile: presentazione di Hammarby Sjostad a Stoccolma, (dal portale nazionale della Svezia www.sweden.se)

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mazione in un sistema articolato di strutture urbane dotate di una rete di luoghi centrali pedonali che aggreghino i servizi (pubblici e privati) e siano i gangli di un progetto della mobilità alternativo a quello basato sull’auto privata. Nel Regolamento urbanistico, tali indicazioni strategiche dovranno raggiungere un adeguato livello di dettaglio, affinché il sistema degli spazi pubblici — pedonali (verdi e/o pavimentati), ciclabili, del trasporto pubblico e infine carrabili (viabilità e parcheggi) — possa concretamente rappresentare l’ossatura progettuale su cui incardinare i singoli interventi, pubblici e privati. Questo comporta lo sviluppo degli schemi direttori presenti nel Ps in “progetti di suolo” riferiti a ciascuna Utoe o a parti di esse, accompagnato dalla redazione di abachi per le situazioni più ricorrenti e da

prefigurazioni progettuali per le situazioni “speciali”, nonché l’individuazione, per quelle aree di trasformazione la cui definizione è rinviata a piani attuativi, almeno delle regole relazionali principali da seguire nella loro elaborazione. “A monte”, cioè a livello normativo (legge sul governo del territorio e regolamenti di attuazione), dovranno parimenti essere introdotti principi e prescrizioni, da applicare nella redazioni dei piani, tesi a favorire una riconversione sostenibile degli insediamenti, tanto dal punto di vista ecologico, quanto, in modo ad esso inscindibile, dal punto di vista della qualità morfologica e funzionale. Si dovranno ad esempio prevedere nuovi standard, sia su temi come l’approvvigionamento idrico o il riciclo dei rifiuti, sia su temi legati alla vivibilità urbana, quali — a titolo esemplificativo:

• la dotazione minima di spazi pedonali in relazione alle dimensioni dei sistemi insediativi e dei relativi sotto-sistemi (per es. i quartieri), unitamente a parametri inderogabili di copertura verde, alberature stradali, spazi attrezzati per bambini, attrezzature sportive senza vincoli di accesso; • parametri di accessibilità “dolce” e tramite mezzi pubblici sia delle aree urbane a destinazione mista, sia in quelle con destinazioni specialistiche, con particolare riguardo ai grandi generatori di traffico; da valutare la possibilità di stabilire, oltre che dotazioni minime, anche quantità massime di spazi adibiti a parcheggio, in modo da favorire collocazioni legate al trasporto pubblico; • parametri di mixité in relazione alle densità e alle caratteristiche degli spazi urbani, ecc. In conclusione, e più in ge-

nerale, è necessario ritornare a progettare la città e la sua struttura fisica e morfologica. Temi per troppo tempo trascurati, con il risultato che nonostante una ricca produzione di leggi, regolamenti e piani di varia denominazione non siamo riusciti più a costruire città e spazi abitabili. Questa necessità di tornare a progettare le città affrontando in particolare il tema del “come” organizzare, disporre, strutturare gli insediamenti e lo spazio pubblico di relazione è inoltre particolarmente importante in un periodo di crisi, che impone l’obbligo d’un uso razionale e sapiente delle limitate risorse pubbliche e private. Il progetto di a good city form è dunque sia la premessa ineludibile, sia la condizione imprescindibile per l’elaborazione di convincenti e durature strategie di intervento sulla città presente e futura.



CITTÀTOSCANE

DELLASOSTENIBILITÀ DELLE 22

Dialogo con le Amministrazioni

In Italia una strategia nazionale sulle aree urbane è finora mancata, ma nessuno dei programmi politici che si sono confrontati nell’ultima tornata elettorale ha messo in evidenza questo vuoto storico come un problema. In attesa di capire se alle parole (mancate) seguiranno fatti, abbiamo chiesto a due assessori all’Urbanistica di capoluoghi toscani, Elisabetta Meucci (Firenze) e Fabrizio Cerri (Pisa), e al sindaco di Pistoia, Samuele Bertinelli, che ha mantenuto le deleghe in materia di governo del territorio, quali siano dal loro punto di vista i temi salienti intorno a cui intavolare, tra i vari livelli istituzionali e i cittadini, una nuova stagione di confronto sulle città improntato a un’idea non retorica di sviluppo sostenibile. Ecco cosa ci hanno risposto. Il titolo di questo numero di Opere è “La città dialogante”: una traduzione libera e aperta della nozione di smart city. Sostenibile, intelligente, connessa, dialogante... Che idea di città le suggeriscono queste definizioni? Firenze > Colgo uno di questi aggettivi, “dialogante”, perché l’espressione “città del dialogo” mi sembra quella che rappresenta meglio il modello di città che sarebbe bello costruire, includendo le altre aggettivazioni. Per un assessore all’urbanistica essa evoca quella di “spazio pubblico” e sollecita una riflessione intorno a due concetti, pluralità e provvisorietà, che caratterizzano, rispetto al passato, la città contempo-

ranea. In una società pluralista e multiculturale, la necessità di un denominatore comune si traduce proprio nella qualificazione e nello sviluppo degli spazi pubblici, non più vincolati alla ricerca obbligata d’un segno monumentale da lasciare ai posteri. Pistoia > Un’idea di città aperta e democratica, riqualificata nei suoi spazi pubblici e privati. Una città intelligente è una città che riflette, aprendosi all’Europa e al mondo, sul proprio futuro, investendo sulle reti materiali e immateriali del proprio territorio. Pisa > La nostra Amministrazione ha coniato lo slogan “dalla smart city alla smart community”. Al centro ci devono essere i cittadini e i loro bisogni, non più circoscrivibili entro rigidi confini amministrativi. Per questo con gli altri Comuni del territorio pisano abbiamo attivato una serie di azioni coordinate: l’approvazione di un Regolamento Edilizio unitario, l’avvio del procedimento per un Piano strutturale intercomunale, un unico progetto per il trasporto locale che presenteremo alla gara regionale per il gestore unico. Secondo lei in che termini i temi della città dovrebbero entrare a far parte dell’agenda del governo nazionale? FI > Il primo tema che viene in mente è quello della città metropolitana che ha ormai un rango costituzionale. Sembrava quasi che con il governo uscente ci si fosse arrivati, poi è tornato tutto in alto mare. L’auspicio è che il tema abbia un adeguato rilievo nella prossima legislatura, ri-

Francesco Alberti, Sara Naldoni

partendo da un’analisi su quali siano le politiche che richiedono un livello di governo intermedio fra Comune e Regione. PT > Sono convinto che, per il futuro del paese e delle nostre città, dovrebbe essere resa dignità alla pianificazione pubblica, che non può più essere demandata al prezioso, ma talora esoterico, dibattito tra urbanisti, architetti e giuristi. I cittadini e la politica devono tornare a discutere di strategie di lungo periodo per il futuro della città e lo strumento attraverso il quale possono farlo è il piano, la programmazione modernamente intesa. PI > È indispensabile una legge quadro nazionale sul governo del territorio, ispirata alle normative regionali più innovative (tra cui quella toscana) e che tratti alcuni temi fondamentali: recupero del suolo verso nuova edificazione; compattamento verso proliferazione urbana; sicurezza ambientale; mobilità e infrastrutture (che non possono essere considerate una variabile indipendente rispetto ai programmi di sviluppo del territorio); perequazione urbanistica (vista anche come uno strumento per evitare che le scelte urbanistiche dei Comuni siano dettate solo dall’esigenza di incamerare gli oneri di urbanizzazione). Inoltre lo Stato dovrebbe promuovere programmi di rinnovo, monitorando le attività dei Comuni e premiando quelli più virtuosi, capaci di gestire al meglio le risorse assegnate. A proposito di riassetto istituzionale, ritiene che la riduzione

degli enti locali possa favorire l’avvio di politiche integrate? In che modo dovrebbero essere ripartite le competenze di pianificazione e gestione del territorio? FI > Una riforma costituzionale che abolisca le Province non risponde tanto alle logiche della spending review quanto agli obiettivi di razionalizzazione dell’ingegneria istituzionale. L’articolazione potrebbe essere basata su: 1) città metropolitane, con competenze sostanziali e non solo di coordinamento (ad esempio, non solo la pianificazione di carattere strategico e statuario ma anche quella di carattere prescrittivo e conformativo); 2) unioni di Comuni per la gestione di alcuni servizi (valutando se e in quali casi si possa introdurre qualche elemento di obbligatorietà); 3) accorpamento di Comuni, a partire dalla constatazione che, mentre a livello europeo è in atto da tempo un processo di aggregazione dal basso delle unità di governo (in Gran Bretagna e Germania le municipalità si sono ridotte d’un terzo, in Olanda della metà), nel nostro paese è rimasta sostanzialmente intatta, fin dall’unità, la struttura amministrativa e territoriale dei Comuni, nonostante le trasformazioni profonde della società e del territorio. Ovviamente il processo di riassetto va portato avanti ricercando il giusto equilibrio fra le esigenze del controllo democratico e quelle dell’efficienza. Su questo aspetto sono necessari approfondimenti, in particolare, su quali funzioni si potrebbero appoggiare su agenzie che ope-


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rino alla scala economicamente ottimale — scale che inevitabilmente sono diverse a seconda della funzione considerata. PT > Non credo che la soluzione passi, tout-court, dalla riduzione del numero degli enti locali, tanto meno se ispirata esclusivamente a ragioni di economia della spesa, ma, semmai, da una duplice strada: semplificare un sistema istituzionale troppo parcellizzato rafforzando la gestione associata dei servizi da parte dei piccoli Comuni e valorizzare i poteri di coordinamento delle Province soprattutto sui temi della mobilità, dell’ambiente, della gestione dei rifiuti. Queste dovrebbero essere ridisegnate in modo da farle coincidere coi territori che nel tempo si sono più strettamente connessi (penso, ad esempio, all’area di Pistoia, Prato e Firenze). PI > Abbiamo bisogno d’una riforma organica, capace di risolvere i problemi in maniera lungimirante ottenendo così i risparmi finora perseguiti solo attraverso una politica di tagli. Forse rimodulare la presenza delle istituzioni sul territorio attraverso l’aggregazione dei Comuni, con organi di secondo livello (tipo Circoscrizioni) a rappresentare le identità locali, potrebbe essere una soluzione per evitare il trauma del superamento delle Province — che peraltro, nella visione dei padri costituenti, dovevano essere mantenute solo fino all’entrata in vigore delle Regioni. Una critica spesso mossa all’attuale legge toscana sul governo

del territorio, la 1/2005, è quella di essere troppo generica su come si debba perseguire la sostenibilità, soprattutto nelle città. Ora che la legge è in via di riforma, quali suggerimenti darebbe per rendere le nuove norme più efficaci? FI > Per quanto riguarda la sostenibilità, si dispone ormai d’un apparato normativo e d’una strumentazione valutativa molto ampia, che andrebbe semmai resa più asciutta e meno letteraria, a tutto vantaggio della chiarezza. Detto questo, penso che occorra “riposizionare” l’attenzione della legge, oggi soprattutto rivolta ai vincoli e alle valutazioni cui condizionare il consumo di nuove risorse territoriali, prendendo atto che strategie più sostenibili di governo del territorio sono inevitabilmente orientate ad un recupero e una rifunzionalizzazione dell’esistente e che dunque si dovrà ragionare più in termini di prestazioni che di mc/mq. PT > Nella riforma della legge 1/2005 sono del parere che debba essere preservato il caposaldo della centralità delle amministrazioni comunali nella pianificazione territoriale, tenendo conto della peculiare tradizione italiana e della pulviscolare realtà dei nostri Comuni. Poiché le politiche per la sostenibilità ambientale richiedono un indispensabile coordinamento, credo che il legislatore regionale, senza indulgere nella tentazione d’un nuovo centralismo, dovrebbe incentivare le forme di pianificazione sovracomunale. PI > Ritengo che gli obiettivi e i temi da trattare a livel-

lo regionale siano, ovviamente a una scala diversa, gli stessi che citavo prima per il livello nazionale. Un altro aspetto importante riguarda poi la pianificazione intercomunale, non prevista dalla 1/2005, che — come annunciato — sarà reintrodotta e regolamentata dalla nuova legge. Nel dibattito sulle città sostenibili, alcuni temi hanno assunto nel tempo una rilevanza particolare: la mobilità urbana; il potenziamento e la valorizzazione delle reti ambientali; l’edilizia sostenibile; la trasformazione di aree dismesse in nuove parti di città qualificanti e a basse emissioni. Quali sono le iniziative più significative portate avanti nella sua città su questi temi? E in che modo sono riconducibili a una visione organica di lunga durata? FI > Le strategie per la sostenibilità hanno trovato una prima enunciazione nel programma di mandato presentato dal Sindaco e un’esposizione più sistematica nel Piano d’Azione per l’Energia Sostenibile, approvato nel 2010 aderendo al Patto dei Sindaci delle città europee. Il vincolo della sostenibilità ambientale ha inoltre ispirato tutto il Piano strutturale in termini di indirizzi e direttive: nel campo della mobilità, con lo sviluppo delle linee tramviarie e delle piste ciclabili; nel campo delle dotazioni ecologiche, con la definizione di nodi e corridoi ecologici fra le aree di interesse naturalistico (ad esempio è stata introdotta la monetizzazione degli standard urbanisti-

ci per il verde, in modo da favorire interventi alla scala adeguata evitando la frammentazione); nel campo della qualificazione energetica degli edifici, con la revisione, in programma, del Regolamento Edilizio, ma anche con la divulgazione e il sostegno di buone pratiche quali il restyling degli involucri edilizi che coniuga riqualificazione estetica ed energetica. Tra le opzioni del Ps, la prima e la più coerente con il principio della sostenibilità è comunque quella dei “volumi zero”. Salvo pochi casi, su cui il Comune è stato soccombente in tribunale, non sono più ammesse nuove edificazioni, ma solo interventi di trasformazione dell’esistente. In questo campo vorrei ricordare, come fiore all’occhiello, l’intervento di sostituzione del complesso di edilizia residenziale pubblica in via Torre degli Agli con nuovi fabbricati caratterizzati dai più alti standard energetici e bioclimatici. L’intervento si accompagna alla sperimentazione di alloggi temporanei in legno, modulari ed ecologici, per ospitare durante le fasi di cantiere gli inquilini degli edifici demoliti, che così potranno restare nel quartiere mantenendo le loro abitudini e relazioni. Gli stessi moduli potranno in futuro essere riutilizzati per interventi in altre zone della città. Ognuno dei temi citati sarà sviluppato nel Regolamento Urbanistico, del quale a febbraio è stato avviato il procedimento e che arriverà all’adozione entro l’estate. PT > Su i temi indicati Pistoia ha impostato, negli ultimi me-


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si, varie azioni ispirate alla sostenibilità. Sulla mobilità urbana stiamo avviando il procedimento di riforma del Piano Urbano della Mobilità, e di conseguenza del Piano Generale del Traffico Urbano, perché siano più decisamente orientati a favorire la mobilità pedonale e ciclabile. Dopo aver già pedonalizzato tre piazze nel cuore della città storica, pubblicheremo a breve un bando per la sistemazione anche di Piazza Spirito Santo, attualmente destinata a parcheggio. Inoltre abbiamo deliberato un piano che porterà all’estensione 0-24 della Ztl esistente nel centro storico e, dal prossimo autunno, ad un suo ampliamento. Per quello che riguarda l’edilizia sostenibile, stiamo per approvare un Regolamento Edilizio che prevede per gli interventi di nuova edificazione l’obbligatorietà della classe energetica “B”, riconoscendo, al fine del calcolo degli oneri, una riduzione del 25% sul costo di costruzione per quanti realizzeranno la classe “A”. Inoltre, dopo l’approvazione del Regolamento Urbanistico, rimasto incompiuto nel precedente mandato, apriremo una nuova fase della pianificazione territoriale a partire da una variante generale al Ps che dovrà ispirarsi al criterio della rigenerazione urbana come alternativa al consumo di suolo. Pistoia, importante distretto vivaistico a livello europeo e mondiale, ha avuto la fortuna di preservare visibilmente il confine tra città e campagna: sono convinto che ciò rappresenti un valore da tu-

telare ed uno stimolo per la città e il suo tessuto produttivo con l’obiettivo di farne la “capitale europea del verde”. Tutte le azioni che ho descritto erano previste nel programma elettorale che è poi divenuto progetto di governo. Avevo racchiuso il senso di quel progetto nella indicazione fondamentale di “Pistoia città di tutti”, volendo significare che Pistoia deve essere una città accogliente e inclusiva, moderna e solidale, che si ispira al valore sociale del lavoro e alla promozione della cultura e del sapere come condizione di cittadinanza e come leva per una crescita “leggera”, nel senso inteso da Calvino nelle Lezioni Americane. PI > Pisa sta investendo molto sulla mobilità sostenibile, per fronteggiare un tasso di motorizzazione tra i più alti in Toscana. L’elemento nodale del sistema a cui stiamo lavorando è il polo intermodale dei trasporti pubblici presso la stazione ferroviaria (che ha un movimento di circa 18 mln di passeggeri l’anno), comprendente un terminal delle autolinee, progettato su un’area di recupero adiacente, l’attestamento del people mover, che collegherà il centro con l’aeroporto Galilei, e quello d’un nuovo collegamento in sede propria diretto all’ospedale di Cisanello, per il quale sono in corso gli studi preliminari. Vorrei ricordare inoltre che siamo stati tra i primi in Toscana ad aver istituito le linee di autobus “ad alta mobilità” (Lam): tre sono già in esercizio e una quarta sarà inaugurata a breve. A questo si aggiungono i prov-

vedimenti per ridurre le auto nel centro urbano: dall’istituzione dei varchi elettronici per la Ztl, alla realizzazione di parcheggi scambiatori a nord della città (nuovi parcheggi a sud saranno poi realizzati lungo il percorso del people mover), a quella d’un itinerario pedonale continuo tra la stazione e il Duomo. Per quanto concerne il sistema del verde, Pisa fece una scelta di fondo già negli anni Settanta, quando fu istituito il Parco di Migliarino-S.Rossore, limitando drasticamente la possibilità di occupare nuovo suolo. Con i suoi 13.500 ettari, il Parco occupa infatti oltre il 70% dell’intero territorio comunale. Abbiamo approvato da circa due anni un Regolamento per l’edilizia sostenibile, redatto con il supporto scientifico dell’Istituto di Energia dell’Università, che ha introdotto requisiti minimi per tutti gli edifici e incentivi per chi raggiunge prestazioni più elevate. Sul fronte del recupero e della riqualificazione urbana accenno soltanto alle numerose azioni messe in campo con il Piano Integrato Urbano di Sviluppo Sostenibile, che stiamo portando avanti senza ritardi sulla tabella di marcia. Tra queste, le più significative sono certamente il recupero delle mura e la trasformazione dell’area dell’ex Ospedale Santa Chiara, accanto a Piazza dei Miracoli, su un piano affidato su concorso a David Chipperfield. Il disegno complessivo coinvolge ed integra le diverse tematiche sopra citate, tese ad assicurare una migliore qualità di vita e migliori prospetti-

ve economiche per la città, in particolare consolidando il suo ruolo turistico. Che cosa intende per “dialogo con i cittadini?” FI > Il “dialogo” non va confuso con la partecipazione, che deve avere occasioni e procedure più formalizzate. Esso presuppone uno scambio, con reciprocità di ascolto e di conferimento di informazioni, al fine di migliorare il processo decisionale. Dal lato dell’amministrazione comunale è fondamentale la capacità di fornire, sulle questioni oggetto di confronto, un’informazione completa e comprensibile. In assenza di queste forme di comunicazione corretta, il dialogo rischia di fondarsi su un’asimmetrica informativa che ne condiziona negativamente l’efficacia. PT > Dialogo con i cittadini significa partecipazione civile diffusa, cittadinanza attiva. La democrazia rappresentativa è esigente, perché non è — o meglio non dovrebbe essere — una delega affidata a pochi al momento delle elezioni, ma l’impegno di rappresentati e rappresentanti alla cura della città come bene comune. PI > Il dialogo è innanzitutto predisposizione all’ascolto, da applicare nelle diverse circostanze in cui oggi si può esprimere il contatto con i cittadini: dalle classiche assemblee alla comunicazione attraverso internet, dagli incontri con comitati, Associazioni di Categoria ed Ordini Professionali, ai momenti di partecipazione previsti dalla legislazione regionale.


↑©Emanuele Nappini > Casa dell’acqua, Massarosa (LU)



↑ ©Davide Virdis > periferia di Tunisi nell’ottobre del 2012



↑ ŠDavide Virdis > Habana nel gennaio del 2011



↑ ŠDavide Virdis > periferia di Damasco nel marzo del 2011


↓ ©Emanuele Nappini > Affittacamere, Capannori (LU)



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testo di Elisa Poli

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It would have been apparent long ago that the art and business of creating buildings is not divisible into two intellectually separate parts – structures, on the one hand, and on the other mechanical services. Even if industrial habit and contract law appear to impose such a division, it remains false. Reyner Banham The Architectureof the Well-tempered Environment

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Tra i vocaboli più abusati dell’ultimo decennio compare quasi in cima alla classifica il sostantivo sostenibilità. Nonostante il concetto di sustainable development sia utilizzato sin dai primi ani Ottanta, occorre fare chiarezza intorno al significato che viene oggi attribuito a concetti come smart building o sustainable building. I tre esempi scelti per illustrare la complessa questione legata alla sostenibilità mostrano, in modo forse leggermente paradigmatico ma abbastanza evidente, quante sfaccettature possiede in ambito architettonico tale idea. Ancora oggi l’aggettivo sostenibile è presente nei dizionari come semplice attributo del verbo sostenere, come se la lingua non riconoscesse ancora la presenza di un significato altro, la maggiorazione di senso che vede lo scarto tra la funzione primaria del verbo — reggere, portare su di sé il peso di qualcosa — e l’estensione d’uso che vorrebbe trasformare questo peso nell’energia necessaria a modificare un sistema ormai obsoleto e dannoso per il nostro ecosistema. Inutile fissare punti fermi; la sostenibilità può essere un modo di vedere il paesaggio così come una certificazione che attesta il basso impatto ambientale di un prodotto umano ma anche il dispositivo che alimenta la progettazione del territorio o l’attenzione per il valore dei materiali locali. Nel 1969 lo storico e critico

britannico Reyner Banham, rifacendosi ai principi ecologici introdotti sin da metà Ottocento da Ernst Haeckel, iniziò a ripensare la storia dell’architettura del XIX e XX secolo attraverso il concetto della della tecnologia ambientale, dimostrando come, sotto la scorza degli stili, esistessero ragioni profonde che indirizzavano e animavano la costruzione degli edifici. Oggi, tuttavia, diverse interpretazioni hanno frazionato l’ortodossia del “Well-tempered Environment” e diverse scuole di pensiero si contendono il primato sulla riconoscibilità di ciò che è o dovrebbe essere sostenibile, riducendo spesso il piacere della complessità del tema alla semplificazione in una nomenclatura di matrice funzionalista. Il rischio di questo genere di approccio si rileva attraverso il sistema delle certificazioni che, come tabelle nutrizionali stampate sul retro delle confezioni alimentari, decretano l’apporto di grassi di un vasetto di yogurt ma non raccontano nulla né degli animali che l’anno prodotto — uomini o mucche che siano — né dell’ambiente in cui questi animali vivono, né del rapporto tra produttori e consumatori. La sostenibilità, almeno in teoria, dovrebbe invece superare la dualità di questo schema economico-produttivo, cercando di valutare fattori sino ad oggi poco considerati o, più precisamente, ormai dimenticati.


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lelli & associati

FaenZa

Ravenna

L’intervento di nuova edificazione sorge nell’area di un’antica fornace. Il progetto è costituito da trentaquattro case a patio in muratura portante, ad un solo livello, immerse nel verde di giardini privati e di giardini pensili posti sulle coperture, arricchite da elementi in legno che le caratterizzano: delle pergole e dei portici in continuità con gli ambienti di soggiorno, prolungamenti esterni delle residenze. Questo progetto presenta come valore fondativo una riflessione intorno al tema della sosteniblità intesa come tentativo di riportare una qualità locale all'interno di un territorio fortemente caratterizzato, sia dal

punto di vista agricolo, sia sul piano produttivo d'impresa. A differenza di quanto espresso da molti sostenitori degli smart building, attenti all’utilizzo di nuove tecnologie, vediamo, in questo caso, una forte concentrazione d'intenti intorno alla scelta di manodopera locale. Gli edifici sono stati pensati come dispositivi capaci di legare ambito pubblico e semi-pubblico con la richiesta di privacy che spinge molti utenti verso la scelta di una residenza rurale. Viene qui ripensata la cascina storica, tipica dell’area emiliana e toscana, ora intesa attraverso la scomposizione delle sue parti primarie — gli ambienti

aRchitettuRa + magaZè

testo di Elisa Poli


↑ ŠAlberto Muciaccia > vista della ciminiera della fornace dopo l'intervento

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↓→ ©Alberto Muciaccia > viste del complesso

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dedicati alla vita privata dei singoli nuclei abitativi — e la ricomposizione dei luoghi comunitari — spazi dedicati all’incontro e allo scambio — visti secondo le funzioni e le esigenze della vita contemporanea. La maniera di abitare questo luogo specifico, un’isola industriale nel paesaggio agricolo, è stato valutato in sinergia con le esigenze espresse dal committente, una cooperativa d’abitazione, la quale aveva interesse per piccole residenze a costo contenuto. Non ci sono tipologie consolidate di residenze collettive in

campagna e, per questo motivo, la proposta dei progettisti somiglia ad un condominio orizzontale di piccoli appartamenti con giardino. Le residenze si presentano, infatti, come un giardino abitato sotto un unico tipo di albero: un acero campestre con la chioma che assume una colorazione gialla per tutta la durata dell’autunno. Inoltre tutta l’area, fornace e residenze, è circondata da un perimetro di grandi acacie che creano l’effetto di una stanza a cielo aperto in mezzo al paesaggio agrario. Come ricorda Gabriele Lelli «lasciando il

mattone a vista per la fornace, i materiali utilizzati sono semplici: muratura portante intonacata a calce impastata con inerti grossolani, solai in legno, intonachino, tetto giardino, marciapiedi in doghe di legno e altre piccole costruzioni sempre in legno. Nessuna forzatura. Ciascuna residenza ha due posti auto, un portico, due patii ed un piccolo annesso per gli attrezzi. Tutte le aperture private, porte e finestre, sono ricavate su pareti di intonachino colorato di tonalità diverse di verde-grigio e affacciano sulle piccole corti».


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Rpa pRodi

testo di Elisa Poli

Rossi associati

milano via cenni

Il progetto deve relazionarsi ad un’area suburbana milanese caratterizzata da una discreta complessità morfologica, con frammenti di tessuto tradizionale, edilizia aperta e grandi complessi monofunzionali (deposito Atm, una caserma, il quartiere di edilizia popolare Fleming). Questa periferia manca di un centro per la vita sociale e quotidiana dei suoi abitanti, anche se dispone di tanti servizi, sono carenti i luoghi di aggregazione e tutta l’area appare dominata da una tranquillità al limite dell’anonimato. L’elemento generatore dell’intervento è lo spazio aperto, pubblico e

semipubblico, visto come flusso di attività tra margini costruiti adiacenti, tra città costruita e città di transizione, caratterizzata dal verde metropolitano. Gli spazi aperti sono articolati in diversi livelli di fruibilità e hanno come punto di partenza il principio urbano dell’isolato semi-aperto, che costruisce un fronte su strada, articolandosi per creare al proprio interno un luogo: la corte verde. Proprio questo paesaggio interno, protetto, diventa teatro di vita sociale anche se non si tratta di una centralità istituzionale e gerarchica quanto, piuttosto, di una dimensione sospesa tra il carattere urbano degli edifici, che


↓ Rendering di progetto


formano un brano di città, e il carattere paesaggistico e naturalistico degli spazi aperti suburbani: un luogo posto tra città e campagna, compreso tra densità e rarefazione. Nel dare forma all’impianto il progetto mette in scena simultaneamente due scale: quella di vicinato, legata alla dimensione più intima dell’abitare e quella urbana, che cerca di creare un elemento nodale nella rete dei differenti scenari metropolitani. La “corte aperta” interna, luogo centrale del progetto, è pensata come un piccolo parco con alcuni alberi e presenze arbustive, in cui prevale una sequenza di scenari verdi dai valori cromatici e olfattivi continuamente variati. Vi sono poi alcuni piccoli giardini privati e dei tetti verdi con altro verde estensivo, altri orti e floricoltura, che circondano la corte a giardino. La distribuzione planimetrica dell’intervento prevede quattro corpi di fabbrica disposti intorno alla corte verde; la conformazione molto allungata del lotto e la disposizione dei fabbricati individua quattro interruzioni, dalle quali si entra nella corte o si sale al ballatoio. Per accedere ai vani scala si deve comunque entrare nella corte interna, che si configura come spazio semi-privato al pari dei ballatoi. Da ciascuno dei quattro corpi lineari a due piani si solleva una torre di altri sette piani. Tutte le parti sono raggiunte da un sistema di percorsi orizzontali al piano terreno lungo il giardino interno e al piano primo lungo il ballatoio, e da percorsi verticali con quattro corpi scala dentro la sagoma delle torri. Nelle aree verdi è previsto un campo per il gioco della pallacanestro e un’area gioco bambini recintata, oltre a un piccolo parco pubblico con una collina dominata da un albero che

↓↘ → Rendering di progetto

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↑Pianta piano terra

↑Planivolumetrico

↑Schema delle funzioni

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↓ ŠRiccardo Ronchi > il complesso residenziale in costruzione

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↑Pianta piano sesto, torre C ↑Sezione longitudinale

↑Pianta piano secondo

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spicca sul resto della vegetazione anche per guidare percettivamente il canale naturale che attraversa internamente il complesso lungo la corte verde. Il resto delle aree è sistemato a prato con alcune alberature d’alto fusto. Elementi compositivi delle sistemazioni a verde sono i filari lungo le vie perimetrali, la “corte verde”, gli spazi nel tetto verde dedicati all'orticoltura. I filari comprendono

specie caducifoglie, a portamento colonnare e con colorazione della foglia caratterizzata da un intenso viraggio al rosso in periodo autunnale. Alcuni boschetti presentano una diversa composizione con prevalenza di sempreverdi lungo le esposizioni nord e di caducifoglie lungo gli altri versanti. Gli orti pensili dispongono di sistema di drenaggio e di recupero delle acque del troppo pieno.


↓→↗ ©Riccardo Ronchi > il complesso residenziale in costruzione

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caRloRattiassociati WalteR nicolino & caRlo Ratti testo di Elisa Poli

tRento beRsone Questo progetto si propone di riutilizzare parte del patrimonio architettonico preesistente nella provincia autonoma di Trento, trasformando il tema della rovina in patrimonio vivo del territorio. Il progressivo inutilizzo di buona parte del costruito non dipende solo da obsolescenza delle tipologie abitative o scarsità di risorse per ristrutturarle, ma è frutto di una mancanza di visione e strategia di lungo termine a cui si preferisce il più immediato e remunerativo consumo di suolo dei piani urbanistici di iniziativa privata, responsabili, per molti aspetti, di aver

generato la città senza volto degli ultimi cinquant’anni. Il Progetto Baite prova a fornire una risposta a questo fenomeno partendo da esempi concreti, utilizzando la formula del turismo consapevole come attivatore di processi abitativi in stasi da lungo periodo. Le baite interessate da questa operazione — nella prima fase centoventi manufatti dislocati in quattro differenti valli — entreranno a far parte di una rete di edifici che verranno offerti come spazi turistici con un alto livello di servizi e di tecnologie di comunicazione in modo da poter conciliare, nello stesso tempo, vacanza e lavoro.


↓→ Rendering di progetto


↑→ Rendering di progetto

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↓→ Pianta, prospetto e sezioni di progetto

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↑ Dettaglio del sistema costruttivo della copertura

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Partendo da un principio di valorizzazione delle peculiarità architettoniche del fabbricato, la sfida è quella d’inventare, ove possibile e in armonia con l’esistente, nuovi dispositivi per riattivare la vita del luogo. Gli elementi provenienti dal passato (materiali e sistemi costruttivi) possono venire in aiuto per essere adattati e reinterpretati alla luce delle nuove esigenze abitative. L’aspetto più importante per vincere questa sfida è indubbiamente quello energetico, cercando di rendere il più possibile autonomo il sistema abitativo. Il sistema impiantistico è stato concepito per conseguire risultati di bassissimo consumo energetico, diventando al contempo elemento dimostrativo utile a sensibilizzare utenti e visitatori verso le tematiche ambientali.

L’intervento punta a creare un ambiente con un forte grado di esperienzialità legata al relax attivo, alla scelta di privacy in alcuni spazi e condivisione in altri, al benessere e alla possibilità di lavorare tramite una connessione internet che colleghi questo angolo di natura con il mondo. Gli stessi spazi utilizzati per lo svago, grazie alle nuove tecnologie digitali non invasive e flessibili, possono essere adattati a spazi per riunioni o video conferenze.



FiRenZe alle radici della città dialogante

Fabio Fabbrizzi

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La cultura architettonica e urbana contemporanea è ormai abituata agli slogan. Uno di questi è quello della Smart City, ovvero di un modello di città che possa offrire oltre alla migliore vivibilità per i propri abitanti, un alto grado di sostenibilità dato dall’integrazione tra le tecnologie impiegate e i servizi offerti, nel nome dell’inclusione, dell’innovazione e dell’informazione. Un modello che offre dietro di se la visione di una città, nella quale l’integrazione dei sistemi avvenga non solo a livello organizzativo, ma anche infrastrutturale e architettonico. Rispetto a quelle che nella storia sono state le differenti categorie di riferimento poste alla base della costruzione della città, sia della sua fisicità ma anche della sua figuratività, la visione presente nell’idea di Smart City, pare privilegiare sulle altre, le categorie legate alla dimensione immateriale. In altre parole, come se in controcanto rispetto a questo nuovo pensiero sulla città e sul suo progetto, ci fosse piuttosto che l’evidenza e l’immanenza di criteri materiali, la ben più ineffabile complessità dei rapporti tra le categorie in gioco, ovvero le loro connessioni, i legami, i nessi, le attinenze, i dialoghi. Insomma, per dirla in altre parole: le relazioni. Ma costruire dunque una visione di città sulle relazioni è cosa alquanto difficoltosa se dietro non esiste la parallela costruzione di una figuratività solida e reale, pensata come quella capacità che la città dovrebbe avere di esprimere sempre se stessa, pur nella sua inevitabile e necessaria modificazione. Lavorando solo sulla dimensione di “servizio” che la connotazione contemporanea di relazione porta con se, si corre il rischio di rimanere in un campo intermedio molto più vicino alle dinamiche infrastrutturali che non

propriamente a quelle architettoniche. Si apre quindi per qualunque soggetto interessato ad ogni processo di trasformazione urbana, insieme al problema operativo della città che muta, anche quello ben più consistente dei suoi riferimenti teorici e culturali. Basare una figuratività sulle relazioni è quindi un approccio auspicabile ma difficile, perché difficile può essere caricare di valori chiari e dai risvolti architettonici, tutte le parole chiave con le quali la contemporaneità è solita definire i suoi slogan, non dimenticandoci che il medium tra queste parole e l’idea della città, rimane pur sempre l’architettura. In un mondo affollato di possibilità, stimoli per una via da percorrere possono esserci offerti anche dalla comprensione e dall’interpretazione della storia, perché credo che il presente debba ascoltare maggiormente quanto il passato abbia da dirci in modo da disvelarne tracce e presupposti per dare non solo forza e legittimazione al nostro operato, ma principi sedimentati che potremo disarticolare in tutta la complessità che oggi ci rappresenta. La storia allora come sistema da cui attingere, ma una storia intesa nella propria capacità evolutiva, capace di fare arrivare nel contemporaneo non delle risposte istantanee a cui riferirsi di volta in volta, ma la sola essenza di principi che per quanto riguarda l’architettura, possono essere prima che formali, soprattutto compositivi. Quindi non forme, ma principi di forma, a riprova di come il progetto per essere davvero innovativo, debba essere affrontato nel presente, con uno sguardo al futuro, ma con una radice nel passato. Detto questo, trovo questa questione dell’immaterialità come matrice del

progetto, una storia già sentita. Essa ovviamente, presuppone l’idea di una città intesa in chiave dinamica e non congelata in una propria immagine astratta; una città mutevole, risolta quotidianamente attraverso la vita dei propri abitanti e capace di conservare la propria figuratività nel tempo anche attraverso gli inevitabili cambiamenti. In questo senso Firenze mi pare un caso emblematico. E lo è per due motivi. Il primo appunto proprio per questo uso delle relazioni come base della sua progettualità urbana e architettonica, il secondo anche per quella rara capacità di allestire proprio attraverso di esse, non solo una propria figuratività, ma anche una vera e propria narrazione sul mondo. Tutte le volte infatti che vengono espresse nell’immanenza della forma dell’edificio, della città o del paesaggio, dei principi — siano essi di composizione, di costruzione e di utilità — si afferma sempre una più generale riflessione ideologica sull’uomo e sulle cose. Quindi architettura come spirito del tempo, espressione di valori in divenire che riflettono cosmogonie differenti. E a Firenze non sono però solo i linguaggi, le misure, le geometrie, le tecniche e i simboli a descrivere le diverse visioni del mondo, quanto soprattutto le relazioni in esse sottese che se ben colte, costituiscono la vera essenza dell’architettura. Per tracciare una ricognizione breve in questa riflessione, potremo proprio iniziare affermando che la tipologia della casa-torre e la consorteria da cui deriva l’evoluzione dell’isolato chiuso su cui si è impostato l’imprinting figurale del carattere massivo e silente dell’architettura fiorentina, anche se nato su basi difensive necessarie ai mutevoli


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umori delle fazioni in cui era suddivisa la società medievale, costruisce un carattere architettonico ricorrente che non domina ma che al contrario accoglie. Accoglie proprio perché basato sulle relazioni, sugli scambi, sui flussi, sulle dinamiche tra le diverse parti, quindi non respingendo ma offrendo semplicemente con severità, l’indispensabile al proprio funzionamento. Durante l’Umanesimo, il Brunelleschi, il Michelozzo, l’Alberti e il Buontalenti, hanno dato anch’essi saggio di questo approccio che si potrebbe definire “dialogante”, ovvero un approccio attento alla forma ma anche alle relazioni in essa sottese. Le loro prove sono state capaci di declinare nell’architettura e nella città, l’idea di un umano tornato ad essere misura di tutte le cose dopo la chiusura e la sua subordinazione all’idea di Dio, tipica della visione medievale. Va da se che il progetto rinascimentale nella propria immagine razionale e intelligibile è ancora — potremo dire per proprio statuto — un ragionamento sulle molte relazioni istituite con l’uomo, ma la visione idealizzata della città che proprio in quel periodo ha avuto in Italia punte di estremo fulgore, proprio a Firenze riesce a stemperarsi in una dimensione corrente. L’architettura umanista fiorentina non è infatti solo la riscoperta interpretata di una codificazione di matrice classica, ma il segno vivo di una città reale. La città ideale del Rinascimento è lontana dall’uomo, è congelata nel suo disegno, fermata nelle sue proporzioni, mentre Firenze è un corpo vitale che pulsa di un battito che porta in sé la propria matrice di impianto romano, deformata e scomposta poi dalla crescita casuale dell’epoca medievale, riportata infine a sistema dalla misura rinascimentale. A

dimostrazione di questa vitalità valga per tutti l’approccio brunelleschiano adoperato nello Spedale degli Innocenti, nel quale dietro alla purezza delle proprie forme, non si cela solo l’invenzione di un modo nuovo di guardare all’architettura, ma un vero principio di accoglienza. Il portico ad esempio, è un ricetto urbano che media la città all’edificio, come se l’edificio in quel momento si facesse città, ribaltando i tradizionali ruoli in gioco. La città entra dentro l’edificio attraverso il sistema dei suoi chiostri e l’edificio accoglie la stessa città facendosene carico. Questa caratteristica di reciprocità tra la città, l’edificio e l’uomo, diverrà una costante nel progetto fiorentino, divenendone uno dei suoi tratti più significativi. Questa visione rinascimentale che vede l’uomo artefice della storia, va in crisi nella seconda metà del Cinquecento e con essa anche i diversi codici del classico. In fondo l’inizio dell’era moderna si fonda proprio su questa crisi e a Firenze e nella sua architettura, in un episodio piccolo e marginale, questo passaggio viene sancito in tutta la sua carica di rottura e innovazione. Con il timpano spezzato in due parti rovesciate a formare il volo di due ali simmetriche, il Buontalenti nella Porta delle Suppliche agli Uffizi, consegna la narrazione di un disagio. Ovvero il non riconoscersi più nella perfetta sintonia con il recupero della classicità, con il suo mondo logico e ordinato che seppur vedeva l’uomo come motore di ogni azione e conseguenza, non riesce ad esprimere più la complessità che la filosofia va definendo, che la scienza sta supponendo e che l’arte sta cogliendo. Insomma, qualche ingranaggio di questa collaudata cosmogonia si sta inceppando e questa piccola architettura

è ancora lì a ricordarci le titubanze ma anche la potenzialità contenuta in questo momento. Un momento che non è ancora una visione, che sicuramente non avrà la forza di altre architetture ma che mi è sempre parso come un atto fondativo. Una sorta di “istantanea” fermata un attimo prima della deflagrazione che avverrà in maniera compiuta e completa grazie alla sensibilità dei secoli successivi e che culminerà nella liberazione attuata per esempio in ambito romano, da un Piranesi. Tutto allude ormai ad una totalità irrimediabilmente spezzata e sul piano filosofico ci si interroga sulla dimensione aprioristica delle cose che nell’architettura si riflette nell’immaginare una categoria che procede la realizzazione, come se per la prima volta si sancisse che la concezione procede l’opera. Ma la nascita dell’idea del tipo coincide in architettura con la scoperta di una nuova razionalità, di segno diverso rispetto a quella rinascimentale, non più legata all’universalità dell’uomo, ma alla sua personalità. Sarà in questa nuova visione che verranno gettate le basi per quella sorta di “istintualità dello spazio” capace di aprire il progetto ad un nuovo dialogo con la natura, costruendo di lì a poco la moderna concezione del paesaggio. L’Ottocento fiorentino sviluppa questa visione attraverso una progettualità basata sulle connessioni fra le varie parti della città e della natura circostante. Il Poggi per esempio, nel fondere i caratteri del Neoclassicismo e del Romanticismo, ha saputo incrociare il rigore razionalista del tipo alla visione della natura, come occasione per individuare un nuovo immaginario. Con il suo Piano infatti, non si fa altro che aprire la città a nuove relazioni, legando non solo le due parti


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di tessuto urbano trovatesi a contatto tra loro dall’abbattimento delle mura, ma strutturando una continuità visiva e relazionale con il verde delle colline d’Oltrarno, creando così una vera e propria operazione di costruzione del paesaggio. Qui, la ricerca del Pittoresco rincorsa attraverso piccoli luoghi circoscritti guidati da una logica della scoperta, si fonde ad uno dei temi cardine dell’Ottocento romantico, ovvero quello dell’infinito. Vedute, affacci, prospettive, si snodano lungo il percorso del Viale dei Colli a catturare un insieme che mai prima di allora era stato colto e portato a valore collettivo nella propria dimensione paesaggistica. Si assegnano così delle nuove relazioni all’insieme e un valore inedito allo sguardo che culminando nella spianata del Piazzale Michelangelo, offre della città sottostante, la forza di una scena che può apparire a tratti sublime. Insomma, tra Ottocento e Novecento si rafforza ulteriormente l’idealizzazione dell’immagine di Firenze, iniziata ormai da tempo grazie ai molti viaggiatori e intellettuali stranieri richiamati dalla sua arte e dalla sua architettura. Ma per averne una chiave di lettura diversa e addentrarsi verso l’essenza delle relazioni che la strutturano, bisogna arrivare al 1914,, quando Geoffrey Scott, il giovane studioso americano, bibliotecario di Bernard Berenson, pubblica l’Architettura dell’Umanesimo, un rivoluzionario testo pubblicato nuovamente nel 1939 dopo la sua prematura scomparsa. In questo lavoro, pensato come una sorta di contributo alla storia del gusto, al di la della scorza all’apparenza estetizzante, si coglie un punto di vista inedito che sicuramente ha contribuito a modificare la visione non solo della lettura dello spazio urbano ma anche del suo progetto.

Lo spazio della città e quello di Firenze in particolare viene inteso attraverso una lettura in chiave dinamica, cioè aggiungendo alla sua appena acquisita dimensione di temporalità, anche l’espressione e la similitudine delle infinite relazioni istituibili tra le forme e le molte necessità dell’uomo. Uno spazio la cui casualità appena gestita dal rigore di alcuni sporadici interventi, diviene fatto esistenziale, consacrando dunque l’architettura e il suo progetto alla fenomenologia. Da qui l’immissione nella struttura teorica e operativa della progettualità di quegli anni, di contributi e visioni laterali al progetto, facendolo diventare crocevia di discipline diverse prima di allora sconosciute ai temi dell’architettura, ma che non fanno altro che rafforzarne nuovamente la sua visione umana. Una sorta di continua registrazione del reale pare quindi diventare il presupposto per la lettura e per la composizione dello spazio, basato, misurato e percepito ancora una volta attraverso l’universale ma innovativa categoria della relazione. Con queste radici si comprendono forse meglio le posizioni sulla città e sulla sua progettazione portate avanti dalla cultura fiorentina a cavallo tra le due guerre e sbocciata nei temi della ricostruzione. Durante la seconda Guerra Mondiale si manifesta anche a Firenze un generale stato di inattività progettuale nel quale crescono però le aspettative per nuovi modelli di città. In questa chiave va interpretato il corpus dei disegni che Savioli dedica alla Città Ideale e nel quale si fissa l’utopia di una concezione che poi finita la guerra verrà interpretata in termini reali. In quegli anni il giovane Leonardo Savioli si unisce al maestro Giovanni Michelucci scegliendo quale

luogo di sperimentazione progettuale, quella parte di Firenze che di là da Ponte Vecchio si unisce alla collina. I temi presenti nella zona, spaziando dalle preesistenze architettoniche e ambientali, consentono una rilettura dell’esistente evidenziandone le emergenze all’interno di un connettivo che rimane indefinito. Le piazze, le chiese, i portici, i ponti e soprattutto il fiume, divengono gli elementi di una visione che prima di essere urbana appare fortemente legata all’esistenza. La Città Ideale è per Savioli la città di Firenze, pronta a rinnovarsi sull’interpretazione delle sue figure più consuete, messe nuovamente a sistema da una nuova idea di umanità. Alla base della Città Ideale c’è infatti il mondo ideale, atto di fede verso un futuro che le privazioni della guerra fanno immaginare come migliore del passato. Un mondo del quale la città ne diviene la metafora più calzante, capace di mostrare al contempo la doppia anima dei propri temi universali che si fondono ad una dimensione quotidiana e corrente dell’esistenza. In fondo la Città Ideale di Savioli è una città classica, scossa dalla discontinuità di alcuni episodi chiave che divengono i nuovi fuochi di un sistema inedito di relazioni. Il fiume diviene la spina dorsale di questo rinnovamento dal quale pare fluire una vitalità che si riversa nella città attraverso nuovi percorsi disposti su più livelli. Un corpo urbano poroso quindi, che accoglie e che dialoga con quella reciprocità tra l’edificio e il connettivo, tra il pubblico e il privato, tra l’artificiale e il naturale che la Firenze Rinascimentale aveva già praticato. Lo spazio si dilata fino ad annullare la tradizionale separazione tra il dentro e il fuori, tra il sopra e il sotto, tra il vicino e il lontano, nella rincorsa di quella fluidità


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che costituirà uno dei cavalli di battaglia dell’intero Novecento. Appare chiaro di come dietro alle visioni urbane del giovane Savioli ci sia quella registrazione della vita tanto professata da Michelucci, il quale, all’indomani delle distruzioni fiorentine ad opera delle mine tedesche dell’agosto del ’44, macerie ancora fumanti, dà luogo a quello straordinario carnet di schizzi capaci di prefigurare la sua Nuova Città. Una città nuova, imperniata sul dialogo tra antico e moderno, ma che conserva ancora nella sua percezione, quell’approccio impressionistico romantico giunto fino ai primi decenni del Novecento. Ma la matrice ottocentesca che conduce Michelucci alla registrazione della realtà secondo tonalità impressionistiche, si tinge di un’evidente sfumatura fenomenologica. A differenza dell’allievo, il maestro sarà capace tuttavia di percorrere in questa osservazione, il versante istintuale dell’esistenzialismo, privando l’idea del progetto di tutti quei valori legati ad una dimensione assoluta, ontologica, aprioristica. Con il tratto ora incerto, ora insistito, quei disegni sono la testimonianza di una vivace necessità di cambiamento, sentita per ricostruire uno dei brani più significativi di Firenze non più dov’era e com’era,, ma secondo stimoli nuovi e nuove cosmogonie. Questo mettere le relazioni e il loro dialogo alla base del progetto, muta anche la consueta visione della forma, non più ottenuta da condizionamenti di cultura, di potere o di stile, ma costruita dalla fisicizzazione di tutte le componenti immateriali che concorrono a definirla. La città sarà dunque variabile, come variabili saranno le infinite e mutevoli relazioni necessarie per formarla. In questa visione la città si assimila all’edificio e

l’edificio alla città in una reciprocità che esprime la pulsazione di una vita che pare essere l’origine, la misura e il fine di ogni questione. Va da sé che in tutto questo, la forma perde qualunque valore e interesse, per cui l’essenza del progetto non risiede più nel risultato, quanto nell’itinerario compiuto. Non più l’arrivo quindi, ma il viaggio; non più la solidità dell’immagine, ma la ben più labile percorrenza di una strada della quale non esiste certezza. Espressione di questa variabilità saranno nel tempo moltissimi edifici costruiti dalle diverse generazioni di progettisti di Scuola Fiorentina, riportando come patrimonio comune questa visione nelle loro diversità di linguaggio. Tante sono le intuizioni contenute nella variabilità che riescono a declinarsi in aspetti diversi nella progettualità urbana fiorentina degli anni seguenti, dando luogo anche a frutti di segno opposto, come ad esempio il quartiere dell’Isolotto e quello di Sorgane. Nell’Isolotto la presa di coscienza della realtà pare essere l’unica risposta possibile dopo le delusioni del Moderno. Tutto si rifà alla spontaneità della tradizione, alla poetica delle relazioni e all’ideale della natura. Ma a differenza di altri esempi coevi, vedi quelli romani, dietro l’Isolotto non c’è l’ideale del borgo. Tutt’al più c’è l’estetica della città giardino e anche quella della villa suburbana, adoperando una composizione molto più vicina alla dinamica della fondazione che non a quella della casualità. Dietro Sorgane invece c’è la rinnovata contaminazione città-edificio che partendo nuovamente dall’idea di variabilità, conduce all’utopia più fertile degli anni Sessanta, ovvero quella della

macrostruttura. Le Corbusier ha da poco sedotto il mondo con la sua Unitè così come i Metabolisti giapponesi lo impressionano con nuove configurazioni urbane gestite da macro segni che costituiscono nuove relazioni di ordine. Un ordine che a Sorgane è dato dai percorsi sdoppiati in aerei passaggi, dall’assertività delle geometrie, dalla forza dei volumi, dalla brutalità della materia, ma anche dalla raffinatezza sintattica della composizione. Sotto l’accomunante filosofia dell’edificio che diviene città e di una sua forma ricavata dalle implicite condizioni al contorno, si annida però anche l’estetica del fuori scala, dello straniamento e del gigantismo; meccanismi questi, comuni alle estetiche del pop. Un periodo questo, nel quale anche nelle visioni fiorentine, l’architettura e quindi la città, paiono perdere la propria valenza umana per caricarsi di un’accezione maggiormente astratta, legata alla sperimentazione e alla ricerca. Si passa quindi ad una dimensione sovra territoriale, dove le relazioni non sono più quelle esclusivamente legate alla fisicità dei contesti, all’evoluzione delle tradizioni o all’interpretazione delle memorie, ma alla critica dei costumi politici e societari, primo fra tutti quello del consumo sfrenato dei beni e delle risorse naturali. Non senza ironia, anche la città diviene Super e viene quindi attraversata da strutture superdimensionate che divengono i nuovi gangli di un sistema più vasto. I vari gruppi del Radical fiorentino incrociano questo gigantismo proponendo un immaginario ipertecnologico capace al contempo di lanciare salvifici messaggi di repulsione industriale. Il Superstudio per esempio, con il proprio Monumento Continuo


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propone una visione di città nella quale l’architettura attuale è superstite all’interno di una nuova imbrigliatura data da una superarchitettura che tutto contiene, che tutto risolve e che tutto anticipa. Un nuovo gigantesco principio di ordine con cui misurare il mondo. Delle utopie di questo periodo, arriva a noi come coda, il Palazzo di Giustizia di Ricci, deturpato dal campionario di materiali adoperati in corso d’opera per ingentilire la forza brutalista di quella che a tutti gli effetti è l’ultima macrostruttura fiorentina. Un edificio che vuole essere anche un pezzo di città e che prosegue a distanza di molti decenni, la lezione michelucciana sulla variabilità. Per concludere questi frammenti di riflessione sul vario uso che Firenze ha fatto delle relazioni come elemento di progetto e come leva per costruire la propria figuratività, potremo dire che dall’osservazione delle molte visioni sulla città che la cultura contemporanea è capace di esprimere, è possibile individuare due tipi di tendenze. La prima è una tendenza in fondo perdente e rinunciataria, che riconoscendo implicitamente l’inarrestabile declino delle sue dinamiche, propone di fatto una città futuribile nell’immagine ma vecchia nella sostanza, cercando in vario modo di “fuggire” dal modello contemporaneo considerato ormai irrecuperabile. Una città pensata per luoghi estremi, per condizioni al limite, per scenari anomali o per condizioni paradisiache e che diviene di volta in volta isola, nave, bolla, satellite, astronave, insomma, luogo transeunte di valori a caccia di una nuova identità, un po’ come fin dal 1964, la Walking City degli Archigram, ci aveva lasciato presagire. A questa visione si oppone quella

più reale di una tendenza che non rinuncia alla città come modello di sedimentazione di storie, di valori e di culture. Una visione che elabora un modello che non fugge, ma che al contrario, proprio per fondare la sua necessità di futuro, ricompone e rifermenta, ovvero cerca di guardare ancora all’interpretazione delle consuete componenti della città, attuando una nuova narrazione delle sue permanenze, dei suoi caratteri e della sua identità. Inutile dire che quest’ultima visione rappresenta tra le due, la strada auspicabile da percorrere, ma al contempo non possiamo escludere la sua intrinseca difficoltà. Caduto infatti anche lo stimolo dell’utopia, il progetto d’architettura ha guardato nuovamente alla storia come principio di progetto. Approccio sacrosanto questo, se non costituisse un versante scivoloso e difficile da percorrere rimanendo immuni da ogni citazionismo. E anche a Firenze, un po’ per riflusso, un po’ per recupero di un passato urbano difficile da scrollare, in molti casi la storia — ancora la storia — è parsa la soluzione migliore. Pochi sono stati però a Firenze i casi di un suo uso propositivo e tutti rimangono limitati a singoli edifici. Il caso di Novoli, l’unica area che poteva mettere in atto questa visione della memoria come principio di progetto urbano, è andato infatti disatteso. Dietro l’imprinting dato da Krier c’è sicuramente la volontà di basare la nuova immagine della città sul recupero delle relazioni, ma invece di cercare nuovi modelli e nuovi linguaggi a queste relazioni, se ne mette in atto un recupero vernacolare, quasi strapaesano, che Firenze non ha offerto neanche in clima di fervido realismo, come ai tempi dell’Isolotto. Un modo cioè di

guardare al passato che nulla offre alla sua interpretazione propositiva, cioè alla possibilità di cogliere dalla storia principi formali e non semplici elementi capaci di veicolare la sola citazione di un’immagine falsata. Eccettuato i nuovi edifici dell’Università e un altro paio di edifici singoli capaci di riportarci all’essenza dei caratteri fiorentini, la generalità dell’intervento racconta un’immagine che pare lavorare sulla tipicità piuttosto che sull’interpretazione dell’identità e del carattere della città. Ancora in tema di modelli di città futura basata sulle relazioni, a Firenze questa possibilità ha recentemente avuto anche un’accezione meno letterale, chiamandosi Volume Zero, ovvero uno sviluppo tra le varie parti teso all’equilibrio tra il recupero dell’esistente, la nuova edificazione e la demolizione. Ma tornando infine, all’idea di Smart City e non potendo fare a meno di constatare come anche questa ulteriore visione in fondo non sia altro che una figura del dialogo e della relazione, possiamo auspicare che una progettualità basata sulla messa a sistema di relazioni vecchie e nuove, possa solo generare un’evoluzione capace di lavorare non solo sulle parole, ma sulla figuratività e sul senso. Un senso che dovrebbe mantenersi in divenire e che ovviamente muta con i tempi del quale diviene espressione, ma capace di interpretare in maniera propositiva i propri caratteri e le proprie essenze, mostrando la permanenza nella modificazione. Dinamica difficile questa, ma indispensabile affinché anche il futuro, così come è stato per il passato, possa consegnarci vere architetture e quindi un’immagine della città che ogni volta muta rimanendo sempre se stessa.


città dialoganti versus città intelligenti

Roberto Bottazzi

intervista a cura di Guido Incerti

In questo numero di Opere parliamo di “Città Dialoganti” piuttosto che “Città intelligenti”. Ma per te, nel tuo ruolo di ricercatore che osserva queste dinamiche e che ne è al centro, cos’è che rende “smart” una città? O meglio dialogante una città? Da un certo punto di vista, le città sono sempre state dialoganti; si tratta infatti di sistemi che reagiscono continuamente alle forze economiche, sociali e culturali che le attraversano. Il tema delle “Città Dialoganti”, nella sua accezione più interessante e meno esplorata, estende questo dialogo a nuove forze che finora non sono state incluse nel discorso dell’urbanistica tradizionale. Mi riferisco alle tecnologie digitali, al flusso continuo di informazioni che oggi accompagna la nostra navigazione urbana. In questo contesto, per città dialogante si intende una città capace di interagire con forme ed artefatti sia organici (umani e non-umani) che inorganici. Il dialogo viene espanso e confrontato con i più interessanti sviluppi nel campo della filosofia e delle scienze; come ad esempio il lavoro di Mario Perniola e Bruno Latour. Questo tipo di città dialogante non oppone tecnologia e natura secondo i principi del Movimento Moderno, ma utilizza la tecnologia con piattaforma di scambio tra i diversi soggetti e oggetti dialoganti. I progetti di ricerca di cui mi occupo applicano questi concetti alla progettazione urbana. Il ruolo dei database nei processi creativi — archiviazione e l’uso di dati direttamente provenienti dalla città ed i suoi abitanti — è in particolare il tema centrale di queste ricerche che utilizzano tecnologie quali “augmented reality” che

permette di visualizzare ed interagire con i dati digitali. Questo finisce con il ridefinire la nozione di masterplan che può essere veramente inteso come strumento interattivo in grado di ricevere informazioni dal territorio e quindi capace di adattarsi immediatamente ad esigenze mutevoli e di comunicare direttamente con i cittadini. I progetti si concentrano sia sulla progettazione che sulla comunicazione di informazioni specialistiche al pubblico. Naturalmente il progetto di una città dialogante o intelligente ha come punto di partenza una struttura, uno scheletro che possa supportare questo nuovo livello di “o”. E se nel disegno urbano sulla “carta” questo è facilmente visibile per poi diventare tangibile, qual’è l’architettura che deve o dovrebbe avere, secondo te, l’infrastruttura digitale della città intelligente? La relazione fra città ed architettura è forse la chiave di lettura più importante attraverso la quale capire il dibattito architettonico dal secondo dopoguerra fino ad oggi. I Radicals italiani, Tendenza, Koolhaas, o, più recentemente, gli architetti legati al tema del Landscape Urbanism sono solo alcuni dei numerosi esempi che dimostrano sia la centralità di questo tema che l’impasse che la professione ancor oggi incontra nel definirne i termini. Questo filone di ricerca non dipende quindi soltanto dalla capacità di creare città dialoganti ma è strettamente legato a scelte politiche ed economiche ancor prima che architettoniche. Per capire quale sarà l’architettura della città dialogante bisogna anzitutto abbandonare il positivismo tecnologico che troppo spesso accompagna le

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innovazioni digitali. Considerare le tecnologie digitali al pari, e non superiori; ad altri tradizionali strumenti progettuali mi pare un atteggiamento più produttivo e logico. Il filosofo e matematico francese Jean-Michel Salanskis descrive la rivoluzione digitale chiedendo al lettore di immaginare un paesaggio di banale novità, dove tecnologie avanzate e primitive interagiscono liberamente. Se le tecnologie digitali pervadono tutti i settori della nostra cultura, allora non ha più senso di parlarne come una novità, ma piuttosto come un dato di fatto da cui iniziare ad immaginare il nostro mondo. Sono allora proprio i problemi più pragmatici, i programmi architettonici più elementari, come l’architettura residenziale o per uffici che possono produrre i risultati più radicali. Per questo motivo la ricerca portata avanti dagli studenti del Master Programme al Royal College of Art si concentra sulle infrastrutture esistenti della città. I programmi studiati sono quelli già presenti nella città, Londra, nella fattispecie; si tratta degli uffici postali, dei blocchi residenziali dei famosi Estates londinesi, o di edifici in disuso come British Telecom Tower, l’edificio più alto di Londra fino al 1980. Londra è una “Città Dialogante”? Come si sta muovendo su questo campo l’amministrazione della città? A Londra ogni giorno sono parlate circa trecento lingue. Per capire in che senso Londra è una città dialogante bisogna fare un passo indietro rispetto all’avvento delle tecnologie digitali. Vi sono due aspetti importanti nel definire il tema del dialogo all’interno del tessuto urbano londinese. Il primo fatto importante è il tema della


1 Giles Smith [MA Architecture RCA], mappa delle infratrutture delle Poste a Londra 2 Giles Smith [MA Architecture RCA], mappa del tragitto di una lettera all’interno del sistema postale londinese

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discontinuità. Londra non è il risultato di uno sviluppo urbano omogeneo o pianificato, si tratta piuttosto di una serie di villaggi che si sono mano a mano fusi tra loro. Pur essendo fisicamente ininterrotta; le diverse identità, o ancor meglio la discontinuità del tessuto urbano, sono ancor oggi ben visibili. Questo aspetto è di rilievo se pensiamo che la cosiddetta “smart city” spesso è accompagnata da centri di raccolta e controllo dati, che implicitamente descrivono la città come un’entità omogenea, comprensibile dell’alto per così dire. Vi sono poi diverse iniziative che sviluppano infrastrutture digitali per, ad esempio, il monitoraggio dei sistemi di trasporto [i dati personali dell’abbonamento al trasporto pubblico sono accessibili online], o l’assistenza sanitaria. Un’iniziativa diffusa e piuttosto popolare è quella di siti internet autogestiti da gruppi di quartiere per monitorare il proprio territorio (come ad esempio www.bloomsburyvillage.org). Per il momento molte di queste iniziative sono per lo più forum per la communità locale, ma è interessante speculare come queste iniziative potranno divenire propositive, cioè farsi carico della trasformazione fisica del proprio quartiere. L’area più attiva in questo settore non è tanto l’amministrazione pubblica quanto la ricerca universitaria che, pur avendo tagliato fondi, sta dando grande rilevanza al ruolo delle tecnologie digitali nella città. Ancora una volta, Londra presenta alcune peculiarità interessanti per una definizione della “città dialogante”. Vi sono due fenomeni apparentemente contrastanti nello sviluppo urbano londinese. Da un lato, l’uso della città cambia molto rapidamente, necessitando un costante

1


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adeguamento delle funzioni. Dall’altro, la città rimane fondamentalmente identica nel suo aspetto fisico: le reali trasformazioni del tessuto urbano avvengono molto lentamente e all’interno di uno spirito fondamentalmete conservatore [Herzog&deMueron sono

il primo ufficio straniero a costruire un edificio pubblico importante a Londra]. Cosicché si abita in ex-fabbriche o magazzini, si lavora in case, ecc. Il caso della London Library è tipico di questa situazione; si tratta di un perfetto ibrido tra una biblioteca ed una serie di

abitazioni. Anche se questo scollamento tra strutture fisica e destinazione d’uso è osservabile in diverse città europee, Londra lo ha fatto proprio trasformandolo in un vero e proprio dialogo fra edifici ed abitanti.

2

Quali sono gli scenari che tu vedi prospettarsi nel futuro? Spero che nel futuro immediato gli architetti si dedicheranno in modo più sistematico alla progettazioni di infrastrutture. Nonostante l’importante lavoro compiuto da architetti quali Stan Allen negli anni Novanta, la definizione di infrastruttura sta di nuovo cambiando. Il problema non è più soltanto quello di dimostrare che la progettazione delle infrastrutture appartiene alle competenze di un architetto, quanto quello di definire come la crescente ed inarrestabile ascesa delle tecnologie digitali cambierà la natura stessa delle nostre infrastrutture. Il concetto di infrastruttura deve essere aggiornato. Esso si fonda ancora su paradigmi identificati dal Movimento Moderno la cui nozione di modernità non è più sostenibile sia da un punto di vista economico che ambientale e sociale. Le reti digitali forniscono un modello più avanzato e adatto all’estetica del ventunesimo secolo; sono ibride, leggere, e convergenti. Anche se l’estetica della rete sta cambiato tutti gli ambiti culturali, in architettura ed urbanistica la divisione fra reale e virtuale ancora permane profonda. Dopo una prima fase che potremmo definire sperimentale e principalmente teorica, la sfida delle tecnologie digitali è quella di pienamente integrarsi agli strumenti di progettazione urbana e di essere uno degli strumenti di collegamento fra territorio e i desideri ed esigenze dei cittadini che vi abitano.


il cammello è un cavallo disegnato da un comitato? Michele Londino

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Tradurre un progetto politico in architettura e quindi in urbanistica è stata l’aspirazione più importante che ha accompagnato l’uomo sin dall’inizio della sua storia. Dalla città di Turi ippodamea alle sofisticate invenzioni ideali del Rinascimento la città è vissuta come laboratorio e luogo delle diverse forme sociali, politiche e culturali. Oggi, a questi temi si somma la questione della sostenibilità ambientale, messa in crisi proprio dalle stesse città contemporanee. La città nelle sue differenti rappresentazioni racchiude in se i due caratteri distintivi della geografia: la geografia fisica e la geografia politica e la sua costruzione oscilla fra un modello politico oggi anche tecnologico e il modello naturale inteso come elemento invariante del luogo su cui sorge e da difendere. Da questo doppio carattere nasce l’idea di osservare la città dal punto di vista di un geografo quale è il professor Franco Farinelli, Direttore del Dipartimento di Filosofia e comunicazione alla Università di Bologna, a cui ho rivolto alcune riflessioni sul ruolo delle città soprattutto sulla importante relazione che queste hanno instaurato con la rete e gli strumenti tecnologici con i quali dovremo confrontarci nel futuro. Michele Londino > “In ogni epoca qualcuno, guardando Fedora qual era, aveva immaginato il modo di farne la città ideale, ma mentre costruiva il suo modello in miniatura già Fedora non era più la stessa di prima, e quello che fino a ieri era stato un suo possibile futuro ormai era solo un giocattolo in una sfera di vetro”1. Così, scrive Calvino di Fedora città immaginata è riposta all’interno di una sfera di vetro che

diventa il modello di un altra Fedora. Ora tocca a noi. Testimoni di nuovi e diversi mutamenti dovremmo ripensare la città contemporanea e riparare i danni della stratificata città del novecento, creatura pachidermica incrostata di burocrazia e soprattutto imposta dall’alto. Ma è pur sempre questa la Fedora a cui si dovrà far riferimento, quella città che per una ragione o per l’altra è diventata la città che oggi conosciamo. La disputa goffa e certamente improduttiva sulla città, sviluppatasi lungo tutto il secolo passato ha ragionato quasi esclusivamente sulla figura dell’urbanista capace di occuparsi della città e delle sue vecchie e nuove malattie e gli architetti all’interno di questa contesa hanno assunto un ruolo scivoloso e cruciale. Dovremmo inventare forse un altra città? Un altra Fedora in miniatura? Possiamo fare a meno della sua storia e dell’accumulo dei suoi mutamenti senza rischiare di cadere nel vortice della frammentazione e persino della tabula rasa? Franco Farinelli > Non possiamo fare a meno di un modello, ma con l’avvertenza, che dobbiamo nella sua forma più icastica a Canetti, che dietro ogni modello si cela sempre un metamodello, la cui natura è maligna. Personalmente inizierei con l’eliminare il ricorso a Calvino e ai suoi modelli di città, proprio perché dovendo fare i conti con la storia e i suoi accumuli materiali ed immateriali, dobbiamo inventarci un nuovo sguardo. E poiché l’autentica novità è funzione della consapevolezza si tratta di partire da questa per arrivare a quella. Noi manchiamo ancora di una passabile genealogia dell’idea di città — la ricostruzione di Rykwert si arresta all’antichità. Ma dopo? Allora, prima indicazione che mi sento di dare:

una ricostruzione dell’idea di città che non assuma programmaticamente il punto di vista urbanistico, ma riscopra la latitudine e la complessità del concetto. Faccio soltanto un esempio. Qualche anno fa Rem Koolhaas teorizzava la città del futuro come un’entità in grado di dislocare suoi materiali avamposti molto lontano da sé, in maniera da intercettare e convogliare verso lo hub principale la maggior quantità di flussi. Sembrava un’idea assolutamente nuova, invece era molto vecchia: perché descriveva esattamente quella che ancora nel Cinquecento era Genova, città estesa da Cadice e Siviglia sull’Atlantico fino a Caffa sul Mar Nero, per non dire dei pezzi di Genova incluse in tutte le altre città mediterranee. Qualche urbanista ha mai studiato il funzionamento, la logica, la natura di questa città? M.L. > Nel novero delle teorie per la costruzione di nuove Fedora, di nuovi modelli in miniatura, di città del desiderio ci sono sicuramente le città “sensibili” le città “sostenibili” le città “dialoganti”. Concetti condensabili nelle cosiddette “Smart City”. Molte città europee hanno già iniziato questo processo: Amsterdam, Tallin, Helsinki, Paredes in Portogallo. Modelli, questi, capaci di fornire, per ora, unicamente risposte frammentarie a questioni non più eludibili o peggio rimandabili come i problemi legati alla sostenibilità e alle risorse energetiche sempre meno disponibili. Questioni alle quali la vecchia concezione dell’urbanistica non è in grado di rispondere, incapace con gli strumenti finora utilizzati. Le città non sono scomparse. Non sono state sostituite dalle macchine, a dispetto di prefigurazioni errate, al


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contrario, sono al centro di una nuova e importante trasformazione della storia dell’umanità. Con l’avvento dei computer si è verificato esattamente il contrario, il computer inteso come macchina si è diluito nella rete e il rapporto primario uomo-macchina è diventato interazione uomo-rete-spazio. Oggi la macchina non c’è più ha affermato, in un recente convegno, Carlo Ratti, direttore del Senseable City Laboratory del Mit (Massachusetts Institute of Tecnology)2 al suo posto abbiamo una rete distribuita nello spazio e per la prima volta entra in gioco lo spazio e la persona. Le nuove tecnologie hanno introdotto nuovi paradigmi, e i nuovi e sofisticati strumenti digitali sono capaci di osservare la città e analizzarla sotto innumerevoli aspetti. Le infrastrutture digitali che si stanno sovrapponendo alle infrastrutture tradizionali modificheranno la percezione dello spazio fisico che si dovrà confrontare inesorabilmente con lo spazio fatto di elementi immateriali delle nuove tecnologie digitali. Quale ruolo avrà la città e il suo abitante all’interno di un simile sistema in cui confluiranno enormi quantità di dati in un tempo quasi del tutto asciugato e contratto? F.F. > La risposta all’ultima domanda si trova nel De civitate dei di Agostino: ogni urbanista che pretenderebbe di rispondere senza passare attraverso i problemi che pone questo testo, in cui le città sono mobili insiemi di “pietre viventi”, si voterebbe all’ingenuità. M.L. > La difficoltà di descrivere la realtà attraverso l’esperienza non è più legata alla mancanza di informazioni, come avveniva solo qualche decennio fa ma, al contrario, la difficoltà sta proprio nella quantità e disponibilità sempre

crescente di contenuti e relazioni fra essi. Alla cosiddetta “opacità digitale” bisogna rispondere, con l’idea che le città, i densi e stratificati centri storici, le rarefatte e impersonali periferie, possano diventare laboratori e sorgenti di contenuti e informazioni. Ciò presuppone un radicale cambiamento di mentalità. Una città che parla di se a se stessa abbatte tutti gli ostacoli che hanno impedito la partecipazione al suo progetto e alla condivisione della sua costruzione. La nuova città viceversa permetterà ad ognuno di diventare il motore del cambiamento. Attraverso la rete chiunque potrà accedere alle informazioni, dialogare e quindi descrivere la città e inventarsi il proprio modello, quindi partecipare al processo di progettazione della città stessa. Ma per costruire la nuova Fedora bisogna saper mettere insieme i vari pezzi. Bisogna cioè saper interrogare la città che è ormai in grado di dialogare anche attraverso le sorprendenti protesi di mediazione fra realtà e desiderio. Questo e soltanto questo è il ruolo di una così sofisticata macchina quale è la rete? La letteratura, il racconto in particolare, ha saputo descrivere e rappresentare la città ma ovviamente è stata tenuta a debita distanza. Mi viene in mente la Vicenza di Goffredo Parise per esempio, descritta come una città grigiastra, di pietra, costruita per ingannare il passante con meravigliose quinte teatrali che rimandano inesorabilmente al teatro Olimpico di Palladio. Vedevo e ricordo Vicenza come un teatro3. Evidentemente nessun pianificatore ha mai dato peso alle acute osservazioni dei narratori convinto che fra le differenti discipline non vi fosse neppure una vaga possibilità di contatto. Accanto

alle suggestive descrizioni di Parise si può senza timore di un brusco salto accostare il progetto del Mit con gli occhi del mondo4 che attraverso migliaia di fotografie pubblicate da persone comuni e disponibili in rete ha tracciato una mappa del fenomeno della siccità in Spagna, quindi non attraverso sensori e strumenti di monitoraggio ma attraverso un altro racconto per immagini. Poter agire sul processo ideativo delle nuove città attraverso la convergenza di saperi e discipline anche apparentemente lontane fra loro significa abbandonare definitivamente l’idea per cui il cammello fosse il risultato del disegno di un comitato5. F.F. > All’interno della rete non è più possibile distinguere funzionalmente (e si fa anche fatica a distinguere ontologicamente) tra la materia, il pensiero, le persone. Anche questo sembra, se riferito alla città, nuovo ma non lo è poi molto. E la politica (il sapere della polis) è sempre stata mediazione tra l’urbs e la civitas, tra la struttura materiale della città e la capacità di manipolazione simbolica dei suoi abitanti. Oggi essa è di fronte alla necessità di fare i conti con nuove tecnologie, dunque di darsi essa stessa nuove forme. Ma di nuovo, non vi è nulla di nuovo: lo stesso è testimoniato all’inizio della cultura occidentale, nello scontro che testimonia della superiorità della logica politica, cioè urbana: lo scontro tra Polifemo, che non conosce la città, e Ulisse, che la conosce. La differenza fondamentale è che oggi siamo per molti versi alla fine del percorso di cui l’episodio rappresenta il primo passo: Ulisse inventa allora lo spazio (termine che implica, lo ricordo, la riduzione del mondo ad una


1 Colleen Corradi Brannigan, Trude, pastelli colorati, 2006 2 Colleen Corradi Brannigan, Fedora, tecnica mista, 2003

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misura lineare standard), ma oggi tale invenzione è sempre meno significativa per il funzionamento del mondo — nella rete tempo e spazio sono ridotti ai minimi termini. Insomma: così come la vera rivoluzione non consiste nell’abbattere la statua del tiranno ma nel distruggere la base tabulare su cui essa sorge, allo stesso modo no si tratta, per quanto riguarda il disegno della città, sostituire al comitato la moltitudine, ma la concezione bidimensionale della tavola. Siamo insomma nel campo dell’urbanistica allo stadio in cui era la geometria alla metà dell’Ottocento: in attesa di un Riemann che mostri come la forza non risieda nella relazione tra le entità ma nella geometria stessa, nel problema delle dimensioni della realtà.

1

--1

Italo Calvino, Le città invisibili, Le città del desiderio 4, Einaudi, Torino 1984. 2

Carlo Ratti, direttore del Senseable City Laboratory del Mit (Massachusetts Institute of Tecnology). La frase è tratta dalla conferenza pubblicata su You Tube da Meet, the Media Guru, www. meetthemediaguru.org. 3

Silvio Perrella, “Fino a Salgareda”, La scrittura nomade di Goffredo Paride, Ruzzoli, Milano 2003. 4

Tratto dal sito del Mit Senseable City Lab, The world’s eyes. 5

La frase è stata pubblicata su “Vogue”, Luglio 1958, scritta da Sir Alec Issigonis, Un cammello è un cavallo disegnato dal comitato.

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CITT

À

INTELLIGENTI

testo di Ginevra Grasso

---

Città intelligente non è una voce da coniugare al condizionale. Né tantomeno al futuro. La città intelligente è adesso e non ammette supposizioni. Ha la perentorietà dell’imperativo e la sfuggevole concretezza del presente. Affonda orgogliosamente le radici nella propria cultura ed è al contempo capace di evolvere insieme alle esigenze dei suoi abitanti. La città intelligente è solida e malleabile. La città intelligente è razionale, efficiente, sostenibile, ma soprattutto vivibile. La città intelligente è reale. Ma non esiste. Non perché sia un’utopia, al contrario essa è un modello attuabile. Semplicemente le città intelligenti non esistono.

Esistono invece persone intelligenti: cittadini educati alla cultura della collettività, del rispetto e della sostenibilità, amministratori onesti predisposti all’ascolto e capaci di gestioni oculate e partecipate, progettisti accorti, responsabili e lungimiranti. Dato che sono intelligenti, queste persone dialogano fra loro. E non dimenticano di estendere lo scambio all’ambiente, alle risorse, all’economia, alle relazioni, alla mobilità, alla comunicazione, alla tradizione, alla tecnologia. Sono consapevoli della necessità di una mirata razionalizzazione dei consumi, conoscono i vantaggi della produzione energetica da fonti rinnovabili e sanno sfruttare vantaggiosamente le conquiste raggiunte in campo scientifico e tecnologico. Collaborano per progettare un sistema organico in cui spazi pubblici e privati, servizi e infrastrutture si fondono per

creare un modello urbano a misura d’uomo. Sensibili e capaci di ascoltare, bilanciano sapientemente risorse e necessità e favoriscono la diffusione di una coscienza socio-ambientale. Lavorano contemporaneamente su scale multiple (città, edilizia, produzione) e in diverse aree di competenza (ecologia, energia, nuove tecnologie), perseguendo un insieme integrato di conoscenze con le quali agire in maniera sostenibile sia a livello locale che globale. Progettano edifici razionali e autosufficienti e li combinano in quartieri pianificati ed equipaggiati efficacemente che poi collegano attraverso sistemi di trasporto sostenibili costruendo quella rete di luoghi, connessioni e relazioni che si chiama città. In questo modo progrediscono verso un livello in cui efficienza energetica, tutela ambientale e sostenibilità economica collaborano per migliorare la qualità di vita di tutti. Intelligenti e non.


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5A

iaac

baRcellona

spagna

testo di Ginevra Grasso

La successione dei progetti proposti in questo numero di Opere, segue oltre l’abituale regola della distanza progressiva dall’epicentro-Firenze, anche quella del graduale passaggio di scala. Iniziamo quindi da una piccola costruzione, più che un edificio un manifesto: un padiglione realizzato su una banchina del porto di Barcellona, in occasione della Smart City Expo del novembre dello scorso anno. Il padiglione, che prende il nome Endesa dalla principale società di energia elettrica spagnola che ha supportato il progetto, è stato realizzato dallo Iaac (Institute for Advanced Architecture

of Catalonia). L’istituto è un centro internazionale per la ricerca, l’istruzione e l’indagine dedicato allo sviluppo dell’architettura come disciplina che, affrontando diverse scale di analisi territoriale, sia in grado di rispondere efficacemente alle esigenze del XXI Secolo. È una piattaforma per lo scambio intelligente di conoscenze fra docenti e studenti provenienti da tutto il mondo: fra gli altri Stati Uniti, Cina, India, Polonia, Italia, Messico e Sudan. L’Endesa Pavilion si presenta come un prisma in legno, leggero e multisfaccettato. Ricalcando il principio secondo il quale


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↑©Adriá Goula > Vista generale della costruzione

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↑ Moduli solari parametrici,

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1

2

5

↑ Sezione longitudinale Sezione trasversale

↑ Prospetto nord-est Prospetto nord-ovest

↑ Pianta

0

“la forma segue la funzione”, il suo disegno deriva dalla logica: “la forma segue l’energia”. I diversi moduli che compongono la facciata, connotandone il singolare e caratteristico aspetto, supportano infatti altrettanti pannelli fotovoltaici e contemporaneamente funzionano da filtri di protezione solare: “come le foglie di un albero, un singolo elemento, al contempo, produce energia e un microclima controllato”

come spiegano gli stessi progettisti. La geometria dell’edificio è frutto di uno studio accorto, supportato da moderni programmi di simulazione, volto ad una corretta esposizione che garantisca un apporto costante di energia elettrica. I diversi pezzi che compongono il padiglione sono prefabbricati e codificati, il processo di assemblaggio è in questo modo rapido. Il padiglione è, quindi, sia il prototipo

di un impianto solare calcolato per massimizzare la produzione e minimizzare i consumi, che un sistema costruttivo, applicabile a qualsiasi scala, replicabile in altri contesti e adattabile alle diverse esigenze. Si tratta di un progetto che, sfruttando sapientemente le tecnologie disponibili, si fa portavoce di un messaggio realmente intelligente: “L’energia è la nuova materia dell’architettura”.


↓©Adriá Goula > Vista di dettaglio del sistema a moduli solari parametrici

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5B

testo di Ginevra Grasso

malmö

sveZia

Saliamo di scala e ci spostiamo nel nord Europa, nella città svedese di Malmö in cui una situazione di declino è stata intelligentemente affrontata come occasione di trasformazione. Durante gli anni Novanta la profonda crisi produttiva e l’elevata disoccupazione hanno portato alla chiusura di uno dei poli cantieristici più importanti del mondo, il Kockum, nel quartiere di Western Harbour. Amministratori, aziende, architetti e cittadini hanno deciso di attivarsi imboccando la strada della sostenibilità. In questo modo, agendo su più fronti, hanno recuperato l’area trasformandola

radicalmente. Come nel progetto precedente, anche in questo caso si è deciso di puntare sull’energia pulita: le vecchie centrali a carbone e petrolio del quartiere sono state sostituite da pale eoliche, impianti geotermici e a biogas mentre gli abitanti si sono attivati montando pannelli solari sui tetti delle loro case. L’architettura ha proseguito su questa strada, impiegando materiali sostenibili o riciclati e progettando edifici energicamente autosufficienti. Le costruzioni del quartiere hanno facciate rivolte a sud (in modo da catturare i raggi solari e ridurre la climatizzazione


↓©City of Malmö > Immagini del quartiere residenziale


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←↓©City of Malmö > Immagini del quartiere

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artificiale) e altezze medio basse. Unica eccezione il grattacielo di Calatrava che spicca nello skyline con la sua forma ritorta e i suoi 190 metri di altezza. Inoltre le abitazioni sono circondate da parchi e spazi verdi che garantiscono un ampia varietà biologica e costituiscono un terzo dell’intera area. Anche la pianificazione della viabilità è eco-sostenibile: sono stati realizzati chilometri di piste ciclabili e percorsi pedonali panoramici lungo la costa. I percorsi carrabili sono ridotti al minimo e riservati ai soli residenti. Si può lasciare la propria auto in un ampio parcheggio all’ingresso del quartiere e poi spostarsi tramite l’efficiente sistema

di trasporto pubblico con veicoli a basso impatto ambientale oppure usufruire del servizio di car sharing e prenotare, attraverso internet, una delle auto elettriche offerte dal comune. Le circa duemila famiglie che attualmente risiedono nel distretto di Western Harbour vivono una vita ad emissioni zero, fondata su una filosofia encomiabile. Fortunatamente non si tratta dell’unico caso, specie nel nord Europa, di quartiere costruito secondo le regole della sostenibilità, ma è certamente esemplificativo di come sia possibile, attraverso l’impegno di tutti, conciliare gli interessi ambientali con quelli economici e sociali.


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5C

emiRati aRabi FosteR + paRtneRs

masdaR

uniti

testo di Ginevra Grasso

Essendo interessi globali, risparmio energetico, sostenibilità e alta qualità di vita sono obiettivi che non si prefiggono solo i freddi paesi del nord. Un’intera città energicamente autosufficiente e alimentata da fonti rinnovabili è stata, infatti, progettata per sorgere come un’oasi verde nel deserto intorno ad Abu Dhabi: Masdar City, letteralmente “la città sorgente”. Il masterplan è stato elaborato nel 2006 dallo studio Foster + Partners, combinando i principi di pianificazione dei tradizionali insediamenti arabi con i moderni criteri di sostenibilità. La città è stata pensata in una posizione

strategica, prossima all’aeroporto internazionale e ben collegata alle vicine comunità. La griglia su cui è impostata è disegnata in modo da seguire l’orientamento più efficace a ridurre l’accumulo di calore durante il giorno e massimizzare il raffreddamento provocato dalle escursioni termiche notturne. I quartieri sono concepiti in modo da creare un’equilibrata integrazione fra vita lavorativa e tempo libero, tutti gli spostamenti sono ridotti per garantire una maggiore comodità e per ridurre al minimo l’utilizzo di mezzi di trasporto. Strade strette si snodano fra edifici alti non più di


↓ © Foster + Partners > simulazione digitale degli spazi e delle funzioni della città



↑ © Foster + Partners > simulazione digitale del masterplan

↓ © Nigel Young Foster + Partners > vista del Masdar Institute

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cinque piani, mentre piacevoli percorsi ombreggiati incoraggiano a vivere la vita all’aria aperta muovendosi a piedi. Grande attenzione è dedicata agli spazi pubblici in modo da favorire le relazioni, mentre il terreno che circonda la città è destinato ad ospitare ampi parchi eolici e fotovoltaici che permettano la completa autosufficienza energetica. I lavori sono iniziati nel 2008 e sono previste più fasi. Il masterplan è stato pensato per essere altamente flessibile e per essere modificato sulla base delle lezioni apprese durante l’esecuzione delle fasi iniziali Ad oggi il primo complesso completato è il Masdar Institute Campus, polo

universitario di ricerca dedicato alle energie alternative, composto da sei edifici (che comprendono aule, laboratori, biblioteche e residenze), totalmente alimentati da pannelli fotovoltaici. Il costo complessivo stimato per la realizzazione di questa città a zero emissioni e rifiuti ammonta a circa ventidue miliardi di dollari e la fine dei lavori è prevista per il 2025. Una parte della città è già abitata, ma si prevede che, una volta a regime, i residenti arriveranno a 50.000 a cui si aggiungeranno i pendolari che lavoreranno nelle imprese (per lo più dedicate alle alte tecnologie e alle

energie rinnovabili) che sorgeranno in città. Ci si potrebbe domandare se la decisione di costruire ex-novo un’intera città a zero emissioni proprio nella terra dell’oro nero sia la più lungimirante in un’ottica post petrolio, o se piuttosto sia l’unica possibile in quanto l’investimento economico necessario è sostenibile solo da un paese così ricco. Se al centro degli interessi vi sia prioritariamente l’ambiente o il business. Ad ogni modo i principi di base possono essere sviluppati anche in contesti diversi e si tratta di un prototipo che funge da terreno di sperimentazione per altre città del futuro.


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20

40

100

ATRIUM

↑Sezione longitudinale

0

1 BED - A2

1 BED - A1 BALCONY

TERRACE

ATRIUM

1 BED - A1m

ATRIUM

1 BED - A2

1 BED - A1

BALCONY

Floor Sink

Masdar University - Section 01 5

10m

↑Pianta delle coperture

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SK1-1500

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SK1

SK1

SK1-1500

D900

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CFH

D750

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SK1

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SK1-1500

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D900 D900

NORTH

MECCA SAN-05 SAN-06

Masdar University - Roof Plan 10m

D900

SK1-1500

SAN-06 SAN-05

D900

SK1-1500

SK1

SK1-1500

SK1

01

SK1

02 01 03 02

NORTH

↑Pianta piano primo

SK1

FH300

CFH

1800

CFH SK1-1500

SK1

1800

FH300

SK1

SK1-1500

D900

MECCA

Masdar University - Level 01 Plan 0

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E Q

COP

SAN-32 SAN-32 SAN-32 SAN-32 SAN-32

COP

E Q

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NORTH Masdar University - Level B01 Plan 0

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10m

MECCA

↑Pianta piano B01

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Roll Shutter

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SK1-1500

0


⇅ Š Nigel Young Foster + Partners > viste degli spazi pubblici del Masdar Institute e dettaglio delle gelosie decorative delle facciate

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MAPPA MUNDI il gedankenexperiment è servito!

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1 / Dettaglio della London Underground Tube map disegnata Harry Charles Beck nel 1931 2 / Sovrapposizione grafica dell’attuale Rail and Tube Services Map con lo specimen del font Johnston ITC nella versione Bold

Marcello Marchesini

La mappa è un testo che risponde alle condizioni necessarie per favorire quello che in tedesco viene definito gedankenexperiment ovvero un esperimento concettuale1. È cioè un modello di pensiero che, con la sua immagine in costante collisione reciproca col territorio, ha finito per precederlo. Non è più il territorio che genera la mappa, ma è la mappa che genera nuovi territori! Vediamo di approfondire meglio la questione in tre passaggi essenziali. Disegnare una mappa è ontologico alla natura dell’uomo. E l’uomo è nomade Sembra che lo stimolo a favorire la redazione di mappe sia associabile alla propensione di certe comunità al movimento, allo spostarsi dal luogo d’origine. La tendenza di alcuni popoli primitivi al nomadismo deve aver affinato la loro attitudine a tracciare mappe. L’uomo ha disegnato, scolpito e raffigurato mappe in tutti i modi possibili e su tutte le superfici conosciute. Pietra, legno, osso, roccia, carta, stoffa, argilla, ferro, bronzo, carte di tipo bidimensionali, tridimensionali e virtuali, sono solo alcuni dei numerosi esempi. Altrettanto numerose poi le civiltà che si sono cimentate nella rappresentazione del mondo abitato o semplicemente conosciuto: babilonesi, fenici, egiziani, arabi, greci, romani, cinesi, atzechi, maya e anche indiani d’America ed esquimesi ci hanno tramandato la loro interpretazione del mondo. Nella evidente eterogeneità di contenuti e di impostazione generale, tutte queste mappe hanno un tratto comune: la capacità di sintetizzare un consistente numero di informazioni affinché queste siano accessibili a tutti. Le mappe, disegnate in modo semplice, possono essere utilizzate da tutti: solo così si ha la garanzia che le informazioni verranno trasmesse in modo chiaro e diretto. Ogni geografo, storico e studioso di scienze e arti, ma anche ogni designer, grafico ed esperto di marketing, è consapevole della necessità di trasmettere informazioni in modo sempre sensibile e comprensibile. Più facile a dirsi che a farsi. Tutto questo ovviamente, si riflette su ogni cosa che riguarda la comunicazione e mai come oggi, viviamo in un mondo dove la divulgazione delle informazioni è diventata la vera sostanza della questione (a patto però che questa venga fatta in un certo modo): “l’informazione ha valore solo quando può essere capita”. È quanto espresso in modo incredibilmente lucido da Richard Saul Wurman, architetto e designer, inventore del format Ted2 e sostenitore dell’Information Design o meglio di colui il quale è chiamato a “progettare la comprensione”. Fare il graphic ed information design3, significa infatti trovare il giusto equilibrio tra immagini e parole al fine di comunicare con chiarezza informazioni più o meno complesse a chi quella informazione deve capirla ed usarla. L’informazione ha infatti valore solo nel momento in cui può essere compresa. E l’informazione che non viene progettata in modo accurato, non è informazione, ma solo diffusione di notizie che generano errori, ritardi, costi, tanta frustrazione generale e soprattutto equivoci e malintesi che ostacolano un dialogo comprensibile: sono solo informazioni controproducenti. Nell’arco degli ultimi decenni sono apparse mappe di ogni tipo. Ricercatori e studiosi “hanno realizzato mappe del genoma umano, dei cromosomi, della struttura delle cellule, mentre i geologi hanno sviluppato quelle del campo magnetico terrestre. Grazie a telescopi e a sistemi di rilevazione satellitari sono stati mappati e monitorati movimenti di merci e di individui, flussi migratori e frammenti di vita di comuni cittadini [...]. Per questo motivo si fa largo uso di […] metodologie derivate dall’ambito cartografico per applicarle ad ambiti

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1 Un esperimento mentale o esperimento concettuale, in tedesco gedankenexperiment, termine coniato dal fisico e chimico danese H. C. Orsted, è un esperimento che non si intende realizzare praticamente, ma viene solo immaginato: i suoi risultati non vengono quindi misurati, ma calcolati teoricamente in base alle leggi della fisica. Parte di queste esperienze non sempre sono realizzabili nel presente per limiti non della fisica, ma della tecnologia e della tecnica ad oggi note. 2 Ted (Technology Entertainment Design) viene definito, sulla rete, come “l’oscar delle idee che vale la pena di divulgare”. Ogni anno a Monterey in California, si tiene una conferenza dove vengono invitate persone con lo scopo di esporre, per 18 minuti, la propria idea capace di cambiare e migliorare il mondo. I campi sono tutti quelli dello scibile umano. 3 L’obiettivo dell’information designer è fare in modo che semplici dati acquisiscano, per chi li riceve, valore informativo evitando il rischio che restino un mucchio di nozioni dalle quali non si riesce a ricavare un messaggio. L’information designer ha il compito di identificare e rendere visibile quel messaggio per l’audience e comunicarlo con chiarezza.

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3 / Una delle celebri opere di Alighiero Boetti

eterogenei come arte, filosofia, economia, architettura”4.

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Il mondo moderno, quello delle mappe, si divide in due ere: il prima Beck e il dopo Beck L’anno zero infatti è il 1931. Harry Beck era un genio. È decisamente il più grande genio che la storia della graphic designer abbia mai conosciuto. Attraverso una semplice intuizione è riuscito a tradurre graficamente, in modo chiaro e comprensibile a tutti, delle informazioni estremamente complesse. Harry Beck nel 1931 ha inventato la cartina della metropolitana di Londra, la famosissima Tube Map: dopo, il mondo non era più uguale a prima. Herry Beck è stato licenziato nel 1960 ed era sempre un genio. Beck all’epoca era un impiegato della London Underground e, da utente, capì che poiché la metropolitana correva sottoterra e non in superficie, l’esatta posizione geografica delle stazioni era pressoché inutile per il passeggero che, invece, desiderava sapere come recarsi da una stazione all’altra e dove cambiare linea. Beck, nelle sue cartine, rinunciò quindi alla precisione in scala (ovvero ad una fedele rappresentazione alle distanze geografiche reali) in favore di una maggiore chiarezza e leggibilità. Secondo i canoni da lui stabiliti, le linee potevano essere solo verticali, orizzontali o disposte diagonalmente (con un’inclinazione di 45°): il tutto raccordato con piccole curve e arricchito con convenzionali quanto efficaci simboli grafici; nelle cartine l’unico riferimento geografico presente era il Tamigi anch’esso però “geometrizzato” alla Beck. Nulla venne lasciato al caso: il font utilizzato fu quello già commissionato nel 1913 dalla The Underground Group ad Edward Johnston, al quale i dirigenti chiesero di volere un carattere che rendesse difficile confondere i poster dell’Underground Group con quelli


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delle pubblicità ed essere semplice e moderno: questo, naturalmente, solo per rinforzare l’identità, il tratto distintivo della compagnia. Il carattere venne inizialmente denominato Underground, per poi diventare noto come Johnston’s Railway Type e infine semplicemente come Johnston. Il font senza grazie5 ha delle caratteristiche particolari, come le lettere “o” perfettamente circolari (sia maiuscole che minuscole) ed un piccolo quadrato ruotato diagonalmente utilizzato per i pallini sopra le “j” e le “i”: ciò lo rende facilmente leggibile, sia in grassetto che normale, anche se la dimensione del carattere è piccola. La mappa è la biografia di un luogo Dal territorio alla città, dalla città al quartiere, dal quartiere al singolo edificio: l’immagine di un luogo o di uno spazio urbano dipende dalla sua leggibilità alle varie scale. Come ci ha insegnato Kevin Lynch le mappe mentali, che ognuno di noi si costruisce attraverso le informazioni spaziali e non, ricevute e rielaborate secondo modalità esperenziali, sono portatrici della percezione dello spazio urbano. È la relazione virtuosa spazio urbano-uomo, l’unica capace di sostenere la città e i territori che viviamo in virtù di una loro costante e reciproca dipendenza. Lo stesso Michelucci racconta che sin da piccino è stato influenzato dal cortile del tribunale medioevale di Pistoia che attraversava tutti i giorni per andare a scuola. Cortile che si è modificato (pur rimanendo sempre lo stesso) in base alla percezione di michelucci-bambino, michelucci-ragazzo e michelucci-uomo. “Ricordo l’impressione di sgomento che, ragazzo, mi metteva addosso il pesante cortile del tribunale medioevale di Pistoia, allorché, recandomi a scuola, lo attraversavo di sbieco […]. Raggiunta l’età della ragione ho voluto controllare se le mie impressioni giovanili potevano trovare una giustificazione; e l’hanno trovata, così che ho concluso, con una domanda che dimostra (una ’domanda che dimostra’ sembra un controsenso) quale influenza può effettivamente esercitare lo spazio architettonico sulla psiche umana e non soltanto su quella infantile […]. A distanza di tanti e tanti anni, rivedendo quel cortile, mi rendo conto della responsabilità (non tecnologica o estetica o economica soltanto ma formativa, educativa, culturale) che si assume chi realizza muri e spazi architettonici, chi manovri l’architettura senza partire dalla più alta considerazione della vita degli uomini”6. Ogni luogo ha delle sue specificità ma ogni mappa ne racconta solo alcune. La mappa contribuisce allo sviluppo della smart city Molte sono le iniziative di mappatura che concorrono alla causa legata all’indagine conoscitiva delle criticità di una città: i punti di forza, le debolezze, le opportunità e le minacce vengono spesso individuate attraverso una strategia di pianificazione meglio conosciuta come Swot. Ma tutto questo serve ad urbanisti e architetti per indagare sui fenomeni socio-culturali e polico-economici che investono la città. I fruitori invece riescono a vivere meglio la città attraverso l’uso incondizionato della tecnologia e le infrastrutture. Tutte le volte che ci perdiamo, istintivamente ci adoperiamo per cercare un nuovo riferimento. Questo riferimento può essere visivo o relazionale e ci serve per riguadagnare la retta via. La psicanalisi e più in generale la filosofia cerca risposte, al tema della perdita di orientamento, attraverso l’aiuto della scienza. Ma se ci perdiamo e ci troviamo inspiegabilmente e incautamente sprovvisti della preziosa mappa o cartina della città che stiamo visitando, abbiamo solo tre possibilità concrete per risolvere il nostro problema: chiedere aiuto ad

4 Lorenza Pignatti, nel libro da lei curato, Mind the Map, racconta dell’importanza della mappa come strumento di conoscenza ed approfondimento, declinato nelle numerose discipline di ricerca. 5 Nel mondo della tipografia, un carattere senza grazie o bastone, in inglese sans serif (talvolta solo sans), è un carattere che non ha i tratti terminali chiamati appunto grazie (tipo il Times New Romans). Il termine inglese proviene dalla lingua francese e significa appunto “senza” (sans) “grazie” (serif). 6 Con il suo libro Brunelleschi Mago, curato da Mario Toscano, Michelucci ci offre un saggio su come l’architettura (e la città) non può che essere umana: “L’ambiente che ci circonda ci offre continue possibilità di esperienza, oppure ce le riduce. Il significato umano fondamentale dell’architettura proviene da ciò.”, R. D. Lang, pp. 12-14.


4 / Interfaccia grafica di mappa consultabile su smartphone

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una persona, interrogare il nostro iPhone oppure continuare a navigare a vista. Se invece abbiamo la fortuna di perderci a New York, allora non abbiamo di che preoccuparci. Già centocinquanta segnali di orientamento di nuova generazione sono stati installati: si tratta di totem che indicano luoghi di riferimento, destinazioni e tempi di cammino con mappe headsup, ovvero orientate secondo la prospettiva del pedone (e non rispetto ai punti cardinali). Ma c’è molto di più: MyBlockNYC.com, è il nuovo sito web video-mapping che invita residenti, turisti e operatori video a caricare i clip che hanno girato per le strade di New York, per alimentare una mappa interattiva on-line della città. Il progetto ha catturato l’attenzione di Paola Antonelli, curatrice e senior design al Museum of Modern Art, che nel 2011 ha invitato MyBlockNYC ad allestire una mostra interattiva al MoMA per la mostra Talk to Me: Design e comunicazione tra le persone e oggetti. Evidentemente la città sta sperimentando nuove forme di relazioni e comunicazione attraverso metodi sempre più interattivi, sempre più tecnologici e globali: Google Maps e Google Earth ne sono un esempio tangibile. Tutto è teso all’intercettazione di quelle traiettorie esperenziali capaci di rinvigorire costantemente l’essenza stessa della mappa che, per sua natura, deve necessariamente essere aggiornata, pena la sua morte, la sua decadenza, la sua perdita di significato. E con essa la città. La mappa non è un’immagine qualunque. La mappa ha sempre una funzione transitiva, instaura cioè un rapporto con lo spettatore completandosi attraverso un dialogo che la lega alla soggettività reale di chi la usa. Si instaura una vera e propria relazione dialettica dove la mappa aiuta l’utente a vedere il tragitto insieme. Come osservato dal sociologo americano Harold Garfinkel, la consultazione della mappa è un’inevitabile dettaglio di vissuto in divenire, costantemente in corso d’opera, senza fine. A tale proposito si capisce bene che lo svolgimento non è mai lineare e che la ricostruzione del racconto e della logica narrativa è quasi interamente affidata allo spettatore. Lo sanno bene i molti artisti contemporanei di mappe. La letteratura è vastissima. Nel 2005 Denis Wood e John Krygier compilano una lista elencandone 218 ma, assecondando la natura del mapping, chiedono ai propri lettori di ampliarla. Anche il numero di mostre monografiche è elevato. Sarà perciò insufficiente ricordarne alcune: Cartes et figures de la terre (Centre Georges Pompidou, 1980); Mapping (Museum of Modern Art, New York, 1994); Katharine Harmon e Clemans Gayle, The Map as Art: Contemporary Artists Explore Cartography (2009); Denis Wood, Rethinking the Power of Maps (2010). Da Alighiero Boetti (Mappa, 1971) a Luciano Fabro (Mappa delle strade d’Italia, 1989) e Nanni Ballestrini (Sfinimondo, 2004) e poi Mona Hatoum (Routes, 2002), Emilio Isgrò (Mappamondo, 2008), Jasper Johns (Map, 1961), Kathy Prendergast (Lost, 1999), e molti altri, l’arte contemporanea esplora le potenzialità espressive e narrative della mappa per raccontare e descrivere il mondo partendo dalla visione globale a quella locale passando attraverso gli emisferi, i continenti, le nazioni, gli agglomerati urbani, i villaggi, fino al quartiere. Ogni confine, ogni frontiera viene superata7. La mappa quindi non è un’immagine qualunque. La mappa è un vero esperimento concettuale in costante divenire dal movimento fluido e instabile. La mappa è un libro aperto, è materia plasmabile, è il ritratto ispirato dall’impegno umano, teso alla costruzione di una città dialogante, una città relazionale, finalmente intelligente. Lo scopo di una mappa è quello di consentire allo spettatore di potersi orientare in un ambiente sconosciuto in modo che esso possa muoversi in modo efficiente: anche l’architettura dovrebbe essere così.

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7 Per onor di cronaca è da segnalare anche The Great Bear (1992), di Simon Patterson, una litografia riprodotta in cinquanta sole copie che sovverte il design grafico della mitica Tube Map. Ad un osservatore disattento l’opera sembra la mappa della metropolitana di Londra. In realtà Patterson usa ogni linea per rappresentare gruppi di persone, da scienziati, santi e filosofi ad attori, esploratori e calciatori. L’artista sovverte così il concetto di mappe e diagrammi come fonti autoritarie di informazione e sfida la convinzione che queste possano essere utilizzate a prescindere. Rendendo iconici e pertanto incontestabili i personaggi famosi della nostra cultura contemporanea, Patterson mette in scena una critica feroce della società in cui viviamo.



O p e n U r b ani s m progettare città senzienti e dialogiche

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1 / La nuvola degli attori e delle iniziative sulle smart city in Italia (The European House Ambrosetti, 2012) 2-3 / L’Escale Numérique di Parigi come luogo di integrazione tra reti digitali e reti sociali ed esperimento di smart square per la città senziente e dialogica

Maurizio Carta

«Anche le città credono d’essere opera della mente o del caso, ma né l’una né l’altro bastano a tener su le loro mura. D’una città non godi le sette o settantasette meraviglie, ma la risposta che dà a una tua domanda”, scriveva Italo Calvino sintetizzando in modo mirabile la funzione cognitiva ed educativa delle città. Ascoltare, indagare, interrogare e comprendere la città è sempre stata una delle sfide più esaltanti dell’urbanista, concreta ambizione di coloro che la riconoscono come complesso organismo intelligente, concretizzazione del patto di cittadinanza e generatrice di vita comunitaria, e non solo come organizzazione di funzioni o concentrato di patologie. La città si offre come un ipertesto alle letture quotidiane dei suoi abitanti, è supporto concreto della memoria, si propone come retorica materiale ed ambisce ad essere interprete delle comunità insediate. E il progetto della città ha sempre intessuto con le componenti comunicative un’inestricabile rete di relazioni, creando feconde sinapsi tra assetto urbano, qualità dell’architettura, estetica dell’arte e comunicazione del rango urbano. La città è eminentemente “enciclopedia” della comunità, luogo in cui si ritrovano tutte le componenti della vita umana, la loro definizione ma anche i loro rapporti reciproci: essa guida gli utilizzi ed orienta i significati. La necessaria dimensione etica dell’enciclopedia urbana richiede, dunque, una vigorosa cultura politica che affianchi la tecnica urbanistica e che attribuisca un alto valore alla compartecipazione alla conoscenza, all’organizzazione e al governo del territorio. Pur avendo perso — o anestetizzato — la nostra capacità di leggere la città, ancor più oggi essa, come fenomeno intrinsecamente plurale, richiede letture, controlli ed interventi che non siano espressione di ottiche parziali e settoriali, ma reclama un nuovo ruolo dei cittadini nella lettura/interpretazione/visione della città. Nella società aperta in cui siamo immersi, la città da “enciclopedia eteroscritta” si evolve in quella che definisco una “wikipedia urbana”: cioè un’opera cognitiva collettiva in cui gli abitanti e gli utilizzatori, i decisori e gli attori, i progettisti e gli attuatori compongono la struttura arricchendola continuamente con l’evoluzione degli usi, con l’interpretazione dei significati, con le volontà delle intenzioni. Essa si evolve come luogo di condensazione delle intelligenze collettive che la abitano e la attraversano, come reticolo sia dei suoi valori consolidati, sia di quelli vocazionali, ma ancor di più di quelli immaginati dal progetto urbanistico nella sua funzione di “catalizzatore” di risorse locali, di “commutatore” dell’economia delle reti globali e di “generatore” di identità reticolari. A fronte di questa ricchezza epistemologica e nonostante una generale complessità e multidisciplinarietà degli approcci e dei contributi, le metodologie, le pratiche e, soprattutto, gli esiti del progetto urbanistico hanno spesso adottato un atteggiamento consuetudinario. Una routine compulsiva e omnicomprensiva ha prodotto rappresentazioni che mostrano indifferenza nei confronti del territorio concreto, delle sue leggi naturali ed artificiali, del suo intreccio di strati e forme dell’abitare, tentando di appiattire le “imperfezioni” verso regole predefinite, puntando su una astratta scientificità del metodo piuttosto che sulla valorizzazione delle diversità, delle rugosità, delle identità e delle singolarità come fattori di qualità e produttori di eccellenza, e quindi di nuove economie. La wikipedia urbana ci richiede nuove epistemologie e rinnovate ermeneutiche capaci di produrre senso mentre interpretiamo il significato, di

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generare città mentre la leggiamo. Nell’era delle reti e della comunicazione istantanea il territorio riacquista il suo genius e può ricollocarsi in posizione centrale nello sviluppo economico e sociale, riconoscendone il ruolo di sistema cognitivo che produce costantemente un flusso di conoscenze tacite, a disposizione di chi ne è attraversato. E questa grande e distribuita mole di conoscenza sedimentata nel territorio deve essere reimmessa in circolo nei processi decisionali e progettuali, affiancandosi alla conoscenza codificata per amplificarne la propulsione di sviluppo. Leggere, interpretare e veicolare la città vuol dire rappresentare la sua complessità, animarla, rivelare le forme che la configurano e le vite che la connotano. Siamo di fronte ad una vera e propria wikicity che ci costringe a tornare a produrre una lettura/scrittura corale utile all’evoluzione quotidiana, che l’urbanistica regola ma di cui contemporaneamente si alimenta per la sua dimensione progettuale. L’ascolto della città, quindi, non può essere azione solitaria, gesto ermeneutico dell’urbanista e atto maieutico dei decisori politici, ma deve essere sempre più lettura condivisa, lettura utile per una nuova disposizione degli assetti spaziali, per una ridistribuzione degli usi, per alimentare la creatività delle forme e per generare nuovi comportamenti dei cittadini. Oggi i sindaci sono destinatari di una pluralità di domande espresse da una popolazione sempre più differenziata e segmentata, produttrice di istanze mutevoli e spesso anche volatili, in conflitto tra loro ma esposte con forza e assertività. E la “città dialogica” non è un generico indirizzo verso la condivisione delle conoscenze e verso la


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partecipazione, ma sottolinea che solo la pazienza dell’indagine accurata può ridurre i pericoli di una pianificazione sorda per ascoltare le esigenze delle comunità locali, cieca per leggere le esigenze mute del territorio, apatica per immaginare nuove strade e sterile per stimolare il ruolo della città come motore di sviluppo. Preziosi elementi della dimensione sociale della conoscenza sono la sua comunicazione e la sua circolazione immediata e continua, che non valgono tanto come strumento professionale dell’urbanista, quanto come patrimonio collettivo capace di risvegliare l’interesse dei cittadini e di alimentare il processo di costruzione sociale del piano, attraverso luoghi ed occasioni in cui il progetto urbanistico si fa comunicazione e responsabilizzazione, estetica ed etica, pianificazione e visione. Nello smart urbanism il metodo usato nell’articolazione delle modalità di indagine collettiva si trasforma in procedimento sociale che permette a chi prima era solo oggetto — mai protagonista — del discorso urbanistico di prendere la parola, con un notevole passo avanti nella risoluzione di alcuni dei problemi di comunicazione tra soggetti con diverso sapere. Un’analisi ed un dialogo non puramente conformativi ma creativi, esploratori di significati e generatori di sensi, deve sostenere la necessità di interazione tra soggetti diversi per modi e capacità di guardare e per conseguenti modi e capacità di agire nella “società aperta” che amplia il numero dei soggetti che concorrono all’elaborazione dell’azione critica e della conseguente decisione. Alla base delle nuove capacità dei decisori di regolare e degli urbanisti di progettare la città sta dunque la necessità di rivedere il processo semiotico di comprensione e di interpretazione non più come un insieme di regole predefinite e di assunzioni, dal momento che riguarda le nostre azioni e la nostra storia considerate nella loro globalità ed evoluzione creativa, ma si deve configurare come un processo di apprendimento, di educazione e di responsabilizzazione che deve essere capace di restituire la discorsività urbana come processo di educazione permanente. Cloud governance Siamo sempre più immersi nella società della conoscenza, della creatività e dell’innovazione, oggi universalmente considerate come le componenti principali della competitività, veri fattori anti-ciclici alla crisi che ha travolto i protocolli di sviluppo capitalistico. E ciò richiede processi di creazione, diffusione e ricambio delle conoscenze. Richiede un flusso costante, poderoso e pervasivo di conoscenza, di scambio di informazione, di valutazione istantanea degli effetti delle azioni di governo. L’innovazione non ha confini, essa riguarda ogni aspetto della realtà delle organizzazioni e opera come “agente mutageno” della società, ed impone un cambio di paradigma a chi assume la responsabilità di governo sotto il segno di una rinnovata leadership. Clay Shirky parla di “surplus cognitivo” per descrivere la potenza del crowd sourcing, la “folla” che incontrandosi attraverso la rete costruisce opinioni comuni e alimenta una vera e propria cloud politics, una politica diffusa entro cui siamo costantemente immersi sia come elettori che come decisori, annullando distanze, ma anche riducendo gli spazi della ponderazione. Le mutazioni non riguardano solo la sfera economica e relazionale, ma si trasferiscono con sempre maggiore pervasività sul piano fisico, sulla fisionomia e sulla fisiologia stessa delle città, sempre più densa di intelligenza. Tuttavia, una città

più “intelligente” non sarà quella che aggiunge tecnologia ed efficienza al suo organismo tradizionale, ma dovrà essere una città che innova profondamente le sue dinamiche di sviluppo, che rivede il suo modello insediativo e che ripensa il suo metabolismo. Dovrà essere una città che agendo sul dialogo con la popolazione genera smart citizenship, rafforzando così il capitale umano attraverso una partecipazione più responsabile, una istruzione permanente, una cultura diffusa, una infrastrutturazione per le comunicazioni distribuita: componenti indispensabili per la ricostituzione del capitale sociale eroso in questi anni recenti di consumo indiscriminato di risorse, valori ed opportunità. Non è quindi sufficiente che le città incrementino la loro intelligenza infrastrutturale, ma devono concorrere ad incrementare il tasso di “intelligenza collettiva”: una città che voglia essere anche solidale deve sostenere, attraverso il cloud communiting, i comportamenti virtuosi dal basso dando visibilità ai vantaggi individuali e collettivi. E nelle smart community, i social network sono sempre più piattaforme di servizi che hanno valore in quanto le funzioni offerte vengono riconosciute dagli utenti che le trasformano in ulteriori servizi agli altri utenti. E tra la piattaforma e gli utenti che le danno valore occorre che vi sia una sorta di complicità, che può realizzarsi solo se la relazione tra la piattaforma e gli utenti è “trasparente”, “aperta” ed “autentica”. Una parola sintetizza il nuovo rapporto virtuoso tra le informazioni e le comunità distribuite di utenti: Open Data, e rappresenta i milioni di dati accessibili a tutti che le amministrazioni pubbliche stanno immettendo in rete in una


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stimolante gara a condividere i propri dati entro un processo di democratizzazione della conoscenza. La condivisione dei dati è una componente indispensabile di una pubblica amministrazione che si apre ai cittadini sia in termini di trasparenza che soprattutto in termini di partecipazione diretta al processo decisionale, incentivando il ricorso alle Ict come acceleratori di comunità, virtuali prima e sempre più reali oggi, e generatrici di rinnovati luoghi fisici alimentati dalla conoscenza, dalla condivisione e dalla partecipazione. La gestione del flusso di dati non si limita alla sfera amministrativa o ai processi decisionali, ma impone una revisione dei tradizionali modelli cognitivi dei pianificatori e degli urbanisti, costringendoci a modificare non solo i protocolli con cui costruiamo la conoscenza per il piano, ma anche a forgiare nuovi strumenti di pianificazione: è opportuno iniziare a parlare di Open Urbanism, impegnandoci a definirne i contorni ed a sperimentarne le pratiche per poter individuare i primi protocolli applicativi. L’Open Urbanism naturalmente richiede innanzitutto una cloud governance, un processo decisionale più intelligente, dinamico e innovativo, e soprattutto distribuito e condiviso, ma che deve essere anche più sapiente, consapevole e responsabile. Pianificare immersi nella nuvola dell’informazione richiede nuove mappe per orientarsi, nuovi sensori per percepire gli ostacoli, nuovi strumenti per tracciare la direzione, e soprattutto nuovi occhi per non perdere l’orizzonte. Progettare smart (and creative) city Assistiamo ogni giorno all’espansione dell’utilizzo delle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione applicate a molteplici settori della vita urbana: alla gestione dei tempi, al controllo del traffico, alla distribuzione e rilocalizzazione del lavoro e dei servizi, allo snellimento della burocrazia, alla diffusione della conoscenza ed al monitoraggio dell’ambiente, oltre che alla surroga dei rapporti sociali e professionali attraverso la pervasività dei social network. L’innovazione tecnologica applicata ai processi produttivi, la telematica e la domotica, l’esplosione delle comunicazioni mobili ed il cosiddetto “internet delle cose” in cui molti oggetti sono connessi tra loro e scambiano informazioni, vengono messi con sempre maggiore pervasività al servizio della popolazione per l’erogazione e la gestione efficiente dei servizi e per l’incremento delle funzioni urbane, contribuendo al governo della complessità urbana per garantire comunicazioni, relazioni e diffusione della conoscenza e della cultura. I vantaggi di questa pervasività della Ict applicata alla pianificazione ed al governo del territorio sono evidenti a patto che progressivamente le mappe, i dati, i modelli di valutazione vengano resi comprensibili non solo per utenti esperti ma divengano patrimonio comune di tutti i soggetti: l’integrazione delle tecnologie web e wiki in applicazioni Gis, per esempio, è una modalità molto fertile per migliorare le possibilità di interazione costruttiva tra i cittadini, i decisori pubblici ed i saperi esperti che coagiscono nei processi di pianificazione urbana. Gli Open Data devono quindi diventare un elemento centrale dei processi decisionali a livello comunale e regionale, in modo da agevolare le decisioni degli attori istituzionali e imprenditoriali, ad esempio rendendo condivisa la conoscenza del suolo ed agevolando il fast-tracking per le procedure amministrative. La condivisione delle basi di dati può agevolare il partenariato pubblico-

privato degli interventi e il project financing distribuendo dati, informazioni e studi fattibilità in possesso degli uffici tecnici, o assicurare il contributo delle multiutility alla realizzazione. Infine può promuovere la partecipazione di partner locali o l’apertura internazionale attraverso l’esercizio di un potere pianificatorio e regolatore sempre più condiviso. La condivisione multipiattaforma delle conoscenze territoriali, inoltre, incrementa le opportunità di nuove attività lavorative per le quali si aprirebbero nuovi spazi per l’alta formazione, per l’educazione permanente e per il riposizionamento professionale di vaste categorie di lavoratori, soprattutto giovani. La gestione del territorio come sistema interconnesso di sensori, interfacce, Gis ed applicazioni cellulari, per esempio, può favorire la nascita di distretti virtuali di sviluppo locale (produttivi, turistici, culturali) badati sul cloud computing dedicato alle Pmi con l’obiettivo di rivitalizzare i vantaggi competitivi del sistema locale, stimolando lo sviluppo integrato del territorio attraverso la connessione delle aziende ad altri poli del sistema globale delle imprese. La diffusione nelle città di sensori, di reti elettroniche, di App dedicate alla vita urbana sta producendo un vero e proprio spazio urbano cyber-phisical, composto dalla costante interazione di componenti fisiche e reti digitali, di azioni materiali e retroazioni immateriali. “Siamo all’esordio di una dimensione ibrida tra mondo digitale e mondo materiale, dove Internet sta invadendo lo spazio fisico” — sostiene Carlo Ratti — identificandolo, rendendolo attrattivo e configurandolo per usi sociali che riportano gli abitanti nelle smart square connesse alla rete ed erogatrici di servizi. Una delle più recenti realizzazioni


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è la nuova postazione Wi-Fi realizzata a Parigi sugli Champs-Elysées, chiamata Escale Numérique, che offre la possibilità di connettersi alla rete gratuitamente attraverso due modalità di fruizione: un display touchscreen permetterà a chi è di passaggio di connettersi ad Internet per consultare informazioni relative a mappe, guide, servizi pubblici, mentre alcune sedute con supporto per tablet offriranno un accesso stabile e comodo a tutti coloro che vogliono usufruire degli spazi all’aperto per lavorare. La funzione cyber-physical è rappresentata dalla forte identità della struttura progettata da Mathieu Lehanneur che si presenta come un “bosco tecnologico” di pali in legno con un tetto rivestito di vegetazione, molto bello da vedere ed attrattivo per costituire occasione di socialità. è l’evoluzione del cyber-cafè dell’alba della rivoluzione digitale, la connessione mobile sgancia l’utente dalla postazione fissa e lo riporta nella città, nei parchi, sui waterfront o nelle piazze consentendogli di comunicare ed interagire, di apprendere e segnalare, di conoscere e valutare. La smaterializzazione della tecnologia e la sua diffusione mobile e on cloud permette ai cittadini di “rimaterializzarsi” nelle città. L’immissione di tecnologie, protocolli e dispositivi digitali di comunicazione nell’organismo urbano non è solo un’occasione di innovazione dei processi cognitivi e partecipativi, ma deve offrire lo spunto per ridefinire i profili di sviluppo, di competitività e di coesione per imprimere alle città uno swing power capace di fornirgli la necessaria spinta per superare lo tsunami della crisi. Sulle smart city si giocherà la partita del futuro a patto che sappiano essere città che, oltre ad essere motrici della competitività, siano “aggregatrici di intelligenze”, “generatrici di creatività”, “incubatrici di innovazione” e “stimolatrici di comunità”. Sempre a Parigi la Gaité Lyrique, un vecchio teatro trasformato in un incubatore di imprese creative, è un esempio di edificio “senziente” che, grazie ad una rete di antenne Rfid, rileva i movimenti dei visitatori permettendo ai fruitori di interagire con le attività che si svolgono o direttamente con l’edificio. Una smart city, quindi, non è solo una città più intelligente che aggiunge innovazione al suo corpo vetusto, ma è una città che innova profondamente le sue dinamiche di sviluppo, che rivede il suo modello insediativo: una città più “ingegnosa”. Le smart city devono trasformarsi da reattive in proattive basandosi sull’utilizzo efficace di un migliore e più ampio flusso di informazioni. Sono città che investono nel capitale umano e sociale, che consolidano i processi di partecipazione, che espandono l’istruzione e la cultura, che diffondono infrastrutture per le nuove comunicazioni mobili, che innovano il software e non solo l’hardware, che rielaborano un modello di sviluppo sostenibile, garantendo un’alta qualità di vita per tutti i cittadini e che attuano una gestione responsabile delle risorse attraverso una governance realmente basata su una dimensione cooperativa. Mi piace definirle Smart and Creative City poiché dovranno essere capaci di innovare settori ad alto impatto: la pianificazione, progettazione e gestione territoriale, il ciclo produzione-distribuzione-consumo energetico, il trasporto di merci e la mobilità delle persone, l’efficienza energetica degli edifici. Dovranno innovare ambiti complessi e multi-attore quali l’educazione, la sanità e i rifiuti, fino a quelli strategici come la valorizzazione e fruizione del patrimonio culturale e l’attrattività turistica. La smartness urbana, quindi, non deve essere un aggettivo che si applica a modalità tradizionali di governo, progettazione e gestione delle città, ma deve essere una sfida

4 / Gaité Lyrique di Parigi, un vecchio teatro in disuso trasformato in tempio dell’arte digitale e in un incubatore di imprese con l’ambizione di far diventare Parigi la capitale delle startup 5 / Smart and Creative Cities, schema delle interconnessioni tra i capitali creativi, le città creative e le città intelligenti (M. Carta, 2013) 6 / Quartier de la Création di Nantes, l’urban center della trasformazione creativa del quartiere, luogo di dialogo e di incubazione di idee (M. Carta, 2012)

ad estrarre intelligenza tacita, e generare nuova sapienza, creatività e innovazione. Lo sviluppo sostenibile di una smart city si fonda sul complessivo ripensamento del suo “metabolismo”, agendo sulla filiera della riduzione dei rifiuti, della differenziazione della loro raccolta e della loro valorizzazione economica e sulla riduzione drastica delle emissioni di gas serra tramite la riorganizzazione del traffico privato e l’ottimizzazione delle emissioni industriali. Anche il miglioramento dell’industria edilizia e del mercato della casa attraverso una reale innovazione degli edifici verso la loro strutturale efficienza energetica (agendo sui nuovi materiali e sulle tecnologie costruttive), la razionalizzazione dell’illuminazione pubblica (introducendo tecnologia a Led e agendo sulla regolazione oraria) e la migliore gestione del verde urbano (densificando le reti ecologiche e riattivando l’agricoltura periurbana) sono le sfide che ci attendono per la necessaria riduzione dell’impronta urbana sull’ambiente. Una città intelligente deve adottare una visione strategica dello sviluppo centrando la sua crescita sull’implementazione della qualità della vita dei cittadini, investendo sulla qualità dei servizi e dello spazio pubblico, sulla sicurezza, su modelli e stili di vita innovativi e flessibili, nonché adottare un modello di sviluppo urbanistico basato sul risparmio di risorse e del suolo, sul riciclo della dismissione, sull’efficienza energetica degli edifici e delle reti e sulla creatività della trasformazione. Deve anche rendersi più attrattiva per la vasta rete di user che la attraversa, alimentandola della loro intelligenza, delle loro visioni e aspettative. Numerose analisi e ranking internazionali ci mostrano


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che la qualità della vita delle città medie è sempre più basata su politiche cultureoriented che mettano in valore l’identità e il patrimonio culturale attraverso processi di internazionalizzazione, o attraverso la realizzazione di cultural hub in grado di renderle maggiormente attrattive e dinamiche, e quindi più vivibili. A Nantes il Quartier de la Création è uno dei più grandi progetti urbani dedicati alle industrie creative basato sulla concentrazione nello stesso luogo di istituzioni educative e di ricerca e di imprese agevolandone le spinte all’innovazione. Attraverso l’interazione creativa entro il cluster le imprese saranno in grado di scoprire, condividere, costruire relazioni e sviluppare nuove idee, combinando competenze e approcci diversi. Per l’Italia progettare città più senzienti e dialogiche è oggi l’occasione concreta per sperimentare le parti più innovative dell’Agenda Urbana Europea, redatta a partire dalla “Carta di Lipsia sulle città sostenibili”, aggiornata attraverso la Strategia “Europa 2020” e proseguita con la Digital Agenda, per generare città non più debit-based o consumer-oriented, ma basate su un nuovo patto sociale. Esse infatti posseggono le basi costitutive di un nuovo organismo urbano capace di rafforzare il Dna dello sviluppo, di agevolare lo startup di attività creative, a patto che sappiano focalizzare una visione collettiva attraverso strategie reticolari che facciano aumentare la massa critica della responsabilità e la solidità delle virtù civiche, anche sul piano simbolico e comunicativo, e siano in grado di orientare le iniziative fondate sulla smartness nell’ambito di un progetto di riattivazione del nostro paese che riparta da un nuovo “piano” ma soprattutto da un rinnovato “patto” per le città.


MISCELLANEA 94

--Albrechts L. - Mandelbaum S.J., The Network Society. A New Context for Planning, Routledge, Londra 2006 --Bonomi A., La città che sente e che pensa. Creatività e piattaforme produttive nella città infinita, Electa, Milano 2010 --Caragliu A. - Del Bo C. - Nijkamp P., Smart cities in Europe, Series Research Memoranda 0048, VU University Amsterdam, Amsterdam 2009 --Carta M., Creative City. Dynamics, Innovations, Actions, List, Barcelona 2007 --Carta M., Città creativa 3.0. Rigenerazione urbana e politiche di valorizzazione delle armature culturali, in Citymorphosis. Politiche culturali per città che cambiano, Giunti, Firenze 2011 --Castells M., Networks of Outrage and Hope. Social Movements in the Internet Age, Cambridge, Polity Press, tr.it. Reti di indignazione e speranza. Movimenti sociali nell'era di internet, Egea, Milano 2012 --Cittalia, Smart cities nel mondo, Anci, Roma 2012 --Cosenza V., La società dei dati, 40k unofficial, e-book, 2012 --European Union, Leipzig Charter on

C O M P E N D I O L E T T ER A R I O

Sustainable European Cities, Leipzig 2007 --Fabbri P., La svolta semiotica, Laterza, Roma-Bari 1998 --Glaeser E., Triumph of the City. How Our Greatest Invention Makes Us Richer, Smarter, Greener, Healthier, and Happier, Penguin, New York 2011 --Granelli A., Città intelligenti? Per una via italiana alle Smart Cities, Sossella, Bologna 2012 --www.gruppohera.it/gruppo/com_ media/dossier_smartcities/articoli/ pagina37.html --Li C., Open Leadership. How Social Technology Can Transform the Way You Lead, Jossey-Bass, San Francisco 2010 --Longworth N., Learning Cities, Learning Regions, Learning Communities. Lifelong Learning and Local Government, tr. it. Città che imparano, Routledge, New York 2006 --Lynch K., L'immagine della città, Marsilio, Venezia 2006 --Marrone G. – Pezzini I. (a cura di), Linguaggi della città. Senso e metropoli II: modelli e proposte d’analisi, Meltemi, Roma 2008 --McCann E. – Ward K., Mobile Urbanism. Cities and Policymaking in the Global Age, University of Minnesota

Press, Minneapolis 2011 --Michelucci G., Brunelleschi mago, Tellini, Firenze 1972 --Mostafavi M. – Doherty G., Ecological Urbanism, Lars Müller Publishers, Baden 2010 --Niger S., La città del futuro. Smart city, smart community, sentient city, astridonline, 2012 --Perrone C. – Gorelli G. (a cura di), Governo del consumo di territorio. Metodi, strategie, criteri, Firenze University Press, Firenze 2011 --Pignatti L. (a cura di), Mind the Map. Mappe, diagrammi e dispositivi cartografici, Postmedia Books, Milano 2011 --Shirky C., Cognitive Surplus. Creativity and Generosity in a Connected Age, Penguin, Londra 2010 --Siemens-Cittalia, EfficienCITIES. Città-modello per lo sviluppo del paese, Siemens, Milano 2012 --smartinnovation.forumpa.it/ story/69517/masdar-smart-city-lasilicon-valley-dell-energia-sostenibile --The European House Ambrosetti, Smart Cities in Italia: un’opportunità nello spirito del Rinascimento per una nuova qualità della vita, Abb, Milano 2012


APPUNTI DI VIAGGIO ISOLA

Fabio Viola

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Il segnale gps in via Ugo Bassi andava e veniva assieme alle raffiche di vento gelido che spazzavano le strade. “Dove corri, aspetta. Se non mi registro non abbiamo lo sconto.” “Sbrigati, ho freddo. Tra tre minuti ho lo spot e non mi va di farlo per strada.” “Eccolo, beccato.” La ragazza fece il check-in al bistrot biodinamico Vega, lo condivise su Twitter e ricevette subito un messaggio con cui poteva usufruire di uno sconto del 15% sui centrifugati. “Che palle, il Gps all’Isola fa sempre più schifo.” “Lo fanno apposta, fa più rustico.” Il tempo di accomodarsi al tavolino grezzo mal verniciato di bianco e il ragazzo si accinse a fare lo spot. Si sedette accanto a alla ragazza e puntò l’iPhone verso entrambi, poi assunse l’espressione sorridente per cui aveva ricevuto un bonus dall’operatore telefonico: leasing sul suo attuale modello e aggiornamenti gratuiti di sistema operativo per un anno. Recitò col solito tono di artefatto disinteresse: “Ciao ragazzi. Sono qui al Vega con lei — disse indicandola col pollice — e ho appena ordinato una centrifuga. Niente di che, ma meglio che al Daimon dove vanno gli sfigati. Sicuro ve ne frega poco o nulla come a me ma se vi capita ascoltate il nuovo pezzo di Shanti Bordello. Inutile che vi dica su che blog lo trovate. Il pezzo è davvero bello e insomma niente, boh, se vi va. Salam aleikum” disse, mettendosi un pugno sul cuore. “Andata” disse la ragazza stappando il coperchio di plastica riciclabile dalla centrifuga e sporcandosi di schiuma di cetriolo il labbro superiore alla prima sorsata. “Che fatica, mi pare di soffocare” rispose il ragazzo strusciandosi le mani sulle gambe, i jeans stretti come una seconda pelle. “Tra un po’ ce l’ho anch’io” commentò la ragazza. Il ragazzo diede un sorsetto al suo centrifugato sedano zenzero e carota e poi dichiarò di essere pieno. “Tra poco esplodo.” “Senti ma ce ne frega qualcosa del concerto di Azealia Banks?” domandò lei.

“Direi di no.” “Direi di no.” La cameriera, una signora sulla sessantina conciata come un’induista spaziale, si avvicinò con degli assaggini di biscotti senza zucchero né burro né uova. “Se vi piacciono sono alla cassa, accanto alle cioccolate speziate di Varese.” “Grazie” fecero i due in coro. Appena se ne fu andata, la ragazza commentò che sapevano di polistirolo. Lui non si azzardò a toccarli: “Poi non ceno.” Il sottofondo musicale del locale era roba di qualche mese prima, quando c’era stato il revival dell’hip-hop psichedelico dei primi anni Dieci. “Ma questa musica?” fece lui. “Fingevo di non sentirla.” “Sembra di stare al Gorgo Guantanamo. Pure la clientela è la stessa” sentenziò il ragazzo dando un rapido sguardo ai tavoli intorno: davanti alla vetrina sulla strada, semi-nascosti dalle felci, un gruppetto di ragazzi coi suoi stessi jeans. “Non mi parlare di quel posto, dopo la seconda volta mi sembrava di esserci nata” disse lei con una punta di sdegno. “Nascere non è così male” commentò lui, la mano sul braccio ossuto in cerca di adipe nascosto. “Senti, mi sono stufata di stare qui. Andiamo a casa tua?” “A quest’ora? Non troveremo mai un’elettrica al car sharing. E poi non devi fare lo spot tra poco?” “Cazzo, è vero. Che ora è?” I due rimasero seduti al tavolino del Vega altri dieci minuti, sfogliando riviste indiane. L’ora dello spot arrivò annunciata dalla suoneria di Wagner dell’iPhone della ragazza. “Grande Wagner” mormorò lui. La ragazza alzò l’apparecchio sopra la testa aggiustandosi i capelli e si mise di tre quarti come prevedeva il protocollo di marketing concordato con il gestore telefonico. “Dai, sbrigati così ce ne andiamo da questo orrore di posto”

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le mise fretta il ragazzo. Lei si schiarì la voce prima di partire: “Sapete che cosa c’è di peggio di Tommy Hilfiger? Non indossare Tommy Hilfiger. Vai negli store di mezza città e scaricati la app per vedere come ti starebbero i vestiti se non fossi il cesso che sei. Io l’ho fatto e sono finita qui al Vega con questo ragazzo. Vedete?” domandò alla videocamera del suo iPhone puntandola su di lui, che finse di ignorarla. Poi lei riprese, “Ma questo non c’entra. Dai, lo sapete che non fare quello che ti dice uno spot è squallido. È ancora peggio che farlo” improvvisò lei, mentre il ragazzo sembrava ammirato per l’aforisma estemporaneo. “Coscienza” declamò infine lei — lo slogan con cui chiudeva ogni spot. “E anche questa è fatta” commentò lui spingendo il centrifugato quasi pieno al centro del tavolo. Uscirono che il vento era cessato e uno squarcio di sole tagliava in due la strada. “Ma la tristezza di quelli che dicono che a Milano c’è un tempo di merda?” fece lei, nonchalante. “Se ne andassero a Isernia in mezzo ai bifolchi” reagì, incautamente, lui. “I bifolchi, come li chiami tu, vanno rispettati. Se mangiassi il formaggio gli sarei pure grata.” “Chiaro. Scherzavo.” “No, non scherzavi.” “Scherzavo quando ho detto ’chiaro’.” Si fecero una risata e proseguirono verso il punto car sharing: vuoto. “E adesso?” domandò lui. “Guardo on-line se c’è qualcosa qua intorno o prendiamo la metro?” “No, che tristezza, fa troppo New York. Andiamo in trattoria?” Il ragazzo sbuffò, e così fece lei per fargli il verso, poi aggiunse: “Ce n’è una nuova da qualche parte all’Isola. Pare che sia davvero angusta.” “Non ho fame.”

“E non mangiare” tagliò corto la ragazza. Poi si avviò senza aspettarlo. Percorsero via Pollaiuolo mentre l’ora dell’aperitivo cominciava a slabbrarsi in quella di cena. Mentre il ragazzo guardava distrattamente la vetrina di un negozio di ottica (una gigantografia di Shiva col terzo occhio trasversale coperto da un monocolo RayBan), la ragazza fece dietro front. “Dobbiamo andarcene.” “Perché?” “La trattoria è piena di cafoni. Guarda” fece lei, indicandogli la fila all’esterno di una porticina su cui campeggiava, scritta col gesso, la scritta Kreuzberg. “Come fa una trattoria a chiamarsi Kreuzberg?” “Quanto sei ingenuo a volte. Dai, tappiamoci il naso e prendiamo la metro.” Arrivati a casa del ragazzo si buttarono sui pouf, circondati di statuette giapponesi dei guardiani del tempio e miniature di Star Trek. Lui fece il check-in in casa sua e lo condivise su Twitter, lei non mancò di fargli notare che non sarebbe mai riuscito a rendere il suo appartamento un luogo figo a forza di check-in: “Ci tieni troppo, non succederà.” “Non ci tengo affatto, ma ti pare?” si risentì lui. “Mi ha appena scritto la Marzia. Sono alla trattoria Kreuzberg.” Il ragazzo la guardò incerto. “E che ci fanno in quello schifo di posto?” “Dice che non capiamo niente perché i truzzi sono fighissimi.” “Si è bevuta il cervello?” “Le sto facendo credere che i truzzi erano adorabili l’anno scorso” commentò la ragazza digitando rapida sul suo telefono. “Dici che dobbiamo tornare?” domandò poi, lasciando il messaggio a metà. “Non se ne parla” disse il ragazzo, perentorio. “Perché?” “Mi sono appena registrato qui.”

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