Rapporto dal Territorio INU 2019 - Volume 1

Page 1



RAPPORTO dal TERRITORIO

2019 a cura di Pierluigi Properzi e Simone Ombuen


RAPPORTO dal TERRITORIO 2019 Il Rapporto è prodotto dall’Istituto Nazionale di Urbanistica Responsabile scientifico Pierluigi Properzi Curatori del coordinamento generale P. Properzi, S. Ombuen Curatori delle parti Simone Ombuen, Luigi Pingitore Pierluigi Properzi Autori dei capitoli Aldo Cilli, Donato Di Ludovico, Carolina Giaimo, Carmela Giannino, Roberto Mascarucci, Domenico Moccia, Simone Ombuen, Luigi Pingitore, Pierluigi Properzi, Silvia Viviani, Angioletta Voghera Coordinamento dati ed analisi della pianificazione comunale Simone Ombuen Per il reperimento dati relativi alla pianificazione comunale si ringraziano: Piemonte e Val d’Aosta: Carolina Giaimo; Lombardia: Servizio urbanistico regionale; Liguria: Giampiero Lombardini; Veneto: Fabio Mattiuzzo, Franco Alberti, Massimo Matteo Gheno; Provincia di Trento: Servizio urbanistico provinciale; Provincia di Bolzano: Servizio urbanistico provinciale; Friuli VG: Eddi Dalla Betta; Emilia Romagna: Giulia Angelelli; Toscana. Marco Carletti, Alessandro Marioni, Alessandro Tognetti; Marche: Vincenzo Zenobi, Serenella Sciarra, Bruno Bonifazi, Sergio Bugatti, Massimo Orciani, Maurizio Bartoli, Mario Primavera, Ivano Pignoloni; Umbria: Franco Marini, Leonardo Arcaleni; Lazio: Daniele Iacovone; Abruzzo: Andrea Santarelli, Federico D’Ascanio; Molise: Donato Di Ludovico; Campania: Isidoro Fasolino, Michele Grimaldi, Francesca Coppola; Puglia: Carmelo Torre, Francesco Rotondo, Fulvio Rizzo; Basilicata: Anna Abate; Calabria: Nico Tucci, Domenico Passarelli; Sicilia: Ignazio Vinci, Giuseppe Trombino; Sardegna: Alessandra Casu, Antonio Sanna. Per il reperimento dei dati sull’associazionismo municipale si ringrazia l’Area Studi, Ricerche e Banca dati delle autonomie locali ANCI e Cittalia Fondazione ANCI Ricerche. Cartografia e tabelle: L. Di Lodovico, A. Santarelli, G. Panepucci, F. Eugeni Per il reperimento dati relativi alle città metropolitane si ringraziano: Torino: Gianfranco Fiora; Roma: Carmen Mariano, Laura Ricci; Cagliari: Corrado Zoppi; Napoli: Giuseppe Mazzeo; Genova: Giampiero Lombardini; Milano: Laura Pogliani; Catania: Paolo La Greca

Coordinamento ed analisi alle politiche regionali Donato Di Ludovico Per il reperimento dati alle politiche regionali si ringraziano: Abruzzo: Roberto Mascarucci, Pierluigi Properzi, Donato Di Ludovico, Aldo Cilli; Molise: Luciano De Bonis, Emilio Natarelli, Giovanni Ottaviano; Provincia Bolzano: Peter Morello; Basilicata: Francesco Scorza; Calabria: Domenico Passarelli, Ferruccio Lione; Campania: Antonio Nigro, Antonia Arena, Roberto Musumeci; Emilia Romagna: Sandra Vecchietti; Friuli Venezia Giulia: Eddi Dalla Betta; Lazio: Irene Poli, Chiara Ravagnan, Paola Carobbi, Daniele Iacovone, Chiara Amato, Giulia Bevilacqua, Silvia Uras; Liguria: Giampiero Lombardini; Lombardia: Pieluigi Nobile, Marco Engel, Luca Imberti; Marche: Claudio Centanni, Giovanna Rosellini, Roberta Angelini; Piemonte: Carolina Giaimo, Carlo Alberto Barbieri, Mauro Giudice; Valle d’Aosta: Ombretta Caldarice, Carolina Giaimo; Puglia: Carmelo Torre, Fulvio Rizzo, Francesco Rotondo; Sardegna: Alessandra Casu, Vincenzo Cossu, Italo Meloni, Fausto A. Pani, Corrado Zoppi; Sicilia: Paolo La Greca, Ignazio Vinci, Giuseppe Trombino; Toscana: Chiara Agnoletti, Francesco Alberti, Sandro Ciabatti, Camilla Cerrina Feroni, Alessandro Marioni, Daniele Mazzotta, Luca Nespolo; Provincia di Trento: Daria Pizzini, Giovanna Ulrici; Umbria: Marco Storelli; Veneto: Franco Alberti, Claudio Perin, Fabio Mattiuzzo, Andrea Bonato La raccolta dei dati sulla pianificazione paesistico ambientale è stata curata da Ced Ppn (Centro europeo di documentazione sulla pianificazione dei parchi naturali). La raccolta dei dati sulla pianificazione provinciale e regionale e sulla legislazione è stata curata da Lab AnTeA/UnivAq – Donato Di Ludovico. Si ringraziano: Regioni, Province ed Enti che hanno collaborato al reperimento dei dati ed inoltre Ismart per i dati del turismo.

L’Agenzia per la Coesione Territoriale ha curato: Sviluppo Urbano Sostenibile/ esperienze ed attuazione Redazione del RdT P. Properzi, S. Ombuen, C. Giannino, L. Pingitore, D. Di Ludovico, A. Santarelli , L. Di Lodovico, C. Musacchio (Coordinamento editoriale) Idea e Progetto grafico della copertina: Alberto Hohenegger Impaginazione e grafica: PMopenlab srls

INUEd - via Castro dei Volsci, 14 - 00179 - Roma ISBN 978-88-7603-210-3 (Opera) ISBN 978-88-7603-211-0 Finito di stampare 30 novembre 2019 Il Rapporto è realizzato con il contributo economico di Urban Promo


RAPPORTO dal TERRITORIO 2019

Indice RAPPORTO DAL TERRITORIO 2019 Prefazione Introduzione

S. Viviani a cura della Redazione

CAMBIAMENTO/MUTAZIONE

P. Properzi

Le interpretazioni P. Properzi S. Ombuen C.A. Barbieri M. Talia L. Pingitore P. Properzi

del cambiamento La mutazione della Sfera pubblica Il cambio di paradigma Le istituzioni a fronte delle autonomie differenziate Ordine-Disordine L’Abusivismo come premessa La centralità del Paesaggio

Parte I - Il TERRITORIO nelle POLITICHE PUBBLICHE Capitolo 1 Le Politiche per il Territorio HABITAT III e “New Urban Agenda” per lo Sviluppo Sostenibile Le città italiane e il programma URBACT Capitolo 2 Le Politiche nazionali Strategia nazionale per lo sviluppo sostenibile Box – Il Piano Nazionale Integrato per l’Energia e per il Clima (PNTEC) Adattamento ai cambiamenti climatici / Orientamenti La rete ecologica nazionale Le Politiche abitative Il progetto Casa Italia Nuove prospettive per il Mezzogiorno La strategia nazionale per le aree interne Periferie e aree degradate Lo Sviluppo Urbano Sostenibile 2014-2020 Le politiche urbane negli Obiettivi di Cooperazione Territoriale Europea L’Agenda Urbana per l’Unione Europea (AUUE) L’Agenda Urbana nel contesto Nazionale Strumenti a regia nazionale Il PON Città Metroolitane, la struttura e il modello di attuazione Elementi emergenti dall’attuazione negli assi del Programma Il Programma di Azione e Coesione “Città Metropolitane” - POC METRO La strategia di sviluppo urbano sostenibile nella programmazione regionale I Patti per lo sviluppo delle Città Metropolitane Conclusioni Capitolo 3 Le Politiche per i territori Regionali Un Quadro comparativo Competitività e performance regionali Elementi di scenario Le schede Capitolo 4 Contesti/Politiche Azioni strategiche Le città in un ciclo di stagnazione di lungo periodo Culture Turismi e città La Montagna tra abbandono e sviluppo La programmazione 2014-2017. Contributo INU ai tavoli di partenariato

a colloquio con:

7 17

C. Bianchetti M. Magatti P. Mantini F. Indovina F. Zanfi A. Clementi

P. Properzi

43

a cura di C. Giannino

49

a cura di C. Giannino

61 69

a cura della Agenzia per la Coesione Territoriale

a cura di D. Di Ludovico

167

a cura degli INU Regionali a cura di S. Ombuen

261


Parte II - I SISTEMI di PIANIFICAZIONE

S. Ombuen

291

TERRITORI CHE CAMBIANO

a cura di S. Ombuen M. Cremaschi, F. Albanese S. Stanghellini D. Vianello M. Breglia A. Santarelli A. Coppola, F. Chiodelli

299

Metropoli e periferia Rigenerazione urbana Box – La stagione della rigenerazione. La Proposte NAZCA La Casa Italia Consumo del suolo Abusivismo Capitolo 5 Lo Stato della Pianificazione La Legislazione Regionale La Pianificazione Regionale

a cura di S. Ombuen

Capitolo 6 La Pianificazione dei Comuni I dati Nazionali Il rinnovo della Pianificazione Comunale La Pianificazione Comunale nelle realtà Regionali Box – Il Documento Unico di Programmazione

a cura di S. Ombuen

Capitolo 7 Dagli Standard alle Prestazioni urbane Gli Standard urbanistici nelle leggi regionali Standard Urbanistici e Piani Comunali Conclusioni

a cura di C. Giaimo

Capitolo 8 La Pianificazione nei Sistemi Insediativi Città Metropolitane La Pianificazione Box – Provincia, ritorno al futuro Box – Piani urbani della mobilità sostenibile: lo stato dell’arte Conclusioni Città Medie La Pianificazione Trenta Piccole Metropoli Box – I Sistemi locali del Lavoro Conclusioni Box – L’Affitto nelle Città metropolitane e nelle Città Medie

a cura di S. Ombuen

337

347

L. Pingitore

369 373

a cura di F. D. Moccia

393 403

I. Fasolino F. Alberti, M. Scamporrino

421 425

a cura di R. Mascarucci

431

G. e L. Barbieri

449

L.Pogliani, F. Manfredini e V. Giavarini 453

Comuni Minori a cura di Aldo Cilli La Pianificazione Box – Pianificazione associazionismo, nuovi turismi a cura di A. Cilli Conclusioni Due recenti sguardi originali sull’universo dei comuni minori e dei comuni minimi Capitolo 9 Il Paesaggio nei Piani e nei Progetti La pianificazione paesaggistica regionale I nuovi Piani Parchi e Paesaggio. Dalla pianificazione all’efficacia di gestione I Contratti Fiume

311

463 478

a cura di A. Voghera 493


RAPPORTO dal TERRITORIO 2019

……“La vicinanza e l’affetto che avverto sovente, li interpreto come il bisogno di unità, raffigurata da chi Rappresenta la Repubblica che è il nostro comune destino. Proprio su questo vorrei riflettere brevemente, insieme, nel momento in cui entriamo in un nuovo anno. Sentirsi “comunità” significa condividere valori, prospettive, diritti e doveri. Significa “pensarsi” dentro un futuro comune, da costruire insieme. Significa responsabilità. Perché ciascuno di noi è, in misura più o meno grande protagonista del futuro del nostro Paese. Vuol dire anche essere rispettosi gli uni degli altri. Vuol dire essere consapevoli degli elementi che ci uniscono e nel battersi, come è per le proprie idee e rifiutare l’astio, l’insulto, l’intolleranza che creano ostilità e timore…..” Discorso fine anno 2018 al Paese del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella



RAPPORTO dal TERRITORIO 2019

Prefazione

Silvia Viviani Presidente dell’INU da dicembre 2014 a luglio 2019

Il Rapporto dal Territorio nel progetto culturale dell’INU 2016/2019 Dal Progetto Paese (XXIX Congresso INU, 2016), con il quale avevamo inteso comprendere e interpretare il cambiamento (l’urbanistica tra adattamenti climatici e sociali, innovazioni tecnologiche e nuove geografie istituzionali), al Governare la frammentazione (XXX Congresso INU, 2019), ove abbiamo lanciato un patto per l’urbanistica italiana nella transizione economica, sociale, ambientale, l’Istituto si è mosso su traiettorie di lavoro utili alla rifondazione della disciplina e della cultura urbanistica quale contributo a un nuovo modello di sviluppo per il Paese. L’intento comune a una molteplicità di iniziative e a nuove modalità organizzative si è sostanziato nel coinvolgimento di istituzioni, cittadinanze e imprese intorno a una visione ampia e in grado di unificare approcci e metodi adattivi e sperimentali nella valorizzazione dei diversi Contesti e nella redistribuzione dei patrimoni materiali e immateriali su tutto il territorio. Decidemmo fin dall’Assemblea dei Soci 2015 che quella sarebbe stata la trama sulla quale organizzare gli eventi, le iniziative, le modalità di lavoro dell’Istituto. \Nel tempo si sono concretizzati progetti di rango nazionale e di livello locale, presentati, discussi e condivisi all’interno dei nostri eventi, che hanno permesso di configurare relazioni e reti stabili fra molteplici soggetti. Per patrimonializzare i risultati delle ricerche e definire programmi culturali e formativi, abbiamo condiviso intenti e programmi, abbiamo stretto protocolli d’intesa e collaborato a iniziative e attività. Ci siamo impegnati costantemente, per mantenere e incrementare il patrimonio culturale dell’Istituto, ottenendo risultati di merito, visibilità e riconoscibilità, nel vasto, affollato, frammentato e incerto quadro politico e disciplinare. Sono davvero molte e diverse le attività svolte dall’Istituto, con i suoi diversi organi e organismi, sia nel campo della ricerca, sia per la diffusione, la conoscenza e la formazione, sia, infine, per le reti con le quali e nelle quali si possono attuare programmi operativi. Dell’importanza e del successo di un tale approccio ha dato conto l’ampia partecipazione alla VII Rassegna Urbanistica Nazionale che, per la prima volta, è stata integrata nei lavori congressuali (36 aprile 2019, Riva del Garda). Ne sono stati segnali positivi anche le convergenze delle specificità in quello che fin dal 2014 definimmo “l’arcipelago INU”, una comunità di lavoro nella quale abbiamo progressivamente incrementato spazi, riconoscibilità e occasioni per costituire un vasto sistema di intese e convergenze culturali, disciplinari, istituzionali, sociali ed economiche. In sostanza, uno spirito di comunanza anche nell’offrire servizi culturali al Paese da parte di un Istituto coeso in un momento storico disorientato e a fronte di un territorio fragilizzato. Le proposte del XXX Congresso e le posizioni discusse e approvate dall’Assemblea dei Soci nell’aprile 2019 hanno dato significato politico al nostro agire aperto alle alleanze e unito in un impegno comune nella chiave della rigenerazione e dell’adattamento. In questo quadro si è posto il rinnovo del Rapporto dal Territorio, che ha accompagnato la Rassegna con la formazione dell’edizione 2019, nel quale le attività di ricerca, analisi e indagine alla sua base si sono evolute con l’apporto degli studiosi e il collegamento fra sistema universitario, organismi istituzionali, centri di ricerca, che hanno collaborato attivamente alla sua stesura. Nella Relazione della Presidente, approvata dall’Assemblea dei Soci 2019, fu posta la necessità di configurare una struttura stabile a questa modalità di lavoro, tale da offrire anche occasione di riconoscibilità e servizi nel campo della formazione e della ricerca. Con l’edizione 2019 il RdT è stato destrutturato nella sua organizzazione descrittiva, nata in forma speculare al sistema delle geografie istituzionali e alla gerarchia degli strumenti urbanistici previsti dalle leggi regionali. La destrutturazione è agevolata anche come modalità d’uso dalla fascicolazione separata di capitoli, box di approfondimento e introduzioni. Il richiamo alla possibilità di governare la frammentazione (XXX Congresso 2019) nel Mosaico d’Italia (VII RUN, 2019) a partire dalla comprensione dei suoi caratteri è evidente. Con il XXX Congresso e la VII RUN abbiamo voluto guardare con approcci progettuali alle difficoltà del momento in cui viviamo. A ciò vale il titolo scelto per il Congresso, nel quale “governare“ e “frammentazione“ sono termini di spessore ampio, uniti non negativamente, ma in un quadro di responsabilità. La consapevolezza delle attuali condizioni ambientali e sociali va considerata uno sprone per la ricerca delle soluzioni utili al miglioramento delle forme urbane. Sappiamo che non si può prescindere

7


dalla qualità degli ambienti urbani e territoriali in cui collocare politiche attive. In definitiva, lo stimolo che i giovani di tutto il mondo imprimono al mutamento delle politiche va in questa direzione. Dunque, la possibilità di governare sapendo riconoscere il mosaico permette di considerare la frammentazione come un dato vitale, componente non di incertezza ma del nuovo campo della transizione per pratiche democratiche responsabili, trasparenti, competenti, anche in urbanistica.

Il RdT 2019 L’evoluzione del RdT verso un prodotto con diversi livelli di fruizione, destinato a una platea di utenti ampia, comporta anche l’adozione di forme espositive più concise per le parti documentarie e descrittive dei Piani e delle Politiche mentre si potrà sviluppare in forme più argomentate e colloquiali la parte oggi affidata alle Interviste (Cambiamento – Mutazione) e alla analisi dei fenomeni di trasformazione (Territori che cambiano). In questo processo evolutivo, che ha caratterizzato il RdT sin dalla sua prima edizione elaborata per conto del MIT, la struttura del RdT ha mantenuto inalterato il suo principale carattere, che resta quella di monitorare l’andamento della pianificazione come attività di governo delle città e dei territori affidando il suo commento politico ad autorevoli testimoni del cambiamento sia membri dell’Istituto che esponenti del mondo scientifico culturale. L’edizione 2019 del RdT registra non solo i cambiamenti che si riscontrano nella sequenza temporale periodica in termini di nuove modalità introdotte dalla legislazione di settore nella sperimentazione di prassi evolutive, ma monitora anche la profonda mutazione della sfera pubblica nella quale agisce prevalentemente l’urbanistica. Emerge dal Rapporto una complessità di prassi di pianificazione che, con modalità diverse nei diversi contesti, e con diverse incidenza, narrano un Paese che interpreta con strumenti spesso sperimentali ed avanzati un mondo in accelerata trasformazione, non sempre positiva. L’attività di pianificazione è descritta in riferimento alla permanente rappresentazione statistica convenzionale (Città Metropolitane, Città Medie, Piccoli Comuni) opportunamente articolata e si evidenzia come cresca la necessità di superare l’applicazione di un medesimo modello di piano in realtà tanto diverse per una molteplicità di fattori. I tentativi regionali di declinare le forme del piano in maniera diversificata in dimensioni sovracomunali registrano ancora la pesantezza di rigidità procedurali. Avanzano invece le pratiche della progettazione urbanistica complessa, utili ai fini dell’integrazione settoriale all’interno dell’amministrazione pubblica, incentivate dalle famiglie di piani e programmi legai all’utilizzo dei fondi comunitari. Si conferma quanto già evidenziato nelle precedenti edizioni relativamente alla reticolarizzazione della struttura insediativa italiana alla quale consegue che i processi di trasformazione territoriale non avvengono più secondo andamenti riconducibili a chiavi omogenee per scalarità o caratteri specifici. Persiste, aggravata dalla crisi in corso ormai da oltre dieci anni, la divergenza territoriale fra centro nord e sud del Paese. Il significativo abbassamento dell’Indice di rinnovo della pianificazione comunale generale, che scende dal 26% del quadriennio 2010-2014 all’11% del quadriennio che si conclude nel 2018, contiene anche i dati di una sostanziale stasi della nuova stagione della pianificazione paesaggistica mentre il rinnovo strutturale della pianificazione locale più volte promosso dalla prolifica legislazione regionale appare sfiancato. Il RdT registra sia nella parte documentativa sia in quella interpretativa una sorta di sfiducia nei confronti dell’urbanistica regolativa tradizionale e una certa disaffezione rispetto a razionalità, competenza e responsabilità.

8


RAPPORTO dal TERRITORIO 2019

Le dimensioni a rete del RdT 2019 Le dimensioni in cui si è sviluppata la rete del RdT sono tanto interne quante esterne all’Istituto, queste ultime concretizzate in Accordi di collaborazione scientifica con alcuni laboratori universitari (AnTeA, UnivAq- cartografie – tabellazione – Schede Regioni/ UniD’A – Città medie – Comuni Minori/ RomatreSistemi insediativi) e centri di Ricerca (ISVART – turismo / CRESA, CAIRE – Montagna / CEDEP – Parchi e Riserve) e con il CRCS, centro promosso da INU, Legambiente e PoliMI sul consumo di suolo (MAUD PoliMI / L’abitazione in fitto) . Si sono inoltre consolidate le forme di collaborazione periodiche con ISPRA e ISTAT in riferimento a una progressiva armonizzazione dei dati relativi all’uso del suolo ed alla organizzazione dei sistemi insediativi regionali nelle loro interazioni per la costruzione di indicatori. La necessità di verificare la natura dei cambiamenti non solo nella loro dimensione territoriale e fenomenica ha comportato la costruzione, attraverso il Rapporto, di due specifiche reti di referenti esterni. La prima è stata dedicata alla natura del cambiamento che ha investito la sfera pubblica in cui opera l’Urbanistica, analizzata in cinque interviste con autori diversi. La seconda è stata dedicata alle descrizioni dei contesti, delle politiche e delle azioni strategiche e con essa si conclude la parte relativa alle relazioni tra politiche e territori indagate attraverso specifici approfondimenti ambiti (il Mezzogiorno, la Montagna, La cultura e il turismo , La città e il mercato immobiliare). Quanto alla rete interna, la base dati relativa alla pianificazione, elaborata dalle Sezioni regionali con il coordinamento di Simone Ombuen, ha fornito una significativa dimensione conoscitiva, anch’essa per sua natura strutturata in rete. Inoltre fa parte della rete interna il quadro contenuto nell’Allegato che si propone con il titolo Complementi - letture, contributi e materiali, curato dal Segretario Generale Luigi Pingitore. Con questo testo nel RdT si completa l’indagine del mondo dell’urbanistica attraverso le analisi che lo stesso Istituto ha condotto, con una ricognizione approfondita anche di chi opera intorno al governo delle città e dei territori: dirigenti e amministratori, professionisti, urbanisti, docenti universitari, ricercatori che, insieme, costituiscono una rete per rispondere più efficacemente alla nuova domanda di piano. Nelle Schede contenute nel primo capitolo dei Complementi si trovano le descrizioni delle attività svolte dalle Communities INU costituite dopo il XXIX Congresso come nodi di una rete di studio aperta e propositiva. Nel secondo capitolo dei Complementi si trovano le descrizioni dei Progetti Pilota promossi dall’INU. Alcune delle esperienze sviluppate dalle INU Communities hanno concretizzato nuove modalità di investigare e dare risposta ai problemi che la disciplina si trova di fronte, cosi come i Progetti Pilota per il Paese propongono una dimensione progettuale che parte dai contesti reali piuttosto che dai confini amministrativi. L’ultima parte dei Complementi del RdT sottopone questa serie di proposte alle analisi di alcuni attori, avviando una ricognizione delle forze in campo e una riflessione intorno a strumenti, compiti e competenze per l’agire pubblico nel campo dell’urbanistica.

Il sito RdT L’edizione 2019 affianca alla formula cartacea a stampa in un ridotto numero di copie destinate ai rapporti istituzionali un sito del RdT destinato prevalentemente alla diffusione dei dati relativi alla pianificazione comunale che costituiscono il nucleo fondativo del RdT e quello di più diffusa utilizzazione. Nel sito è disponibile l’intero RdT sotto forma di Indice, Introduzioni ai capitoli e ai paragrafi, Inquadramento (interviste ad autorevoli testimoni), mentre gli articoli, le cartografie e le tabelle in essi contenuti sono consultabili e acquisibili sul sito di INU Edizioni. Nell’indice generale del RdT edito sul sito sono riconoscibili parti direttamente consultabili, parti estraibili a pagamento, parti editabili direttamente da INU e dalle Sezioni come supporto conoscitivo ai seminari ed ai convegni. Per le introduzioni è disponibile la traduzione in inglese direttamente sul sito INU e su quello del RdT. Infine, i dati relativi alla pianificazione saranno aggiornabili a scadenze periodiche direttamente dai responsabili delle Sezioni INU regionali e degli uffici regionali, provinciali e comunali.

9


Conclusioni L’Istituto ha seguito un percorso complesso nel quale si è deciso di rinunciare alla costruzione di un modello valido ovunque e sempre, oggi non sufficiente a rappresentare e guidare il mutamento nelle profonde differenze dei luoghi, delle culture, delle prassi che molto incidono all’urbanistica. Un’urbanistica che, tuttavia, pare tornata al centro del dibattito e non solo per la tensione verso la necessaria riforma dei princìpi nazionali per il governo del territorio che si cela nei molteplici disegni di legge in tema di rigenerazione urbana e consumo di suolo. Sembra più che necessario praticare il metodo dell’etica della responsabilità con cui si agisce tenendo sempre presenti le conseguenza dell’agire per affrontare il nostro presente e le relazioni logorate fra acquisizioni culturali apparentemente stabili e princìpi che le hanno generate. Ciò riguarda la cultura dei diritti umani, l’identità internazionale delle città europee e la capacità di offrire speranza nella società contemporanea scongiurando il rischio di non comprendere le problematicità sociali e politiche con le quali dobbiamo confrontarci. La città è al centro persino di molta narrativa contemporanea oltre che delle ricerche sui generi, sulle generazioni e sulle diversità etniche che proprio nell’uso degli ambienti urbani pongono istanze sociali e ambientali spesso non di facile conciliazione. Parlare di urbanistica in questi termini è una scelta per riflettere sulle condizioni urbane, sugli orizzonti della rigenerazione e della resilienza, sui rapporti tra piano e progetto, sui compiti della politica e su quelli della tecnica, sul ruolo degli urbanisti. Si tratta anche della possibilità di accettare le tante e diverse forme della convivenza che continuiamo a chiamare città, di verificare la capacità e le volontà dei sistemi politici e istituzionali di governare attraverso l’urbanistica processi complicati e complessi, di forzare l’apertura di cerchie troppo spesso ristrette degli urbanisti e di promuovere la formazione di nuove professionalità necessarie per dare risposta al mondo che cambia. L’impianto metodologico e la trama dei contenuti disciplinari costruiti negli ultimi anni dall’Istituto non possono essere dispersi né considerati assoggettabili a opere meramente di finitura. L’impegno dell’Istituto Nazionale di Urbanistica va confermato «a favore di uno spazio, quello dei luoghi, ma anche e di più quello della disciplina, entro il quale muoversi da qui in avanti, ove non vi è modo di aggiustare o rammendare, ma è meglio recuperare (rigenerare), eliminare, ideare» (Documento Congressuale 2019). Un impegno che nel XXX Congresso accompagnato dalla VII Rassegna Urbanistica Nazionale dell’INU (Riva del Garda, 2019) si è declinato in un programma rigoroso ma non chiuso, per proporre strumenti utili alla società civile e all’azione istituzionale: un nuovo modo di fare urbanistica per un nuovo modello di sviluppo.

10


RAPPORTO dal TERRITORIO 2019

Introduzione

a cura della Redazione

Il Rapporto dal Territorio 2019, nella consapevolezza di operare tra Cambiamento e Mutazione, registra una marcata incisività delle attività di pianificazione nelle modalità di governo del territorio nelle diverse aree del Paese ma soprattutto intende fornire un supporto cognitivo per interpretare i complessi processi che intervengono nella Mutazione. Questo riguarda in particolare le interazioni imperfette che nei diversi contesti producono metamorfosi dei paesaggi, e dei Sistemi insediativi, senza una razionalità estetica, funzionale e spesso neanche economica comprensibile dei cittadini. Al fine di meglio interpretare la dimensione complessa del Cambiamento/Mutazione e nella tradizione dei precedenti Rapporti, sono stati intervistati alcuni autorevoli “testimoni” anche in riferimento alla loro più recente produzione disciplinare. Ne è derivato un significativo mosaico, le cui tessere costituiscono una interessante descrizione del contesto in cui opera l’Urbanistica. Il Rapporto si articola in tre parti: una prima parte tratta le Politiche pubbliche territoriali, nazionali e regionali, la seconda parte tratta dei Sistemi di pianificazione, definititi dalle legislazioni regionali e analizzati nelle dimensioni della pianificazione territoriale e in quella dei comuni. Lo stato della pianificazione del Paesaggio conclude la seconda parte. La terza parte che ripropone come complementi al RdT che intendono fornire una documentazione di come l’Istituto interpreta il cambiamento/mutazione dall’Urbanistica e delle sue prassi, sul piano di una verifica diretta, attraverso il lavoro delle Communities che può aiutare a “porre bene” i problemi che la disciplina affronta nelle sue complesse articolazioni. In alcune specifiche situazioni territoriali o su temi di particolare interesse l’istituto ha inoltre avviato sperimentazioni di cui il Rapporto da una sintetica discrezione attraverso i Progetti pilota per il paese i Progetti urbanistici, di territorio e di paesaggio, presenti anche nelle divere edizioni di U.Promo e nella RUN e che costituiscono un riscontro significativo di una nuova dimensione operativa nella quale sperimentare nuove prassi. I Box approfondiscono i temi della Rigenerazione, del Documento Unico di programmazione, dei PUMS ma analizzano anche nella loro evoluzione, i Sistemi locali del lavoro, la Cassa Depositi e Prestiti, etc. , tutti temi interrelati con il Piano . La prima parte del RdT che tratta delle Politiche di contenuto territoriale è separata in questa edizione dalla seconda parte, che tratta della Pianificazione, pur mantenendo concettualmente viva la interazione tra Piani e Politiche sia per meglio comprendere l’intervenuta interruzione di un ciclo di riforme avviate dal Governo precedente al voto del 2018 che si sono mostrate più intenzionali che “sostanziali” per lo meno per gli effetti sul territorio e le città, sia per le modeste risorse investite, sia per l’assenza di una strategia complessiva comune alle diverse politiche (SNAI – Città Metropolitane – Periferie). Parallelamente si sono ridotte le rappresentazioni dei fenomeni alla scala Macroregionale condensandoli in dati aggregati e spostando la loro valutazione nello spazio dedicato alle politiche regionali. Questo non tanto per l’abbandono di una visione macroregionale, in quanto non praticabile nell’immediato in relazione al crescente antieuropeismo di parte del governo alle politiche infrastrutturali connesse ai programmi europei o interregionali, quanto per una totale assenza di idee e di progetti, connotati da caratteri strategici nella dimensione macro regionale, da parte delle stesse Regioni. Questo è dovuto sia alla regressione dello Stato rispetto ad una fase forse troppo illuministica, che aveva caratterizzato la stagione dei Programmi Complessi, sia alla crescente disillusione rispetto alla dimensione europea, statale e regionale che era alla base della Coesione territoriale ma che è stata spesso interpretata solo come sommatoria di spezzoni di localismo senza una regia (N. Rossi. Mediterraneo del Nord 2005). Proprio l’assenza di una interpretazione del cambiamento di lungo periodo alla quale si sono preferite politiche ridistributive, di tipo settoriale e tra loro non integrate, ha ridotto gli effetti che le stesse hanno prodotto non tanto sul territorio quanto sui comportamenti degli amministratori, dei tecnici e dell’opinione pubblica. Scarsità di risorse, intellettualismo, sopravvalutazione del ruolo opportunistico della politica locale hanno decretato il fallimento di una stagione di riforme riavviare le quali non sarà facile nel delinerasi di una recessione economica che interessa l’intera UE. E’ quindi apparso opportuno tentare un bilancio di alcune di queste Politiche Nazionali di contenuto

11


territoriale quali: La Strategia nazionale dello sviluppo sostenibile, la Strategia per le aree interne, il Programma periferie, etc con ricognizioni analitiche e critiche degli stessi. L’Analisi delle Politiche parte da un aggiornamento del quadro di sintesi elaborato nel Rapporto 2016 che ha consentito di verificar le stesse sia in termini di continuità /discontinua, sia in termini di attuazione. L’apporto alla edizione RdT 2019 dell’Agenzia per la coesione territoriale, inaugura una importante collaborazione in base ad uno specifico Accordo quadro con l‘Istituto e consente una ampia descrizione degli esiti delle diverse politiche e in particolare del PON Metro e della politica di Cooperazione territoriale rilanciando il tema del rapporto tra pianificazione e programmazione. Il Rapporto propone inoltre un diretto confronto tra la ricognizione analitica dello stato della Pianificazione presente nella seconda parte e l’azione di monitoraggio dell’Agenzia sulla Programmazione in essere che fa emergere alcuni elementi critici quali: la permanenza di eccessivi ritardi attuativi, una diffusa incapacità progettuale dei soggetti locali, l’assenza di uno Schema di assetto nazionale, di Quadri Conoscitivi di Rischi e Valori adeguati e, alla scala Regionale, di Piani o Quadri di Riferimento di natura strategica. L’Analisi delle Politiche Regionali di interesse territoriale mantiene il format delle “Agende” elaborato dalle Sezioni INU regionali e si arricchisce di diagrammi a radar relativi ai principali indicatori dei fenomeni socioeconomici e territoriali in atto, che consente una comparazione del consumo di suolo con l’abusivismo o con l’indice di infrastrutturazione riprendendo una analisi comparativa contenuta nel RdT 2007. Gli indicatori utilizzati per l’analisi comparativa sono relativi ad: Innovazione, Sviluppo, Infrastrutture, Istituzioni, Pianificazione e Ambiente e descrivono il tradizionale dualismo del Paese, ma confermano anche il rapporto tra domanda di pianificazione nelle Regioni l’una a maggior tasso di sviluppo con alcune significative eccezioni nel Lazio e nella Basilicata, con valori superiori alla media per Innovazione e Infrastrutture e l’altra per indicatori Ambiente e Sviluppo. La seconda parte del RdT: I Sistemi di Pianificazione analizza l’evoluzione nel quadriennio della Legislazione regionale che presenta alcuni aspetti di rilievo. - Molte Regioni hanno introdotto norme speciali per regolare il consumo di suolo ed assieme alla rigenerazione urbana talvolta accompagnando tale nuova disciplina con nuove norme incentivanti o di semplificazione dei più semplici interventi edilizi di riqualificazione. - Le nuove leggi regionali non sono frutto di innovazioni concettuali, ma dipendono dal perfezionamento di impianti precedenti, inoltre ogni intervento dei legislatori regionali cerca di rispondere all’esigenza di semplificazione. - La ricerca di semplificazione, specialmente in ambito di pianificazione ed in connessione tra questa e la programmazione degli interventi, porta inevitabilmente a dover riconsiderare i rapporti tra fonti di normazione e strumenti di pianificazione. Ma su questo piano però possono scendere solo le leggi di riforma più sistematica - L’impressione è che oggi mentre si ricerca il prossimo modello di quarta generazione, sulla legislazione regionale pesi il prolungarsi del distacco da quel modello con una stasi concettuale e metodologica che non riesce ad attivare una relazione dinamica tra la visione politica e la strumentazione, tra democrazia partecipativa e competenza, ma che intanto ricerca un assestamento di una semplificazione delle pratiche sinora seguite. La Pianificazione di Area Vasta nelle sue configurazioni istituzionali e settoriali (di tutela e di intervento), ma anche nelle sperimentazioni progettuali e strategiche, rappresenta il campo più significativo di una riconfigurazione disciplinare in gran parte ancora da avviare e rispetto alla quale il Rdt intende fornire una rappresentazione “unitaria”. Pur in una fase di incertezza e di stasi si riscontra un passaggio da Schemi spaziali eredi di una tradizione centralista ( dalle Proiezioni del Progetto ’80 ai Programmi Complessi) a processi di governance: (Accordi, Intese, Patti riferiti a Quadri conoscitivi), la cui terzietà rispetto alle decisioni può garantire ai Progetti Urbanistici (di Territorio e di Paesaggio) una nuova valenza quali strumenti di verifica degli stessi Quadri in un rapporto di reciproco perfezionamento e conferimento di senso. Relativamente alla Pianificazione comunale al fine di garantire, la comparazione dei dati si è mantenuta una struttura di rilevamento (decentrata nelle Sezioni/INU regionali) basata sui dati comunali

12


RAPPORTO dal TERRITORIO 2019

così da registrare l’andamento dei fenomeni e in particolare della tendenza a innovare (indice di rinnovamento), determinata sia dalla elaborazione-approvazione di nuovi piani, sia alla produzione di nuove leggi regionali che a loro volta introducono nuove modalità e/o nuovi strumenti di pianificazione. Sulla “stabilità” delle modalità di rilevazione di base del numero dei Piani in relazione a popolazione e superficie, propria di un Rapporto periodico, si sono viceversa introdotte due nuove modalità di organizzazione - rappresentazione dei dati. La tradizionale rappresentazione nelle tre tipologie di sistemi insediativi: Città metropolitane, Città medie, Comuni minori, è stata arricchita da analisi su campioni significativi per avviare una prima riflessione sulla qualità della pianificazione. Come si ebbe modo di segnalare anche in trascorse edizioni del RdT, il tasso di pianificazione si dimostra correlato all’andamento delle dinamiche economiche, e tale correlazione va crescendo. I dati del RdT 2019 segnalano una condizione complementare alla prima: una più bassa attività di pianificazione nelle realtà con una più elevata sofferenza nelle dimensioni economico-sociali. I dati raccolti per l’edizione 2019 del Rapporto dal Territorio indicano un significativo rallentamento dell’attività di pianificazione urbanistica comunale generale. Nel complesso l’attività di rinnovo dei piani urbanistici, nel confronto fra i quadrienni 2011-2014 e 2015-2018, mostra come la percentuale di comuni dotatisi di una nuova pianificazione (nuovo piano o variante generale) è diminuita dal 22,0% al 10,5%, con un calo del 52,3% fra i due quadrienni. La distribuzione territoriale, pur nella varietà tipica della complessità del territorio italiano, mostra come il calo sia diffuso in molte realtà regionali, al nord come al centro e al sud. Fanno eccezione alcune regioni che sono giunte ad un elevato livello di maturità del sistema di pianificazione, come il Trentino e l’EmiliaRomagna, che segnano invece un incremento. Mentre a Nord si hanno rinnovi che coprono circa la metà dei comuni e più elevati valori per la popolazione (fino all’80% della Lombardia), dal Centro Sud in giù i valori scendono molto, con un calo particolare per i valori di popolazione (Sardegna esclusa). Ciò testimonia non solo la più ridotta attività di pianificazione, ma che il calo riguarda soprattutto comuni di dimensione minore. Fra i maggiori livelli di attività nella pianificazione va segnalato il caso del Trentino Alto Adige che in particolare nell’ultimo quadriennio risulta primo in tutti i valori, con il 41% di comuni, il 35,5% di territorio e il 42,9% di popolazione interessati da nuovi piani. Un altro aspetto degno di attenzione emerge dall’analisi delle regioni che pianificano meno. Oltre il caso eclatante del Lazio, le regioni con meno attività si raccolgono in due gruppi; un primo che comprende Puglia, Calabria, Sicilia, Molise e Campania, con valori molto bassi, che corrisponde alle regioni Convergenza della programmazione 2014-2020; e un secondo gruppo con Marche, Abruzzo, Umbria, Basilicata e Sardegna, con valori più elevati, che comprende le regioni in phasing out della programmazione 2014-2020 e quelle che verranno ammesse in area convergenza nella programmazione 2021-2027. Specifica attenzione è stata dedicata al tema degli Standard Urbanistici. Non va infatti dimenticato che è intono a questo rapporto che si sono combattute importanti “battaglie urbanistiche” è sull’entità di questo rapporto che si sono misurate la volontà progressista e riformista e l’indipendenza dagli interessi particolari delle amministrazioni comunali, così come è nel modo in cui questo rapporto ha trovato concreta attuazione che si è verificata l’efficacia della norma e la volontà politica alla sua applicazione. La strutturazione dei dati raccolti e la valutazione di essi viene sviluppata mettendo in evidenza le tendenze emergenti nelle Regioni e Comuni capoluogo accorpati nelle macro geografie in cui è articolato il Paese Nord Ovest, Nord Est, Centro, Sud Isole in quanto è parso particolarmente significativo a fronte delle richieste di autonomia differenziata avanzate per prime dalle Regioni Lombardia, Veneto e Emilia Romagna cui corrisponde un esplicito impegno dell’attuale Governo nazionale di dare attuazione all’art. 16, comma terzo, della Costituzione, nei confronti delle Ragioni che ne facciano motivata richiesta. Relativamente alle Città Metropolitane si è approfondita l’analisi campionaria sulle sole città che hanno avviato concretamente i processi di pianificazione.

13


Si prende atto di un avanzamento di pratiche che le istituite Città metropolitane stanno svolgendo con diversa intensità e per le quali l’esistenza di un’area istituzionale si propone come essenziale per l’individuazione dei problemi nodali da risolvere e per la trasmissione di buone pratiche. Le Città Metropolitane più volenterose puntano alla cooperazione con i comuni (Milano) o con la Regione (Firenze), talvolta cercando di stringere accordi o stabilire processi di copianificazione, dove cercano di ritagliarsi gli spazi consentiti dai partener maggiori, che non possono essere se non marginali o di accompagnamento. Pertanto il ruolo nel processo di pianificazione finisce per essere più importante non tanto per quello che realizza da sola quanto per la capacità di fornire il luogo di incontro per la cooperazione o la guida culturale per indirizzare le scelte degli altri partecipanti. A questo scopo si prestano “visioni” con il ricorso a metafore dal valore comunicativo penetrante, in modo da sposare il ruolo della CM all’indicazione di un indirizzo di cooperazione con limiti flessibili ed indefiniti. In definitiva, il governo del territorio metropolitano, in attesa dell’affermarsi politico ed urbanistico della CM, si muove piuttosto secondo una complessa governance multiattoriale con tutti i pregi ed i difetti che ciò comporta. In particolare, ed in modo piuttosto sorprendente, mancano all’appello soprattutto i comuni ricompresi nei sistemi locali delle aree metropolitane, che pure al sud costituiscono una quota rilevante della popolazione complessiva e dei fenomeni urbanizzativi, in particolare in due regioni: in Sicilia, dove sono il 60% della popolazione, e in Campania dove sono il 53%. La debolezza del rinnovo della pianificazione in questi due casi (dal 2011 al 2018 nei sistemi locali delle aree metropolitane sono stati rinnovati piani per una copertura del 3,5% della popolazione in Sicilia e addirittura del solo 1,4% in Campania) denuncia la scarsa domanda di trasformazione insediativa nelle maggiori realtà urbanizzate del Mezzogiorno, e non parla solo del pur preoccupante calo demografico, ma evidenzia l’indebolimento delle economie urbane e della componente di servizi, profondamente connessa alle trasformazioni urbanistiche, che nelle economie contemporanee ne costituisce un pilastro primario. Relativamente alle Città medie si è definito un campione di 30 città, sulle 102 così definite, sulle quali l’approfondimento è stato relativo agli strumenti, non solo generali (Piani attuativi, Piano Periferie, Piani Urbani Mobilità, Strategica), e sulla consistenza degli uffici “urbanistici” (di pianificazione), nonché sul tema della attuazione degli standard. Il funzionamento di tipo “metropolitano” di alcuni sistemi insediativi sta caratterizzando, a prescindere dalle dimensioni anche molte delle “città medie” , al punto che oggi sembra opportuno riconoscere l’esistenza di ver e proprie “metropoli regionali”. L’attuale funzionamento delle metropoli di media dimensione mostra, nuovi sistemi di centralità a geometria variabile, organizzati per ritmi d’uso e temi d’interesse. Si tratta, per altro, di rileggere criticamente le politiche e i relativi stanziamenti finanziari fin qui attivati in tema di agenda urbana (PON Metro e POR regionali), stigmatizzando ii fenomeno che Fabrizio Barca ha recentemente definito di “accomodamento passivo delle agglomerazioni urbane”. Le città medie sono inoltre più esposte al rischio ambientale e paesaggistico, anche se ad oggi e proprio in esse che si riscontrano le migliori prestazioni insediative in termini di qualità della vita, di servizi e di sostenibilità ambientale (Vedi Ecosistema Urbano 2018 Legambiente). II “sistema urbano intermedio” delle Città Medie deve poter svolgere un ruolo di cerniera e di mediazione tra le aree forti e quelle deboli del Paese. La vera capacità innovativa di questa fondamentale risorsa è infatti quella di porre in relazione le politiche per le Città Metropolitane (PON-METRO) con quelle tentate per le aree interne (SNAI), allo scopo di sviluppare le possibili sinergie che sono alla base di uno sviluppo equilibrato del Paese. Relativamente ai Comuni minori, termine utilizzato per ricomprendere i comuni con meno di 5.000 abitanti, e in quanto tale sinonimo di Piccoli comuni, si sono estrapolati i comuni turistici (montani e costieri) con la collaborazione dell’Ismart e i comuni che hanno avviato pratiche di intercomunalità. La distribuzione territoriale dei piccoli comuni interessati da un maggiore tasso di rinnovo della pianificazione è tale per cui la gran parte di amministrazioni virtuose, si concentra nelle regioni del nord est, per lo più in Trentino (in minor misura in Alto Adige) e, inoltre, in alcune zone della Lombardia, della Toscana, in settori del Piemonte e dell’Emilia Romagna, come nella ristretta porzione settentrionale delle

14


RAPPORTO dal TERRITORIO 2019

Marche e, ancor meno, in !imitate aree di Basilicata ed Abruzzo sud orientale. Il maggior numero di percorsi di fusione sembra aver interessato ii Trentino, il Veneto (Cadore ed Agordino nel bellunese), alcune aree dell’Appennino tosco-emiliano, diverse zone della bassa padana (per lo più aree nel cremonese, mantovano, 6.170 ferrarese e Polesine padovano), come anche aree di Piemonte e Lombardia prossime ai grandi laghi ( (Provincia di Pesaro Urbino e Ancona), con eccezioni in Irpinia (Campania) ed area silana cosentina; Il modello di distribuzione spaziale dei comuni minori con più elevate potenzialità turistiche, come delineate, mostra chiaramente come circa ii 60% di essi si trovi a nord una significative coincidenza degli stessi con la gran parte (oltre il 45%) dei comuni (solo poco del 20% al sud e non più del 16% al centro), verificandosi, peraltro, anche una significativa coincidenza degli stessi con la gran parte (oltre il 45%) dei comuni montani (la stragrande maggioranza dei quali nell’arco alpino ) e con un buon andamento di comuni costieri per lo più distribuiti in Liguria, Calabria, Sardegna, ed aree molto circoscritte della Campania (Cilento). Si sono, dunque, “portate in luce”, entro la variegata trama del mosaico dei comuni minori, alcune “tessere o macchie luminose”, isolandole da una prevalente tonalità di fondo alquanto opaca, identificandole o traguardandole, in prospettiva, proprio con piccole comunità tanto più attrattive, accoglienti, dinamiche, quanto più interessate da una stabile attitudine alla programmazione e alla pianificazione spaziale (ispirate da idonee visioni strategiche), oltre che, meglio di altre, beneficiarie di sinergie di comunità (di rango territoriale) che, in taluni casi, hanno spinto le istituzioni locali verso vincoli stabili, a servizio di una progettualità comune. Ne è derivato un notevole avanzamento dell’analisi di tipo “qualitativo” conferendo al RdT/2019 un più significativa utilità ai fini della ricerca. Da un lato la costruzione di una dimensione reticolare e colloquiante tra i diversi e numerosi Rapporti, da sempre ricercata dall’INU, ma di difficile avvio, dall’altro lo spostamento dell’attenzione, dalla natura puramente quantitativa dei fenomeni, alla dimensione qualitativa, questa sicuramente di difficile rilevazione, ma necessaria in una fase di riflessione sui fini e sui mezzi della disciplina. La Pianificazione Paesaggistica di cui si registra nel Rapporto un sostanziale stallo (solo tre nuovi Piani approvati – nessuno nel triennio) coincide con un arretramento difensivo sulla sola natura vincolistica e con la rinuncia alle potenzialità insite nei Progetti di Paesaggio. La costruzione di Statuti del territorio ha per altro introdotto “invarianti Strutturali” di dubbia consistenza scientifica allontanando la Pianificazione Paesaggistica dagli indirizzi della stessa Convenzione Europea del paesaggio e aprendo ad una notevole conflittualità espressa dai numerosi ricorsi presentati ai TAR regionali relativamente ad alcuni nuovi Piani Paesaggistici. Il Codice Urbani affida la competenza del piano paesaggistico, al livello regionale, aprendo la strada di un unico piano territoriale paesaggistico o quella dei piani paesaggistici separati da quelli territoriali, essa però non risolve il problema della distanza del piano regionale dalle pratiche di trasformazione del territorio. I piani paesaggistici, anche quelli di recente formazione secondo le indicazioni del Codice, appaiono astratti e lontani dal territorio, concentrati soprattutto nel compito della individuazione degli Ambiti che ne rappresentano l’elemento comune a cui riferire gli obiettivi di qualità e gli indirizzi d’uso e comportamento, invece che nell’esprimere concrete politiche paesaggistiche. Manca una definizione di relazioni di coerenza sia nel quadro conoscitivo che in quello normativo, fra territorio regionale e beni paesaggistici, per stabilire una continuità tra prescrizioni relative ai beni e regole per tutto il territorio, articolate in obiettivi di qualità, indirizzi e direttive. l’Altro nodo non risolto è quello di una mancata introitazione del paesaggio nelle prassi di pianificazione urbanistica ordinaria. Il Progetto di paesaggio può costituire un campo di sperimentazione in cui superare la innaturale frammentazione tra diritti patrimoniali (pubblici e privati) e diritti fondamentali evitando la simonia che spesso viene riproposta con la monetizzazione degli usi (suolo-paesaggio-ambiente-acqua). Il passaggio dal piano al progetto è sempre stato il nodo centrale della pianificazione paesaggistica del nostro Paese. Per passare dal “paesaggio di carta” alla realizzazione concreta dell’azione paesaggistica occorre saper

15


integrare la progettualità dei territori, costruirle attraverso processi di condivisione delle scelte supportati (lane politiche regionali (ad esempio, Puglia e Piemonte) I Complementi del RdT sintetizzano nella terza parte l’azione dell’INU per il Paese così come essa si è sviluppata dal Congresso di Cagliari sino ad oggi. Vengono illustrati gli esiti dei lavori delle 19 Communities che con workshop, seminari, pubblicazioni hanno approfondito i temi disciplinari nell’ottica del cambiamento. Su temi territoriali specifici sono invece proposti alcuni Progetti Pilota: il Manifesto del PO, Le Città Accessibili, L’Italia Mediana, I Paesaggi del Sud, che si propongono come tessere di quel Mosaico che l’Istituto ha proposto in una ricomposizione del Progetto Paese. Molti di essi prescindono da una dimensione amministrativa circoscritta e reintroducono il tema macroregionale ed intorno ad essi si tratta di verificare una natura aggregativa di alleanze interistituzionali reali, quali alternativa alle richieste di autonomia fiscale avanzate da alcune regioni. I minimi diritti di cittadinanza di cui fruiscono molte aree del Mezzogiorno possono trovare compensazione in una sostanziale perequazione infrastrutturale. A questa nuova dimensione progettuale, interpretativa del territorio, come ricomposizione di parti in una visione sovraregionale, servono Progetti per il Paese ai quali Il RdT intende fornire elementi di conoscenza , in particolare relativamente alle fratture, alle diversità, alle fragilità, ma anche relativamente a potenziali inespressi, alle risorse, ai punti di forza da cui ripartire. Tra i Complementi del RdT ci sono infine i contributi dei principali attori: Professionisti, Docenti, Enti locali, interessati al Patto per l’Urbanistica proposto dall’INU come snodo centrale del congresso di Riva del Garda.

16


Cambiamento/Mutazione Il tema del Cambiamento costituisce la principale chiave di lettura del Rapporto dal Territorio sia, per registrare, l’evoluzione delle modalità di governo del territorio, (Piani e leggi), nei tempi brevi e nelle diverse aree del Paese, ma anche per comprendere, nei tempi lunghi, la metamorfosi della razionalità generale che caratterizza i rapporti tra il Piano e il sistema istituzionale e con l’opinione pubblica nella costruzione del Modello socio economico. Nel più recente periodo è proprio questa razionalità generale che è profondamente cambiata ma il Cambiamento, di cui oggi si parla molto, per le interazioni e le accelerazioni tra tecnologia e globalizzazione, si va trasformando in una Mutazione delle componenti della Sfera pubblica alle quali si è tradizionalmente riferita l’urbanistica. Una Mutazione regressiva della società si manifesta del resto con caratteri del tutto evidenti in una prassi come quella urbanistica che pone come fondamento del proprio statuto disciplinare la razionalità in forme più o meno comprensive, ma comunque tali da trovare la loro conclusione nella evidenza delle soluzioni formali (l’estetica della città) o nella efficacia delle soluzioni funzionali, ma anche nella capacità di garantire una risposta alla domanda sociale attraverso una concretizzazione dei nuovi diritti di cittadinanza. La rinuncia alla razionalità come trama delle relazioni sociali persino nelle sue forme di compensazione delle disfunzioni più evidenti del recente capitalismo finanziario si accompagna ad un diffusa rinuncia alla pianificazione anche da parte di amministrazioni tradizionalmente progressiste. In questo panorama regressivo l’intero impianto concettuale della disciplina si è illuso di potere difendere una posizione di centralità che aveva assunto attraverso il PRG come strumento regolatore dei rapporti tra la produzione di beni pubblici e quella di valori privati ma anche come regolatore dei cicli edilizi e del mercato immobiliare. Cercare di adattare progressivamente gli strumenti urbanistici alla mutazione della Sfera Pubblica senza una sostanziale comprensione delle forme della mutazione ha reso sempre più marginale l’Urbanistica. Le posizioni diversamente assunte dagli urbanisti si possono riferire anche alla loro tradizionale separazione tra progettuali-culturalisti e normativi-amministrativi che però non rappresenta compiutamente un mondo più ampio in cui queste due anime si contaminano reciprocamente Affidare ad un testo legislativo di riforma, in particolare in questa fase politica, la soluzione del problema rappresenta una ultima spes, una volontà di testimonianza e di riaggregazione di reduci di molte battaglie ma non sembra adatta a frenare le mutazioni regressive. La tecnologia sta modificando radicalmente la dimensione comunicativa, relazionale, e con essa la struttura profonda della democrazia liberale, rappresentativa e parlamentare. L’equivoco della mediazione regolata dalle Blockchain governate da algoritmi, progressivamente perfettivi nella partecipazione diretta alle scelte, domina e attrae verso una anarchia decisionale presuntivamente democratica, così come la riduzione dei posti di lavoro, come esito della robotizzazione della produzione, viene dribblata dal reddito di cittadinanza, condizione esistenziale senza prospettive e ammortizzatore sociale funzionale alle forme più aggressive del turbo capitalismo. La globalizzazione, nelle sue devianze anch’esse esito di una tecnologia applicata agli automatismi del mercato finanziario, ed alla invadenza delle Agenzie di rating, ha modificato il capitalismo e i suoi rapporti con le politiche pubbliche. La globalizzazione ha però determinato anche una nuova dimensione dell’economia che mentre gli abitanti del pianeta passavano da 5 mld a 7,5mld e riduceva di un mld il numero dei poveri nel mondo, allargava la forbice tra questi e il 10% più ricco della popolazione, che è giunta a detenere l’84% della ricchezza globale (OECD 2015). Piuttosto che di cambiamento si può quindi pensare all’inizio di una Mutazione P. Dardot e C. Laval hanno parlato di una “Nuova Ragione del Mondo” che connota gli scenari in cui dobbiamo ricollocare una nuova urbanistica: • un nuovo e molto incisivo ruolo della Tecnologia che connota il nuovo capitalismo del controllo; • una pervasiva riduzione dei tempi del lavoro nella vita delle persone; • la pressione degli imperi delle multinazionali rispetto ai governi nazionali e agli stati.

a cura di Pierluigi Properzi


Ne deriverà la diffusione di forme di controllo affidate ad algoritmi (blockchain), l’aumento delle disuguaglianze (indice di Gini), la insufficienza della regolazione economica e sociale degli stati nazionali nell’affermazione di democrazie Illiberali. Uno scenario ostile e pericoloso. L’urbanistica per un lungo periodo, ha avuto come razionalità di riferimento quella del neoliberalismo (non il neoliberismo), e quindi la produzione di beni pubblici in diversi assetti di governo più o meno democratici, contemperando questa produzione con una regolazione-distribuzione di valore dei beni privati. Nelle socialdemocrazie del secondo dopoguerra questa razionalità ha conciso con il welfarismo Keynesiano e ne ha condiviso successi e crisi adattando prevalentemente gli strumenti (non i fini) in una lunga stagione di stabilità. In questa stagione l’urbanistica si è riferita ad una Sfera pubblica molto ben definita e sostanzialmente condivisa: le Istituzioni configurate su impianti liberali a democrazia rappresentativa, il modello economico sociale del capitalismo temperato da governi liberal/socialisti, una opinione pubblica progressista Questa dimensione della Sfera pubblica è deflagrata sotto i colpi del turbo capitalismo finanziario, della crisi di sostenibilità del welfare e soprattutto della affermazione di democrazie illiberali che, cavalcando una opinione pubblica deformata anche dalla liquidità e dalla provvisorietà dei social, hanno visto l’affermazione di populismi in cui un crescente protagonismo individualista si propone come motivazione di una pseudo democrazia digitale diretta. Sono pertanto venuti meno i principi di rappresentanza, di responsabilità e di adeguatezza che sostanziavano le socialdemocrazie liberali e il modello di governo che ne derivava. Il Riformismo, come prassi coerente alle società liberal-democratiche, non è stato capace di affrontare contemporaneamente gli attacchi del populismo in rete, forte della sua polisemia, effimera e inclusiva, e gli attacchi, residuali ma sempre presenti, dell’antagonismo massimalista comodamente annidato nella sue pieghe. I numerosi tentativi di produrre una riforma urbanistica, (sia dei governi di destra che di sinistra), tutti naufragati nell’indifferenza del parlamento, che è sembrato ignorare i violenti processi di trasformazione del Paese, testimoniano l’insufficienza di un approccio riformista tradizionale basato su una razionalità ridistributiva dei valori prodotti dal Piano (perequazione) e su un modello di sviluppo progressista, di derivazione Keynesiana ma privo di risorse pubbliche. In questa fase climaterica, molti errori sono stati fatti anche all’interno della disciplina, sia con fughe in avanti nella deregolamentazione, sia nello spostamento della valenza dirigistica, sempre presente nel suo DNA, dalla lotta alla rendita alla difesa dei cosiddetti beni comuni, cercando di recuperare attraverso una narrazione retorica dei diritti “fondamentali” la incapacità di regolare i diritti “patrimoniali”. Una fuga dietro ad un “giustizialismo territoriale” nel vano tentativo di riconquistare nella opinione pubblica spazi già occupati dal populismo sanculottesco dei no-Tav, no Pat, no Ilva, no tutto. Non tutto quello che sta accadendo può quindi essere ricondotto al “cambiamento” o comunque al resettaggio delle componenti della Sfera pubblica (Istituzioni, Modello economico sociale, Diritti) al loro interno e tra loro. Non sono questi assi a riposizionarsi tra loro, come già accaduto in passato, assumendo forme diverse, tenute comunque insieme dal perimetro della democrazia liberale. Quello che si sta ampliando è la distanza tra le componenti della Sfera pubblica. La loro trasformazione avviene con sempre maggiore autonomia tanto da far pensare ad una loro progressiva “modificazione genetica”. In questa complessa evoluzione è molto difficile individuare gli spazi per l’Urbanistica. Ci sono comunque alcune prospettive che la disciplina deve considerare e rispetto alle quali il RdT fornisce importanti elementi di riflessione. La mutazione in corso non ha infatti solo i caratteri negativi di una regressione corrispondente ad una trasformazione della società in una prospettiva individualista, antidemocratica, illiberale e a volte degenerativa verso forme di razzismo e di xenofobia, ma propone una radicale rilettura di alcune patologie endemiche delle società liberal democratiche e del neo liberalismo ormai trasformatosi in neoliberismo. L’aumento delle diseguaglianze, la burocratizzazione esasperata della vita quotidiana, il controllo invasivo del privato, la segmentazione, differenziazione e chiusura degli spazi privati, la riduzione e la perdita di senso degli spazi pubblici, questioni tutte che comportano una necessaria nuova interazione (nuovi diritti

18


Cambiamento/Mutazione

di cittadinanza) dei diritti patrimoniali con i nuovi e più ampi diritti fondamentali e questo può avvenire proprio attraverso la ricomposizione della Sfera pubblica tradizionale che ne garantiva i rapporti bilanciati e stabili e della quale l’urbanistica costituiva una significativa dimensione di raccordo. E’ infatti la traduzione in spazio dei diritti di cittadinanza che da senso concreto alla riduzione delle disuguaglianze. La demolizione progressiva delle Istituzioni, che vengono sostituite da un centralismo popolar-sovranista, corrisponde all’attacco dei nuovi centri di potere illiberali a tutti i corpi intermedi ed alle discipline che in termini di competenza e di responsabilità danno contenuto alla mediazione tra istituzione e società, mediazione che non può essere sostituita da piattaforme digitali gestite da società private. Il venir meno delle intermediazioni culturali come enzima e al contempo anticorpo delle devianze delle democrazie liberali è forse il segnale più evidente e pericoloso di una deriva del Cambiamento verso una Mutazione. Ma c’è anche qualcosa di positivo nello scenario della Mutazione • la contaminazione delle discipline nella ricerca di una nuova dimensione colloquiante dei loro statuti • il superamento dei modelli ideologici contrapposti; • una nuova interpretazione dei tre “principi repubblicani” con una centralità della fraternité come possibile soluzione del conflitto tra egalité e liberté, assunte nel secolo breve come bandiere di sinistra e destra; • Il superamento, nella progettazione dello spazio pubblico, dei limiti di una democrazia rappresentativa “consunta” e di una democrazia digitale ancora immatura; • Il controllo di una dimensione terza della tecnologia, a base delle nuove forme di conoscenza (Big data) e dell’utilizzo di realtà virtuali e aumentate. • Un nuovo confine tra diritti proprietari e diritti fondamentali ricostruito intorno ai diritti di cittadinanza, superando l’ambiguità dei cosiddetti beni comuni. Sono infatti proprio i soggetti dell’intermediazione sociale quelli più idonei a indirizzare il cambiamento verso prospettive nuove, correttive degli errori commessi e al contempo garanti di una reale partecipazione democratica. E’ quello che C.F. Sabel definisce Sperimentalismo Democratico. L’Urbanistica è relazionale, processuale e dialettica, per sua stessa natura disciplinare, per lo meno nelle migliori tradizioni riformiste, può quindi essere ragionevolmente il campo dove avviare un processo di sperimentalismo democratico che dia risposta alla nuova domanda sociale oggi cavalcata da irresponsabili populisti e demagogici giustizialisti e che, nel dare risposta, riaffermi, corregga e integri nuove forme di democrazia partecipativa con le forme costituzionali della democrazia rappresentativa e parlamentare. Probabilmente questo raccordo è il nodo da risolvere senza fughe in avanti, rappresentate da un uso improprio della rete, ma senza arroccamenti disciplinari e /o ideologici. La chiave di soluzione è probabilmente costituita da un uso democratico e sperimentale delle tecnologie web e social, che può raccordare la capacità di progettare lo spazio (nella tradizione “culturalista” della disciplina) con l’interazione tra utente-cittadino e il sistema di regolazione dei nuovi diritti patrimoniali e fondamentali (nella tradizione “tecnica amministrativa”). Per operare questo cambiamento si dovrà assumere un nuovo atteggiamento culturale in parte già avviato negli anni passati con alcune sperimentazioni quali: la accettazione di una dimensione progettuale transcalare (esperienze dei Programmi Complessi), la prassi della contrattualità di evidenza pubblica, riferita a diritti di cittadinanza corrispondenti a prestazioni “misurabili” (Patti e accordi territoriali ed urbanistici), la centralità del controllo progettuale delle modificazione del Paesaggio (Progetti di Territorio e di Paesaggio), la terzietà della Conoscenza dei luoghi ai fini di una valutazione non autoreferenziale e oggi spesso disciplinata da vincoli inidonei ad interpretare il conferimento di senso ai luoghi e ai Paesaggi richiesto dalla Convenzione europea del Paesaggio. Rispetto a tutto ciò, già presente a pezzi, come parti di un Mosaico e in forme spesso incompiute nel panorama disciplinare, sono chiare le potenzialità dell’Urbanistica su un piano di sperimentalismo democratico. La capacità della nuova Urbanistica dovrà essere quella di proporre ad una società in veloce trasformazione ed attratta dalla novità di un cambiamento promesso, una modalità di partecipazione reale su questioni

19


Cambiamento/Mutazione

reali e pertanto visibili e misurabili, senza con questo abbandonare le garanzie che una democrazia rappresentativa costituzionalmente garantisce. Il Rapporto dal Territorio 2019, nella consapevolezza di operare tra cambiamento o mutazione, registra un ampliamento dei divari sia nelle diverse aree del Paese che nelle modalità di governo. Al fine di meglio interpretare la dimensione complessa del Cambiamento/Mutazione e nella tradizione dei precedenti Rapporti, sono stati intervistati alcuni autorevoli “testimoni” anche in riferimento alla loro più recente produzione. Ne è derivato un significativo mosaico le cui tessere sono alcuni elementi del contesto in cui opera l’Urbanistica.

20


Le INTERPRETAZIONI del CAMBIAMENTO La mutazione della sfera pubblica

Intervista di Piero Properzi a Cristina Bianchetti P.P. Tu hai trattato, in maniera ampia e sistematica, il rapporto tra sfera pubblica e urbanistica aprendo un campo di riflessione particolarmente importante in una fase di radicale mutazione della stessa e di con-seguente incertezza sulle finalità e di coerenza dei mezzi ai fini dell’urbanistica … C.B. Credo che per parlare dell’urbanistica contemporanea sia bene innanzitutto inquadrare la difficoltà in cui ci troviamo. Ed entro la quale si colloca anche il discorso sulla sfera pubblica. Sono in molti ormai ad osservare la disgiunzione in atto tra la democrazia e i principi liberali sui quali si fon-da. Ovvero, per usare le parole di Andrea Graziosi, la progressiva lontananza tra democrazia e quel progressismo liberale capace di rielaborale i propri ideali, inclusi quelli relativi all’uguaglianza. Le tendenze illiberali (che diminuiscono o negano il valore della persona e della sua libertà, rendendo più complicata l’apertura al nuovo e al diverso) non sono in sé antidemocratiche. A volte sono sostenute da movimenti che rivendicano un’investitura maggioritaria. Ma sono altro rispetto la tradizione democratica del progressismo liberale al quale ci siamo affidati per lungo tempo. Ora, la disgiunzione tra democrazia e principi liberali non è faccenda locale, del nostro o di qualche altro paese. Riguarda condizioni anche molto diverse, in Occidente e in altre parti del mondo. Sempre seguendo Graziosi che richiama i rapporti della Freedom House, risulta che almeno dal 2006, sono sempre più numerosi i paesi che diventano meno liberali, nei quali le tendenze illiberali si intrecciano agli appelli al “popolo”. Questo movimento, per usare il titolo del suo bel libro, ci pone Il futuro contro. Insomma, quella congiunzione tra sistema politico e libertà che è parsa la regola negli ultimi due secoli, non appare più scontata e lineare. Probabilmente non lo è mai stata. Ma oggi è più fratturata e fragile. Questo potrebbe essere un punto di partenza per il nostro discorso. Un punto di partenza forse eccessivamente cupo, che tuttavia ritengo importante. Perché l’urbanistica, ha sempre avuto quel «labile contenuto di utopia» per usare le belle parole di Paola Viganò che le ha permesso di proiettare lo spazio nel fu-turo. Cogliere la divaricazione tra un futuro sottratto e una proiezione dello spazio nel futuro disegna esattamente la difficoltà di questi tempi. Non una difficoltà contingente. Di quella contingente (fuori e dentro le scuole, fuori e dentro le professioni) siamo ben consapevoli quotidianamente. Quella di cui parlo è una difficoltà di fondo, che una volta si sarebbe detta strutturale. E con la quale dobbiamo fare i conti per reinventare quotidianamente il nostro mestiere e il nostro sapere.

CRISTINA BIANCHETTI Didattica PoliTo Politecnico di Torino

P.P. É qui che collochi il mutato rapporto tra sfera pubblica e urbanistica? C.B. Si. La sfera pubblica nell’urbanistica è sempre stata rappresentata da uno spazio istituzionale e pedagogico. Potremmo parlare di una «via morfologica» alla cittadinanza. Ovvero della possibilità di ritrovare nello spazio una dimensione complessa del pubblico. Alcuni luoghi della città sono stati pensati e progettati nell’idea di costruire una pedagogia del vivere insieme. Lo mostra bene Carlo Olmo nel suo ultimo libro. Così la piazza, il parco, la scuola: luoghi tesi ad educare e trasformare gli individui in cittadini. E, insieme, luoghi di una sfera pubblica nella quale è possibile rendersi visibili reciprocamente (nel pensiero di Hanna Arendt). Dove l’influenza si forma e dove si lotta per conquistarla (in quello di Jurgen Habermas). Fino agli ultimi decenni del Novecento tutto questo ha trovato espressioni straordinarie nella tradizione europea del disegno urbano: lo spazio pubblico è stato ritenuto capace di coagulare le correnti del moderno e rendere tangibile la complessità del vivere assie-me. Quel nesso forte, pubblico e pedagogico, tra spazio e sfera pubblica è tipicamente moderno. É resistito a lungo, accompagnandosi, a volte, al suo contrario: l’idea di uno spazio distopico vuoto di uomini, pieno di rifiuti e animali poco domestici. L’altro della sfera pubblica. La cerbiatta de Children of Men di Alfonso Cuarón, che attraversa i corridoi ingombri di vetri rotti, cartacce e pozzanghere di una scuola abbandonata è un’immagine potente che racconta l’opposto di quel mondo in cui ad animare lo spazio «di tutti» è un impeto pedagogico. Qui lo spazio pubblico allude ancora direttamente ad una sfera pubblica. O meglio, alla sua assenza. In fondo è ancora totalmente moderno, e, altrettanto pedagogico. Lo spazio pubblico contemporaneo ha a suo modo, violato entrambe queste forme del rapporto tra sfera e spazio pubblico. E non solo perché l’orto sostituisce la piazza. O il gardening rimpiazza altre forme dello stare in pubblico. L’entre nous, l’entre voisins, il vivere in piccole cerchie, tra amici, tra vicini che ho avuto modo di studiare qualche anno fa in diversi contesti di città europee, ci dice che l’idea universalista dello spazio (e della

21


Cambiamento/Mutazione

sfera) pubblici, così come la loro pedagogia è alle nostre spalle. Si è incrinata l’accezione arendtiana della sfera pubblica come condizione universalista del rendersi visibili reciprocamente. Come si è incrinata l’accezione habermasiana del pubblico come luogo nel quale l’influenza si forma e dove si lotta per conquistarla. Oggi forse rimangono cura e pedagogia. Ma queste avvengono entro una diversa grammatica del vivere insieme, in una società segnata da compresenza e pluralità di preferenze, valori, soggetti, ma da assenza di intenzionalità comuni. Le conseguenze sull’urbanistica e sul suo progetto non possono che essere radicali. P.P. Allora, quale diversa urbanistica? si può pensare che nella mutazione in corso con l’affermarsi delle democrazie illiberali si dia anche una riconfigurazione delle sue componenti costitutive? una ridefinizione del liquido amniotico, quello che tu chiami «quello che c’è tra gli uomini» ? C.B. Torniamo sulla capacità dell’urbanistica di rappresentare la sfera pubblica e i suoi mutamenti entro società caratterizzate dall’incrinarsi di quel rapporto (mai facile, anche se lo pensavamo robusto) tra de-mocrazia e libertà individuale. Come l’urbanistica ha raccontato quella sfera pubblica? Del carattere pedagogico (del pubblico da educare e convincere) ho detto. Ma c’è altro. L’urbanistica ha sempre rappresentato, nello spazio, la sfera pubblica attraverso grandi immagini spaziali. Immagini di “magnificenza civile”, potremmo dire prendendo i termini a prestito dal piano per la Grande Mosca di Secchi e Viganò. Immagini che rappresentavano aspetti istituzionali, politici, sociali, a partire dallo spazio. Mi chiedo quanto siano possibili oggi immagini di questo tipo, capaci di raccontare «quello che c’è tra gli uomini». Credo che al pari dei grandi racconti, anche le grandi immagini appartengano ad una diversa urbanistica. Non solo per il frantumarsi della sfera pubblica, il suo scindersi dai principi liberali. Ma anche perché i saperi dell’urbanista, dell’architetto, dell’ingegnere, come quelli dell’economista e del giurista, si sono ritagliati un campo sempre più ristretto. Si sono parcellizzati, spezzettati. E questo a fini di legittimazione. Di pro-fessione. Cos’è la smart city? O la green city? O la sustainable city? Se non un insieme paratattico di saperi e interessi che quasi non dialogano tra loro? Anche questo impedisce grandi immagini spaziali. Non so se è una crisi o un evolversi delle competenze. Certamente il quadro cambia. P.P. Quali sono le attività urbanistiche in corso, a tua conoscenza, che interpretano meglio questa muta-zione? C.B.Qui il discorso si apre alle posizioni che hanno cercato di affrontare quella diversa grammatica del vivere insieme di cui dicevo. Un vivere assieme in una società segnata da compresenza e pluralità di preferenze, valori, soggetti, ma da assenza di intenzionalità comuni (ne scrive anche Gabriele Pasqui nel libro La città, i saperi, le pratiche). È un cambiamento che richiede diverse pratiche cognitive e progettuali. Un loro affinarsi, non un esaurirsi. Penso che in questo scenario, per alcuni aspetti cupo, si ridisegni un compito importante per l’urbanistica. Provo ad accennare ad un paio di direzioni. La prima è quella che vede una possibilità di intervento, in un’urbanistica nella quale ha un ruolo importante un insieme di pratiche artistiche, partecipative, temporanee, multidisciplinari. Pratiche ritenute capaci di interpretare il passaggio di cui si è detto. Pensiamo alle pratiche artistiche. Si può dire che abbiano sempre avuto un ruolo attivo nel restaurare un’idea di pubblico. Credo che la letteratura sia su questo molto ampia, seppure a me pare raramente convincente. E comunque ne so troppo poco per parlarne. La seconda direzione è quella che per una breve stagione ha legato l’urbanistica a quegli studi post-coloniali che tanti difetti hanno, ma aiutano indubbiamente, a trattare la diversità e l’alterità. Studi che nel continente americano hanno occupato gli ultimi decenni del secolo scorso e che hanno avuto, per breve tempo, una certa risonanza anche da noi. Penso innanzitutto agli studi di Edward Said sui modi con i quali l’altro è costituito come oggetto. Le numerose edizioni di Orientalism, (alcune ricercate, altre popolari) ne testimoniano il carattere di autentico best seller. Il fascino di un pensiero che recupera la tradizione materialistica italiana (da Vico a Gramsci) e lo coniuga con un pensiero che diremmo incarnato, secolare, scettico ne fa un riferimento importante. L’alto profilo morale e intellettuale di Said ha costituito forse il centro della trasposizione degli studi post-coloniali nel nostro paese. Studi che poi si sono nutriti di intrecci tra femminismo e studi culturali: dalle costellazioni post-coloniali di Rey Chow all’etnicità impossibile di Stuart Hall: uno dei fondatori di quell’ambito di studi che considera la cultura campo in cui le relazioni di potere sono stabilite, ma anche destabilizzate. Di Hall la ripresa delle politiche del quotidiano che tanto hanno suggestionato gli urbanisti in passato. E poi

22


Le INTERPRETAZIONI del CAMBIAMENTO La mutazione della sfera pubblica

ancora, Spivak, con le sue decostruzioni della storiografia dei subaltern studies. E, al fondo di tutto, in una declinazione radicale, Frantz Fanon. Si dovrebbe essere naturalmente più accurati nel tracciare percorsi tra autori e posizioni, ma come già si vede dai pochi riferimenti che ho richiamato, nel primo decennio degli anni Duemila alcuni editori italiani introducono nelle nostre comunità disciplinari e nella discussione pubblica, testi post-coloniali. E lo fanno con una certa solle-citudine. Anche in Italia c’è stata dunque per un certo tempo, attenzione a posizioni, quasi tutte di derivazione marxiana o femminista, ascrivibili latamente al post-colonialismo. Quanto ciò ha generato è stato abbastanza poco ed è stato velocemente accantonato dalla critica preoccupata alle conseguenze degli atteggiamenti post-coloniali: la separatezza delle minoranze, il relativismo culturale, le difficoltà nel ritrovare una nozione di laicità presentabile sono poco generosamente ascritte a questo ambito di studi (e chi dimentica l’ironia aspra di Philip Roth?). Forse un’ondata è passata (in campo internazionale il dibattito è ancora ben vivo). Forse si è stati un po’ troppo precipitosi ad accantonare studi avrebbero potuto aiutarci a capire meglio quella società segnata da un «abitare la differenza» che è quella che oggi ci troviamo, con molte difficoltà, a maneggiare. P.P. Può una nuova urbanistica essere essa stessa utile a ricomporre i nessi tra le componenti essenziali della sfera pubblica e contribuire a “rinnovare una democrazia esausta”? C.B. Ho accennato a difficoltà strutturali nel coniugare interessi (di breve e di lungo periodo, di alcuni e di tutti), a strade interrotte... Mi rendo conto che il quadro che emerge corre il rischio di essere liquidatorio di un discorso nuovo, coerente e convincente sullo spazio e le sue trasformazioni. Un discorso di cui abbiamo bisogno. Sarebbe un errore scivolare solo nel rimpianto e nel lutto. Per quanto sia difficile pensare che l’urbanistica possa essere utile a restaurare una sfera pubblica frantumata, è necessario ribadire l’importanza che essa mantiene. Certo bisogna trovare il tono giusto, il discorso più adatto a radicarsi in uno sfondo non semplice. Bisogna tenere conto di come le nostre città presentino tratti specifici (basti pensare alle implicazioni radicali – non di sola spesa pubblica – di un processo rapido di invecchiamento delle popolazioni…). Seppure in condizioni molto diverse da quelle cui eravamo abituati, il progetto urbanistico rimane una forma di immaginazione e impegno concreto nella costruzione della città, di enorme importanza. Una forma positiva, ancorché debole. Forse forte non lo è stata mai. Nondimeno riamane capace di contribuire all’adeguamento e alla trasformazione di un vasto capitale naturale, spaziale, infrastrutturale e al sentimento di appartenenza ad una comunità locale (non più grande, piccola, magari frantumata in schegge). Ho cercato sempre di lavorare sui limiti e sulle condizioni di un fare progettuale che mantiene ragioni e necessità ben oltre le tante riduzioni di cui è fatto oggetto. Un fare progettuale che non deve essere ricondotto immediatamente e unicamente alle attribuzioni di diritti d’uso del suolo o alle norme e alle cartogra-fie che li registrano. E neppure alle colte e sofisticate tradizioni del disegno urbano degli anni Ottanta, poiché da allora tutto è cambiato. Un fare progettuale che, nonostante errori e inevitabili semplificazioni, è ancora in grado affrontare il mutare di desideri, diritti, libertà. Stando in bilico tra universalismo e individualismo dei diritti e dei desideri. Rendendo evidente come nessuna condizione spaziale, di vantaggio o di svantaggio, possa pretendersi uniforme ed esclusiva. In altri termini, facendo del progetto un momento alto della politica.

23


Cambiamento/Mutazione

Libri richiamati Bianchetti C. (2015), Territoires partagés. Une nouvelle ville, Mētispresses, Genève Chow R. (2004), Il sogno di Butterfly. Costellazioni postcoloniali, Meltemi, Roma Cuaròn A. (2006), Children of Men, gran Bretagna-Stai Uniti Fanon F. (2006), Scritti politici. Per la rivoluzione africana. DeriveApprodi, Roma Graziosi A. (2018), Il futuro contro. Democrazia, libertà, mondo giusto, il Mulino, Bologna Hall S. (2006), Politiche del quotidiano. Culture, identità e senso comune, Il saggiatore, Milano Hall S. (2009), L’etnicità impossibile, Forum, Udine Olmo C. (2018), Città e democrazia, Donzelli, Roma Pasqui G. (2018), La città, i saperi, le pratiche, Donzelli, Roma Said E. (1995) Dire la verità. Gli intellettuali e il potere, Feltrinelli, Milano Said E. (2000), Nel segno dell’esilio. Riflessioni letture e altri saggi, Feltrinelli, Milano Spivak G. Chakravorty (2004), Critica della ragione postcoloniale, Meltemi, Roma, 2004 Spivak G. Chakravorty, Guha R. (2002), Subaltern Studies. Modernità e (post)colonialismo, ombre corte, Verona Viganò P. (2018) Territori in transizione, relazione presentata alla Conferenza nazionale SIU, Firenze

24


Le INTERPRETAZIONI del CAMBIAMENTO Il cambio di paradigma

Intervista di Simone Ombuen a Mauro Magatti “La teoria della società riguarda una costruzione artificiale, un aggregato di esseri umani che solo superficialmente assomiglia alla comunità, nella misura in cui anche in essa gli individui vivono pacificamente gli uni accanto agli altri. Però, mentre nella comunità essi restano essenzialmente uniti nonostante i fattori che li separano, nella società restano essenzialmente separati nonostante i fattori che li uniscono”. Ferdinand Tonnies

MAURO MAGATTI, Docente dell’Università Cattolica del Sacro Cuore

Secondo la visione che Magatti descrive nel suo recente volume “Cambio di paradigma”, il passaggio dallo scambio finanziario-consumerista allo scambio sostenibile-contributivo è la porta all’economia del futuro. Nella nuova economia le necessità di capitale fisso saranno inferiori a quelle attuali, grazie a sempre più allargate modalità di condivisione basate sull’uso intensivo di piattaforme e soluzioni web-based, e che il traino allo sviluppo saranno più i nuovi servizi che l’incremento del capitale fisso. Dal Suo ragionamento emerge che l’economia dello scambio sostenibile/contributivo sia il passaggio necessario; se ne induce che essa divenga necessaria in caso di nuova grave crisi finanziaria globale. L’INU e il mondo della pianificazione e del governo del territorio, occupandosi di futuro, indagano necessariamente anche le prospettive di trasformazione socioeconomica, nelle quali inserire gli aspetti relativi alle trasformazioni insediative. Per questo abbiamo deciso di intervistarlo. S.O. Lo scambio sostenibile-contributivo, che lei propone nel suo libro, sarebbe un nuovo paradigma in grado di rinnovare il concetto stesso di economia, stante la grave crisi dell’economia neoclassica. Quali sono a Suo avviso delle misure di sostegno alle economie dello scambio sostenibile/contributivo che le rendano possibili già all’interno dell’attuale fase di transizione? In particolare, quale ruolo gli interventi sui beni comuni ambientali e territoriali, sociali ed istituzionali, potrebbero svolgere a sostegno di un tale nuovo paradigma? M.M. Va premesso che gli effetti economici capitalistici sono sempre una costruzione storico-culturale. Il presupposto weberiano è che l’economia sia un costrutto sociale, che ha molto a che fare con aspetti istituzionali, con atteggiamenti culturali e con equilibri sociali, oltre che con le basi tecnologiche. La proposta di uno scambio fra sostenibilità e contribuzione è qualcosa che non avviene da sé, ma ha bisogno di una costruzione; si ipotizza che esistano delle condizioni tecnologiche e storico-culturali che possano sostenere tale cambiamento di paradigma. Il primo strumento capace di orientare economia e comportamenti dei soggetti in tale direzione è la leva fiscale; passare da un sistema impositivo basato su reddito monetario e valore aggiunto ad uno che punisca comportamenti che producono insostenibilità e che distruggono convivenza e disposizione, e che premi i comportamenti di attori economici e sociali che contribuiscono alla generazione di valore collettivo. Un secondo insieme di ragionamento riguarda quel che io chiamo il neotaylorismo societario, una radicalizzazione che impoverisce il tessuto umano e produce la concentrazione del potere. Per contrastare tale fenomeno occorre reinventare cosa si intende per formazione. Essa non coincide con la scuola, ma è un processo continuo che ha bisogno di tempi, spazi, forme adeguate. La terza linea di fondo è che, anche con la sollecitazione dei processi di digitalizzazione, la nuova rivoluzione industriale è destinata a cambiare il modo di lavorare, di muoversi, di abitare, e ci chiederà nei prossimi trent’anni di ripensare tutti tali aspetti. Occorrerà ripensare le nostre case e le nostre città, e anche ripensare il modo di pensarle. Il prossimo ciclo economico, pur legato alle capacità di esportazione e alla competitività, sarà determinato dalla qualità della domanda e dalla distribuzione della ricchezza, e dall’emergere di nuovi beni, a metà strada fra i beni privati e i beni pubblici statali. Tornerà in evidenza tutto ciò che è comune: nuovi beni comuni (acqua, energia, conoscenza e formazione), e ciò chiederà nuovi tipi di governance e nuove forme di organizzazione di città e quartieri. La transizione in cui siamo, pur difficile e sfidante, rappresenta una splendida occasione per aprire pagine di vera innovazione sociale. S.O. Concordo con la visione. Le reti di contributori si occupano attivamente di produrre valore socialmente condiviso; ma le dinamiche di mercato intervengono su tali processi per riappropriarli al capitalismo, e riportare

25


Cambiamento/Mutazione

nella dimensione dello scambio monetario i valori prodotti in una dimensione contributiva. Si tratta di un conflitto ben noto alla finanza etica, che è ben lungi dal trovare soluzioni convincenti. Il problema è che i beni comuni, quando entrano nella sfera dello scambio monetari cessano di essere comuni e tornano ad essere pubblici o privati. Come sostenere una transizione non subalterna alla denominazione monetaria? M.M. Si, si tratta di un aspetto sul quale occorrerà lavorare molto. Ma occorre tener presente che l’origine di questa crisi mette in evidenza due elementi. Il primo, ed oggi è più chiaro di ieri, è che non si tratta di replicare il modello individualistico ed espansivo, che non regge più non solo per aspetti tradizionalmente economici ma anche e ancor più per quanto riguarda le forme di vita. Le persone si trovano intrappolate in una realtà nella quale sono più sole e debbono correre di più, con insostenibilità ambientale e ancor più di qualità della vita. Abbiamo bisogno di nuovi beni in grado di dare sostegno ai comportamenti contributivi e ambientalmente e socialmente sostenibili. Il secondo elemento è che tali nuovi beni rispondono anche alla domanda che si riferisce alla parola sicurezza, ma che in realtà esprime l’insostenibilità del modello economico e di vita che abbiamo conosciuto. S.O. Oltre a segnalare l’inefficienza energetica del patrimonio abitativo, lei ne segnala l’inefficienza dal punto di vista della qualità della vita relazionale, e che abbiamo bisogno di case che esprimano forme di mutuo aiuto organizzato e spazi condivisi, attraverso una domanda aggregata. Quali a Suo avviso alcuni provvedimenti che potrebbero promuovere una trasformazione in tal senso del patrimonio abitativo, stimolando nel contempo nuova socialità e nuova umanità? M.M. È sempre più evidente che occorre favorire la convergenza di interessi diversi per il raggiungimento di obiettivi comuni, come per il tema dell’ambiente o della rimodulazione della mobilità in città e territori, o ancora per le nuove domande per l’abitare; e che ciò rimanda alla necessità di generare valore oltre la sfera dello scambio monetario, e produrre capacità integrativa con modalità di condivisione sociale. S.O. Pensare di mettere in campo un tale ampio processo di riapprendimento collettivo è assai complesso in una situazione nella quale la relazione digitale, facendo passare attraverso i singoli individui ogni forma di relazione, individualizza la psicologia sociale e distrugge competenze sociali storiche senza produrne di nuove, con un isomorfismo fra individualizzazione digitale e individualizzazione del mercato, che riduce la persona a consumatore. M.M. La digitalizzazione, processo molto profondo e di lungo periodo con cui occorre fare i conti, se non si interviene con elementi correttivi e di complementarietà, certamente può ancor più radicalizzare i processi di individualizzazione e di neotaylorismo societario, con concentrazioni sempre più alte del potere politico e tecnologico. L’alternativa che io auspico è che la forma digitale dei processi a rete possa favorire processi opposti; ma ciò è possibile solo se c’è la capacità di vedere tale prospettiva e di accompagnarla con scelte politico-istituzionali ed economiche coerenti. Il fenomeno d’altra parte sta avvenendo a livello globale; io credo ad esempio che per vari fattori di tipo politico e culturale è assai probabile che la Cina intraprenderà tale traiettoria di neotaylorismo sociale, e che se l’Europa e l’Italia non avranno la forza di dare una declinazione diversa, su quella strada saremo destinati solo a perdere. Per prendere la strada giusta, pur difficile da percorrere, la nostra civiltà può contare su patrimoni e leve storiche sulle quali si può scommettere.

26


Le INTERPRETAZIONI del CAMBIAMENTO Il cambio di paradigma

S.O. Storicamente la pianificazione del territorio ha svolto un ruolo determinante per la formazione del capitale fisso e per tradurre il modello sociale in ordine spaziale, con tutte le sue contraddizioni. L’economia contributiva e una applicazione integrale del paradigma della sostenibilità chiedono una profonda rivisitazione del ruolo delle istituzioni pubbliche, sia nella dimensione regolativa che in quella erogativa e di produzione del welfare. Ora Lei descrive i beni del nuovo Capitale fisso come un insieme di configurazioni e tecnologie abilitanti in grado di produrre ritorno economico, offerta di prestazioni e legame sociale. La pianificazione urbanistica si occupa del locale, sia alla scala del quartiere o della parte, del contesto sociale relazionale della vita comune, sia alla scala urbana; Gemeinschaft e Gesellschaft, comunità e società, per dirla con Tonnies. Nella prospettiva che Lei disegna, il ruolo che ha avuto nel ‘900 l’urbanistica, con la costruzione delle condizioni e dotazioni fisiche per l’erogazione del welfare e dei diritti di cittadinanza urbana, cambia perché cambia il welfare e cambia il ruolo delle istituzioni in questo nuovo disegno di società. Quale ruolo lei vede per le istituzioni locali per sostenere lo sviluppo della nuova società? M.M. Il ruolo del locale è evidente, anche nelle vicende politiche in corso. Tutto il tema dei centri globali, il ruolo delle periferie, la dialettica fra ceti medio-alti e ceti medio-bassi nella redistribuzione del reddito e dei poteri. I processi di globalizzazione disgregano le capacità coesive che si generano nei territori, creando grandi problemi. Il tema del locale è centrale, ed il ruolo che città e territori possono giocare è molto importante. Il modello sostenibile-contributivo si fonda su una intelligenza collettiva, sullo sviluppo di capitale umano diffuso, sulla capacità di fare innovazione sociale, di scrivere patti di sviluppo locali per la produzione di beni collettivi. Una modalità di regolazione dinamica nella quale io vedo un ruolo importante per la tradizione della pianificazione e del governo locale. Non si tratta di fare ciò che avvenne nel ‘900, e che sarebbe del tutto impraticabile; ma poiché il tema è la produzione del valore condiviso (Porter) il governo delle forme dell’abitare, della mobilità e dell’uso dei patrimoni comuni divengono cruciali, nelle modalità di formazione e ancor più in quelle di gestione. Si tratta di una responsabilità che ha a che fare con un pensiero e con una capacità di tradurre in proposte e composizione d’interessi concreti una nuova visione del mondo, che può venir fuori solo con il contributo determinante di gruppi professionali e di tradizioni di operatività. O sviluppiamo forme di intelligenza collettiva diffusa che coinvolgano e ricomprendano questo tipo di competenze, o non ci saranno primi ministri o dirigenti generali che si salveranno. Si tratta di ripensare le infrastrutture fisiche e sociali ereditate dal secolo scorso in base ai bisogni e alle opportunità del XXI. S.O. Quindi competenze locali di gestione sociale, e di accompagnamento dei processi di una nuova cultura e di una nuova rappresentazione del sociale. M.M. Il locale inteso non come localismo, ma come capacità di ripensare il luogo e le conoscenze in rapporto con tutto ciò che avviene al di fuori del locale. Una alternativa ai sovranismi e a una visione reazionaria del localismo contro i cosmopolitismi della globalizzazione vuol dire ridare peso ad una dimensione territoriale e locale in grado di restare in rapporto con il Mondo, che considera tutto ciò che avviene sul territorio, ma anche in relazione con altri territori o altri flussi, di modo che il territorio risulti interessante per ciò che sta fuori dal territorio. Tutto ciò che si fa sul territorio, nella dimensione locale, diventa rilevante e importante ma va pensato e praticato in una logica relazionale, altrimenti si rischia di andare in nella strada esattamente opposta. Una identità locale in grado di entrare in relazione con identità differenti, al suo interno come al suo esterno. Non una identità idem, identica a sé stessa, ma una identità ipse, che si fa facendosi. S.O. Del resto pianificazione e politiche già oggi, nei casi migliori, tendono a valorizzare le identità locali distinguendole e mettendole in relazione, e non omologandole. M.M. Si, infatti.

27


Cambiamento/Mutazione

S.O. In conclusione, per quanto riguarda il rapporto fra tecnologia e democrazia lei cita il caso del Movimento di Comunità promosso da Adriano Olivetti, una rilevante esperienza del passato che rappresentò un antesignano, portatore di grandi intuizioni, e che aveva una capacità visionaria che può tornare utile. Come pensa che tecnologia e comunità si possano legare nel futuro, oltre il postulare la necessità che avvenga? M.M. Come è evidente in questi anni la tecnologia digitale può produrre effetti almeno in apparenza diametralmente opposti; può creare condivisione o essere il veicolo di ogni risentimento e di ogni paura che la nostra condizione produce. I rischi sono molto grandi e sempre più evidenti, e smentiscono l’ottimismo eccessivo degli scorsi anni, quando bastava pronunciare la parola rete e sembrava che essa dovesse generare partecipazione e intelligenza collettiva. Invece oggi sappiamo che non c’è niente di automatico. D’altra parte è pur vero che questa tecnologia a rete, se sapremo incarnarla nei modi auspicabili, rappresenta una formidabile occasione per andare al di là anche delle tradizionali forme della democrazia rappresentativa che abbiamo costruito nei secoli scorsi. Non perché tale patrimonio non debba essere conservato o protetto, ci mancherebbe altro; ma perché a fronte della complessità e della rapidità dei fenomeni in corso è evidente che la sola delega del voto, base dell’assunto schumpeteriano sul ruolo delle elités, è troppo poco. Quello che la tecnologia consente oggi sui temi del comune è lo spazio che va esplorato, va costruito e messo in condizioni di restituire ciò che serve per rinnovare le forme della nostra democrazia. Non c’è nessun determinismo economico o tecnologico, ma una opportunità che dobbiamo riuscire a cogliere. S.O. Un’inversione, quindi, rispetto ad un pensiero di fondo che marxisti e monetaristi apparentemente condividono; non sarebbe più lo scambio economico a determinare lo scambio sociale, ma sarà il nuovo scambio sociale ad essere in grado di produrre una nuova economia. M.M. Esatto. Questo è un tema cruciale. Dopo che la fase del neoliberismo ha disgregato il rapporto fra la società e l’economia adesso si tratta di riconnettere questi due piani. Li si può riconnettere in forma regressiva, o li si può riconnettere in forma progressiva. Dipende da noi.

28


Le INTERPRETAZIONI del CAMBIAMENTO Le istituzioni a fronte delle autonomie differenziate

Intervista di Carlo Alberto Barbieri a Pierluigi Mantini Le riforme istituzionali (costituzionali e di legislazione ordinaria della scorsa XVII legislatura), non hanno avuto seguito: il referendum del 4.12.2016, non ha confermato la riforma in chiave meno regionalista e più centralista della forma costituzionale della Repubblica; la legge elettorale è stata “folgorata” dalla Corte; la riforma Delrio delle Autonomie territoriali (con l’istituzione per legge delle Città metropolitane e delle Unioni di comuni, la marginalizzazione delle Province e il profilo elettivo di secondo grado) non è compiutamente attuata ed è un po’ abbandonata a se stessa… Permane dunque il Titolo V della riforma costituzionale del regionalismo italiano del 2001. La mozione di fiducia con cui ha preso vita la XVIII legislatura ed il Governo, per un’azione fondata sul conforme ‘Contratto di governo’, ha dichiarato fin da subito che fra gli impegni dell’Esecutivo vi è l’attuazione dell’art.116 della Costituzione, terzo comma, nei confronti delle Regioni che ne facciano motivata richiesta e precisando l’intenzione di assecondare i processi già in atto (Lombardia, Veneto, Emilia Romagna).

Avv. PIERLUIGI MANTINI Avvocato cassazionista e professore di diritto amministrativo.

C.A.B. La prima domanda riguarda quale direzione di marcia istituzionale è visibile in questa XVIII legislatura e da parte del Governo in carica, oggi e nel prossimo futuro in Italia? Premessa. La riforma costituzionale del regionalismo italiano del 2001 (e prima ancora il cosiddetto “federalismo amministrativo” Bassanini degli anni 1997-1999) era basata sul ritenere che la nuova allocazione delle funzioni legislative e amministrative, ispirata ai principi di sussidiarietà, adeguatezza e differenziazione, fosse diretta a garantire maggiore efficienza di governo e migliore gestione delle risorse, contribuendo così allo sviluppo della società italiana nel suo complesso. Non a caso, a questo proposito, nel 2001, sono stati introdotti oltre alle “materie a legislazione concorrente” (art. 117, terzo comma, Cost.) anche alcuni presidi “statali” e meccanismi di “tenuta nazionale” (in particolare nello stesso art. 117, il comma 2, lett. m) in tema di livelli essenziali, oltre al nuovo art. 119, con la previsione di obblighi perequativi che compensassero i naturali e non eliminabili squilibri, erano pensati. La modifica dell’ art. 116 u.c. era dunque immaginata in questa chiave e cioè nella consapevolezza del fatto che le “peculiarità di ciascun territorio e di ciascuna popolazione” dovessero prevedere la possibilità di ulteriori strumenti organizzativi, che consentissero la differenziazione ai medesimi fini per le regioni a statuto ordinario. Va precisato che gli ambiti materiali su cui sono attivabili le “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia” sono esclusivamente: tutte le materie di potestà legislativa concorrente (art. 117, terzo comma, Cost.) e le sole seguenti materie di potestà legislativa esclusiva statale: - organizzazione della giustizia di pace (art. 117, secondo comma, lett. l), Cost.); - norme generali sull’istruzione (art. 117, secondo comma, lett. n), Cost.); - tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali (art. 117, comma 2, lett. s), Cost.) Fra le materie concorrenti vi è il Governo del territorio che insieme ai, beni paesaggistici e culturali ed alla Protezione civile e infrastrutture sono fra le richieste delle Regioni nell’applicazione dell’art. 116 (con più o meno sottolineatura) quelle maggiormente ricorrenti. Il Governo del territorio è materia che l’INU ha considerato una competenza “oggettivamente” concorrente, attendendo, proponendo ed incalzando lo Stato (Parlamento e Governi) a emanare la necessaria legge di principi fondamentali e di cui oggi sembrano perdute le tracce (con conseguenze negative per il governo del territorio, per la stessa necessaria attività legislativa delle Regioni e soprattutto per la pianificazione delle città e dei territori). P.M. La materia è molto complessa e non è facile fare delle previsioni. Nel “contratto di governo” , alla base dell’attuale Esecutivo, è scritto l’impegno ad attuare il “ regionalismo differenziato”, ai sensi dell’art.116 Cost. e delle “ intese” sottoscritte con alcune regioni da parte del precedente Governo, secondo “la logica delle geometrie variabili che tenga conto sia delle peculiarità e delle specificità delle diverse realtà territoriali sia della solidarietà nazionale”. Nelle comunicazioni rese alle Camere il 5 giugno 2018, per il voto di fiducia al nuovo Governo, il presidente del Consiglio ha ribadito l’impegno all’attuazione dell’art.116, terzo comma. Nel Consiglio dei ministri del 14 febbraio 2019 è stato condiviso “ lo spirito delle intese” raggiunto con Lombardia , Veneto, Emilia Romagna. Dunque, l’obiettivo è nel programma di governo e di legislatura ed il cammino è ora avviato anche sul piano parlamentare. Occorre però tener conto che, già in fase di audizioni, sono emerse notevoli complessità e che ora tutte le regioni italiane , con la sola eccezione dell’Abruzzo, hanno

29


Cambiamento/Mutazione

in vario modo avviato iniziative volte a rivendicare il federalismo differenziato, che a questo punto possiamo definire un “federalismo esplosivo”, che mette a rischio l’unità nazionale. Infatti, il dibattito si è sin ora concentrato sul profilo della sostenibilità finanziaria e delle risorse, sul principio (relativo) dell’” invarianza della spesa storica”, ed il graduale passaggio al “ fabbisogno standard”, su chi guadagna e chi perde, ma il problema è molto più ampio poiché riguarda non solo le prassi del “ buon governo” , dell’amministrazione dei territori, ma il cuore stesso della legislazione, del potere di fare le leggi e stabilire le regole. Si pensi che solo la Regione Lombardia richiede la piena competenza legislativa in ben 26 materie e così, in misura di poco inferiore, anche le altre regioni. Si tratta di materie tutte importantissime tra cui, per quanto qui di maggior interesse, il governo del territorio, la rigenerazione urbana, le infrastrutture e le grandi reti di trasporto, l’ambiente e l’ecosistema, i beni culturali. Non occorre essere un giurista o uno scienziato politico per comprendere che in questo modo si ottengono tre risultati sicuri : 1. si moltiplicano i centri normativi, il numero delle leggi, la complessità delle regole (e alla lunga, inevitabilmente, i costi); 2. saranno incrementati i conflitti , tra Stato e Regioni e tra Regioni, dinanzi alla Corte Costituzionale; 3. si indeboliscono le politiche unitarie nazionali, quasi impossibili senza il concorso dei legislatori “ speciali” regionali, in una fase storica in cui gli Stati sono chiamati sempre più a partecipare, con politiche nazionali responsabili ed efficaci, agli impegni assunti in Europa e nelle organizzazioni internazionali e sovranazionali. Il punto è, in sostanza, il seguente : gli Stati nazionali si trasformano (dal Congresso di Westfalia a quello di Vienna, al Risorgimento, le grandi guerre e gli orrori del Novecento, la stagione delle costituzioni sociali e liberaldemocratiche, la nascita delle Nazioni Unite, dell’Europa, del WTO e del FMI, la caduta del muro di Berlino e delle Twin Towers….) ma non sono morti, come pure dimostra l’attuale stagione del cosiddetto “ ritorno al sovranismo”, per illusoria che sia. Il governo delle grandi crisi finanziarie e bancarie, dei bilanci pubblici, dei cambiamenti climatici, delle migrazioni, la lotta al terrorismo, la stessa regolazione dei commerci, delle grandi reti infrastrutturali e di internet, ha ancora bisogno degli Stati unitari, come espressione storica delle comunità nazionali, aperti alla collaborazione sovranazionale. Non si può fare lo stesso con “l’Europa dei comuni e delle province” e con uno Stato indebolito da 21 legislatori “speciali” regionali e avviluppato in un inestricabile groviglio normativo e di poteri. Possiamo sintetizzare nel modo seguente: si sta come territori, città e governi locali nella competizione globale ma si governano le grandi questioni del nostro tempo attraverso gli Stati, le leggi e le politiche nazionali. C’è una vasta letteratura che magnifica il modello italiano come “capitalismo di territorio” ( diverso dal “ capitalismo finanziario” anglosassone, dal “capitalismo renano della cogestione”, dal “ capitalismo-Paese” francese o cinese..) e si illude di poter fare da solo, con la riappriopriazione dei poteri legislativi di decisione. Un’idea, quella della legislazione esclusiva delle regioni sull’ “economia dei territori “, contenuta anche nella riforma costituzionale leghista della grande devolution del 2005, respinto dal referendum popolare del 25/26 giugno 2006 nella totalità delle regioni italiane, ad esclusione di Lombardia e Veneto. Quel voto dovrebbe essere ricordato di più oggi anche per segnalare una “ specialità “ del lombardo- veneto, che a certe condizioni è possibile riconoscere. C’è un evidente problema di limiti di sostenibilità, se si va a spasso per il mondo da soli non si va lontano o si rischiano brutti incontri. “ Sovranismo” non fa rima con “federalismo”, soprattutto in Italia, per la sua giovane storia di stato unitario gia’ connotata da una cultura delle autonomie, e per l’assenza di istituzioni di bilanciamento (presidenzialismo, Senato delle regioni ecc.). L’attuazione delle intese dell’art.116 sarà prevedibilmente complesso perché la redistribuzione delle competenze legislative di decine di materie tra parlamento e Regioni non è agevole ed anche sul lato finanziario persistono numerosi dubbi e problemi aperti. Come noto, le risorse finanziarie saranno determinate in termini di compartecipazione o aliquota di gettito di uno o più tributi erariali maturati nel territorio regionale; le risorse dovranno comunque essere quantificate in modo da consentire alla Regione di finanziare integralmente le funzioni pubbliche attribuite; in una prima fase occorrerà prendere a parametro la spesa storica , sostenuta dallo Stato nella regione e riferita alle funzioni trasferite o assegnate ma progressivamente questo criterio sarà sostituito dal parametro dei fabbisogni standard, misurati in relazione alla popolazione residente e al gettito dei tributi maturati nel territorio regionale, in rapporto ai rispettivi valori nazionali, rimanendo però inalterati gli attuali livelli di erogazione dei servizi. Ognuno vede la complessità e l’ambiguità di una tale operazione ove solo si pensi che i migliori studi prevedono 70 variabili per il calcolo dei fabbisogni standard. Le parole hanno molti significati, come disse Humpty Dumpty ad Alice (in Attraverso lo specchio ), per capirne il contenuto “

30


Le INTERPRETAZIONI del CAMBIAMENTO Le istituzioni a fronte delle autonomie

bisogna vedere chi è che comanda”. C.A.B. La seconda domanda: può però essere il ricorso all’attuazione dell’art. 116 l’occasione per un serio ripensamento, a 18 anni dal 2001, su un elenco di materie concorrenti subito apparso un po’ frettoloso e troppo ampio? ma soprattutto, le richieste di maggiore autonomia in alcune materie, quale nuova ripartizione fa emergere fra Stato e Regioni? e lo Stato cosa eventualmente mantiene in quelle materie di maggior autonomia chiesta dalle Regioni (in particolare nel Governo del territorio)? Premessa. Il dibattito (e il contrasto) sul regionalismo ad autonomia differenziata si gioca anche su un’ambiguità che dovrà prima o poi essere con certezza sciolta: è la questione di fondo del rapporto tra differenziazione e uguaglianza e tra competizione e cooperazione, in definitiva tra particolarismo e coesione sociale. In altri termini, la dicotomia tra modello di differenziazione “solidaristico” (o cooperativo), di impronta più tradizionalmente novecentesca (teso a equiparare e rendere il più possibile equivalenti le condizioni di vita tra le diverse componenti dello forma di Stato regionale scelto dalla Costituzione) e modello “competitivo”, che emerge soprattutto a seguito dei profondi sconvolgimenti dell’assetto socio-politico conseguenti ai processi di globalizzazione, di prevalenza del libero mercato e di drastica riduzione delle risorse disponibili. Se infatti la rivendicazione della differenziazione viene fatta a partire dal così detto “residuo fiscale” (e la polemica politica, anche all’interno del Governo, è soprattutto su questo punto), da lasciare ai territori regionali che lo producono, è chiaro che ciò che viene rivendicato non è una migliore allocazione ed efficienza delle funzioni (che di per sé dovrebbe limitarsi a comportare un aumento del trasferimento dallo Stato delle risorse destinate a finanziare le funzioni che esso non svolge più e che sono attribuite agli enti che rivendicano di poterle gestire meglio). Ciò che viene in realtà rivendicato è un trattamento differenziato (presumendolo migliore quanto all’effettivo godimento dei diritti mediante le maggiori risorse) delle popolazioni residenti nelle regioni che si differenziano, legato al maggior gettito fiscale che quelle regioni sono in grado di produrre rispetto alle altre. P.M. Certamente si, dovrebbe essere proprio questa la direzione di marcia. Se la torta da spartire è costituita da ampi poteri legislativi e risorse finanziarie è prevedibile una lunga ( e forse definitiva) fase di federalismo competitivo e conflittuale più che “ solidale”. Il Consiglio regionale della Calabria, il 30 gennaio 2019, ha diffidato il Governo “a predisporre atti che prevedano il trasferimento di poteri e risorse ad altre regioni sino alla definizione dei livelli essenziali delle prestazioni ( l.e.p., n.d.r.) concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale “. Si è rivendicato un “ regionalismo solidale” ed è stata auspicata la “ convergenza tra le regioni del Meridione”. Analoghi segnali sono provenuti dalla Regione Campania: non sono sintomi di un rafforzamento della coesione nazionale. Naturalmente si può auspicare che il processo di attuazione, se vi sarà, possa essere ben ordinato, attorno alle due principali categorie di spesa: le “ spese l.e.p.” (circa il 70 per cento) e le rimanenti, per il finanziamento delle altre funzioni (si veda la condivisibile analisi di A. Petretto, Regole da rispettare per un buon federalismo differenziato in www.lavoce.info). Il problema riguarda però, come sottolineato, anche il cuore della funzione legislativa, in una ripartizione “ appropriativa” che riguarda moltissime materie e svuota notevolmente i poteri del parlamento (parte seconda, titolo primo della Costituzione e art.117). Nel delicato ed inedito processo di attuazione dovrebbero essere chiari due principi, dando per acquisita l’impossibilità di votare insieme, con un solo voto, le intese con le tre regioni: 1. non è pensabile che il Parlamento approvi , con una sola votazione , il testo di ciascuna intesa, con materie assolutamente eterogenee e rinunciando al proprio potere-dovere emendativo; 2. sarebbe auspicabile che sulle singole materie oggetto di intesa il Parlamento nazionale definisse con legge i principi e i contenuti che restano nella competenza legislativa nazionale, per definire un assetto ordinato e non conflittuale. In sostanza, occorre procedere con il criterio “ materia per materia”, in Parlamento, considerando l’intesa come uno atto propositivo di impulso. In effetti, le formule della “ competenza legislativa concorrente“, così come in passato quelle analoghe delle “ leggi quadro o cornice”, appaiono esauste. Un riordino delle competenze legislative, tra Stato e Regioni, come quello suggerito, avrebbe davvero la sostanza di una “ grande riforma costituzionale”, ed impegnerebbe il Parlamento per un tempo lungo. Sarà possibile? Sarà il Parlamento nazionale, in questa fase, all’altezza di un tale compito? Ciascuno può dare la propria risposta ma non sembra esserci una diversa strada da percorrere. Una legge unica che approvasse materie tanto eterogenee sarebbe assai discutibile sotto il profilo costituzionale così come una devolution in blocco alle regioni di oltre 23 materie. Pensare che la competenza legislativa su “ governo

31


Cambiamento/Mutazione

del territorio, infrastrutture, ambiente ed ecosistemi” sia in toto devoluta alle regioni Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna, oggi, ed alle altre in movimento, domani, è ampiamente irragionevole e ciò anche al netto da qualsiasi considerazione sulla qualità dei consigli regionali. Se la materia urbanistica ben può essere di competenza legislativa regionale è difficile ipotizzare che i temi che riguardano la conformazione delle proprietà (vincoli, espropriazione, principi di perequazione..), i principi essenziali della disciplina edilizia, la fiscalità urbana, l’abusivismo edilizio e le sanzioni, i programmi straordinari per le città ed il contenimento del consumo di suolo, le grandi scelte infrastrutturali e ambientali, non possono essere lasciati ad libitum ai legislatori regionali. Se il Parlamento mostrerà pazienza e lungimiranza l’occasione non sarà perduta. C.A.B. La terza domanda: Il diffuso ricorso all’art 116 da parte delle Regioni è allora di tipo “tecnico” o è sostanzialmente e prevalentemente “politico”? ed in che modo le nuove competenze chieste sono funzionali o necessarie alla “funzione costituzionale“ delle Regioni? P.M. Viviamo in un sistema di multi level government , ispirato ai principi di sussidiarieta’ e adeguatezza delle funzioni. In questo contesto, in particolare, la legislazione non può essere confusa con l’amministrazione. Alla vigilia di importanti elezioni dobbiamo pensare agli “Stati uniti di Europa”, tra i paesi fondatori più quelli iberici e del Nord, dove si decide a maggioranza su molte materie, e ad un secondo perimetro “l’Europa degli Stati” , sempre in area euro, ove si possa decidere in prevalenza all’unanimità, rispettando la maggiore autonomia degli Stati che la rivendicano. Occorrono idee e trattati nuovi, per stare insieme, non per dividersi. Le città capaci di concentrare risorse, economiche ed umane, resteranno centrali nella competizione tra territori e nella coesione sociale: smart cities accanto a land cities. La rigenerazione urbana e le politiche di sviluppo sostenibile, gia’ delineate nell’Agenda Onu 2030, sono le grandi sfide del nostro tempo, la “l’urbanistica del terzo millennio”. È assai provinciale e pericoloso pensare che le regioni e i territori possano affrontare da soli queste sfide, nel nome di un “ sovranismo minore” , e che l’indebolimento del ruolo del parlamento nazionale , nella definizione dei principi e delle regole, costituisca un passo in avanti. Non vi è nulla di “ tecnico” in questo percorso , ma un’ ipertrofica interpretazione politica dell’art.116 Cost., già in sé discutibile, che anziché essere utilizzato per “aggiornare” il quadro storico delle “speciali competenze” di alcune regioni, su poche e determinate funzioni, all’insegna della piena sostenibilità di esse, viene allegramente brandito per “spogliare” il parlamento nazionale delle sue prerogative. Siamo in una fase storica diversa dalla fine del secolo scorso al tempo in cui l’art.116 fu pensato e votato. Si è messa in moto una sorta di ordalia egoistica delle “ caste regionali”, a partire dalle tre regioni dell’intesa che, come “ i tre tenori” , hanno innescato un coro che rischia però di travolgere il sistema istituzionale nazionale e di produrre un profondo mutamento della forma-Stato. È un rischio ed anche un effetto paradosso, nel momento in cui si proclama a gran voce il ritorno al sovranismo degli Stati. Ma può anche tradursi in un’ opportunità se lo Spiritus creator, invocato a suo tempo e con successo da Benedetto Croce per l’ Assemblea costituente, vorrà riprendere il suo viaggio. Abbiamo indicato alcuni rimedi per un percorso ordinato e utile basato su un ponderato riordino delle competenze legislative, nella logica della “grande riforma “ costituzionale . Nella storia repubblicana tutti i tentativi di questo tipo sono falliti (dal decalogo Spadolini 1982, al Comitato Riz-Bonifacio, dalla Commissione Bozzi a quella De Mita-Iotti, dal Comitato Speroni 1994 alla Commissione D’Alema 1997-98, alla grande “devolution” 2005, al referendum del 4 dicembre 2016 ) con la singolare eccezione del Titolo quinto nel 2001. Si sono preferite riforme costituzionali puntuali (art.56 sugli italiani all’estero, art.51 sulla parità di genere, art.111 sul giusto processo, art.81 sul pareggio di bilancio). Lo “spirito costituente”, in sostanza, è merce rara e prevale la “ prudenza costituzionale”. Pensare di aggirare questa storia e di ridurre un grande riordino di competenze legislative e finanze, tra Stato e Regioni, ad un” fatto tecnico”, sarebbe un gravissimo errore. Il Parlamento è chiamato ad un arduo compito ma occorre anche che il dibattito nel Paese sia all’altezza di una grande questione nazionale.

32


Le INTERPRETAZIONI del CAMBIAMENTO Ordine-Disordine

Intervista di Michele Talia a Francesco Indovina M.T. Un primo tema che mi piacerebbe approfondire in questa conversazione riguarda la possibilità che l’impulso prepotente alla frammentazione che possiamo osservare nelle formazioni sociali, nella organizzazione del lavoro e nella stessa forma urbana influisca negativamente sulla ricerca di un accettabile bilanciamento tra l’ordine e il disordine della città contemporanea che tu affidi alla pianificazione urbanistica. F.I. Prima di affrontare il tema del ruolo della pianificazione mi pare necessario approfondire il tema della frammentazione. È evidente che la società di questo nostro tempo si presenta meno compatta che nel passato. Meno compatta perché le figure sociali del ‘900 che determinavano una forma peculiare di compattezza si sono in parte vanificate e in parte non si riconoscono più. Quello che mi pare metta in evidenza quella che chiamiamo “frammentazione” è il confronto tra le lotte sindacali del ‘900, che per esempio nel nostro paese non poche volte hanno unificato soggetti sociali che niente avevano in comune nella loro esperienza di lavoro (operai FIAT e contadini del mezzogiorno, per esempio) e l’impossibilità oggi di unificare quello che “naturalmente” e “socialmente” dovrebbe essere unificato. Con questa mia notazione intendo sottolineare che a me pare che la frammentazione, per quello che si vede, non sia il frutto di un processo materiale della società, quanto della mancanza di figure ideali (ideologie) che unifichino. Inoltre proprio in quest’ultimo scorcio di anni mi pare che un “impulso prepotente” si manifesti non tanto verso la frammentazione, ma verso una compattazione su posizioni che magari giudichiamo terribilmente pericolose (sovranismo, razzismo, ecc.). Sembra infatti che la maggioranza dei membri della nostra società siedano in un salotto comune, e che i loro discorsi tendano a unificarli sempre più per l’espressione di punti di vista che ripugnano alla coscienza democratica. Dipende dalla qualificazione che vogliamo dare ai concetti di ordine e disordine la possibilità o meno di un bilanciamento di queste posizioni.

FRANCESCO INDOVINA Urbanista, politico e giornalista italiano.

M.T. Credo anch’io che il recente decadimento democratico che avvertiamo in Italia e nel mondo costituisca un ulteriore ostacolo per il pianificatore, che per svolgere il suo ruolo riformista, e per esercitare di conseguenza alcuni importanti compiti di mediazione, deve già misurarsi con il progressivo aumento della complessità dei fenomeni da governare. La “montagna da scalare” sembra dunque sempre più alta, soprattutto se si tiene conto di quella rilevate perdita di fiducia negli esperti e negli intermediari professionali che, secondo Bauman e Castells, costituirebbe un carattere preminente della moderna società in rete. F.I. Certo che la fiducia negli esperti non è mai stata tanto bassa, ma vorrei dire anche a ragion veduta. La figura che in questi giorni fanno gli esperti di valutazione a proposito del TAV, per esempio, non spinge verso la fiducia. Io distinguerei (entro certi limiti) il ruolo di mediatore da quello del riformista, e non penso che una operazione di piano dipenda dall’ideologia del pianificatore, anche perché si ha esperienza di pianificatori molto conservatori. Naturalmente non sto affermando che il pianificatore non debba avere un suo punto di vista, ma nego che il punto di vista del pianificatore sia quello esclusivo nel determinare il contenuto della pianificazione. Ritengo che l’urbanistica (così come la pianificazione) sia una scelta politica tecnicamente assistita. È l’istituzione locale che è legittimata ad indicare gli indirizzi del piano, dal momento che essa se ne assume la responsabilità e deve darne conto alla comunità. Il tecnico può contribuire a determinare tali indirizzi - in quanto è la competenza tecnica che deve assistere il processo decisionale - ma la responsabilità di tali indirizzi è della politica. Il compito del tecnico, se d’accordo con gli indirizzi scelti dall’amministrazione con un atto ufficiale del Consiglio Comunale, o regionale, ecc.) è dunque quello di tradurre tali indirizzi in scelte coerenti di organizzazione dello spazio. Per molti anni, in passato, il tecnico si è assunto anche il ruolo politico dell’amministratore, con il risultato di piani rigettati, di piani inoperosi, di lunghi contenziosi. Diversa è la questione della complessità. Si, certo, la società è più complessa del passato, e lo sarà sempre di più, ma questo è un problema che attiene alla formazione dell’urbanista e del pianificatore. L’idea che ci possa essere un professionista in grado di “progettare dal cucchiaio alla città” non stava in piedi prima, e soprattutto non sta in piedi oggi. Fare l’urbanista è un mestiere specifico che ha bisogno di una formazione specifica, diversa da quella di qualsiasi altro professionista. Non solo; tale formazione deve essere aggiornata rispetto ai mutamenti della società, della scienza e della tecnologia, nonché ai bisogni emergenti a

33


Cambiamento/Mutazione

livello della salvaguardia dell’ambiente. Che si tratti di un lavoro da svolgere in equipe non modifica le necessità formative del nostro professionista. M.T. Sempre con riferimento a quell’aumento di complessità che il precedente quesito provava a richiamare, mi sembra interessante analizzare la possibilità che la crescente varietà e articolazione degli organismi urbani ostacoli una piena leggibilità delle trame insediative, e renda di conseguenza più difficile la distinzione tra agenti ordinatori e fattori suscettibili al contrario di accentuare i livelli di entropia manifestati dal sistema urbano. F. I. Non voglio girare intorno alla questione: è certo che la varietà e l’articolazione degli organismi urbani risulta enormemente più ricca. Diciamolo: le persone non sempre vogliono vivere dove e come piacerebbe ad architetti e urbanisti, si fanno una loro idea del loro insediarsi nel territorio (che a qualcuno può sembrare sbagliato, ma non importa), magari seguono mode, idee di “famiglia” non realistiche, e in questa loro ricerca di realizzazione moltiplicano le trame insediative. Spesso sono spinti da ragioni economiche, spesso sono influenzate e vittime di speculatori, qualche volta si adeguano alle scelte che derivano dalla localizzazione dei posti di lavoro o dei servizi, ecc. Così facendo si sono moltiplicati gli organismi urbani. La distinzione tra città e campagna non è più così limpida come nel passato, e la crescita a dismisura della capacità di muoversi delle persone ha reso quest’ultime per molti versi indifferenti al “dove” insediarsi, anche perché il luogo di insediamento solo molto marginalmente condiziona la vita di ciascuno. Che questa situazione imponga maggior fatica ad una perfetta individuazione della struttura del territorio è evidente e inevitabile; che queste “varianti” del territorio siano, per altro, facilitate dall’assenza di una coerente politica territoriale attenta alle conseguenze dei processi insediativi è altresì palese, e non sempre inseguire l’emergenza risolve il problema. L’individuazione di agenti e di fattori ordinatori, o suscettibili comunque di ridurre l’entropia non solo della città ma anche del territorio, è sicuramente difficile, ed è messa continuamente in discussione dalle scelte localizzative dei cittadini, delle imprese e dei servizi. Sono convinto che le persone si fanno forti della loro libertà per insediarsi dove e come vogliono, ma le loro scelte sono in realtà il prodotto di influenze diverse. Non possiamo imporre dove e come ciascuno deve insediarsi, ma le amministrazioni, in ragione di obiettivi di efficienza e di efficacia che perseguono, possono strutturare le possibilità insediative in modo tale che ciascuno sia in grado di realizzare il proprio “buon” insediamento, ma contemporaneamente non contribuire ad accrescere l’entropia o l’emergere di questioni negative (di tipo ambientale, o relative alla mobilità, alla dotazione di servizi, ecc.). Il mestiere dell’urbanista non necessariamente deve essere solo riparatore, ma può (o deve?) anche essere prospettico. M.T. Anche con riferimento a questa “vocazione” propositiva della pianificazione, mi piacerebbe sollecitare un tuo commento sulle possibili conseguenze della crisi del mercato capitalistico – che secondo numerosi autori sarebbe ormai in pieno corso di svolgimento (Mason 2016; Magatti 2017) - sui “processi ordinatori” che la pianificazione urbanistica dovrebbe contribuire ad innescare. Tale quesito mi sembra interessante soprattutto se si considera che l’urbanistica moderna ha messo a punto gran parte dei propri strumenti operativi proprio a partire da un rapporto, più o meno conflittuale, con il paradigma economico dominante. Si tratta in altri termini di interrogarsi sul destino degli strumenti che sono stati utilizzati più frequentemente per riportare ordine nella città industriale, e poi in quella post-industriale, e sulla necessità di sostituire questo modello d’intervento con una differente disciplina. F.I. Piano, piano. Credo che la crisi del mercato capitalistico sia giunta alla sua conclusione, ma un sistema sociale può essere abbattuto, modificato o, al limite, rivoluzionato se, e solo se, è presente una ipotesi alternativa, sia sul piano teorico che su quello delle forze sociali disposte ad abbattere lo stato quo. Siamo a questo punto? Non mi pare. Quanti pensano che passata la crisi tutto tornerà come prima, sbagliano di grosso, niente sarà come prima. Ma per cambiare regime sociale ci vuole un’alternativa. Ma non disperiamo. Ogni situazione sociale non è solo presente, essa ha in sé gli elementi del passato (per gli urbanisti è ovvio), ma anche alcuni elementi del futuro. Se c’è un morto e questo non viene seppellito o cremato finirà per ammorbare l’aria, per produrre anche epidemie. Nel nostro futuro le nubi sono molto estese e possenti, esse vanno da un conflitto economico (o forse anche militare) tra USA e Cina a un ulteriore aggravamento della situazione ambientale, o dalla crescita dei conflitti locali per il controllo delle risorse (ad esempio per l’acqua) a movimenti migratori sempre più massicci. E tuttavia anche negli elementi del futuro vediamo delle cose meravigliose (che inducono meraviglia) come lo

34


Le INTERPRETAZIONI del CAMBIAMENTO Ordine-Disordine

sviluppo della scienza (si pensi solo alla medicina) e della tecnologia, ma ci fa molto ben sperare la mobilitazione delle persone per difendere i loro diritti o per promuovere innovazioni sociali,. Un futuro contradditorio come lo è il presente e come lo è stato il passato. Se da un lato è sicuro che la salute del capitalismo appare molto compromessa, ma che il suo trapasso non è immediato, o meglio non potrà essere né immediato né definibile in un tempo solo. L’ipotesi della presa del “palazzo d’inverno” mi sembra tramontata per sempre, il capitalismo potrà essere sostituito attraverso modifiche continue che ne mettano i crisi i presupposti e minino la sua struttura portante. Non è possibile fare previsioni, anche perché la spontaneità delle forze sociali riesce a sorprenderci sempre, ma conviene attrezzarsi ad una marcia di lunga durata. E se non conviene pensare ad una nuova “disciplina” (almeno io non so come si possa crearne una ex novo), è forse necessario mostrarsi più solleciti, attenti, perspicaci e, soprattutto, più attivi nell’affrontare i problemi che il presente ci pone sotto gli occhi nell’ottica del cambiamento sociale. Usando sì la vecchia disciplina, ma con la capacità di innovarla continuamente. Del resto, se si volesse mettere in evidenza una peculiarità dell’urbanistica, questa dovrebbe essere individuata nella capacità di quest’ultima di trasformarsi continuamente per adeguarsi ai cambiamenti incessanti della città e del territorio.

Libri richiamati Bauman Z. (2017), Retrotopia, Laterza, Bari-Roma Castells M. (2012), Reti di indignazione e speranza. Movimenti sociali nell’era di Internet, Egea, Milano Indovina F. (2017), Ordine e disordine nella città contemporanea, Franco Angeli, Milano Magatti M. (2017), Cambio di paradigma. Uscire dalla crisi pensando il futuro, Feltrinelli, Milano Mason P. (2015), Postcapitalismo, Il Saggiatore, Milano Nichols T. M. (2017), The Death of Expertise, Oxford University Press.

35


Cambiamento/Mutazione L’abusivismo come premessa

Intervista di Luigi Pingitore a Federico Zanfi L.P. Prof. Zanfi, lei ha curato, insieme ai colleghi Francesco Curci ed Enrico Formato, il testo Territori dell’abusivismo (Donzelli, 2017). La ricerca pone l’accento sugli effetti prodotti, in termini di perdita delle qualità ambientali dei territori abusati. Vengono proposti, come campioni esemplificativi, diversi casi-studio del Mezzogiorno d’Italia. L’Istituto Nazionale di Urbanistica sostiene da tempo che il contrasto all’abusivismo e la prevenzione dal rischio sismico, quest’ultimo il grande male naturale italiano, siano fortemente connessi e affrontabili efficacemente dalla disciplina urbanistica, andando oltre la scala della singolarità edilizia. Dal suo punto di vista e in base ai dati che possiede, ritiene possibile una battaglia, culturale prima che politica, che conduca l’urbanistica a occuparsi, con forza, di riqualificare interi agglomerati abusivi, in nome della sicurezza urbana, del mantenimento dell’identità dei centri storici, della tutela paesaggistica, diritti che peraltro lo Stato deve garantire a ogni cittadino? F.Z. La battaglia a cui lei fa riferimento non solo è possibile, ma è necessaria. Ed è una questione di rilievo nazionale, che dovrebbe essere collocata in alto nell’agenda di Governo, se vogliamo evitare che si ampli la faglia tra Mezzogiorno e resto del Pese e si accrescano le disuguaglianze tra territori. Poniamoci alcune domande, per capire fino a dove si allunga l’ombra dell’abusivismo edilizio. Per esempio: in che misura un territorio male urbanizzato e infrastrutturato, che non può per questi limiti ambire ad accogliere segmenti di economie avanzate (sempre più attente alla qualità ambientale nelle loro scelte localizzative), pesa sulla ripresa dell’emigrazione dei giovani laureati meridionali verso il nord del paese e verso l’Europa? Oppure: in che misura l’abitare in un quartiere sprovvisto di servizi e spazi pubblici in cui crescere i propri figli contribuisce al crollo del tasso di fecondità nelle regioni meridionali, con conseguenze demografiche che riversano ben oltre i loro confini amministrativi? O ancora: quanto incideranno, in prospettiva, la bassa qualità edilizia del patrimonio prodotto dall’abusivismo e i conseguenti processi di degrado paesistico-ambientale sull’attrattività turistica del paese in un quadro di progressiva evoluzione della domanda? O infine: quanto peserà, non solo in termini di costi pubblici di riparazione dei danni, ma purtroppo anche in termini di vite umane, la permanenza sul territorio nazionale di un’ampia quota di patrimonio residenziale che versa in condizioni di permanente esposizione al rischio e di intrinseca fragilità, proprio in quanto costruita senza pianificazione né controlli? Quest’ultimo aspetto del rischio – dentro cui sta anche il tema del rischio sismico che lei richiama – non è, come credo si possa intuire, il solo a essere drammatico tra i molti implicati dal fenomeno dell’abusivismo edilizio, ma è un aspetto che forse più di altri ha un impatto sull’opinione pubblica, sulle coscienze degli individui. L’abusivismo edilizio è – come dice l’ex sindaco di Lecce Carlo Salvemini – una «emergenza dimenticata», con cui conviviamo tutti i giorni, spesso senza coglierne appieno le implicazioni peggiorative sulle nostre vite, finché non riappare in prima pagina laddove si fa corresponsabile di una tragedia come le molte che hanno segnato la storia recente del Mezzogiorno, da Sarno (1998) a Casteldaccia (lo scorso novembre 2018, e che sarà l’ultima per poco tempo). Io credo che quella del rischio sia probabilmente la leva principale che possiamo manovrare oggi per far comprendere all’opinione pubblica che il patto sociale a sostegno dell’abusivismo edilizio (che come è noto ha visto responsabilità e convenienze distribuite a tutti i livelli, dai proprietari, alle imprese, alle élite che hanno amministrato i territori) è un patto scellerato e insostenibile, che oggi può cancellare la tua vita, o quella di un parente, o di un amico, che va radicalmente e urgentemente riformulato.

FEDERICO ZANFI Architetto e ricercatore in Urbanistica al Politecnico di Milano

L.P. Altra questione, in continuità alla prima domanda, riguarda il tema delle demolizioni, siano esse collegate a un evento sismico (da cui ne segue sempre il noto dilemma “costruire dov’era com’era”?) o semplicemente all’eliminazione di un complesso abusivo. Demolizioni che possono essere un fatto lacerante, traumatico, duro (ma spesso necessario) nella speditezza dell’azione del demolire; o, anche, rappresentare la prima fase di un pensiero lungo (purtroppo meno sovente) capace di produrre, insieme alla demolizione dell’esistente, nuove progettualità adeguate al contesto in cui si opera. Prof. Zanfi, a questo proposito può fornire un profilo di insediamenti abusivi intorno ai quali potrebbero essere prefigurati interventi di ricostruzione o, al contrario, forme di rarefazione insediativa; o, comunque sia, azioni

36


Le INTERPRETAZIONI del CAMBIAMENTO L’abusivismo come premessa

virtuose di piani di demolizione, in territori abusati, associati alla dimensione della trasformazione? F.Z. In termini generali, la cosa più importante da sottolineare è che la demolizione dell’abusivismo non condonabile deve essere riportata concettualmente e operativamente dentro la sfera del progetto urbanistico e di territorio. Finché continueremo – come urbanisti, come ambientalisti, come amministratori, come esponenti di partiti politici – a sostenere che «le demolizioni vanno fatte» limitandoci ad addurre le pur sacrosante ragioni relative alla legalità e al ripristino dello stato dei luoghi, temo non andremo lontano (plausibilmente, non oltre l’operato dei pochissimi coraggiosi sindaci e commissari che hanno deciso e decidono di abbattere, sfidando un ampio fronte sociale contrario). La demolizione è soprattutto uno strumento di riorganizzazione territoriale, da impiegarsi con tensione progettuale per stabilire nuove alleanze tra amministratori e cittadini, riassegnare valore in modo selettivo a patrimoni pubblici e privati, rendere più efficienti e sicuri insediamenti disordinati e male infrastrutturati. L’efficacia di un piano di riforma delle urbanizzazioni abusive nel Mezzogiorno è legata – senza alternativa – alla capacità di concepire e gestire un diffuso progetto di demolizione entro tale accezione multidimensionale, mettendo anzitutto in luce il guadagno collettivo che da esso può derivare attraverso il progetto. Un progetto – nuove immagini condivise del territorio, ritrovata accessibilità per i beni pubblici, delocalizzazione di diritti edificatori – che va concepito e finanziato prima che le ruspe si mettano in moto. E su quest’ultimo aspetto, che molto potrebbe cambiare in termini di agibilità sociale, bisogna ammetterlo, si è lavorato (e si è comunicato) troppo poco. Quando parlo di un nuovo patto che deve sostituirsi a quello che sta alla base della massiccia diffusione dell’abusivismo edilizio nel Mezzogiorno a partire dagli anni Settanta, mi riferisco anche di questo modo di intendere il progetto di demolizione. Che come dice Enrico Formato deve rientrare in un «cantiere di ricostruzione», dentro cui sta sì l’edilizia non condonabile, ma stanno anche gli edifici in regola, le reti infrastrutturali, e alcuni grandi corpi ambientali – i litorali, le sponde di laghi e di fiumi – che devono riguadagnare attraverso il progetto urbanistico continuità e piena accessibilità pubblica. L.P. L’ultima è la “domanda delle domande”. Le chiedo di fornire e commentare due dati: col primo, negativo, La interrogo se ha maturato l’idea che moltissime sacche del Paese siano ormai molto compromesse, irrecuperabili, cioè tali da dover essere necessariamente considerate “palla persa”. Con il secondo dato, le chiedo, al contrario, se vi siano segnali che possano dimostrare per l’abusivismo un’inversione di tendenza, una qualche speranza, una via d’uscita. F.Z. Premesso che d’irrecuperabile credo non ci sia nulla, per risponderle è necessario chiarire due aspetti. Anzitutto, va detto che le condizioni in cui versano oggi gli insediamenti non autorizzati sono molto diverse, e incorporano valori, qualità ambientali, fattori di rischio e aspettative dei proprietari altrettanto diversi. Prendere atto che questo è il quadro – e che il condono ha sbagliato ad appiattirsi su una dimensione giuridicoamministrativa trascurando differenze che potevano invece essere occasioni di “presa” molto importanti – è il primo necessario passo per immaginare una diversa stagione di politiche e progetti dedicati ai territori dell’abusivismo. Dopodiché, il tutto va riosservato tenendo sullo sfondo un ritratto aggiornato e onesto del territorio italiano oggi: un campo in cui si assiste alla polarizzazione tra regioni urbane e città dinamiche da un lato, e declino demografico e perdita di valore del patrimonio in aree in crisi dall’altro, dentro e fuori il perimetro della Strategia Nazionale per le Aree Interne. È una geografia dell’Italia in contrazione tutta da approfondire – che Arturo Lanzani e Francesco Curci hanno iniziato a esplorare nel recente Riabitare l’Italia curato da Antonio De Rossi (Donzelli, 2018) – nella quale ricadono anche molti insediamenti abusivi o ex abusivi. Se incrociamo questa geografia con quella del rischio e con una riflessione relativa ai costi pubblici per abitante insediato relativi a infrastrutture e servizi, si possono individuare situazioni nelle quali non è auspicabile riabitare, né investire per qualificare, ma piuttosto è necessario capire come fare per ridurre il carico insediativo. Tutto questo, per dire che a mio avviso la distinzione non va fatta tra insediamenti abusivi che sono più o meno recuperabili in ragione del loro grado di compromissione, ma tra insediamenti che ha senso recuperare o meno, entro un nuovo disegno territoriale che tenga conto di alcune condizioni strutturali di contesto. Se coerenti con un tale quadro, anche situazioni particolarmente gravi sotto il profilo fisico e sociale potranno essere oggetto di investimenti tesi al loro aggiustamento, e si tratterà evidentemente di un progetto di lungo periodo. Al contrario, progetti di demolizione, di abbandono selettivo, di gestione del filtering dovranno essere concepiti per quegli insediamenti che non trovano senso nel quadro territoriale di riferimento.

37


Cambiamento/Mutazione

Per esempio, se penso a certi insediamenti costieri in forte declino, in cui oggi si concentrano marginalità sociale e ghettizzazione etnica (nel Litorale Domitio, nella costa sicula sud-orientale, nella zona di Rosarno e nel Crotonese, nell’alta Puglia, nella provincia di Latina): lì il patrimonio privato si è talmente deprezzato che spesso gli oneri implicati dalla chiusura della sanatoria di un manufatto superano il suo valore. I proprietari non sono più interessati a questa prospettiva. A seconda delle specifiche situazioni, allora, questo patrimonio senza più valore economico potrebbe, per esempio, essere demolito e rientrare in progetti di riconfigurazione paesaggistica più estesi, o al contrario rientrare in progetti di gestione del filtering entro una prospettiva sociale, offrendo spazi abitativi o lavorativi dai canoni popolari a categorie deboli e marginali entro un sistema locativo più formale e sicuro rispetto a quello in vigore oggi. Infine, che si tratti di un caso o dell’altro, per capire come potremmo incontrare un’agibilità sociale diversa dal passato in relazione al trattamento di questo patrimonio controverso, un dato significativo è quello rilevato dal rapporto Benessere Equo e Sostenibile di Istat, relativo all’insoddisfazione per il paesaggio del luogo di vita. Qui si legge di una popolazione meridionale, giovane e istruita che manifesta i più elevati tassi di insoddisfazione a livello nazionale, plausibilmente esprimendo un giudizio su ambienti in cui l’abusivismo edilizio ha avuto un ruolo tutt’altro che marginale. Una popolazione che oggi eredita – o erediterà nel futuro prossimo – il patrimonio in questione, e che sarà per forza l’interlocutore di ogni nuova politica a esso rivolta. Il nuovo patto va fatto con loro, e alla svelta.

38


Le INTERPRETAZIONI del CAMBIAMENTO La centralità del paesaggio

Intervista di Piero Properzi a Alberto Clementi P.P. Il Progetto di Paesaggio può rappresentare (come raccordo tra la Pianificazione Paesaggistica regionale e ministeriale e le nuove forme di pianificazione urbanistica ordinaria) il superamento della contrapposizione tra una urbanistica regolativa dei processi edilizi e la pianificazione vincolistica del paesaggio che oggi si identificano in sviluppisti cattivi e conservazionisti buoni? A.C. Va salendo anche in Italia una crescente progettualità per il paesaggio. In sordina, e fuori dai circuiti disciplinari più tradizionali, sta diventando consistente una sperimentazione locale che sembra inaugurare forme innovative di progetto, ormai in grado di emanciparsi da quelle più convenzionali che provengono dall’architettura del paesaggio. Almeno a guardare le proposte presentate nel corso delle varie edizioni del Premio europeo del paesaggio, ci si rende conto che nelle pratiche, prima ancora che nelle interpretazioni disciplinari, i progetti per il paesaggio si stanno affrancando progressivamente dalla loro iniziale matrice architettonica, urbanistica e ingegneristica. Questa forma di progetto sembra destinata a configurarsi sempre meno come una predisposizione di opere o di assetti morfologico-ambientali, per assumere piuttosto la valenza di un processo corale di costruzione del senso, di cui va considerata protagonista in primo luogo la società locale. La popolazione viene chiamata a identificarsi nel paesaggio abitato e ad appropriarsene fattivamente, prendendo su di sé la cura dell’esistente nelle strategie del quotidiano, prima ancora che nelle trasformazioni più importanti. Il fine ultimo dei progetti non appare più il mantenimento o il miglioramento della funzionalità delle cose e dell’ambiente, ma la stessa capacitazione della società locale a farsi carico in prima persona del proprio paesaggio, intendendolo come valore da tutelare soprattutto per sé e per le generazioni future. Questa evoluzione era apparsa evidente già nell’edizione 2015 del Premio, con il progetto vincente “Parco agricolo dei Paduli” in provincia di Lecce. Qui un gruppo di animazione locale aveva saputo promuovere il riscatto di un vasto e maestoso uliveto secolare, che versava da tempo in condizioni di abbandono e di degrado, avendo perduto la propria funzionalità originaria. Attivando in autopromozione il Laboratorio Urbano delle Terre di Mezzo, si era dato avvio a un efficace processo di partecipazione “dal basso” che ha coinvolto progressivamente dieci Comuni salentini, la popolazione locale, gli agricoltori ed esperti provenienti da tutta Italia. Ne è scaturita l’idea di un parco agricolo multifunzionale, come occasione di sviluppo locale sostenibile. Insieme alla riconversione produttiva a favore di beni agroalimentari tipici della zona si sono recuperate antiche tradizioni anche gastronomiche, realizzate nuove forme di ospitalità diffusa e di ricettività locale, nuovi itinerari di mobilità sostenibile, sperimentate opere di “land art” e altre attività creative sostenute soprattutto da gruppi giovanili. Tutto ciò sfugge alla normale architettura del paesaggio, e si configura piuttosto come un processo di produzione del senso che assume come protagonista la società locale, con un insieme di azioni anche minime quanto a consistenza, ma con un’azione maieutica a forte valenza simbolica. Anche le successive edizioni del Premio per il paesaggio europeo hanno confermato la propensione a fare del progetto di paesaggio il veicolo di un processo di rigenerazione del senso, capace di coinvolgere attivamente la comunità locale prima ancora che il modo per realizzare opere funzionali su iniziativa delle istituzioni. Questa nuova accezione del progetto di paesaggio privilegia la capacitazione della comunità e delle stesse istituzioni locali coinvolte, ancor più dell’affermazione di un sapere elitario e specialistico. Mobilita gli attori in gioco per stimolare il loro impegno a perseguire condizioni di qualità, assumendone la responsabilità anche attraverso la stipula di accordi e patti. Presuppone la condivisione attiva di quadri cognitivi e di valori da attribuire, formulando preventivamente visioni comuni circa le finalità da raggiungere, e poi ciascuno farà la propria parte. La natura del progetto per il paesaggio diventa allora fondamentalmente pattizia e processuale anziché coercitiva, con il ricorso ad accordi che rappresentano l’espressione concreta delle responsabilità che si è disposti ad assumere, in modo autonomo o sulla scorta di appositi incentivi. Naturalmente i paesaggi più pregiati dovranno essere comunque tutelati con vincoli efficaci, anche meglio di quanto avviene abitualmente. Ma nella nuova prospettiva si punta ad una conservazione attiva o trasformazione sostenibile, che attinge a risorse di varia natura e soprattutto alla disponibilità della folla oscura di chi abita e produce il paesaggio, senza la quale nessun progetto potrà mai avere successo. La qualità estetica dei risultati non può essere assicurata a priori. Però così il paesaggio ritorna ad essere il prodotto di una pratica sociale consapevole. Non è più un dato, ma un costrutto, espressione della volontà condivisa da parte di una comunità di scopo, che s’impegna a migliorare lo stato delle cose (o comunque a non peggiorarlo) compatibilmente con le risorse disponibili e con gli sforzi individuali concretamente praticabili, grazie anche

ALBERTO CLEMENTI Urbanista e Preside della Facoltà di Architettura di Pescara

39


Cambiamento/Mutazione

all’aiuto dell’associazionismo e del volontariato. Spetta poi alle istituzioni pubbliche il compito insostituibile di supportare questi processi endogeni, avallandoli con la propria autorità e quando necessario correggendoli e incentivandoli con misure di sostegno per gli interventi più problematici. P.P. La progressiva divaricazione tra Convenzione Europea del Paesaggio e applicazione del Codice Urbani, nelle rare esperienze dei nuovi piani regionali, stanno producendo una concezione territorialista (Magnaghi Manson), patrimonialista (Montanari Settis) e benecomunista (Rodotà Maddalena) del Paesaggio che sposta da una dimensione “culturalista” e progettuale ad una giuridico “vincolistica” il ruolo dei Piani Paesaggistici costituendo un blocco conservativo incardinato sul centralismo ministeriale dei sovrintendenti. Quale può essere una strategia comunicativa, comportamentale e politica da parte della cultura riformista per arginare o recuperare questa devianza dirigistica? A.C. Tutto ciò ha profonde ripercussioni sul modo d’intendere il rapporto con l’urbanistica e il progetto, e soprattutto con le attuali culture di governo “top down”, che tendono ad attribuire la cura del paesaggio locale a una specifica istituzione, forte di un potere cogente d’interdizione giuridico-vincolistico. Sotto il primo profilo, per tagliar corto, nella prospettiva di un’auspicabile integrazione tra urbanistica e paesaggio si potrebbe fare riferimento ad un insieme di paesaggi locali regolati da specifici Obiettivi di qualità, articolati a loro volta in obiettivi di qualità paesaggistica e obiettivi di qualità insediativa, reciprocamente interdipendenti. Spetta poi al Piano urbanistico comunale, il vero responsabile delle qualità d’uso del territorio e delle sue forme visibili ( e cioè la forma stessa del paesaggio), il compito d’individuare i paesaggi locali in armonia con le previsioni del Piano Paesaggistico Regionale (di solito riferite a una scala sovralocale, a meno dei beni vincolati per legge), disciplinando gli interventi in modo da lasciare ampio spazio ai processi di mobilitazione volontaria delle popolazioni locali che dimostrano di perseguire finalità coerenti con gli obiettivi del piano. Più complesso è il rapporto con i sistemi di governo specificamente responsabili del paesaggio. Da tempo è andata crescendo la sfiducia nei confronti dei Comuni e altre istituzioni locali, troppo vicine agli interessi di parte (anche elettoralistici) e dunque poco adatti a tutelare un bene primario e insindacabile come il paesaggio. Anche la recente evoluzione della società verso l’individualismo possessivo del nostro tempo, in cui i corpi intermedi sono stati eclissati a favore di un forme sempre più personalistiche di appropriazione e patrimonializzazione del paesaggio, non favorisce certo la tutela. Meno che mai nelle situazioni più critiche, dove dominano le organizzazioni criminali o dove comunque si è perduto ogni rispetto delle regole e della legalità, come nei territori dell’abusivismo. La conseguenza è che si sta intensificando la pressione per un ritorno allo Stato dirigista, e in particolare al ministero dei Beni culturali, espressione di quel centralismo burocratico che ha informato di sé gran parte della nostra storia di governo del paesaggio. Ma è proprio l’esperienza del passato che allarma chi intravvede i rischi di questa strada. Il fatto è che in Italia la gestione settoriale (il Mibac) e verticistica (lo Stato centrale) ha fallito storicamente, a giudicare dal doloroso stato di degrado in cui versano tanti paesaggi pregevoli. Non si vede come potrebbe essere rilanciata oggi, in una congiuntura politica dominata da un poliarchismo caotico e dalle derive di una società sempre più individualistica e rabbiosa nei confronti di saperi esperti considerati frettolosamente elitari, come quelli che legittimano l’azione del Mibac, e che talvolta invece complicano inutilmente le cose imponendo categorie astratte e velleitarie, come nel recente caso delle invarianti strutturali del PPR Toscana. Non è soltanto una questione di migliore ripartizione dei poteri, che potrebbe essere risolta imponendo un leale partenariato tra le istituzioni in gioco ai diversi livelli (ben oltre la controversa cooperazione tra Mibac e Regioni per la copianificazione). Se c’è da far valere l’importanza decisiva di un bene di tutti come il paesaggio, allora diventa indispensabile cercare di coinvolgere e sensibilizzare quanto più possibile le popolazioni locali, che con il loro protagonismo producono e consumano il paesaggio spesso senza alcuna consapevolezza del suo valore. Come del resto richiede esplicitamente la Convenzione europea del paesaggio firmata nel 2000 anche dall’Italia. Ad esempio, non c’è dubbio che i Comuni, nonostante i loro limiti, sono chiamati a fungere da soggetto chiave per una nuova cultura di uso del territorio, meno orientata al tradizionale sfruttamento della rendita fondiaria e più aperta all’economia della sostenibilità e della valorizzazione del paesaggio. Fare i Piani Paesaggistici Regionali senza – o peggio ancora contro- i Comuni non solo appare irrealistico, ma addirittura controproducente, se l’obiettivo è di socializzare il valore del paesaggio come unico antidoto al suo deterioramento progressivo, certamente accentuato dal distacco tra territorio e poteri della tutela. In realtà la situazione appare ormai matura per oltrepassare la sterile contrapposizione tra le politiche di paesaggio top-down o bottom-up, tra Stato centrale e società locale. Ai fini della conservazione e del miglioramento del

40


Le INTERPRETAZIONI del CAMBIAMENTO Per una centralità del paesaggio

paesaggio c’è bisogno di più Stato e al tempo stesso di una maggiore mobilitazione delle società locali. Come il nuovo approccio richiede una convergenza ben temperata tra piani di paesaggio e piani urbanistici, così occorre favorire una nuova combinazione virtuosa tra il potere dei vincoli imposti dall’alto e la capacità di protagonismo delle popolazioni locali. La vera partita si gioca in effetti tra la valutazione di quei rischi che impongono misure cautelative di protezione, e le possibilità di apertura al dialogo con le forze locali chiamate ad operare attivamente in difesa del paesaggio. Gli strumenti da adoperare si articolano: non solo vincoli di interdizione, ma anche patti, intese mirate al fare e incentivi, con le responsabilità che si è disposti ad assumere ai fini della conservazione e trasformazione sostenibile del paesaggio. Nella nuova prospettiva, i piani non servono soltanto ad ammaestrare gli abitanti al rispetto delle regole, ma ancor più a coinvolgere attivamente e convincere le popolazioni con argomentazioni dialogiche capaci di costruire interattivamente il senso del bene comune di cui il paesaggio è espressione materiale. Accade invece troppo spesso che più delle responsabilità individuali contano gli apparati burocratici, con un approccio autoritario assai poco incline al confronto dialogico e al processo di costruzione di valori comuni, che presuppongono la partecipazione attiva della popolazione. Nel bene e nel male, il piano paesaggistico è stato finora generalmente rinviato ai metodi e ai giudizi della cultura esperta, agendo come obbligo di legge piuttosto che come guida condivisa alla trasformazione dell’esistente. Ma adesso ci stiamo finalmente avvicinando a una nuova epoca, in cui i piani diventeranno sempre più l’espressione di una reale capacità dialogica con i soggetti interessati, naturalmente fatte salve le istanze primarie di tutela dei beni paesaggistici. P.P. Il Rapporto Conoscenza-Piano, Progetto ha da sempre costituito, da Astengo in poi, un tema non solo strettamente disciplinare, ma anche politico – istituzionale – tecnologico, che caratterizza in forma diverse le modalità di pianificazione. Come sai anche, per le comuni esperienze, ho sempre sostenuto, in una tradizione “liberale” riferita al modello Rowlsiano della terzietà del decisore, la separazione dei Quadri conoscitivi, di varia forma, dal Piano-Progetto. Come può interagire positivamente questa forma di conoscenza (pensata come riferimento comune sia alla pianificazione paesaggistica che a quella urbanistica) con il Progetto di Paesaggio, anche alla luce di nuove forme di democrazia e dell’evoluzione tecnologica? A.C. Nella nuova prospettiva la conoscenza è destinata a giocare un ruolo sempre più importante. Una volta condivisa la piattaforma di conoscenze fondamentali, diventa infatti possibile ricercare la convergenza tra le diverse posizioni, con regole, progetti e azioni che saranno l’esito del confronto tra gli attori in campo. Così molti Piani Paesaggistici Regionali recenti sono stati costruiti separando due fasi: prima il quadro conoscitivo, con la ricognizione dei vincoli aggiornati e di tutte le condizioni del contesto ritenute significative per la pianificazione; poi, dopo aver condiviso formalmente il quadro conoscitivo tra Mibac e Regione, si passa alle previsioni che sostanziano la parte propositiva o vincolistica del piano. In realtà il processo di elaborazione della piattaforma conoscitiva è tutt’altro che scontato, perché incorpora almeno due diverse modalità: una, di tipo tradizionale, riguarda la ricostruzione -per così dire oggettiva, a partire dal punto di vista specifico delle istituzioni responsabili del piano- dello stato del paesaggio e delle condizioni che ne vincolano le trasformazioni in corso o potenziali. Un’altra conoscenza, di tipo prevalentemente dialogicoargomentativo, scaturisce invece dall’interazione tra i diversi attori, e si deposita in atti e documentazioni che rispecchiano la soggettività delle interpretazioni. Del resto di fronte a una realtà che si sta facendo sempre più sfuggente e aleatoria, le certezze del sapere (di solito alimentate dalla conoscenza oggettiva) tendono a lasciare sempre più spazio alla necessità di confronti a carattere intersoggettivo, esponendosi a verifiche dialogiche che coinvolgono altre esperienze e prospettive cognitive. Come sostiene Mordacci, l’impossibilità di ridurre ad un solo ordine egemonico l’irriducibile pluralità delle posizioni in campo in una società sempre più complessa e poliarchica, fa pensare che tenderà ad assumere maggiore rilevanza il “confronto e il coordinamento tra visioni e scopi diversi, per mettere in atto una qualunque strategia” (Mordacci, 2017). Sono dunque destinati a crollare i presupposti che hanno ispirato una decennale pratica della pianificazione paesaggistica autoritaria, con fortune alterne circa il suo effettivo contributo alla conservazione dei paesaggi di valore del nostro Paese. Riferimenti Clementi A., 2015, Progetti, non solo vincoli per il paesaggio italiano, in Nuova Etica Pubblica, n.4 Mordacci R., 2017, La condizione neomoderna, Einaudi, Torino

41



RAPPORTO dal TERRITORIO 2019 Attribuzione testi VOLUME 1 “Le Politiche per il territorio” Carmela Giannino HABITAT III e “New Urban Agenda” per lo Sviluppo Sostenibile Pietro Garau Le città italiane e il programma URBACT Simone D’Antonio “Le Politiche nazionali Carmela Giannino Strategia nazionale per lo sviluppo sostenibile Carmela Giannino Adattamento ai cambiamenti climatici / Orientamenti Clara Pusceddu, Mara Balestrieri La rete ecologica nazionale Massimo Sargolini Le Politiche abitative Federica Di Piazza Il progetto CASA ITALIA Aldo Perotti Nuove prospettive per il Mezzogiorno Donato Caiulo La Strategia per le Aree Interne Francesco Monaco Periferie e aree degradate Carmela Giannino “Le Politiche per i territori Regionali” Un Quadro comparativo Donato Di Ludovico Le schede Regionali Donato Di Ludovico VOLUME 2 Lo Stato della Pianificazione Simone Ombuen La Legislazione Regionale Andrea Torricelli La Pianificazione Regionale Donato Di Ludovico La Pianificazione dei Comuni Simone Ombuen I dati Nazionali Simone Ombuen Il rinnovo della Pianificazione Comunale Simone Ombuen La pianificazione Comunale nelle realtà Regionali Simone Ombuen “Dagli Standard alle Prestazioni urbane” Standard, diritti e qualità urbana Carolina Giaimo Gli Standard urbanistici nelle leggi regionali Ombretta Caldarice Standard Urbanistici e Piani Comunali Carolina Giaimo Conclusioni Carolina Giaimo La Pianificazione nei Sistemi Insediativi Simone Ombuen Città Metropolitane Francesco Domenico Moccia La Pianificazione Francesco Domenico Moccia Conclusioni Francesco Domenico Moccia Città Medie Roberto Mascarucci La Pianificazione Roberto Mascarucci Trenta Piccole Metropoli Roberto Mascarucci Conclusioni Roberto Mascarucci Città Minori Aldo Cilli La Pianificazione Aldo Cilli Conclusioni Aldo Cilli La pianificazione paesaggistica regionale Angioletta Voghera, Luigi La Riccia I nuovi piani Angioletta Voghera, Luigi La Riccia Il processo di adeguamento dei PUC al Piano Paesaggistico della Sardegna: attualità e prospettive Luigi La Riccia Progetti di paesaggio alla prova dell’attuazione del PIT della Toscana Luigi La Riccia, Silvia Viviani Innovazioni in pratica: processi e progetti nell’attuazione del piano paesaggistico della Puglia Angela Barbanente, Francesca Calace Il Piano come riferimento per le politiche paesaggistiche piemontesi Giovanni Paludi, Paola Gastaldi Friuli Venezia Giulia: la Regione tra governo del territorio e pianificazione paesaggistica Sandro Fabbro Prospettive progettuali nel Piano paesaggistico regionale lombardo Andrea Arcidiacono Dal QTRP ai progetti di territorio/paesaggio Paola Cannavò, Massimo Zupi VOLUME 3 Il Manifesto del Po Luca Imberti Le città accessibili. Linee guida Iginio Rossi L’Italia Mediana Donato Di Ludovico I Paesaggi del Sud Angioletta Voghera, Luigi La Riccia Osservatorio per il Consumo di Suolo della Campania OPS Emanuela Coppola Il Piano del Parco Nazionale dell’Appennino Lucano Daniele Ronsivalle Calabria Paola Cannavò,Massimo Zupi Il Progetto “Agri Gentium: landscape regeneration” Filippo Schilleci, Vincenzo Todaro Forme di attuazione dello scenario strategico del PPTR Luigia Capurso, Luigi Guastamacchia Il Mosaico di San Severo. Percorso di Sperimentazione dei Progetti Territoriali per il Paesaggio Regionale del PPTR Fabio Mucilli Rural Revolution. Il Parco Agricolo dei Paduli LUA Laboratorio Urbano Aperto Lecce è il suo mare Francesco Baratti Lo Studio di Fattibilità per il Parco Agricolo Multifunzionale di Valorizzazione delle Torri e dei Casali del Nord Barese Carlo Angelastro La campagna del ristretto nella sperimentazione dei Progetti Territoriali del PPTR Marilena Manoni, Annalisa Malerba




Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.