piccoli scavi intorno alla poetica

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ACCADEMIA DI BELLE ARTI DI URBINO arti visive e discipline dello spettacolo triennio - indirizzo scultura - a.a. 2008-2009 tesi di diploma di Storia dell’arte contemporanea

piccoli scavi intorno alla poetica relatore

Antonella Micaletti studente

Elena Radice



indice



introduzione perchè parlare di poetica capitolo 1 le origini capitolo 2 prima metà del Novecento: Benedetto Croce e i futuristi capitolo 3 la seconda metà del Novecento capitolo 4 poetica e coerenze intervista a cinque interviste / Luigi Carboni / Umberto Cavenago / Francesco Gennari / Eva Marisaldi / Silvio Wolf indice dei nomi bibliografia



introduzione


Perchè parlare di poetica

La domanda su cosa si intenda per poetica e cosa significhi poetica è sorta con sempre maggiore insistenza nel corso dei miei studi accademici. Studiare allo scopo di produrre arte significa occuparsi operativamente di poetica. Il termine “poetica” viene spesso citato dai docenti per riferirsi al percorso di un allievo o più semplicemente per indicare un obiettivo finale che spesso sembra essere lontano e rarefatto. Ecco allora che “poetica” diventa qualcosa di onnicomprensivo e fondamentale ma così ampio e per certi versi oscuro da sfumare nel nulla o nell’utilizzo continuo poco consapevole. Poetica è più di una parola, è un campo (nel senso fenomenologico del termine) in evoluzione che merita di essere indagato. Il vocabolario della lingua italiana e

l’enciclopedia della filosofia Garzanti alle voci “poetica” rispondono come di seguito: Poetica = Dal lat. poeti°ca(m) (a°rtem), che è dal gr. poiìtiké (téchnì) ‘(arte) poetica’, f. sost. di poiìtikós ‘poetico’ 1.l’arte del poetare | trattato che si occupa del poetare e ne fissa le regole: la «Poetica» di Aristotele 2.la concezione della poesia propria di un artista, di una scuola, di un’epoca; teoria dell’arte: la poetica di Orazio, di Foscolo, di Stravinskij; la poetica neoclassica, del verismo; la poetica dei surrealisti. 1 Poetica = termine che, nel pensiero classico e sino al Settecento, designò la precettistica concernente i criteri della produzione artistica e quelli del giudizio estetico. In questo senso la intese Aristotele nella poetica (al titolo di questo scritto, peri poietikes risale il termine stesso) e a questa duplice articolazione si richiamano testi come L’arte poetica di Orazio o L’art poetique di N. Boileau. Dopo che, nel Settecento e principalmente per opera di A.G. Baumgarden, il giudizio di gusto sulla produzione artistica e sul bello in generale divennero oggetto di una disciplina specifica, l’estetica, la poetica passò a indicare semplicemente la precettistica intorno ai modi concreti del fare artistico. Più recente, del Novecento, è una diversa accezione del


vocabolo secondo cui per poetica si intende, in senso lato, l’impostazione programmatica di un singolo artista o anche di una corrente o di un movimento. E un suo significato più specifico dal punto di vista filosofico lo troviamo in P. Valery: “il termine poetica sembra essere appropriato se lo si intende secondo la sua etimologia cioè come il nome di tutto ciò che ha da fare con la creazione o con la composizione di opere il cui linguaggio è insieme sostanza e mezzo e non nel senso ristretto di raccolta di regole o di precetti estetici che concernono la poesia (Varietè,v.1945)”. A questa concezione, per la quale non esiste una normativa estetica anteriore o ulteriore al fare artistico che si risolve nell’atto della sua produzione, (vanificando pertanto le ambizioni dell’estetica di poter fondare l’arte) si è richiamata in Italia la riflessione estetica post-crociana e in particolare il pensiero di Pareyson, il quale ha elaborato una teoria della formatività per cui formare significa fare, ma un tal fare che mentre fa inventa il modo di fare. Sempre a questa immanenza delle regole estetiche rispetto al prodotto artistico concreto, che rivaluta la poetica sottraendola all’ambito puramente operativo entro cui l’aveva confinata l’estetica, si richiama ispirandosi U.Eco (soprattutto Opera aperta 1962) : nel suo pensiero però agiscono anche le influenze dei formalisti russi (V.Erlich il formalismo russo 1955) i quali, sin dagli anni Venti, avevano elaborato una teoria dell’arte per cui la qualità estetica dell’opera risulta esclusivamente dalla sua forma e per cui, di conseguenza, l’estetica si risolve completamente nella poetica. Ai formalisti si richiamerà lo strutturalismo degli anni Sessanta (per es. R.Jackobson, linguistica e poetica, in

Saggi di linguistica generale,1963) dove con poetica (o poietikè) si intende un’analisi dell’opera (letteraria in primo luogo) che prescinde non solo da qualsiasi dato contenutistico ma anche da ogni modalità interpretativa (sociologica psicologia ecc.) estrinseca rispetto le qualità linguistiche dell’opera stessa. In questa prospettiva, la poetica “in opposizione all’interpretazione di opere particolari [...] mira alla conoscenza delle leggi generali che presiedono alla nascita di ogni opera. Ma , in opposizione a scienze come la psicologia, la sociologia, ecc.. cerca quelle leggi all’interno della letteratura stessa [...]. Ogni opera è allora considerata come la manifestazione di una struttura astratta e generale di cui è una delle realizzazioni possibili.” (T. Todorov,Poetica 1973) 2

Nel primo caso vi è una definizione semplice e piuttosto chiusa che il lettore assume per vera. E’ interessante vedere come la seconda voce mostri quanto la prima sia stata superata (se di superamento si può parlare) ed ampliata, facendo una rapida scansione storica delle varie concezioni del termine. Il lettore tende ad appoggiare l’ultima tesi citata in quanto ultimo superamento dei significati precedenti. Già si può scorgere l’ampiezza della tematica. L’arte in un’epoca va


interpretata secondo la sua poetica? O solo ogni artista? O ogni movimento? O non ha senso fare differenze? È arte solo ciò che ha poetica? Quindi la poetica è definibile in assoluto al fine di definire cosa sia arte? Chi definisce cosa sia la poetica di un qualsiasi oggetto? Quale definizione è giusto prendere per vera? Ha senso dare definizioni?


Dizionario della Garzanti, 2009 1

2

lingua

italiana,

Enciclopedia di filosofia, Garzanti, 1998



capitolo 1


Le origini

La civiltà greca fu quella in cui vennero divise per la prima volta le attività riguardanti le arti da quelle della vita sociale utilizzando una parola, poiesis, per le attività artistiche in generale. Lo studio della poetica, o meglio, l’uso del termine poetica in ambito di studio del contesto artistico, inizia con i ragionamenti intorno all’arte da parte dei filosofi classici. Tutto ciò oggi viene inserito in quella parte della filosofia che si occupa dell’arte: l’estetica. Il termine “estetica” è stato introdotto dal filosofo Alexander Gottlieb Baumgarten con il testo “Aestetica” del 1750. Da allora tutto quello che all’interno del pensiero gnoseologico era riferito all’arte viene raccolto nell’estetica, creando così un settore “autonomo” della filosofia. Platone, e ancora di più Aristotele, trattano di arte in modo poco settoriale,

all’interno di riflessioni più estese. L’arte nella civiltà greca è parte dell’ambito del pensiero, non solo della pratica umana, questa è la vera novità rispetto ai popoli precedenti. Dire quindi che la precettistica intorno all’arte dall’epoca classica a Baumgarten si possa designare con il termine poetica è quantomeno incompleto. Platone utilizza la parola poetica in un contesto preciso, ad indicare quella parte dell’arte che si occupa di produrre ciò che manca alla natura, in contrapposizione alla ctetica, l’arte di prendere ciò che già esiste in natura. Facendo degli esempi, le attività di caccia e di pesca erano considerate ctetica mentre la pittura e l’architettura poetica. Nella Grecia classica non esisteva una vera e propria differenziazione delle belle arti dal


resto, letteratura, artigianato, retorica.. Platone, in particolare nei suoi ultimi scritti, separa però molto nettamente per superiorità la poesia dall’arte. Egli definisce l’arte come il frutto della pratica, mentre la poesia, frutto dell’ispirazione, della divina follia, è qualcosa di più alto, trascendente l’uomo. Poetica è quindi qualcosa di distaccato dalla poesia, in quanto riferito alle arti visive in generale. Sembra che Platone non avesse una grande considerazione per le arti visive... in effetti parla dell’arte del suo tempo come di attività non auspicabile, sostenendo un ritorno dell’arte del passato. Egli non concorda con la precedente visione sofista, più in accordo con la contemporaneità, secondo la quale il bello, quindi l’arte bella, è quella che suscita piacere agli occhi e alle orecchie. Il bello secondo Platone non è solo legato alla forma e a ciò che piace, il bello ha una godibilità intellettuale, deve piacere poichè crea ammirazione. In questo senso il concetto

di bello coincide con quello di buono, superando quindi anche la visione socratica che definiva il bello e buono in quanto appropriato. Per esempio era considerabile bello un vaso, in quanto utile al proprio scopo, ma anche un cucchiaio di legno. La bellezza diveniva così relativa allo scopo, ma non assoluta. Il superamento dei sofisti e di Socrate viene espresso da Platone con due principii, due canoni per definire l’arte bella. Essa doveva fondarsi sulla misura, non sulle reazioni emotive. Esemplificando: molto concretamente egli parla di una vera e propria proporzione, quella nascente dalla relazione di due quadrati aventi l’uno il lato lungo come la metà della diagonale dell’altro. L’idea della misura strettamente matematica in relazione al bello non è una sua invenzione, ma una ripresa di quello che era il concetto di bellezza per i pitagorici. L’altro principio su cui si doveva fondare la buona arte era la scelta dei riferimenti: in natura esistono cose buone, che suscitano ammirazione,


solo da esse si può trarre una vera e propria bellezza assoluta, oggettiva. A questo proposito nel contesto delle arti poetiche viene fatta un’altra differenziazione tra le arti imitative e quelle che creano cose. Si possono far corrispondere le arti imitative con quelle che successivamente verranno chiamate “belle arti”, quindi pittura e scultura, con l’artigianato quelle che creano cose. Platone è scettico rispetto l’imitazione, la mimesis. Le arti imitative non devono creare immagini illusorie, le illusioni destabilizzano, Platone ha una visione dell’arte in un certo senso educativa, atta a formare lo spirito. L’arte greca contemporanea a Platone, rispetto quella precedente, dava immagini false della realtà, più interpretate, più colorate. Egli la condanna fino a definirla come un’occupazione che allontana l’uomo dai suoi doveri più alti. L’unico modo in cui l’arte imitativa aveva diritto e ragione di essere, era quello di asserire alle proprie funzioni di utilità morale e regolarità.

L’arte non doveva essere autonoma rispetto a due cose: in rapporto alla realtà che deve rappresentare e in rapporto all’ordine morale che deve servire. 1

Aristotele sviluppò a partire dalla concezione di Platone l’idea della mimesis, definendo il valore dell’arte come derivazione del valore dell’oggetto imitato. Non fa differenza che l’oggetto imitato sia una cosa naturale o un’entità trascendente o intelligibilie: la passività dell’imitazione rimane. 2

Quello che differenzia l’artista da chiunque produca qualcosa è la conoscenza delle norme di produzione. In questo senso Aristotele parla di technè identificabile con il termine “arte” : l’arte è tale solo quando la produzione è consapevole e basata sulla conoscenza. Sostanzialmente l’arte ha delle norme che devono essere rispettate per renderla tale. Aristotele pone principalemente tre condizioni: conoscenza, efficienza, talento innato. La conoscenza e


l’efficienza sono principi che possono essere insegnati, a differenza del talento innato che in un certo senso è mediato dagli altri due. Su questo punto c’è una differenza sostanziale con il concetto platonico di ispirazione: per Aristotele l’ispirazione divina non è positiva nemmeno ai fini dell’opera. Infatti chi crea grazie al talento innato e alla conoscenza riesce a produrre un’arte necessaria al fine, chi è invasato e crea per ispirazione divina ha uno scarso controllo del proprio lavoro. Aristotele da questo punto di vista richiede all’artista di essere metodico: la sua creazione non deve essere frutto di semplice trasporto creativo derivante dalla divinità o dall’emozione. L’emozione va trasmessa al pubblico tramite l’arte. L’emozione se creata consapevolmente non è negativa, e non allontana gli uomini dai loro doveri, anzi, li libera. Poesia e musica in particolare devono suscitare emozione nello spettatore attraverso l’esperienza estetica allo scopo di fargli raggiungere la pace interiore. Se per

raggiungere il fine si dovrà modificare la realtà, al punto di farla quasi sembrare illusoria, per Aristotele non è fonte di preoccupazione. Anche le arti visive nella sua visione sono libere di modificare il reale, abbellendolo o abbruttendolo quando il fine lo renda necessario. Nella produzione letteraria aristotelica vi è un testo fondamentale, uno dei pochi filtrati attraverso la storia senza andare perduti: la “Poetica”. In questo testo, le belle arti, ovvero la pittura e la scultura, non vengono elencate tra le arti imitative, tuttavia dalla conoscenza di altri testi, si deduce il riferimento alle stesse anche nella Poetica seppure non espresso. Per Aristotele la poesia e le arti visive sono assimilabili quindi nella definizione di “poetica” che si trae dal suo pensiero, la parola poesia può coincidere con pittura e scultura. La poesia autentica si realizza allo stesso modo di ogni arte vera, attraverso il talento, l’abilità e l’esercizio, ed è soggetta a leggi non diversamente dalle altre arti. Pertanto essa può


costituire l’oggetto di uno studio scientifico che ha nome di “poetica”. 1

Platone e Aristotele teorizzano dunque intorno alla poetica allo scopo di suddividere e catalogare le attività umane. E’ interessante che lo scopo primario non sia dare una definizione di cosa è arte. Lo scopo è operativo. Platone indica come, secondo la sua opinione, dovrebbe essere l’arte perchè possa contribuire alla realizzazione della società adatta al tipo di stato che lui voleva. Aristotele vuole l’arte al servizio delle persone: esse potranno capire i propri errori, se ne libereranno astraendo le situazioni e vivendole emotivamente attraverso l’arte raggiungendo uno stato di pacificazione personale e quindi collettivo. Anche in questo caso la volontà di regolamentare l’attività artistica non ha come obiettivo quello di aiutare l’arte in sè, facilitarne la comprensione o teorizzarne gli scopi. L’arte è qualcosa di esistente e va pensato perchè è un ottimo mezzo per servire le idee, per aiutare la filosofia.

L’artista e i mezzi che egli usa non sono frutto di particolare dibattito, sono automaticamente inclusi. Non vi è nemmeno l’ipotesi che il mezzo, il fautore e l’opera finita non vadano armoniosamente di pari passo servendo lo stesso scopo. Per esempio la contraddizione tra materiale e prodotto non esiste. Pensano ancora a un’arte che certamente non è un lusso e non è manifestazione di potere. Che una statua sia di argilla o di marmo non è molto differente. Probabilmente i tempi non erano maturi per una serie di problematiche successive dovute anche alla più ampia possibilità di mezzi. I concetti, le regole che Platone e Aristotele pongono riguardano il contenuto e non il mezzo. Le regole formali che Platone riprende dai pitagorici e Aristotele lega alla possibilità percettiva umana ( “[...] i corpi degli esseri viventi devono, per essere belli, avere una grandezza che possa facilmente essere abbracciata dallo sguardo[...]” Aristotele,

Poetica, VII), hanno sempre una funzione rispetto al contenuto.


Con le successive vicissitudini storiche le teorizzazioni intorno alla poetica si persero per un po’... Il Medioevo lentamente vede la riscoperta dell’età classica, soprattutto di Aristotele, tuttavia è con l’avvento del Rinascimento che gli studi della filosofia classica hanno nuovo fulgore e ricominciano ad influenzare gli artisti. Soprattutto verso la fine del Quattrocento, quando la stampa aveva iniziato a permettere alle idee scritte una reale facilità di circolazione, la Poetica di Aristotele diviene un testo molto conosciuto grazie alla traduzione latina ad opera del Vasari. Lo sforzo della rappresentazione prospettica, fulcro del rivoluzionario approccio rinascimentale alla cultura, può tuttavia essere letto come un tentativo di rappresentazione perfetta, quindi più platonico che aristotelico. Nel Cinquecento il dibattito filosofico tra aristotelici e platonici è molto presente, il clima culturale è vario: da un lato c’è una fioritura delle arti, dall’altro c’è uno sforzo scientifico ancora però

molto ancorato all’alchimia, segnato da un interesse diffusissimo per quelle indagini di tipo astrologico, magico che solo nei secoli successivi verranno identificate come non scientifiche. 3

I grandi genii del Rinascimento italiano si ritrovarono a vivere in un momento di grandi cambiamenti e tensioni culturali in tutte le direzioni. Se la generazione di Masaccio e Piero della Francesca è quella che più di tutte sviluppa la prospettiva centrale, lavorando sulle geometrie perfette, le stesse che Platone auspicava al fine di ottenere un’arte regolare, quella seguente, di Leonardo, Michelangelo e Raffaello, impronta il suo lavoro sulla natura, un’indagine differente volta però sempre al raggiungimento della bellezza. Lo spostamento sull’arte è notevole. Lo scopo non è la società, lo scopo è la bellezza, la bellezza della rappresentazione naturalistica dell’uomo e dell’operato umano. Parlando di poetiche, nell’ambito delle arti visive rinascimentali, il quadro generale è un po’ vuoto, i grandi personaggi muovono


la produzione artistica e le influenze sono perlopiù di origine classica. Ci sono più che altro influenze storiche sull’operato di ciascuno, che sono giunte a noi piuttosto facilmente grazie alle Vite del Vasari (1550). Lo stesso non si può dire per l’ambito letterario, in cui invece il fermento sul tema del linguaggio è vivissimo. La diffusione di scritti apre la questione sulla grammatica volgare che Bembo riesce a risolvere proponendo, per una sorta di riforma linguistica, Petrarca come riferimento per la poesia e Boccaccio come riferimento per la prosa. E’ importante in questo caso riferirsi ai modelli letterari per sottolineare quanto tutto il Rinascimento si leghi alla forma in maniera sistematica. Ovviamente le teorizzazioni di Bembo vengono affiancate da altre proposte sia sul piano tematico che sul piano metricolinguistico. La diffusione dell’esercizio della poesia ha fatto sì che restassero ai posteri i metodi operativi e i contenuti delle opere di alcuni grandi maestri, che non avevano un gruppo di pari

che lavoravano analogalmente, bensì una serie di adepti minori, più o meno conosciuti, più o meno in relazione diretta con loro. Gruppi di persone non sempre svelati legati alla poetica del singolo genio. La propensione al virtuosismo formale è ciò che fa diventare il Rinascimento Manierismo ed il Manierismo Barocco. Non sono da trascurare tutte le trasformazioni storiche del caso: la politica, la società, nonchè le innovazioni scientifiche che via via nel corso del Seicento vanno a consolidarsi. L’industria culturale del Seicento – gli infiniti quadri e sonetti, le innumerevoli opere teatrali, ma anche i mille e mille capi di vestirio, libelli e pasquinate, i tanti modi e occasioni di passeggiare, distrarsi, ecc. – impianta i propri modi di manipolazione proprio nei centri in cui si imponeva il gusto. Non vi furono forse centri dove era stabilito che si doveva formare il gusto dei più, centri che erano sempre vicinissimi a quelli del potere? Vero è che questo non


vuol dire che non vi fossero casi, anche molto frequenti, di rigetto di quanto veniva proposto. Ed è proprio questo il sottofondo conflittuale e di opposizione nel Seicento che va tenuto presente – è bene insistere, se si vuole capire qualcosa. Di qui deriva anche, ma in tutt’altra direzione, che in non poche occasioni, al di là del conflitto e del dissenso, si attinse senza dubbio al pieno diretto gusto estetico, in virtù delle tante opere dei nostri scrittori e artisti barocchi che uomini di alta cultura poterono sfruttare. ( J.A. Marvall, La cultura del Barocco, il Mulino, Bologna 1985, p.154) 3

L’aggiunta, l’abbellimento, l’illusione, la scenografia, sono tutti connotati delle arti visive riferite al periodo Barocco. Nel Seicento in realtà vi è la compresenza di due filoni, l’altra parte del mondo visivo ha un impronta più naturalisticoclassicheggiante. Le caratterizzazioni dell’arte visiva erano fondamentalmente al servizio della Controriforma, la Chiesa doveva rivendicare la propria posizione di potere e l’arte doveva trasmettere questo concetto: il bello doveva essere manifestato nello stupore emotivo che

doveva rimandare immediatamente al divino, come in una sorta di plagio aristotelico. Tuttavia la vera e propria fioritura delle poetiche avviene in campo letterario. Seguendo poeti di riferimento si creano una miriade di differenti modi di poetare. In questo caso per poetica si intende proprio la precettistica riguardante i vari tipi di composizione poetica in versi e le regole in essi obbligatorie, sia la descrizione particolareggiata della tecnica e delle sillabe, degli accenti e dei piedi, della versificazione e delle figure poetiche. 4

Si inizia quasi ad accennare ai cosiddetti “ismi” (di cui si parla in genere riferendosi alle avanguardie), in una varietà di teorizzazioni e volontà di definizione. Marinismo, Concettismo, Gongorismo, Preziosismo, Eufismo... non è necessario soffermarsi in questa sede sulle singole poetiche. E’ importante sottolineare la frastagliatura che assume la storia del termine poetica in corrispondenza con il Barocco. Non esistono più poetiche


assolute, o definibili in relazione al proprio tempo, ma miriadi di differenti poetiche contemporaneamente. La poetica sembra perdere il proprio apparato normativo, o meglio esso viene frantumato in una serie indefinita di principii, che pretendono di porsi quali elementi dominanti del linguaggio espressivo delle arti e, in primo luogo, della poesia. 4

La ricerca di fondo di un modo di operare che abbia degli assoluti, di istanze di verità, riporta però verso la meditazione filosofica, sospendendo il discorso sulla poetica e aprendo la strada all’estetica, definita come scienza generale della sensibilità, capace di analizzare non solo la genesi storica delle arti o le loro interne articolazioni strutturali e formali, ma anche il rapporto tra opera d’arte e fruizione. 4

In questo modo la poetica viene relegata alla dimensione pragmatica dell’attività artistica. A partire da

Aestetica di Baumgarten, la poetica cede la sua centralità all’estetica. In un certo senso le teorizzazioni poetiche stesse, con il Barocco, erano diventate talmente libere nella forma e talmente specifiche, da richiedere una sorta di “ritorno all’ordine” teorico.


W.Tatarkiewicz, Storia dell’estetica – l’estetica antica, Einaudi, Torino 1979, p.161, p.177

1

N.Abbagnano, Dizionario di filosofia, unione tipografico-editrice Torinese, Torino 1971, p.351

2

C.Segre C.Martignoni, Leggere il mondo – il Rinascimento e la sua crisi – dall’età del Barocco al secolo della ragione, Mondadori, Trento 2000, p.17 vol.3, p.19 vol.4

3

E.Franzini M.Mazzocut-Mis, Estetica: i nomi, i concetti, le correnti, Mondadori, Trento 2008, p.322, p.325, p.326

4


Masaccio - TrinitĂ Parmigianino - Madonna dal collo lungo GianLorenzo Bernini - Apollo e Dafne Raffaello Sanzio - La scuola di Atene




capitolo 2


Prima metà del Novecento: Benedetto Croce e i futuristi

Benedetto Croce nasce nel 1866. Durante l’età della formazione ha una vita travagliata, segnata soprattuto dalla morte dei familiari durante un terremoto a Ischia, dove si trovavano in villeggiatura, in cui resta intrappolato a sua volta tra le macerie per molte ore. Dopo la morte dei genitori viene affidato al cugino del padre, Silvio Spaventa, senatore patriotta, fratello di Bertrando Spaventa, filosofo e già docente universitario, e con il fratello si trasferisce a Roma. Studia per un po’ presso la Sapienza, dopodichè lascia Roma e si trasferisce a Napoli da cui si sposta continuamente per viaggiare e studiare. Si dedica alla letteratura e alla filosofia, scrive saggi e pubblica attivamente dai trent’anni in poi. Ha un ruolo di grande rilevanza nella politica italiana del primo dopoguerra: è ministro dell’istruzione

nel 1920, successivamente, con l’imporsi del fascismo, prende le distanze dalla dittatura con diverse pubblicazioni disapprovate dal governo, la più eclatante, nel 1925, è il manifesto degli intellettuali antifascisti. Dopo la guerra, continuando instancabilmente a pubblicare, è ancora ministro, partecipa all’Assemblea Costituente, nel 1948 diviene senatore della Repubblica. Muore nel 1952, all’età di ottantasei anni. E’ un personaggio che in ambito culturale si è occupato di una grande varietà di questioni. Quello che si nota, guardando le sue biografie, è la continua ricerca, il continuo studio, la continua volontà di confrontarsi che lo ha portato anche a cambiare fortemente alcune opinioni. Croce ha scritto molto di conoscenza, e proprio parlando di conoscenza egli parla dell’intuizione, quindi dell’arte,


quindi della poetica. Alla domanda “che cosa è l’arte?” si potrebbe rispondere celiando (ma non sarebbe una celia sciocca) : che l’arte è ciò che tutti sanno che cosa sia. E, veramente, se in qualche modo non si sapesse che cosa è, non si potrebbe neppure muovere quella domanda, perchè ogni domanda importa una certa notizia della cosa di cui si domanda, designata nella domanda, e perciò qualificata e conosciuta. (Benedetto Croce, Breviario di Estetica, Laterza, 1913) 1

Secondo Croce, in tutti gli uomini pensa ed agisce lo stesso spirito, ragion per cui alcune nozioni sono conosciute, intuite anche se non espresse. L’interpretazione di Croce di quello che tutti intendono quando parlano di arte (anche domandandone il significato profondo) si può spiegare per passaggi successivi, fondamentalmente contenuti nel Breviario di estetica. L’arte è innanzitutto conoscenza intuitiva. L’intuizione è molto differente dalla percezione: in ambito intuitivo gli stimoli e le immagini

che risultano a livello conoscitivo non devono necessariamente essere legati all’ambito del reale, non è importante. La percezione invece attinge dalla realtà. Nell’intuizione vengono oggettivate le nostre impressioni personali, reali o irreali che siano, motivo per cui l’arte è sempre caratterizzata individualmente. Perchè l’intuizione sia intuizione estetica deve obbligatoriamente identificarsi con l’espressione. Un’intuizione estetica inespressa non solo non si vede, ma non esiste, è un’illusione. Sono due cose talmente legate da potersi quasi considerare un’unità. Perchè l’intuizione estetica sia veramente tale, l’espressione non deve essere consequenziale ma istantaneamente legata. L’attività intuitiva tanto intuisce quanto esprime. Se questa proposizione suona paradossale, una delle cause di ciò è senza dubbio nell’abito di dare alla parola espressione un significato troppo ristretto, assegnandola alle sole espressioni che si dicono verbali; laddove esistono anche espressioni non verbali, come quelle di linee,


colori, toni: tutte quante da includere nel concetto di espressione che abbraccia perciò ogni sorta di manifestazioni dell’uomo, oratore, musico, pittore o altro che sia. E, se pittorica o verbale o musicale o come altro si descriva o denomini, l’espressione, in una di queste manifestazioni, non può mancare all’intuizione, dalla quale è propriamente inscindibile. Come possiamo intuire davvero una figura geometrica, se non ne abbiamo così netta l’immagine da essere in grado di tracciarla immediatamente sulla carta o sulla lavagna? Come possiamo intuire davvero il contorno di una regione, per esempio, dell’isola della Sicilia, se non siamo in grado di disegnarlo così come esso è in tutti i suoi meandri? A ognuno è dato sperimentare la luce che gli si fa interamente quando riesce: e solo in quel punto che riesce, a formulare a sè stesso le sue impressioni e i suoi sentimenti. Sentimenti e impressioni passano allora, per virtù della parola, dall’oscura regione della psiche alla chiarezza dello spirito contemplatore. E’ impossibile, in questo processo conoscitivo, distinguere l’intuizione dell’espressione. L’una viene fuori con l’altra nell’attimo stesso dell’altra perchè non sono due ma uno. Ma la cagione

principale che fa sembrare paradossale la tesi da noi affermata, è l’illusione o il pregiudizio che si intuisca della realtà più di quanto effettivamente se ne intuisce. Si ode spesso taluni asserire di avere in mente molti e importanti pensieri, ma di non riuscire ad esprimerli. In verità, se li avessero davvero, li avrebbero coniati in tante belle parole sonanti, e perciò espressi. Se, nell’atto di esprimerli, quei pensieri sembrano dileguarsi o si riducono scarsi e poveri, gli è che o non esistevano o erano soltanto scarsi e poveri. Parimente si crede che noi tutti, uomini ordinari, intuiamo ed immaginiamo paesi, figure, scene, come pittori, e corpi, come gli scultori; salvo che pittori e scultori sanno dipingere e scolpire quelle immagini, e noi le portiamo dentro il nostro animo inespresse. Una Madonna di Raffaello, si crede, avrebbe potuta immaginarla chiunque; ma Raffello è stato Raffaello per l’abilità meccanica di averla fissata su tela. Niente di più falso. (Benedetto Croce, Breviario di Estetica, Laterza, 1913) 1

A questo punto è chiaro il fatto che il genio artistico, per Croce, non è differente dagli altri uomini per il fatto


di possedere l’intuizione estetica e di esprimerla, ma solo per un principio quantitativo. Tutti gli uomini sono poeti, alcuni sono grandi poeti. Se così non fosse la distanza tra chi fruisce dell’arte e chi abitualmente la produce sarebbe tale da creare un’incomprensione. Mentre l’arte riuscita, generata dal sentimento, attraverso il linguaggio simbolico, dice all’uomo di sè stesso molto di più di quanto egli possa fare senza l’esperienza estetica. Lo stesso spirito opera nell’artista e nell’uomo comune. Su questo punto vi è una enorme critica ad uno dei capisaldi del romanticismo: il concetto di genio. Per Croce la mitizzazione del genio romantico è da biasimare, tanto quanto la volontà di espressione del sublime realizzata attraverso l’emotività. Il sentimento che si identifica con l’intuizione estetica lirica è ben diverso dall’emozione. Il sentimento è sublimato, purificato. Anche ciò che realizzano le avanguardie storiche per Croce non è arte, ma una

degenerazione dell’emotività romantica, la parte gesticolante e scalciante della vita industriale. L’arte deve essere fine a sè stessa, non deve mischiarsi con la storia, con la politica, con la scienza, con l’economia. L’arte deve essere per l’arte, non deve esprimere dottrine o concetti. Addirittura per quanto concerne la comunicazione dell’arte, la sua forma, Croce dà il primato assoluto all’intuizione. La mera realizzazione, legata a problemi di ordine tecnico, di fisicità, può anche essere demandata ad altri, non deve prendere il sopravvento, la forma o il contenuto non prevalgono uno sull’altro ma coesistono. La scelta di estrinsecare o meno l’intuizione estetica non preclude l’esistenza dell’espressione: essa non riguarda la comunicazione. L’estetica crociana vuole un’arte non sublime ma sublimata, che essendo legata all’intuizione, quindi alla conoscenza, va al di là del tempo presente, assumendo un carattere universale. È proprio sulla


base di questa concezione che si può comprendere la condanna delle poetiche di Croce. Definire delle categorie sulla base di modalità operative, tenendo conto del concetto di arte crociano è proprio sbagliato, è un’intrusione del mondo della logica nell’estetica. Le classificazioni non hanno a che fare con l’arte, non sono rilevanti in termini di estetica, sono derive intellettualistiche perchè l’arte è una sola. Con Croce non solo la poetica viene messa in secondo piano rispetto all’estetica, ma ne viene estromessa. Dieci anni dopo Benedetto Croce, nasce ad Alessandria d’Egitto Filippo Tommaso Marinetti, il fondatore del futurismo, avanguardia storica destinata a segnare profondamente tutta l’arte che la seguirà. Croce parla di universalità, salvo poi non voler mischiare l’arte con nient’altro, lasciandola in una sorta di sfera eterea di non utilità. Quello che realizza per primo il futurismo, rompendo davvero

con tutto quello che c’era stato prima, è di unire la vita quotidiana all’arte, far entrare con decisione l’arte nella storia di tutti i giorni per servire uno scopo. Confondere le carte in tavola, tenendo conto del fatto che l’innovazione influisce irrimediabilmente sull’uomo e quindi sulla sua intuizione, sul suo pensiero. La comunicazione è ciò che fa esplodere il futurismo, è importante che l’arte venga comunicata per servire bene al suo obiettivo. Tutto questo i futuristi lo urlano, ma soprattuto lo scrivono, nel 1909, quattro anni prima della pubblicazione del Breviario di Estetica di Croce, in un’edizione di “Le Figarò”, nel primo manifesto del futurismo: 1. Noi vogliamo cantare l’amor del pericolo, l’abitudine all’energia e alla temerità. Il coraggio, l’audacia, la ribellione, saranno elementi essenziali della nostra poesia. 2. La letteratura esaltò fino ad oggi l’immobilità pensosa, l’estasi ed il sonno. Noi vogliamo esaltare il movimento aggressivo,


l’insonnia febbrile, il passo di corsa, il salto mortale, lo schiaffo ed il pugno. 3. Noi affermiamo che la magnificenza del mondo si è arricchita di una bellezza nuova; la bellezza della velocità. Un’automobile da corsa col suo cofano adorno di grossi tubi simili a serpenti dall’alito esplosivo...un’automobile ruggente, che sembra correre sulla mitraglia, è più bella della Vittoria di Samotracia. 4. Noi vogliamo inneggiare all’uomo che tiene il volante, la cui asta ideale attraversa la Terra, lanciata a corsa, essa pure, sul circuito della sua orbita. 5. Bisogna che il poeta si prodighi con ardore, sfarzo e munificenza, per aumentare l’entusiastico fervore degli elementi primordiali. 6. Non v’è più bellezza se non nella lotta. Nessuna opera che non abbia un carattere aggressivo può essere un capolavoro. La poesia deve essere concepita come un violento assalto contro le forze ignote, per ridurle a prostrarsi davanti all’uomo. 7. Noi siamo sul promontorio estremo dei secoli!... Perché dovremmo guardarci alle spalle, se vogliamo sfondare le misteriose porte dell’impossibile? Il Tempo e lo Spazio morirono ieri. Noi viviamo già nell’assoluto, poiché abbiamo già creata l’eterna velocità onnipresente. 8. Noi vogliamo glorificare la

guerra - sola igiene del mondo - il militarismo, il patriottismo, il gesto distruttore dei liberatori, le belle idee per cui si muore e il disprezzo della donna. 9. Noi vogliamo distruggere i musei, le biblioteche, le accademie d’ogni specie, e combattere contro il moralismo, il femminismo e contro ogni viltà opportunistica e utilitaria. 10. Noi canteremo le grandi folle agitate dal lavoro, dal piacere o dalla sommossa: canteremo le marce multicolori e polifoniche delle rivoluzioni nelle capitali moderne; canteremo il vibrante fervore notturno degli arsenali e dei cantieri, incendiati da violente lune elettriche; le stazioni ingorde, divoratrici di serpi che fumano; le officine appese alle nuvole per i contorti fili dei loro fumi; i ponti simili a ginnasti giganti che fiutano l’orizzonte, e le locomotive dall’ampio petto, che scalpitano sulle rotaie, come enormi cavalli d’acciaio imbrigliati di tubi, e il volo scivolante degli aeroplani, la cui elica garrisce al vento come una bandiera e sembra applaudire come una folla entusiasta. È dall’Italia che noi lanciamo per il mondo questo nostro manifesto di violenza travolgente e incendiaria col quale fondiamo oggi il FUTURISMO perché vogliamo liberare questo paese dalla sua fetida cancrena


di professori, d’archeologi, di ciceroni e d’antiquari. Già per troppo tempo l’Italia è stata un mercato di rigattieri. Noi vogliamo liberarla dagli innumerevoli musei che la coprono tutta di cimiteri. (“Le figarò”, 20 febbraio 1909)

Il manifesto è un componimento programmatico che definisce chiaramente l’operare artistico di chi vi aderisce. La novità del futurismo sta nell’aver inventato questa forma di manifesto artistico, gli artisti stessi dichiarano le regole del loro gioco, le esprimono e le diffondono. L’estetica, intesa come studio riguardo a quello che gli artisti creano, viene in un certo senso privata di funzione. Nel contesto dell’arte futurista non c’è bisogno di scrivere cos’è l’arte e che funzioni abbia, il futurismo stesso lo esprime. In questo senso il manifesto dà nuovamente centralità alla poetica. Se con Baumgarten essa era divenuta una branchia dell’estetica e con Croce qualcosa di totalmente avulso dal contesto artistico, con il primo manifesto del futurismo essa diviene

parte integrante del fare arte, diventa essa stessa opera. Si può davvero fare una differenziazione di genere tra i manifesti del futurismo e gli altri scritti di Marinetti? Tra le performance futuriste e le opere teatrali? Tra le volumetrie degli abiti futuristi e le sculture? Croce condanna la distinzione delle forme d’arte e dei generi artistici perchè dal suo punto di vista rappresentano solo le configurazioni che storicamente l’arte si è data e l’arte è al di sopra e al di fuori della storia. Negli stessi anni il futurismo è una vera e propria unità creativa, uno stile di vita in cui rientra un’unica arte, realizzando in un certo senso la crociana indistinzione delle differenti modalità formali. Durante le serate futuriste non c’è distinzione tra il momento della pittura, quello della musica, quello della poesia... c’è una simultaneità di molteplici forme espressive. Ogni forma espressiva è arte futurista nel momento in cui serve la poetica futurista. I futuristi faranno il manifesto della letteratura


futurista, quello della pittura futurista, quello della scultura futurista, quello della cinematografia futurista, quello della moda futurista...etc. ma la poetica è centrale, lo scopo è unico. Tutti i manifesti “tecnici” del futurismo sono stati infatti successivi, per assolvere ad esigenze pratiche e divulgative, per spiegare come fare arte futurista a chi futurista ancora non è. Subito dopo il primo manifesto se ne scrivono altri con lo scopo di specificare l’adesione al futurismo di quei personaggi che la società dell’epoca definisce sotto le categorie di “pittori”, “scultori”, “poeti”... E’ un segno di rottura enorme, è la volontà di spiegare che quello che è stato pubblicato su Le Figarò li riguarda in prima persona, nonostante li si consideri artisti in funzione del fatto che utilizzino una determinata forma espressiva, essi sono innanzitutto futuristi. E’ il contrario dell’ “arte per l’arte”, il primato del contenuto sulla forma.

Agli artisti giovani d’Italia! Il grido di ribellione che noi lanciamo, associando i nostri ideali a quelli dei poeti futuristi, non parte già da una chiesuola estetica, ma esprime il violento desiderio che ribolle oggi nelle vene di ogni artista creatore. Noi vogliamo combattere accanitamente la religione fanatica, incosciente e snobistica del passato, alimentata dall’esistenza nefasta dei musei. Ci ribelliamo alla supina ammirazione delle vecchie tele, delle vecchie statue, degli oggetti vecchi e all’entusiasmo per tutto ciò che è tarlato, sudicio, corroso dal tempo, e giudichiamo ingiusto, delittuoso, l’abituale disdegno per tutto ciò che è giovane, nuovo e palpitante di vita. Compagni! Noi vi dichiariamo che il trionfante progresso delle scienze ha determinato nell’umanità mutamenti tanto profondi, da scavare un abisso fra i docili schiavi del passato e noi liberi, noi sicuri della radiosa magnificenza del futuro. Noi siamo nauseati dalla pigrizia vile che dal Cinquecento in poi fa vivere i nostri artisti d’un incessante sfruttamento delle glorie antiche. Per gli altri popoli, l’Italia è ancora una terra di morti, un’immensa Pompei biancheggiante di sepolcri. L’Italia invece rinasce, e al suo risorgimento politico segue


il risorgimento intellettuale. Nel paese degli analfabeti vanno moltiplicandosi le scuole: nel paese del dolce far niente ruggono ormai officine innumerevoli: nel paese dell’estetica tradizionale spiccano oggi il volo ispirazioni sfolgoranti di novità. E’ vitale soltanto quell’arte che trova i propri elementi nell’ambiente che la circonda. Come i nostri antenati trassero materia d’arte dall’atmosfera religiosa che incombeva sulle anime loro, così noi dobbiamo ispirarci ai tangibili miracoli della vita contemporanea, alla ferrea rete di velocità che avvolge la Terra, ai transatlantici, alle Dreadnought, ai voli meravigliosi che solcano i cieli, alle audacie tenebrose dei navigatori subacquei, alla lotta spasmodica per la conquista dell’ignoto. E possiamo noi rimanere insensibili alla frenetica attività delle grandi capitali, alla psicologia nuovissima del nottambulismo, alle figure febbrili del viveur, della cocotte, dell’apache e dell’alcolizzato? Volendo noi pure contribuire al necessario rinnovamento di tutte le espressioni d’arte, dichiariamo guerra, risolutamente, a tutti quegli artisti e a tutte quelle istituzioni che pur camuffandosi d’una veste di falsa modernità, rimangono invischiati nella tradizione,

nell’accademismo e soprattutto in una ripugnante pigrizia cerebrale. Noi denunciamo al disprezzo dei giovani tutta quella canaglia incosciente che a Roma applaude a una stomachevole rifioritura di classicismo rammollito; che a Firenze esalta dei nevrotici cultori d’un arcaismo ermafrodito; che a Milano rimunera una pedestre e cieca manualità quarantottesca; che a Torino incensa una pittura da funzionari governativi in pensione; e a Venezia glorifica un farraginoso patinume da alchimisti fossilizzati! Insorgiamo, insomma, contro la superficialità, la banalità e la facilità bottegaia e cialtrona che rendono profondamente spregevole la maggior parte degli artisti rispettati di ogni regione d’Italia. Via, dunque, restauratori prezzolati di vecchie croste! Via, archeologhi affetti da necrofilia cronica! Via, critici, compiacenti lenoni! Via, accademie gottose, professori ubriaconi e ignoranti! Via! Domandate a questi sacerdoti del vero culto, a questi depositari delle leggi stetiche, dove siano oggi le opere di Giovanni Segantini: domandate loro perché le Commissioni ufficiali non si accorgano dell’esistenza di Gaetano Previati; domandate loro dove sia apprezzata la scultura di Medardo Rosso!...E chi si cura di pensare agli


artisti che non hanno ancora vent’anni di lotte e di sofferenze, ma che pur vanno preparando opere destinate ad onorare la patria? Hanno ben altri interessi da difendere, i critici pagati! Le esposizioni, i concorsi, la critica superficiale e non mai disinteressata condannano l’arte italiana all’ignominia di una vera prostituzione! E che diremo degli specialisti? Suvvia! Finiamola, coi Ritrattisti, cogl’Internisti, coi Laghettisti, coi Montagnisti!...Li abbiamo sopportati abbastanza, tutti codesti impotenti pittori da villeggiatura. Finiamola con gli sfregiatori di marmi che ingombrano le piazze e profanano i cimiteri! Finiamola con l’architettura affaristica degli appaltatori di cementi armati! Finiamola coi decoratori da strapazzo, coi falsificatori di ceramiche, coi cartellonisti venduti e cogli illustratori sciatti e balordi. Ed ecco le nostre conclusioni recise: Con questa entusiastica adesione al futurismo, noi vogliamo: 1. Distruggere il culto del passato, l’ossessione dell’antico, il pedantismo e il formalismo accademico. 2. Disprezzare profondamente ogni forma di imitazione. 3. Esaltare ogni forma di originalità, anche se temeraria, anche se violentissima. 4. Trarre coraggio ed orgoglio

dalla facile taccia di pazzia con cui si sferzano e s’imbavagliano gl’innovatori. 5. Considerare i critici d’arte come inutili o dannosi. 6. Ribellarci contro la tirannia delle parole: armonia e buon gusto, espressioni troppo elastiche, con le quali si potrebbe facilmente demolire l’opera di Rembrandt, quella di Goya e quella di Rodin. 7. Spazzar via dal campo ideale dell’arte tutti i motivi, tutti i soggetti già sfruttati. 8. Rendere e magnificare la vita odierna, incessantemente e tumultuosamente trasformata dalla scienza vittoriosa. Siano sepolti i morti nelle più profonde viscere della terra! Sia sgombra di mummie la soglia del futuro! Largo ai giovani, ai violenti, ai temerari!” (Boccioni, Carrà, Russolo, Balla, Severini, Manifesto dei pittori Futuristi, 8 marzo 1910 ) 2

Il mese seguente gli stessi “pittori” scrivono il loro manifesto tecnico. Nel primo manifesto da noi lanciato l’8 marzo 1910 dalla ribalta del Politeama Chiarella di Torino, esprimemmo le nostre profonde nausee, i nostri fieri disprezzi, le nostre allegre ribellioni contro la volgarità, contro il mediocrismo,


contro il culto fanatico e snobistico dell’antico, che soffocano l’Arte nel nostro Paese. Noi ci occupavamo allora delle relazioni che esistono fra noi e la società. Oggi invece, con questo secondo manifesto, ci stacchiamo risolutamente da ogni considerazione relativa e assurgiamo alle più alte espressioni dell’assoluto pittorico. La nostra brama di verità non può più essere appagata dalla Forma né dal Colore tradizionali! Il gesto per noi, non sarà più un momento fermato del dinamismo universale: sarà, decisamente, la sensazione dinamica eternata come tale. Tutto si muove, tutto corre, tutto volge rapido. Una figura non è mai stabile davanti a noi ma appare e scompare incessantemente. Per la persistenza della immagine nella retina, le cose in movimento si moltiplicano, si deformano, susseguendosi, come vibrazioni, nello spazio che percorrono. Così un cavallo in corsa non ha quattro gambe: ne ha venti e i loro movimenti sono triangolari. Tutto in arte è convenzione, e le verità di ieri sono oggi, per noi, pure menzogne. Affermiamo ancora una volta che il ritratto, per essere un’opera d’arte, non può né deve assomigliare al suo modello, e che il pittore ha in sé i paesaggi che vuol produrre. Per dipingere una figura non bisogna

farla: bisogna farne l’atmosfera. Lo spazio non esiste più: una strada bagnata dalla pioggia e illuminata da globi elettrici s’inabissa fino al centro della terra. Il Sole dista da noi migliaia di chilometri; ma la casa che ci sta davanti non ci appare forse incastonata dal disco solare? Chi può credere ancora all’opacità dei corpi, mentre la nostra acuita e moltiplicata sensibilità ci fa intuire le oscure manifestazioni dei fenomeni medianici? Perché si deve continuare a creare senza tener conto della nostra potenza visiva che può dare risultati analoghi a quelli dei raggi X? Innumerevoli sono gli esempi che dànno una sanzione positiva alle nostre affermazioni. Le sedici persone che avete intorno a voi in un tram che corre sono una, dieci, quattro, tre; stanno ferme e si muovono; vanno e vengono, rimbalzano sulla strada, divorate da una zona di sole, indi tornano a sedersi, simboli persistenti della vibrazione universale. E, talvolta sulla guancia della persona con cui parliamo nella via noi vediamo il cavallo che passa lontano. I nostri corpi entrano nei divani su cui ci sediamo, e i divani entrano in noi, così come il tram che passa entra nelle case, le quali alla loro volta si scaraventano sul tram e con esso si amalgamano.


La costruzione dei quadri è stupidamente tradizionale. I pittori ci hanno sempre mostrato cose e persone poste davanti a noi. Noi porremo lo spettatore nel centro del quadro. Come in tutti i campi del pensiero umano alle immobili oscurità del dogma è subentrata la illuminata ricerca individuale, così bisogna che nell’arte nostra sia sostituita alla tradizione accademica una vivificante corrente di libertà individuale. Noi vogliamo rientrare nella vita. La scienza d’oggi, negando il suo passato, risponde ai bisogni materiali del nostro tempo; ugualmente, l’arte, negando il suo passato, deve rispondere ai bisogni intellettuali del nostro tempo. La nostra nuova coscienza non ci fa più considerare l’uomo centro della vita universale. Il dolore di un uomo è interessante, per noi, quanto quello di una lampada elettrica, che soffre, e spasima, e grida con le più strazianti espressioni di colore; e la musicalità della linea e delle pieghe di un vestito moderno ha per noi una potenza emotiva e simbolica uguale a quella che il nudo ebbe per gli antichi. Per concepire e comprendere le bellezze nuove di un quadro moderno bisogna che l’anima ridiventi pura; che l’occhio si liberi dal velo di cui l’hanno coperto l’atavismo e la

cultura e consideri come solo controllo la Natura, non già il Museo! Allora, tutti si accorgeranno che sotto la nostra epidermide non serpeggia il bruno, ma che vi splende il giallo, che il rosso vi fiammeggia, e che il verde, l’azzurro e il violetto vi danzano, voluttuosi e carezzevoli! Come si può ancora veder roseo un volto umano, mentre la nostra vita si è innegabilmente sdoppiata nel nottambulismo? Il volto umano è giallo, è rosso, è verde, è azzurro, è violetto. Il pallore di una donna che guarda la vetrina di un gioielliere è più iridescente di tutti i prismi dei gioielli che l’affascinano. Le nostre sensazioni pittoriche non possono essere mormorate. Noi le facciamo cantare e urlare nelle nostre tele che squillano fanfare assordanti e trionfali. I vostri occhi abituati alla penombra si apriranno alle più radiose visioni di luce. Le ombre che dipingeremo saranno più luminose delle luci dei nostri predecessori, e i nostri quadri, a confronto di quelli immagazzinati nei musei, saranno il giorno più fulgido contrapposto alla notte più cupa. Questo naturalmente ci porta a concludere che non può sussistere pittura senza divisionismo. Il divisionismo, tuttavia, non è nel nostro concetto un mezzo tecnico che si possa metodicamente


imparare ed applicare. Il divisionismo, nel pittore moderno, deve essere un complementarismo congenito, da noi giudicato essenziale e fatale. E in fine respingiamo fin d’ora la facile accusa di barocchismo con la quale ci si vorrà colpire. Le idee che abbiamo esposte qui derivano unicamente dalla nostra sensibilità acuìta. Mentre barocchismo significa artificio, virtuosismo maniaco e smidollato, l’Arte, che noi preconizziamo è tutta di spontaneità e di potenza. NOI PROCLAMIAMO: 1. Che il complementarismo congenito è una necessità assoluta nella pittura, come il verso libero nella poesia e come la polifonia nella musica; 2. Che il dinamismo universale deve essere reso come sensazione dinamica; 3. Che nell’interpretazione della natura occorrono sincerità e verginità; 4. Che il moto e la luce distruggono la materialità dei corpi. NOI COMBATTIAMO: 1. Contro il patinume e la velatura da falsi antichi; 2. Contro l’arcaismo superficiale ed elementare a base di tinte piatte che riduce la pittura ad una impotente sintesi infantile e grottesca; 3. Contro il falso avvenirismo dei secessionisti e degli indipendenti, nuovi accademici d’ogni paese; 4. Contro il nudo

in pittura, altrettanto stucchevole ed opprimente quanto l’adulterio nella letteratura. Voi ci credete pazzi. Noi siamo invece i Primitivi di una nuova sensibilità completamente trasformata. Fuori dall’atmosfera in cui viviamo noi, non sono che tenebre. Noi futuristi ascendiamo verso le vette più eccelse e più radiose, e ci proclamiamo Signori della Luce, poiché già beviamo alle vive fonti del Sole.” (Boccioni, Carrà, Russolo, Balla, Severini, Manifesto tecnico della pittura Futurista, 11 aprile 1910 ) 2

Tutto diviene ibrido. I pittori scrivono, criticano, danno giudizi estetici, addirittura anticipano le obiezioni di chi immaginano potrebbe definirli barocchi. Croce, in quanto avanguardisti, li definirà degenerazioni dell’emotività romantica. In effetti se l’emotività è ciò che per Croce ha generato la crisi dello spirito nell’epoca moderna conducendo l’uomo alla guerra, i futuristi sono piuttosto lucidi nel loro essere emotivi visto che la guerra è il fine che la loro arte si prefigge. Negli anni successivi le avanguardie sorgeranno in tutta Europa,


continuando ad autodefinirsi con i manifesti. Benedetto Croce non cambierà idea sulle avanguardie, ma la storia non gli dà ragione. Con i ritorni all’ordine sponsorizzati dai critici di regime e l’avvento della seconda guerra mondiale, i movimenti di avanguardia sopravvivono, spostandosi negli Stati Uniti. Anche il dibattito estetico procede negli USA, è lì che si rifugiano gli intellettuali europei, soprattutto tedeschi, per continuare a scrivere. Tentando di fuggire verso gli Stati Uniti nel 1940 Walter Benjamin, filosofo berlinese, autore de’ L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica (1936), testo fondamentale per gli studi italiani sulla poetica degli anni seguenti, si vede costretto al suicidio pur di sfuggire alla cattura. La guerra sconvolge notevolmente anche i futuristi, che via via si dedicano ad operazioni artistiche meno radicali. In Italia bisognerà aspettare alcune decine di anni prima di assistere di nuovo alla formazione di un movimento che superi i confini nazionali e alla riapertura del

dibattito sulle poetiche.


G.Reale D.Antiseri, Il pensiero occidentale dalle origini ad oggi, La scuola, Brescia 1994, p.403, p.405 1

Manifesti, proclami, interventi e documenti teorici del Futurismo -1909/1944 vol.1, a cura di Luciano Caruso, Coedizioni SpesSalimbeni, Firenze, 1980 2



Marinetti, Boccioni, CarrĂ , Russolo, Piatti - Sintesi futurista della guerra Umberto Boccioni - Visione simultanea Umberto Boccioni - ElasticitĂ Giacomo Balla - Dinamismo di un cane al guinzaglio




capitolo 3


La seconda metà del Novecento

Dieci anni dopo Filippo Tommaso Marinetti, e vent’anni dopo Benedetto Croce, nel 1886 nei pressi di Milano nasce Antonio Banfi. Studente di filosofia con una forte passione per le scuole di pensiero tedesche, a soli ventitrè anni vince una borsa di studio e parte per Berlino dove rimane un anno. La formazione nell’ambito della cultura filosofica tedesca dà allo sviluppo del suo pensiero un’impronta fenomenologica piuttosto innovativa per l’Italia. Studiando e conoscendo poi anche di persona Husserl, si fa portavoce della sua definizione di fenomenologia. Testualmente la fenomenologia è l’insieme dei fenomeni che caratterizzano un processo (fisico, psichico, storico ecc.); la loro osservazione e descrizione 1

mentre in ambito filosofico uno dei possibili significati la descrive come la dottrina e il metodo elaborati da E. Husserl (1859-1930), che si propongono di cogliere e descrivere i fenomeni non come apparenze, ma come manifestazioni originarie della realtà nella coscienza. 1

È proprio partendo dalla visione fenomenologica della storia che Banfi si occupa di estetica. Il suo primo scritto di estetica, La vita dell’arte, è del 1947, nell’immediato dopoguerra. Banfi scrive già a partire dal 1926 ma sospende la sua produzione letteraria durante la seconda guerra mondiale dedicandosi attivamente al fronte antifascista (è anch’egli firmatario del manifesto degli intellettuali antifascisti promosso da Croce nel 1925) e alla diffusione culturale


dell’antifascismo, continuando ad insegnare presso la facoltà di lettere e filosofia della statale di Milano, dove gli era stata concessa la cattedra a partire dal 1930. Il primo testo in cui tratta direttamente di estetica è La vita dell’arte, del 1947. Nel 1947 Alberto Burri espone per la prima volta a Roma presso la galleria La Margherita, Lucio Fontana scrive il manifesto dello spazialismo, mentre i “grandi nomi” italiani attivi non sono più al loro apice creativo. Si guarda molto all’estero, soprattutto agli Stati Uniti, dove, sotto l’influenza delle avanguardie storiche, l’arte americana sta esplodendo con artisti come Jackson Pollock e Willem de Kooning. La fotografia non è più una novità da tempo, ed è ormai passata una decina di anni dalla pubblicazione de’ L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica che riflette sul problema del senso dell’arte nel momento in cui la sua aura viene intaccata. In questo contesto Banfi riapre il dibattito sulla poetica con una

posizione decisamente anticrociana. L’arte è indefinibile in assoluto in quanto è nella sua natura quella di non averne nessuna storicamente compiuta, ma di caratterizzarsi per una infinita varietà di manifestazioni. Le opere d’arte sono frammenti di storia, sono portatrici quindi sempre di istanze etiche e sociali davanti alle quali si può e si deve esprimere un giudizio di valore. Da questo punto di vista le poetiche sono fondamentali perchè si può dire costituiscano il mezzo grazie al quale è possibile una riflessione sull’arte. Le singole opere non possono essere comprese se non in base ai propri criteri interni e per essere adeguatamente valutate occorre che siano messe in rapporto con quel più vasto orizzonte che ne esprime il significato epocale. 2

Su questa base Banfi non condanna le avanguardie, considerandole la prova che l’arte, nel trasgredire e nell’eccedere toccando anche picchi distruttivi, afferma la sua vitalità e il


proprio senso. Con il progredire degli anni Cinquanta e l’avvento degli anni Sessanta, lasciate alle spalle le guerre e i colpi di coda delle avanguardie storiche, gli artisti ricercano novità espressive e l’estetica nuove definizioni. Nel 1961 esce la prima edizione di Opera aperta di Umberto Eco, piuttosto in sintonia con le tendenze concettuali che si sviluppano a partire dalla metà degli anni Cinquanta, in Italia, soprattutto con il lavoro di Piero Manzoni. Nel 1967 esce il primo numero di “Flash Art”, rivista che fin dalle origini si pone l’obiettivo di occuparsi di arte contemporanea, diretta da Giancarlo Politi ed attiva, tra tante critiche ed alcune lodi, ancora oggi dopo quarantatrè anni. Il quinto numero della rivista è molto importante perchè vede la pubblicazione di un articolo, scritto da Germano Celant, due mesi dopo la mostra “Arte Povera e IM Spazio” presso la galleria La Bertasca di Genova. L’articolo titola Arte Povera – appunti per una guerriglia. E’ importante

annotare che, dopo il futurismo, l’ arte povera è considerata l’ “altro” grande movimento artistico italiano. Dalle pagine di “Flash Art”, Celant non fa nient’altro che diffondere il manifesto del movimento, ma l’analogia con il futurismo non sussiste. Celant è critico d’arte e curatore, “Flash Art” è una rivista specializzata e soprattutto gli artisti non si sono ritrovati a realizzare opere e mostre sulla base di quell’articolo. Gli artisti citati da Celant (Pistoletto, Boetti, Zorio, Fabro, Anselmo, Gilardi, Merz, Kounellis, Paolini, Pascali) sono già autonomamente attivi e lavorano nella stessa direzione seguendo ognuno il proprio percorso. Celant definisce le linee comuni di lavoro, estrinseca la poetica univoca che vede nelle loro operazioni ed opere e li raggruppa sotto un nome, arte povera. La critica si riappropria così della poetica degli artisti ed il rischio di corto circuito è già ben profilato all’orizzonte: se l’arte va valutata in base alle proprie regole interne, ma le regole nei fatti vengono definite da colui


che si deve occupare della valutazione, c’è una sorta di conflitto d’interesse... Tutta l’attenzione che Croce poneva al sentire dell’uomo comune in relazione al sentire dell’artista e tutto l’impeto con cui i futuristi si spiegano su un quotidiano per raggiungere il maggior numero di persone possibili, rischia di scomparire in un dibattito tra critici pro e critici contro. L’operazione arte povera funziona bene per un po’... poi è lo stesso Celant a dichiarare la morte del movimento. Definire una poetica collettiva per gli artisti è uno sforzo notevole, soprattutto nel momento in cui la vita quotidiana e l’arte non sono identificate l’una nell’altra ma la produzione artistica è un “lavoro”. L’impeto emotivo onnicomprensivo delle avanguardie creava rapporti simbiotici tra gli artisti a tal punto che nel momento in cui il percorso personale diventava tanto dominante sulla poetica condivisa da non poter più scendere a compromessi, le rotture personali erano fortissime. Il manifesto

scritto da un critico in un certo senso per un’artista è una comodità, ma non ci si può fare così tanto affidamento per interpretare il suo lavoro perchè il suo attaccamento al manifesto non è totalizzante, si connota in un periodo definito del suo operare. Celant scrive del lavoro e del pensiero di ogni singolo artista, ma la quantità di testo dedicata alla spiegazione del movimento è molto superiore. L’incompletezza originaria del manifesto (diviene labile il confine tra manifesto e teorizzazione di una tendenza, che meno ha a che fare con la poetica) per la verità è ammessa fin dall’inizio dallo stesso Celant che conclude il suo articolo scrivendo : Incontro il 23 novembre Icaro e Ceroli che mi confermano che questo atteggiamento è ormai di molti artisti. Alviani, Scheggi, Bonalumi, Colombo, Simonetti, Castellani, Bignardi, Marotta, De Vecchi, Tacchi, Boriani, Mondino, Nespolo. Questo testo nel suo farsi è già lacunoso. Siamo infatti già alla guerriglia. 3


La questione intorno alla poetica si riapre nuovamente: chi definisce la poetica dell’artista? L’artista? Il critico? L’artista deve essere coerente alla sua poetica? L’artista deve essere coerente alla poetica del movimento? La poetica ha ormai un retaggio esclusivamente concettuale o ha ancora a che fare con la forma? Con la volontà di tentare un approccio metodico alla questione, Luciano Anceschi, allievo di Banfi, inizia ad occuparsene in parte già dal 1936 con il saggio Autonomia ed eteronimia dell’arte. Il primo passo è quello di studiare i modelli generali dell’arte nella storia, quelli che raccoglie sotto la nozione di “istituzioni”. Se l’istituzione media quella che è la polarità dell’arte, l’arte apparirà non più come un’attività chiusa nel cerchio magico arbitrariamente tracciato dal soggetto geniale, bensì come il gioco e anzi come il dialogo che l’artista instaura con la tradizione, adottandone o rifiutandone

le forme, in ogni caso lottando con esse per trasformarle, metterle a disposizione di chi a sua volta le schiuda a imprevedibili possibilità espressive, inserirle nel circuito per cui tra l’arte e la vita c’è scambio organico. 2

Lo studio delle poetiche ovviamente è strettamente integrato nello studio delle istituzioni, in quanto modelli di riferimento. Quello che Anceschi attesta fin da subito è un mancato riconoscimento teorico delle poetiche, approcciate con un certo semplicismo. L’idea di poetica è svalutata rispetto alla idea di estetica; essa viene giudicata una “estetica empirica” imperfetta ed incompiuta rispetto all’estetica filosofica che solo può dare il concetto universale dell’arte; pertanto alla poetica, come tale, e alla ricca esperienza di realtà che in essa si riconosce, vien revocata ogni autonomia; ad essa si può concedere al massimo una funzione strumentale per sussidio alla critica. 4

Nel classificare le diverse nozioni di poetica la distinzione fondamentale è


tra poetica esplicita e poetica implicita. Per poetica esplicita egli intende la ricerca delle leggi e delle regole di composizione e di formazione di diversi tipi di strutture artistico-letterarie 4

e consequenzialmente l’unico criterio di valutazione di un opera rischia di essere la coerenza dell’artista a regole che egli stesso si è posto, bloccandone l’evoluzione. Per evitare fraintendimenti e chiusure di questo tipo egli puntualizza che

mentre per poetica implicita intende la riflessione che i poeti e gli artisti esercitano continuamente sul loro fare definendone precetti, norme, ideali, stabilendone gli scopi,proponendo modelli. 4

I due piani di riferimento sono spesso sovrapposti oppure vi sono delle incoerenze, come si diceva prima, laddove un artista parte di un movimento trasgredisca alla poetica di gruppo. Anceschi non si occupa di giudizi di merito, cerca di individuare una struttura utilizzando un metodo fenomenologico. La struttura della poetica è però in questa concezione così legata all’evolversi della dimensione temporale da non poter definire una poetica buona o non buona

se si vuole una definizione dell’idea di poetica, non la si troverà nè in questa nè in quella proposta particolare, anzi essa tende a trovarsi in quell’orizzonte generale, che articola, compone, e significa in sè gli orizzonti particolari della poetica artistico-letteraria, della poetica scientifica, della poetica filosofica ... nei loro diversi sistemi e schemi. Si trova infine, in tutta la ricerca nella sua globalità e nelle sue pieghe meno visibili. 4

Nel 1979 in un articolo del n.93 di “Flash Art” Achille Bonito Oliva parla delle poetiche. L’articolo in questione è titolato La trans-avanguardia italiana ed è il primo testo che parla degli artisti degli anni Settanta che riprendono l’utilizzo della pittura. Per quanto riguarda i contenuti,


essi attingono liberamente alla storia dell’arte creando immagini altamente simboliche, di un simbolismo stratificato e allo stesso tempo immediato, che vuole annullare le distanze temporali e porsi al di fuori della storia. Sono quindi in netta polemica con la precedente arte povera e tutto il sistema dell’arte che si aspetta una continua evoluzione e novità. Ora lo scandalo, paradossalmente, consiste nella mancanza di novità, nella capacità dell’arte di assumere un respiro biologico, fatto di accelerazioni e rallentamenti. La novità nasce sempre da una richiesta del mercato che ha bisogno della stessa merce, ma trasformata nella forma. In questo senso negli anni Sessanta sono state bruciate molte poetiche e i sottostanti raggruppamenti. Perchè i raggruppamenti, attraverso le poetiche, permettono di costruire quella nozione di gusto che, proprio per la quantità degli artisti operanti nella stessa direzione, consente il consumo sociale ed economico dell’arte. Finalmente le poetiche si sono diradate, ogni artista opera attraverso una ricerca individuale che frantuma il gusto sociale

e persegue le finalità del proprio lavoro. 5

Achille Bonito Oliva dà un giudizio di merito negativo alle poetiche, al servizio del consumo. Quello che egli tuttavia realizza nel raccogliere dentro la transavanguardia alcuni artisti è di fatto una definizione di poetica. Libera di essere evoluta, cambiata... La Trans-avanguardia non pone limiti di contenuto. Non è anche questa una norma? La differenza grande che si nota con l’arte povera è senza dubbio nella riconoscibilità delle opere. I dipinti della transavanguardia nel loro ritornare ad un linguaggio espressivo accantonato da tempo, sono molto più assimilabili l’uno all’altro di quanto non lo fossero un’azione performativa e una reazione chimica nell’arte povera. Usare la pittura è un’operazione di concetto, è parte della poetica della transavanguardia. Il percorso del singolo artista, anche autonomo, libero da movimenti, sovrastrutture, ideologie, è comunque il luogo ideale per la formazione di una


poetica, anch’essa chiamata ad evolversi, ma non per questo negativa a priori. Nel Novecento la poetica è una sorta di pronto soccorso per la critica, per il mercato... ognuno ne parla nel momento in cui può sfruttarla per sostenere la liceità di un’opera. In primis è però utile agli artisti e di conseguenza all’arte stessa. Luciano Nanni, in un saggio del 1999, Della Poetica – come nasce e vive un’opera d’arte, ne parla come un elemento essenziale per la creazione di qualsiasi oggetto. Una sorta di consapevolezza aggiunta, che determini uno scopo, un metodo, una somiglianza. L’artisticità stessa viene dopo, determinata anche e soprattutto da altri fattori scelti dalla società in cui l’opera si pone. Dalla transavanguardia in poi effettivamente il concetto di poetica implicita personale è diventato la prassi. In una società in cui il concetto di “operare insieme” non esiste più in nessun ambito e in cui le ideologie (ultimo collante su cui i movimenti artistici potevano investire) sono totalmente decadute, gli artisti

si muovono in solitudine, tenendo il passo con la storia e quindi sfruttando la tecnologia, o scegliendo di farne a meno. Cosa importa a un artista oggi? Su che riferimenti e capisaldi costruisce il proprio lavoro?


Dizionario della lingua italiana, Garzanti, 2009, voce “fenomenologia” 1

S.Givone, Storia dell’estetica, Laterza, Bari 2008, p.151, p.153

2

G.Celant, Arte Povera, “Flash Art” n.5, 1967

3

L.Anceschi, Il caos, il metodo, Tempimoderni, Napoli 1981, p.67, p.76, p.93

4

A.B.Oliva, La Trans-avanguardia italiana, “Flash Art” n. 93, 1979

5



Alberto Burri - Rosso plastica Piero Gilardi - Bosco Giovanni Anselmo - Dove le stelle si avvicinano una spanna in pi첫 mentre la terra si orienta Gilberto Zorio - Cuoio sui giavellotti Enzo Cucchi - Sul marciapiede durante la festa dei cani




capitolo 4


Poetica e coerenze

Il concetto di poetica implicita sviluppata intorno al singolo artista si può vedere sotto due aspetti: quello riguardante il processo di creazione dell’opera e quello riguardante il concetto. La coerenza nel tempo ad un determinato processo o ad un determinato concetto, rende l’opera dell’artista riconoscibile. La riconoscibilità è sempre un segno di appartenenza, dell’opera all’artista, dell’artista ad un contesto. Avviene per tratti distintivi. Il processo di creazione è un tratto distintivo laddove è svelato, nel momento in cui prende parte alla forma dell’opera in modo evidente. É evidente per esempio tra una tela di Pollock ed un’altra: l’azione del “dripping” nella modalità che egli utilizza è unica nel suo genere, e si ritrova in tutti i suoi lavori: inevitabilmente rimandano a lui e al suo

operare che assume carattere unitario. Il dripping rimanda all’azione, l’azione rimanda al concetto. Coerenza assoluta. Per molti artisti si può fare un discorso analogo, senza dimenticare il passaggio della storia. Lo sviluppo tecnologico del Novecento ha portato cambiamenti sostanziali molto rapidamente, la distanza tra le generazioni è aumentata, consequenzialmente poetiche e tendenze si infittiscono e cambiano con estrema velocità. Le influenze che un artista subisce sono molte di più che in passato, la comunicazione gli permette di conoscere il lavoro dei suoi contemporanei in tempo reale. Progressivamente la tendenza è stata quella del lavoro in serie per fasi successive. Se anche l’aspettativa di vita è più lunga, è inevitabile che tra i primi


lavori della cosiddetta maturità artistica, quelli di adesione ad un movimento e gli ultimi lavori della vita di un artista intercorrano grandi cambiamenti. L’esigenza di esprimere cose diverse, o di esprimere le stesse cose in nuove modalità, fa sì che avvenga il passaggio tra un distinguibile momento operativo ed un altro. Più il quantitativo di informazioni disponibili cresce e meno l’artista sente l’esigenza di essere riconoscibile. La serie di opere, progressivamente, è ammessa nel momento in cui si necessiti di più di un oggetto per concludere un discorso o nel momento in cui, come spesso accade, ci sia un’esigenza economica di produzione. Bruno Munari scrive già a questo proposito in un testo che ha la sua prima edizione nel 1971: Secondo le regole commerciali il prodotto da vendere deve avere certe caratteristiche costanti, qualunque sia il prodotto: una marmellata deve avere sempre quel sapore, un cantante deve avere quelle particolari caratteristiche musicali, un quadro o una scultura devono avere sempre quello

stile e quella materia. Un quadro commerciale dipinto sulla cartavetrata deve continuare ad essere prodotto in quel modo altrimeti il pubblico non lo riconosce. Se la prima scultura della serie è di simil-oro, tutte le altre dovranno essere in simil-oro. L’elemento caratterizzante può essere un segno, un colore, una materia, ma deve essere ripetuto fino alla morte dell’autore. Questo facilita molto le vendite e permette al più ottuso dei collezionisti di riconoscere un autore e di sentirsi competente. 1

I cosiddetti “criteri interni” dell’opera saltano, i percorsi degli artisti prendono vie inconsuete, talvolta con repentini cambiamenti di direzione. Si può quindi ancora valutare un’opera? E la poetica, a questo punto, è un concetto limitato ad un singolo lavoro, in un determinato momento? La tensione riguardante i concetti di arte e di non arte è in parte ciò che contribuisce a fare sì che l’arte continui ad esistere. Tuttavia essendo tutto complesso, in quanto stratificato, da definire, come in altri trascorsi periodi storici, le questioni potranno


probabilmente essere messe a fuoco chiaramente più avanti. Nel frattempo i luoghi dell’arte e le espressioni artistiche sopravvivono anche se pare che oggi, più di prima, ci siano enormi incomprensioni ed indifferenze tra l’”italiano medio” e l’arte sua contemporanea. La questione è probabilmente da rimandare al problema della funzionalità e del mercato. Laddove è scarsa l’educazione visiva e la cultura viene considerata una perdita di tempo se priva di una funzione, il mercato viene investito di un significato ulteriore. In mancanza di definizioni riguardo l’arte e l’artisticità, il “venduto” è un valore aggiunto. Ed ecco che l’evento artistico diviene un luogo privilegiato, un lusso, che, in quanto tale, si può permettere chi si permette l’investimento di tempo e denaro in cose senza funzione. Il lusso, secondo una definizione di Bruno Munari, è la manifestazione dell’importanza che viene data all’esteriorità e rivela la mancanza di interesse per tutto ciò che è elevazione culturale. È il

trionfo dell’apparenza sulla sostanza. 2

È in questo scenario che negli anni Novanta emerge quello che al momento è l’artista contemporaneo italiano più famoso al mondo: Maurizio Cattelan. Nato a Padova nel 1960, Maurizio Cattelan è un artista autodidatta la cui opera ha una forte componente provocatoria ed ironicamente sovversiva. 3

Questo l’incipit delle pagine dedicate alla biografia in un testo monografico su di lui. È molto complesso in realtà definire Maurizio Cattelan. Tentare di definirlo è forse uno sforzo che non vale la sua pena. Il lavoro di Cattelan sembra essere un continuo entrare ed uscire dalle definizioni, dai luoghi comuni e dai luoghi dell’arte. Identifica sè stesso con la sua stessa opera, oppure lavora in modo apparentemente ipertradizionale utilizzando il marmo bianco di Carrara (All, 2008). In realtà non realizza lui le sue sculture e non è sè stesso quando


appare in pubblico. A volte interpreta dei personaggi, a volte chiede ad altri di interpretare il suo personaggio. I fatti hanno sempre grande eco mediatico, di qui due descrizioni degli eventi tratte da “Exibart.com”: A distanza di pochi giorni, i fatti essenziali -il tam tam dell’arte funziona egregiamente- sono ormai noti: il ciuchino (tassidermico) seduto nell’atrio della facoltà, la lectio magistralis declamata da un Fabio Cavallucci un po’ emozionato e un po’ stentoreo e il coup de théatre dell’ingessatura -collo, spalla, braccio- trionfale e posticcia. Lui -è chiaro di chi stiamo parlando- è Maurizio Cattelan (Padova, 1960), un po’ meno enfant terrible adesso che è neodottore, l’evento è appunto la sua laurea ad honorem, conferita dalla Facoltà di Sociologia dell’Università Trento. Cerimonia -questa- che si svolge nell’attiguo palazzo della Filarmonica, puntuale e solenne, come da copione: laudatio pronunciata da Karl-Siegbert Rehberg (visiting professor presso l’Università tridentina, è stato lui lo scorso 17 settembre a presentare la candidatura dell’artista al Consiglio di Facoltà), lectio venata

di toni ironici, ma in fin dei conti neanche troppo esplosiva, tanto che -se ci passate un paradossoalla fine c’è balenato per un attimo il dubbio che la vera opera fosse proprio Tina Anselmi -altra laureata honoris causa del giorno- performer inedita quando si lancia in una lectio-invettiva smaccatamente di sinistra… Mentre Cavallucci legge, Cattelan opportunamente togato offre il profilo migliore (!): sarà l’ingessatura, sarà l’inedito contesto accademico, ma la posa è degna di un busto marmoreo. Per il resto, quel che si sente in parte era facilmente prevedibile, il finale vira verso il nostalgico passando in rassegna trascorsi scolastici turbolenti, compiti regolarmente copiati, fino alla mamma, che ribadisce l’importanza del fatidico pezzo di carta. E quando in chiusura l’artista avanza l’ipotesi che in fin dei conti questo club accademico non sia poi così esclusivo, visto che ha ammesso anche lui, non possiamo fare a meno di farci tornare in mente il piccolo, geniale Charlie, mentre scorazza in triciclo durante il vernissage della Biennale. Roba da zero in condotta. Fuori dalla facoltà solito bailamme di facce note, saluti, chiacchiere e fotografie. Un breve discorso presenta l’asinello impagliato,


che resterà seduto appena sotto lo scalone fino a fine settembre: personaggio ricorrente nell’iconografia di Cattelan, qui ha l’aria un po’ strafottente -lui somaro ed opera d’arte, in mezzo ai dottori- nonostante l’apparenza compita. È durante la festa di laurea della sera (presso la mensa dell’opera universitaria) che si svela l’inganno del gesso. Lo sapevamo tutti, ma tant’è. Il ciuco siamo andati a trovarlo la mattina dopo, nell’atrio quasi sgombro: aveva un cartello al collo. Necessità fa virtù, s’è riciclato novello Pasquino. 4 Che delusione. Ci avevamo quasi creduto, che stavolta Maurizio Cattelan avrebbe sorpreso davvero tutti, presentandosi -in carne ed ossa- alla Giornata di studi che, in occasione del Premio alla Carriera assegnatogli dalla 15ª Quadriennale, gli dedica in queste ore sempre più puntuale, il vostro Exibart- il Maxxi, promossa dalla Quadriennale in collaborazione con la PARC. Avevamo scritto che c’era da aspettarsi di tutto, ma quasi per esorcizzare la cosa più banale che MC potesse fare, ovvero non presentarsi. E invece così è stato, perché qualcuno che sbandierava il nome di Maurizio

Cattelan si è presentato, ma non è il legittimo titolare. Bensì Elio e Le Storie Tese, ovvero Stefano Belisari (Elio), che sta impersonando in tutto e per tutto l’artista, rispondendo alle domande dei (divertiti?) astanti, e manifestando stupore a chi sottolinea l’”incarnazione”. Certo, la somiglianza non aiuta molto: e qualcuno si domanda se forse non sarebbe stato più credibile far intervenire il solito asino... 4

Il suo lavoro non è riconoscibile nemmeno quando sembra esserlo. Può essere così mimetico da ledere il confine tra l’atto performativo e il reale. Per certi versi in questo senso realizza il retaggio avanguardista di unione tra arte e vita. In realtà specula sull’arte, giocando ed insinuandosi nelle sue contraddizioni, in particolare in relazione al mercato. Viene denominato “il buffone dell’arte” e questa nomea gli permette di fare di tutto, di essere profondamente multimediale, di spaziare in ambiti differenti, sfruttando appoggi sempre più importanti. Cattelan non dice cosa fa e cosa vuole fare, quando lo dice


probabilmente mente. L’unico tratto riconoscibile del suo lavoro sembra essere il cosiddetto “motto di spirito”, uno sciacallaggio duchampiano... I riferimenti formali nelle sue opere sono continui, i mezzi tecnici che egli utilizza rimandano a molta parte degli ultimi anni di storia dell’arte. Cattelan è famoso, è quotato, vende tanto ed è indefinibile. L’arte per lui è un dispositivo di sopravvivenza, e le opere sono strumenti per far fronte a quel grande scherzo cosmico che è la vita. 5

La sua condizione nel mondo dell’arte è rappresentativa della situazione degli ultimi quindici anni. Il filtro tra il mondo e l’opera è l’artista con la sua interiorità, non ci sono concetti “esterni” da portare avanti, se non ciò che di esterno all’artista influenza il suo essere. L’obiettivo non è più quello di dare una direzione precisa all’arte, e non è nemmeno quello di essere interpreti della storia del proprio spazio/tempo. Si è rappresentativi di un periodo perchè si vive nel tempo,

ma la contrazione esponenziale dello spazio, conseguente allo sviluppo tecnologico, fa sì che il meltingpot citazionistico sia inevitabile: la citazione è incostante. L’indefinibilità mette in crisi il testo critico, che spesso si limita alla descrizione. In fondo, perchè voler cucire addosso ad un’artista una poetica, quando egli stesso non la dichiara nè la accetta? Un altro esempio caratteristico degli anni Novanta é Francesco Vezzoli. Formatosi in pieno clima “post human” in Gran Bretagna, è poi tornato a lavorare anche in Italia, scelta non scontata. Nel suo caso, per una serie di lavori, si può parlare di riconoscibilità. Scrivono di lui in occasione di un’importante mostra personale presso il Castello di Rivoli: L’arte di Francesco Vezzoli, nella forma di complesse produzioni video e ricami realizzati a piccolo punto, è per sua stessa definizione “uno studio dei sentimenti e delle pulsioni amorose”. Partendo dalle proprie ossessioni, l’artista costruisce opere nella forma di frammenti che rimandano a un discorso più ampio e cercano


di ricomporre un mondo che sembra ormai perduto. Ciascun lavoro, sia esso un piccolo ricamo oppure un video, e più recentemente una performance o una fotografia, è a sua volta composto di altri frammenti, rimandi che incrociano continuamente la cultura “alta” e quella considerata “bassa”, unendo l’eleganza estrema al kitsh e al camp più sfrenati. Quella di Vezzoli è una cultura visiva in senso esteso che comprende il cinema d’autore, la moda, la storia dell’arte e le icone della cultura pop. Per sua stessa ammissione, Vezzoli è “un erudito involontario, un catalogatore di informazioni”. Come un collezionista, che per sua natura raccoglie una somma di frammenti sparsi, l’artista colleziona riferimenti e citazioni. Riuniti in ciascuna opera, essi compongono un racconto intriso di bellezza e decadenza, fama e umano dolore. 6

Il lavoro di Vezzoli è il paradiso del rimando. Citare continuamente icone televisive e cinematografiche è un gioco già noto dai tempi della Pop-art, il filtro della sua esperienza personale e della sua personalità è però un elemento decisivo.

Per certi versi c’è un’analogia con il lavoro di Cattelan: davanti a Vezzoli lo spettatore riconosce immediatamente quello che sta vedendo, salvo poi restare totalmente disorientato dal contenuto. Il medium è di immediata riconoscibilità, il contenuto si sviluppa poi secondo linee surreali, forzature di realtà. Lo spiazzamento dell’osservatore sembra essere una costante. Il fatto che il testo critico tenda ad essere molto descrittivo è una conseguenza. È come se gli artisti si divertissero a mettere in crisi le sovrastrutture del mondo dell’arte in una continua alternanza di sostegno e boicottaggio. Chi dovrebbe essere polemicamente al centro del lavoro degli artisti, di fatto, spesso investe su di loro e li promuove. I cosiddetti confini etici, se di etica si possono ancora ipotizzare definizioni, e probabilmente non si può, in questo senso sembrano essere stati oltrepassati da tempo. Bisogna abituarsi a ragionare con riferimenti differenti dalla coerenza, in una itinerante continua


scansione di punti di vista. Riuscire ad avere un quadro completo della situazione è impossibile. Il mondo, la società, non procedono per compartimenti stagni, tutti gli ambiti della vita sono in continua relazione. L’aumento della comunicazione, o meglio, la maggiore velocità di comunicazione, aumenta le relazioni in maniera esponenziale. Le complessità e le stratificazioni dei singoli settori (economia, politica, sociologia, psicologia, tecnologia, medicina, religione, biologia etc...) si sommano e si riversano l’una nell’altra e riguardando tutte la vita dell’uomo riguardano direttamente anche l’arte. Vivendo nel modo più consapevole possibile il proprio tempo si possono avere delle percezioni di quello che è il quadro generale dell’arte. La conclusione a cui sono arrivata è l’anacronismo delle definizioni, quindi anche della definizione di poetica. Non si riuscirà mai in una sola vita a sondare così profondamente l’essenza dell’uomo e quindi dell’arte tanto da descrivere in maniera completa la relazione che

intercorre tra essi. Ed è forse questa la vera essenza della poetica, la relazione, lo scambio, il rapporto che intercorre tra l’uomo e il suo produrre arti visive.


B.Munari, Artista e designer, Laterza, Bari, 2008, p.58

1

B.Munari, Da cosa nasce cosa, Laterza, Bari 2007, p.11

2

Supercontemporanea, Maurizio Cattelan, a cura di Francesco Bonami, Electa, Verona 2006, pg.98 3

4

M.Bastante e M.M, “www.exibart.com”

J.Rian, Maurizio Cattelan, “Flash Art International”, ottobre 1996

5

Francesco Vezzoli, catalogo del museo d’arte contemporanea “Castello di Rivoli”, Torino 2002

6



Francesco Vezzoli - Democrazy Maurizio Cattelan - All Maurizio Cattelan - Untiled Maurizio Cattelan - Charlie Francesco Vezzoli - Democrazy




intervista a


cinque interviste

Il taglio che ho voluto dare alla ricerca sulla poetica è strettamente legato all’esigenza di relazionarla alla produzione artistica diretta. Quanto e come lo sviluppo del pensiero puramente teorico influenza concretamente l’operato degli artisti? Come si relazionano gli artisti alle possibilità di comunicazione della poetica, della loro relazione con il fare arte? Con lo scopo di realizzare una piccola scansione di queste questioni in piena contemporaneità, ho proposto a cinque artisti un’intervista. Ho scelto artisti che lavorano in maniera diversificata anche se nel lavoro di tutti e cinque, per alcuni con costanza, per altri ciclicamente, vi è una componente legata allo spazio e alla terza dimensione, affrontata in modalità molto differenti.

La tendenza è quella di non rispondere alle richieste di definizioni in modo chiuso. L’essere riconoscibile viene sempre letto in chiave negativa, quasi si possano ancora dare per buone in assoluto le dichiarazioni di Munari. In generale, il porsi alcune questioni a priori è motivo di blocchi, a posteriori invece si è più aperti ad una riflessione sul proprio lavoro, che può portare anche ad un suo successivo sviluppo.



Luigi Carboni

Nato a Pesaro nel 1957, vive e lavora a Pesaro. Insegna pittura presso l’accademia di belle arti di Urbino. Di che cosa si occupa? Se le chiedono che lavoro fa che cosa risponde? Mi occupo di un sentimento, di una visione…. faccio l’artista, che è come dire faccio il prete che è una vocazione, un atto di fede. Trasfiguro in termini pittorici il sentimento. Un artista fa l’“artista” per difendere una posizione, per indicare un “nuovo” modo di osservare l’arte. L’uomo ha bisogno di invenzioni: la sopravvivenza dell’arte è data dalla sua intrinseca capacità di scoperta, di modificarsi e rinnovarsi continuamente. L’opera è una “traccia intelligente”

che si sforza di comprendere la forma cercando di decifrare e capire i segni del presente, inventando immagini nuove e nuovi modi con i quali creare la “realtà”. Il “lavoro” dell’artista o la carriera dell’artista è qualcosa di molto concreto, è una carriera difficile e competitiva, dove la selezione nel percorrere la lunga catena del consenso è molto forte. Ha una particolare metodologia operativa che segue nello svolgere ogni lavoro? Si impone o segue dei passaggi precisi? No, non credo molto in una disciplina rigida; ho una attitudine all’abitudine: entro in studio alla mattina per uscirne alla sera, l’urgenza di rendere visibile l’opera è l’unico stimolo che giustifica


l’andare in studio e passarvi tante ore: “l’arte è un desiderio che suscita il piacere nella misura in cui l’anticipa”. Come un atleta mi alleno ogni giorno, scelgo un programma per ogni dipinto, l’esito risulta una sorpresa che sono costretto ad accettare… che meraviglia. Non credo in un processo creativo rigido, non privilegio nessun punto di arrivo, non cerco strade lineari, ma intraprendo percorsi “collinari” dove l’ordine mi protegge sufficientemente (coscienza storica), e il disordine mi offre la possibilità di perdermi.

Lavoro per cicli tematici suggeriti dal quotidiano, dalla storia, dai viaggi. L’arte è uno strumento di conoscenza, le mie opere non vogliono “dire” né “esprimere” nulla, vogliono semplicemente essere; si situano al di là del bene e del male e considerano prive di senso le domande: “cosa rappresenta?”, “a che serve?”, “quale ruolo ha?”.

Segue una linea concettuale o ogni lavoro è concettualmente un mondo a sé stante?

Come ti ho già detto il mio lavoro è costituito da cicli tematici, questi scaturiscono sempre dalla volontà di andare verso un’altra modalità pittorica. Quindi la ricerca artistica non si snoda in un processo lineare, anzi percorre traiettorie diverse: non credo in un modo dominante di osservare la “realtà”, sono contro uno stile di maniera (manierista). L’arte contemporanea reclama una flessibilità di ricerca e di stile; infatti

La pittura contemporanea di un certo significato è essenzialmente concettuale. Non credo nella rappresentazione; in una anacronistica illustrazione di forme tradizionali, il realismo è negazione dell’immaginario, mentre una leggera “figurazione” suggerisce e non impone.

Pensa che ci sia una certa riconoscibilità tra un lavoro e l’altro? Quanto conta questo aspetto? È una cosa che ricerca?


osservando le mie opere esse possono essere identificate come astratte, decorative o naturalistiche. Lavora per serie? Che relazione c’è tra una serie e l’altra? Posso dire di lavorare per serie? Ma… meglio per cicli o temi, temi che possono durare anche cinque o sei anni. Tutte le opere, di qualsiasi ciclo, hanno in comune alcuni elementi che sono i cardini sostanziali della mia poetica: un ordine classico, un ideale di perfezione finita, un’intenzionalità progettuale, la volontà di non ricercare la sterilizzazione dell’opera o la strategia della sparizione, anzi l’attenzione è spostata all’opera d’arte intesa come manufatto. Crede sia sempre giusto che un artista si ponga come obiettivo la visibilità nelle opere di un’evoluzione costante? Non credo che l’atto creativo debba essere vincolato da questo aspetto.

Credo in un nomadismo sensibile che va ricercato nella natura frammentaria e, a un tempo, unitaria, che caratterizza la nostra epoca; un’epoca in continua trasformazione dove la carta vincente dell’arte è la capacità di decifrare i segni del presente, giocando d’anticipo. Non ricerco un’evoluzione costante, anzi ricerco un’evoluzione ambigua: l’interesse per il paradosso, la contraddizione interna e la dialettica degli opposti fanno parte dell’opera: forma/informe, espressione/geometria, infrazione/regola, spazio/superficie, equilibrio compositivo/disgregazione dell’insieme, classicità/sperimentazione. L’artista non cerca gusci di sicurezza protettivi, ma dimore aperte dove vivere l’arte in un percorso ossessivo di conoscenza. Quando valuta il lavoro di uno studente considera in positivo una certa coerenza tra un lavoro e l’altro? Mi considero un insegnante? Si può insegnare l’arte? E il “disimparare”


è forse il primo passo per imparare? Forse uno studente, prima di tutto, si deve liberare di tutti i luoghi comuni relativi all’arte e alla figura dell’artista. Diciamo che la coerenza di uno studente nei primi anni scolastici può essere considerata anche un non valore. Uno studente, nei primi anni, deve tenere le porte aperte, deve attraversare e farsi attraversare dall’avanguardia e dall’arte contemporanea, di movimento in movimento, di eredità in eredità, sviluppando l’educazione alla scoperta, in contrasto con il pericolo di ripetere sapendo che la tecnica è solo un mezzo per raggiungere un valore. Questo è l’unico modo di insegnare l’arte informando lo studente, l’intendimento è quello di non vivere nella roccaforte della storia, ma di entrare nell’ambito dell’attualità della ricerca artistica, in modo da favorire le scelte personali dello studente e la libera ricerca, ricordandogli che il più delle volte l’invenzione artistica si produce attraverso il dissenso.

Ci sono delle parti del suo lavoro che non divulga? Non divulgo i lavori realizzati prima del 1983, tutte le opere realizzate prima di questa data partono da memorie culturali artistiche ancora “scolastiche”. Mi ricordo, da studente ero come una spugna… assorbivo tutto attraversando le esperienze delle avanguardie senza mai perdere però la manualità, la mancanza d’uso avrebbe comportato l’atrofizzazione della mano, questo voleva dire, per me, perdere una parte di individualità. Mi darebbe una definizione poetica in generale?

di

La poetica è un sentimento, e l’artista è un veggente che vive l’arte cercando sempre quello che sembra mancare o essersi perso nell’esperienza culturale del proprio tempo guardando, rubando, donando. L’arte non supplisce alla realtà, ma la amplia come atto


di conoscenza; non la copia, non la imita, ma la ripercuote. Come esiste un diritto alla felicità, esiste un diritto all’inquietudine; l’arte è uno statuto di necessità, un problema di gerarchie e di urgenze che segue gli itinerari della conoscenza, alla ricerca di un senso. L’opera è un momento introspettivo, necessariamente romantico; alla fine resta l’immagine, sottile e lirica, eterna attrazione: desiderio senza orgasmo dove l’elemento pittorico feconda quello poetico per eccesso di volontà di sentire. Un attaccamento alla profondità, al territorio, alla memoria, al desiderio, alle nuvole…; le nuvole che passano. A chi pensa spetti parlare della poetica? All’artista, al curatore, al critico? Penso che ognuno abbia diritto di parlare di poetica. L’arte fa parlare e fa scrivere; l’arte ha dalla sua la visione del mondo e contemporaneamente c’è un vuoto nel linguaggio delle immagini in cui si può aprire lo spazio della parola. È giusto che il fruitore del lavoro

venga sempre messo al corrente di quello che è il “profilo poetico” dell’opera? La scelta è del fruitore, è sua la responsabilità di arrivare cosciente o incosciente davanti all’opera. L’opera, nel limite tra coscienza e indicibile, addensa le sue tracce in molteplici messaggi, in un vocio afferrabile solo nel silenzio della contemplazione estetica, …. in piedi o seduti. Quando prepara una mostra, quali sono le spiegazioni scritte da affiancare al suo lavoro che considera irrinunciabili? In genere non è un problema che mi pongo quando faccio una mostra, di solito il problema che mi pongo è quello dello spazio in cui vado ad operare. Lo spazio è una “misura”, una visione mentale e culturale che scandisce i tempi di riflessione di un racconto per immagini; cerco di fondere l’opera col luogo fino ad identificarsi. Ribadisco che la mia poetica è fatta di relazioni, una continua oscillazione tra materia e spirito,


quotidiano e intimo: l’opera visuale se a volte si è legata alla parola è solo per affermare un testo poetico costruendo una specie di rebus, appunto, dove tutto si mostra confondendosi: l’opera è nuda e la lettura è aperta. Parliamo del suo lavoro… in che relazione sono con la poetica la metodologia, la riconoscibilità, la coerenza concettuale? cose diverse, conseguenti….? Do valore al fare “intelligente” della mano, dove la componente creativa si sviluppa anche all’interno dell’esperienza tecnica, un esempio possono essere le opere che appartengono al ciclo tematico di lavori “con un sorriso”. Il titolo allude al disvelamento che la bocca compie nell’aprirsi lasciando intravedere il bianco perlaceo dei denti. Nelle opere appaiono sagome scheletriche ammassate tra loro, come a trovarsi in una fossa comune: scavando il pigmento acrilico nero sulla superficie della tela e scoprendo il sottostante bianco si portano alla luce le figure, così da sottrarle al loro oblio nei processi di

esumazione. Con questa tecnica… in questo caso il “fare” diventa atto creativo, concetto e tecnica si identificano l’una nell’altro dando visibilità all’invisibile. Ora avanzo una proposta, una proposta di silenzio non che non abbia fiducia nella parola, ma desidero proporre opere che si offrono al silenzio. Non ho niente da dire… ma forse so come dirlo.




Umberto Cavenago

Nato a Milano nel 1959, vive e lavora a Milano, insegna sperimentazione artistica digitale presso l’accademia di belle arti “Carrara” di Bergamo e progettazione di eventi multimediali presso l’accademia di belle arti di Urbino.

volta in volta viene formalizzato e viene progettato perciò fortunatamente ci sono sempre le scoperte del procedimento che cambiano da lavoro a lavoro, a volte anche i procedimenti diventano un lavoro.

Se le chiedo di cosa si occupa e che lavoro fa...

Segue una linea concettuale o ogni lavoro è concettualmente un mondo a sè stante?

A quelli che mi chiedono queste cose in genere rispondo che faccio scatole vuote... quindi... faccio scatole vuote. Ha una particolare metodologia operativa che segue nello svolgere ogni lavoro? Si impone o segue dei passaggi precisi? Ogni scatola vuota ha un suo iter che di

Non seguo volontariamente una linea, mi accorgo che c’è una consequenzialità logica tra un lavoro e l’altro, quello senz’altro. É un po’ il filo conduttore di una ricerca. Pensa che ci sia una certa riconoscibilità tra un suo lavoro e l’altro? Quanto conta questo aspetto? É una cosa che ricerca?


La riconoscibilità la vedono gli altri. Io vedo sempre un unico lavoro composto da tanti lavori, non punto a rendere riconoscibili i lavori, non mi ineressa, mi interessa siano evolutivi uno rispetto all’altro, che non siano una ripetizione. Crede sia sempre giusto che un artista si ponga come obiettivo la visibilità nelle opere di un’evoluzione costante? Io parlo per me, vedo gente che rifà lo stesso lavoro tutta la vita, sono degli artigiani. Io così mi annoierei, lavorare non deve essere noioso. Poi per quanto mi riguarda è inevitabile che i lavori siano collegati l’uno all’altro perchè sono l’uno lo sviluppo del precedente anche se sono tutti correlati allo spazio architettonico e a dinamiche esterne. I singoli lavori mutano in base a dinamiche che non derivano dal “fare” ma dal contesto, l’evoluzione deriva dai processi che si attuano al momento in base a differenti relazioni.

Quando valuta il lavoro di uno studente considera in positivo una certa coerenza tra un lavoro e l’altro? Non ritengo che fare l’insegnante sia il mio lavoro, lo sono per caso ed è una cosa che al momento faccio volentieri. In genere valuto il contenuto del lavoro degli studenti, quando si è giovani è giusto abbandonare delle strade e prenderne di nuove. Ovviamente se poi un lavoro ha un messaggio già chiaro e consolidato che si può evolvere è una buona cosa che si può portare avanti insieme, ma non è una discriminante. Ci sono delle parti del suo lavoro che non divulga per queste motivazioni? In generale non mi occupo io della divulgazione, lo fanno altri, sono piuttosto pigro. Sul mio lavoro però sono aperto al confronto, non ci sono cose che rinnego, chiaro che con la maturità alcune cose si superano, mi diverte vedere alcuni lavori del passato con le


loro ingenuità. Poi se un lavoro proprio non mi piace... è già smontato. A volte succede che ci siano lavori he non mi piacciono già venduti, ne ho in mente uno in particolare con tanti errori, anche grossolani...e purtroppo non lo posso smontare... Mi darebbe una definizione di poetica in generale, e un sinonimo? Non mi interessano molto le definizioni, cerco di non occuparmene. La poetica certamente esiste, per me è composta da una serie di modalità, ma definire la poetica è come definire la consisenza dell’artista: io non mi definisco un artista, non è compito mio dire che faccio l’artista, il mio compito è un’altro. Poi io cerco, ma non ho ancora trovato delle definizioni... la poetica se c’è è anch’essa evolutiva. Per gli altri la poetica sono certezze, quelle che io metto in discussione. Ma sono punti di vista, secondo me le certezze non esistono, tutto è perennemente in

trasformazione in evoluzione, del resto anche i miei lavori parlano di questo: non sono mai celebrativi, cerco lavori che si relazionano, che dialogano e che mettono in discussione sè stessi, che si trasformano e mutano come dimensioni e come collocazione. La poetica è una situazione liquida, che cambia, si modifica, per gli altri sono certezze, fedi. A chi pensa spetti parlare della poetica? All’artista, al curatore, al critico? Sicuramente agli altri, ai non artisti.. poi tutti parlano di poetiche dissonanti una con l’altra... sono letture. Poi all’artista sta...l’artista deve fornire delle chiavi, deve avere anche la capacità di comunicare quando ci sono i presupposti per farlo.. io non faccio la promozione... ma sono disponibile al dialogo, alcuni critici hanno insegnato agli artisti a fare promozione e parlare di promozione significa già relazionarsi all’arte con la stessa grammatica che si usa per


l’oggetto di consumo, si parla di artisti che si “consumano” velocemente, in un trend assolutamente usa e getta terribile, che di certo non è quello del poeta. É giusto che il fruitore del lavoro venga sempre messo al corrente di quello che è il “profilo poetico” dell’opera? Non dire fruire... sto male! Una persona se vede un lavoro magari rimane un po’ lì, se ne vede due capisce un po’ di più, se ne vede tre inizia a comprendere tutto il lavoro ed è un discorso differente, coglie il contenuto. È giusto anche che l’osservatore venga un po’ stordito, per capire il lavoro, magari poi non gliene frega nulla, è abituato alla televisione che è invasiva, un’opera invece ha bisogno di alcuni assiomi che ti consentano di costruire la visione e di leggerla. Non è l’illustrazione socialista, come lo è la televisione, la rappresentazione del potere, di un

modello di vita legato al consumo, l’opera d’arte non si realziona a questi modelli e l’artista ha la sua modalità,una modalità diversa. La bellezza è indagare le molte diversità senza omologazione, quando gli artisti sono omologati è triste, quando tutti fanno Cattelan è triste. Mi piace molto Cattelan ma non mi piacciono quelli che fanno come lui, che seguono la sua “maniera” perchè è un artista di successo e pensano che quella sia la strada tracciata. È anche il contrario del discorso che fa lui. Il rischio di omologazione in questo senso c’è anche quando si è chiamati a fare il docente. Bisogna starci attenti perchè non trovo sia giusto. Quando prepara una mostra, quali sono le spiegazioni scritte, le cose da affiancare al suo lavoro che considera irrinunciabili? Per dirti quello che per me è una mostra, ti dico che tengo innanzitutto al fatto che ci siano i soldi, una mostra per me


non è mai una mostra in cui faccio cose già fatte, è un momento importante per evolvere il lavoro, ci deve essere almeno un lavoro ex novo,e in questo senso ci deve sempre essere il minimo per permettere la produzione di un lavoro nuovo. Poi se in quel contesto incontri una persona che decodifica quello che fai e lo trasforma in una formula più consona alla comunicazione lo fai. Ci vuole una persona che abbia lucidità, umiltà, una persona con cui si possa discutere. Guardo molto la sintonia con la persona, se reputo che il rapporto sia di qualità quella persona può scrivere, fare..faccio anche un lavoro apposta per lui...(ride)... L’importante è che ci sia una collaborazione, un rapporto collaborativo con questa persona che aiuta a divulgare. Comunque non è una cosa che ricerco. Quello che invece ricerco di più è lo spazio, uno spazio non inquinato dalle forme. Inquinamento architettonico...ci soffro proprio... hanno provato a farmi fare delle mostre in certi posti... ho dovuto discutere e

mi hanno dato del presuntuoso, ma io non ce la faccio, non posso proprio. La sobrietà dello spazio è una cosa da cui proprio non posso prescindere. Parlando del suo lavoro..in che relazione sono con la poetica la metodologia operativa, la riconoscibilità, la coerenza concettuale? Cose diverse, conseguenti...? Ma, non saprei, non credo.. ma forse in fondo sì, in modo non consapevole sono aspetti anche consequenziali. Comunque non sono questioni su cui rifletto nel momento in cui realizzo i miei lavori.



Francesco Gennari

Nato a Fano nel 1973, vive e lavora a tra Pesaro e Milano. Di che cosa si occupa? Se le chiedono che lavoro fa che cosa risponde? Il mio lavoro è quello di progettare un nuovo ordine pagano e metafisico. Ha una particolare metodologia operativa che segue nello svolgere ogni lavoro? Si impone o segue dei passaggi precisi? Nelle singole opere non seguo nessun metodo preciso,nella generalità del mio lavoro seguo un metodo che è contemporaneamente logico e intuitivo. Segue una linea concettuale o ogni

lavoro è concettualmente un mondo a sé stante? L’idea di base è quella di generare un paesaggio metafisico di cui io sono centro e artefice, da ciò si deduce che pur nella loro eterogeneità estetica tutte le opere sono parte di un unico Disegno. Pensa che ci sia una certa riconoscibilità tra un lavoro e l’altro? Quanto conta questo aspetto? È una cosa che ricerca? Affrontando diversi concetti , diverse estetiche e diversi materiali, le opere che ne conseguono sono visibilmente molto diverse tra loro pur facendo parte come suddetto del medesimo paesaggio. Penso che la non ripetizione dei moduli visivi e la relativa eterogeneità estetica delle


opere sia un valore fondamentale che denota una volontà di ricerca sempre viva. Lavora per serie? Che relazione c’è tra una serie e l’altra? Non lavoro per serie,cerco sempre di sfuggire alla ripetizione di opere che ritengo riuscite in modo tale da mantenere sempre vivo il mio immaginario. Crede sia sempre giusto che un artista si ponga come obiettivo la visibilità nelle opere di un’evoluzione costante?

no Mi darebbe una definizione poetica in generale?

di

Io faccio le opere, le teorie o le definizioni le lascio a chi in questo senso è più preparato di me. A chi pensa spetti parlare della poetica? All’artista, al curatore, al critico?

Avere una evoluzione costante è importante per continuare a stupirsi di fronte alle proprie opere,se questo sia poi un obbiettivo è un problema che non mi sono mai posto.

Penso che della poetica debba parlare l’opera e il suo titolo,le parole dell’artista spesso sono tese a celare la debolezza dell’opera che ha fatto,più lui deve raccontare più significa che l’opera ha poco da dire. Le parole del critico a volte creano nuovi interessanti orizzonti di cui anche l’artista non era consapevole,altre volte fanno solo una grande confusione.

Ci sono delle parti del suo lavoro che non divulga?

È giusto che il fruitore del lavoro venga sempre messo al corrente


di quello che è il “profilo poetico” dell’opera?

coerenza concettuale? cose diverse, conseguenti….?

L’opera deve essere in grado di difendersi dallo sguardo dell’osservatore da se, è chiaro però che a volte accompagnare la visione con qualche chiarimento può essere utile anche se questa necessità varia in relazione alla preparazione culturale e alla sensibilità innata del fruitore.

Sono tutte cose che vivono in simbiosi, e tutte nel loro insieme danno un senso all’opera e più in generale alla ricerca di un artista.

Quando prepara una mostra, quali sono le spiegazioni scritte da affiancare al suo lavoro che considera irrinunciabili? Mi basta la presenza del la didascalia relativa all’opera che espongo,nelle mie opere il titolo è già estetica ed inoltre da l’incipit affinché la suddetta venga compresa in modo corretto. Parliamo del suo lavoro… in che relazione sono con la poetica la metodologia, la riconoscibilità, la



Eva Marisaldi

Nata a Bologna nel 1966, vive e lavora a Bologna, insegna pittura presso l’accademia di belle arti “Carrara” di Bergamo. Se le chiedo di cosa si occupa e che lavoro fa... Occuparsi. Mi occupo di diversi argomenti di interesse, quindi di diversi autori, idee, modi, di diverse persone. Se mi chiedono che lavoro faccio, posso rispondere insegnante, oppure posso dire faccio video, animazioni, che non chiarisce ma abbassa il tono. Se le persone conoscono maggiormente il mio lavoro, le aggiorno.. Ha una particolare metodologia operativa che segue nello svolgere

ogni lavoro? Si impone o segue dei passaggi precisi? Direi che forse c’è una differenza di comportamento se si risponde ad un invito a lavorare in un particolare spazio, per un progetto con certe caratteristiche o se si tratta di una occasione dove si può, in teoria, fare qualsiasi proposta e lo spazio è neutro.(ad es. una mostra personale in una galleria). In seguito, si organizza un senso. I passaggi, si spera, riservino qualche sorpresa. Lavora per serie? Che relazione c’è tra una serie e l’altra? Cosa vuole dire? se faccio tre copie di un lavoro? no. Se si tratta di lavori che contengono sequenze, a volte.Ma non è una serie. Molti anni fa ho lavorato


sull’idea di decorazione e ripetizione. Segue una linea concettuale o ogni lavoro è concettualmente un mondo a sè stante? Penso che ci siano modalità o interessi ricorrenti. Pensa che ci sia una certa riconoscibilità tra un suo lavoro e l’altro? Quanto conta questo aspetto? É una cosa che ricerca? Penso che questo non sia un problema che sento. Penso di non potere fare certe cose. Inoltre collaborando spesso non decido tutto, anche se certe risoluzioni non sono accettabili mentre altre si. Crede sia sempre giusto che un artista si ponga come obiettivo la visibilità nelle opere di un’evoluzione costante? Dipende

dall’artista.

Un’

evoluzione

può esserci anche se un artista porta avanti una sola idea. Potrebbe anche darsi che molte idee non portino ad una lucida evoluzione. Non credo sia il mio obiettivo. Quando valuta il lavoro di uno studente considera in positivo una certa coerenza tra un lavoro e l’altro? Non mi piace valutare. Provo a rendermi utile caso per caso. La coerenza, è solo una delle possibilità anche facilmente individuabile, praticabile, dopo avere risolto altri problemi. Ci sono delle parti del suo lavoro che non divulga per queste motivazioni, che ritiene parte di un periodo di formazione? Ritengo che “formazione permanente” sia una formula, una modalità, intuita daì tempi di “ragazza materiale” 1993, che ora più che mai mi riguarda. Trovare qualcosa di nutriente, di profondamente


interessante anche se non sempre documentabile da esiti espliciti sia l’unica parte svincolata dal “vortice” (lavoro, affidabilità, logica delle persone che lavorano sul mio lavoro, per il loro). Una decina di anni fa mi ero ridotta a mantenere una affidabilità, ma non basta. Per esperienza diretta bisogna continuare a sviluppare una impossibile partecipazione su più fronti. Ricchezza di contenuti, informazione sulle altre contemporaneità, studio delle letture, protezione dei pochi veri contatti dove la comprensione è emersa. Invece esiste anche la stanchezza, questa società non la accetta, non la perdona. Probabilmente esistono cose eliminabili. Ma nessuna di queste è stata completamente inutile. Ogni piccolo o grande progetto è giustificabile nel suo contesto di organizzazione di pensiero e forma. Se non particolarmente felice è servito da tramite tra una cosa ed un’altra, tra una risposta ad una richiesta ed un altro spontaneo moto collaborativo.

Mi darebbe una definizione di poetica in generale, e un sinonimo? La poetica sono alcune cose che capisci di un autore che non è storicizzato. A chi pensa spetti parlare della poetica? All’artista, al curatore, al critico? Spetta a chi ne ha voglia. c’è tanto di cui occuparsi. É giusto che il fruitore del lavoro venga sempre messo al corrente di quello che è il “profilo poetico” dell’opera? Sono favorevole alle note di accompagnamento, ma predigerire tutto perché tutto sia chiaro non è interessante, permette di passare subito ad altro. Ci si muove in un linguaggio, più linguaggi, è interessante arrivarci con i propri tempi. Quando prepara una mostra, quali


sono le spiegazioni scritte, le cose da affiancare al suo lavoro che considera irrinunciabili? A volte davo istruzioni, altre lavoro solo con i testi. E sono di solito attenta ai comunicati. Parlando del suo lavoro..in che relazione sono con la poetica la metodologia operativa, la riconoscibilitĂ , la coerenza concettuale? Cose diverse, conseguenti...? Guarda io ci sto lavorando da una vita, vedi tu.




Silvio Wolf

Nato a Milano nel 1952, vive e lavora a Milano, insegna Fotografia alla Scuola di Arti Visive dell’Istituto Europeo di Design di Milano ed è Visiting Professor alla School of Visual Arts di New York.

una parola, un testo letto, da un segno incontrato, da una frase pronunciata, da un incontro, dalla specifica richiesta di un committente associata ad un luogo, uno spazio, una circostanza. Il viaggio è sempre diverso, il percorso e’ fondativo.

Di che cosa si occupa? Se le chiedono che lavoro fa che cosa risponde?

Segue una linea concettuale o ogni lavoro è concettualmente un mondo a sè stante?

Sono artista e docente di Fotografia e Arti Visive a Milano e a New York. Ha una particolare metodologia operativa che segue nello svolgere ogni lavoro? Si impone o segue dei passaggi precisi?

Il mio pensiero e’ fortemente analitico -a posteriori-, mi e’ importante farmi una ragione di ciò che faccio. A priori devo muovermi con leggerezza, intuitivamente, sentendo la strada che ho intrapreso, sentendo dove mi conduce.

Ogni nuovo lavoro e’ diverso dagli altri: posso partire da un’intuizione dello spazio, da una percezione del luogo, da

Pensa che ci sia una certa riconoscibilità tra un suo lavoro e l’altro? Quanto conta questo aspetto? É una cosa che


ricerca? La riconoscibilità e’ assai relativa: c’è un’essenza comune, un sentire condiviso tra le opere, una mano unica che le rende tali, forse addirittura un unico problema dietro a tutte, ma le circostanze possono renderne l’aspetto anche assai differente. Questo proprio non e’ un problema. Lavora per serie? Che relazione c’è tra una serie e l’altra? Lavoro non “in serie”, ma creo “bodies of work”. Bodies of work è l’espressione Anglosassone che descrive un “corpo” di lavori, come un organismo, un gruppo di parti collegate, le connette diversamente dall’idea di “serie”. Crede sia sempre giusto che un artista si ponga come obiettivo la visibilità nelle opere di un’evoluzione costante? La “evoluzione” non esiste, e’ come

il “progresso”! Si tratta piuttosto di interpretazioni sempre più complesse, sempre più profonde, sempre più sintetiche. L’artista a mio avviso non si pone proprio questo obbiettivo, questo e’ un problema di chi si pone di fronte all’opera, non di chi la produce. L’obbiettivo è interno al lavoro: è come confondere il viaggio con la meta. Quando valuta il lavoro di uno studente considera in positivo una certa coerenza tra un lavoro e l’altro? Nel lavoro di uno studente cerco il problema cui lui sta dando luce, che sta individuando dentro a sé stesso e che, privo di esperienza, rivela ora per la prima volta a sé e agli altri. Chiedo agli studenti coerenza all’interno di una serie, di una specifica ricerca. Cerco di far loro individuare la “loro strada”. Ci sono delle parti del suo lavoro che non divulga per queste motivazioni?


Ci sono molte parti del mio lavoro che non rendo pubbliche, che mi sono necessarie, ma che non servono agli altri. Mi darebbe una definizione di poetica in generale, e un sinonimo? Poetica è l’immateriale vena profonda che si rivela attraverso l’opera: una strada rivelata. A chi pensa spetti parlare della poetica? All’artista, al curatore, al critico? Spetta a chi la rivela, a chi la sente, a chi le crede: a chi l’avverte. É giusto che il fruitore del lavoro venga sempre messo al corrente di quello che è il “profilo poetico” dell’opera? Da fruitore dell’opera, in pubblico, spesso trovo che la presenza di un testo che possa introdurre il contesto

del lavoro, o che fornisca talvolta una chiave di lettura, può essere d’aiuto. Talvolta invece diventa un filtro tra il fruitore e l’opera che gli impedisce di “viverla” attraverso la propria sensibilità. peggio ancora, una didascalia estesa che “spiega” ciò che gli occhi devono ascoltare. Quando prepara una mostra, quali sono le spiegazioni scritte da affiancare al suo lavoro che considera irrinunciabili? Mi fà spesso piacere associare un mio scritto che enunci la genesi del progetto, alcun miei pensieri generati durante il processo e anche a posteriori, quando il lavoro mi comincia a parlare. Parlando del suo lavoro..in che relazione sono con la poetica la metodologia operativa, la riconoscibilità, la coerenza concettuale? Cose diverse, conseguenti...?


Sono tutti diversi aspetti di un unico processo, di un unico corpo. E’ difficile distinguerli come in una tomografia assiale. Per affrontare questa domanda si deve vivisezionare un corpo, di cui ciascuna immagine non rimanda più all’interezza dell’organismo. Ritengo che sia molto importante focalizzare l’aspetto esperienziale del lavoro di un artista, aspetto spesso tralasciato preferendo imporre all’opera categorie ad essa esterne, spesso estranee, proiezioni che distolgono dal “cuore del problema”: profondo, interno, sottile, presente.




indice dei nomi Anceschi, Luciano (1911-1995) letterario, saggista C3

critico

Anselmi, Tina (1927-) insegnante, sindacalista C4 Anselmo, Giovanni (1934-) artista C3

Boccaccio, Giovanni (1313-1375) scrittore C1 Boccioni, Umberto (1882-1916) artista C2 Boetti, Alighiero (1940-1994) artista C3

Aristotele (384 a.c.-322 a.c.) filosofo C1

Buonarroti, Michelangelo (1475-1564) artista C1

Balla, Giacomo (1871-1958) artista C2

Burri, Alberto (1915-1995) artista C3

Banfi, Antonio (1886-1957) filosofo C3

CarrĂ , Carlo (1881-1966) artista C2

Baumgarten, Alexander Gottlieb (17141762) filosofo C1

Cattelan, Maurizio (1960-) artista C4

Belisari, Stefano Roberto (1961-) cantante, musicista C4

Cavallucci, Fabio (1961-) curatore C4 Celant,Germano (1940-) critico, curatore C3

Bembo, Pietro (1470-1547) studioso di grammatica, scrittore, umanista C1

Croce, Benedetto (1866-1952) storico, scrittore, politico C2

Benjamin, Walter (1892-1940) scrittore, critico letterario C2

Da Vinci, Leonardo (1452-1519) scienziato, artista C1

filosofo,

filosofo,

De Kooning, Willem (1904-1997) artista C3


DellaFrancesca, Piero (1416-1492) artista C1 Di Ser Giovanni di Mone Cassai, Tommaso (Masaccio) (1401-1428) artista C1 Eco, Umberto (1932-) scrittore, saggista, filosofo C3

Oliva, Achille Bonito (1939-) critico, curatore C3 Paolini, Giulio (1940-) artista C3 Pascali, Pino (1935-1968) artista C3

Fabro, Luciano (1936-2007) artista C3

Petrarca, Francesco (1304-1374) scrittore, umanista C1

Fontana, Lucio (1899-1968) artista C3

Pistoletto, Michelangelo (1933-) artista C3

Gilardi, Piero (1942-) artista C3

Platone (427 a.c.- 347 a.c) filosofo C1

Kounellis, Yannis (1936-) artista C3

Politi, Giancarlo editoriale,curatore C3

Manzoni, Piero (1933-1963) artista C3 Marinetti, Filippo Tommaso (1876-1944) poeta, scrittore, artista C2 Merz, Mario (1925-2003) artista C3 Munari, Bruno (1907-1998) designer, artista C4

saggista,

Nanni, Luciano (1939-) scrittore, saggista C3

(1937-)

poeta,

direttore

Pollock, Jackson (1912-1956) artista C3 Russolo, Luigi (1885-1947) artista, musicista C2 Sanzio, Raffaello (1483-1520) artista C1 Severini, Gino (1833-1966) artista C2 Spaventa,Bertrando (1817-1883) filosofo, C2


Spaventa, Silvio (1822-1893) politico C2 Vasari, Giorgio (1511-1574) storico dell’arte C1

architetto,

Vezzoli, Francesco (1971-) artista C4 Zorio, Gilberto (1944-) artista C3



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AA.VV., Manifesti, proclami, interventi e documenti teorici del Futurismo -1909/1944 vol.1, a cura di Luciano Caruso, Coedizioni SpesSalimbeni, Firenze, 1980 AA.VV., Maurizio Cattelan, catalogo del museo d’arte contemporanea “Castello di Rivoli”, Charta, Milano 1997 AA.VV., Post Human, a cura di Jeffrey Deitch, Idea Books, Amsterdam 1992 AA.VV., Supercontemporanea, Maurizio Cattelan, a cura di Francesco Bonami, Electa, Verona 2006 Nicola Abbagnano, Dizionario di filosofia, unione tipografico-editrice Torinese, Torino 1971 Nicola Abbagnano/Giovanni Fornero, Protagonisti e testi della filosofia, Paravia-Mondadori, Milano 2000 Luciano Anceschi, Il caos, il metodo – primi lineamenti di una nuova estetica fenomenologica, Tempi Moderni, Napoli 1981


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