May I have your attention please?

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Era il 2000. Nel contesto di una classica acquisizione da parte della cultura popolare di massa di una sottocultura, Eminem il rapper bianco, emergeva dai quartieri disagiati di Detroit, sbattendo in faccia a tutti a chiare lettere in almeno un paio di super hit via mtv, una domanda precisa: MAY I HAVE YOUR ATTENTION PLEASE? Non sono mai stata una vera fan di Eminem, ma il singolo di Stan è stato il primo cd originale che io abbia mai comprato, litigando con i miei genitori preoccupati dall’etichetta Parental Advisor Explicit Content. “Finanzi uno che urla parolacce” uno che con le sue urla nel giusto flow, di cui in terza media non capivo assolutamente niente, era riuscito a farmi spendere un paio di paghette. Quattordici anni dopo, seguendo il profilo Instagram di Amalia Ulman 1 in un momento di particolare indigestione visiva da contemporaryartdaily.com, mi è tornato in mente The real slim shady.

Elena Radice Milano, 2015

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Excellences & Perfections http:// rhizome.org/editorial/2014/ oct/20/first-look-amaliaulmanexcellences-perfections/


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Tesi di Elena Radice Relatore tesi Domenico Quaranta Relatore progetto Hubert Westkemper Docente d’indirizzo Roberto Rosso Accademia di Bella Arti di Brera A.A. 2014/2015 Dipartimento di Progettazione e Arti Applicate Corso di Nuove tecnologie dell’arte Indirizzo di Arti multimediali del Cinema e del Video


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INDICE

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INTRODUZIONE

p. 17

TESTO

Parte Prima

Parte Seconda

Parte Terza

Parte Quarta

p. 109 p. 115

3102 NMUTUA/GNIRPS

hg uf

APPENDICE

BIBLIOGRAFIA

niart hgrubnidE 4781 enuJ 22

,.E tseraeD .htron gnidaeh niart eht morf gnitirw m’I sa ,dnah roop ym evigroF gninruojos sseltser ym tsdima ecnednopserroc rof emit elttil os smees erehT sa traeh ym ot esolc os ecnednopserroc a rof neve ,sesirpretne sseldne dna uoy ot etirw ot esimorp gnidnats gnol ym llew rebmemer I tuB .eno siht ym fo ynam os sdnammoc hcihw yteicos eht fo sgniod eht fo gnihtemos .sthguoht ym fo noitrop a egral os dna sruoh tahwemos( gniteem eno fo ,seton ym morf nward ,tnuocca na si ereH .oga thgintrof a ecalp koot hcihw ,)era syawla yeht sa ,ton tahwemos ,lacipyt dna sehsiw traeh ym sa hcum ,uoy ot gnihtyreve laever tonnac I ,ees ll’uoy sA .stpmorp ssapmoc larom eurt ym eht ni thgindim retfa etunim eno ,lausu sa ,denevnoc ytrap llams ruO 1 htiw detoof-thgil saw I .yrubsmoolB ni esuoh s’L .srM fo moor gniward


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INTRODUZIONE

How to begin? The first sentence sets the scene. It is a building block for a world to emerge in between words, sounds, and images. The beginning of a text or film is a model of the whole—an anticipation. A good beginning holds a problem in its most basic form. It looks effortless, but rarely is. A good beginning requires the precision and skill to say things simply. Like the crafts of making bricks, weapons, or files on hard drives, there is an art of creating beginnings.2 Un buon inizio genera l’ambiente interiore che accoglierà il testo che segue. Per iniziare mi sono chiesta innanzitutto che cos’è una tesi. Una tesi di laurea è un elaborato dattiloscritto di una lunghezza media variabile tra le cento e le quattrocento cartelle, in cui lo studente tratta un problema concernente l’indirizzo di studi in cui si vuole laureare. […] Questo libro si rivolge dunque a chi (anche senza essere milionario e avere a disposizione dieci anni per laurearsi dopo aver viaggiato in tutto il mondo) con una ragionevole possibilità di dedicare alcune ore della giornata allo studio, vuole preparare una tesi che gli 2

Hito Steyerl, “Beginnings: Harun Farocki, 1944-2014”, e-flux Announcements, New York, 2 aprile 2015

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dia anche una certa soddisfazione intellettuale e che gli serva anche dopo la laurea3

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Il nucleo di questa definizione di tesi è ancora piuttosto realistico, tuttavia, la metodologia proposta, in un certo ambito accademico ancora largamente in uso, non scende troppo a patti con la contemporaneità. L’esigenza di iniziare una ricerca sensata per il mio percorso è stata il motore che mi ha spinta a continuare e a intraprendere lo sforzo di dare un senso a questo tipo di conclusione degli studi in accademia. Come scegliere quindi un argomento? Per quanto un po’ complesso da delineare sia stato il mio percorso curricolare, la finalità che l’accademia dichiara di avere è quella di “formare artisti” e in effetti, il mio lavoro degli ultimi anni, è andato perlopiù nella direzione dello sviluppo di una pratica artistica personale, utilizzando le risorse di studio che l’accademia mi poteva dare e attingendo tanto, molto, altrove. Quale argomento può quindi servire l’intento di procedere in questa ricerca? La contemporaneità non può che essere centrale: definisce una parte di me sostanziale, trattandosi di quello che vivo quotidianamente e dell’ambito in cui la mia ricerca deve andare avanti, con cui deve scendere a compromessi e con cui si confronta costantemente. Dunque, negli ultimi due anni, la ricerca di un argomento è diventato il filtro con cui ho fatto pratica della mia contemporaneità. Tornando a quanto spiega così chiaramente Eco, restringere il campo è fondamentale. Quello che non esisteva nel 1977 tuttavia è un campo di dimensioni sconfinate accessibile in ogni momento, quindi molto più comples3

Umberto Eco, Come si fa una tesi di laurea, Milano, Bompiani, 1977


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so da restringere. Ho iniziato a raccogliere materiale per cercare di comprendere innanzitutto quali sono i confini sfumati della mia contemporaneità. Gli anni tra il 2010 e il 2015 sono stati progressivamente sempre più veloci e il mio tentativo di seguire quello che stava accadendo in tempo reale per capire quale fosse la cosa più importante su cui concentrarmi, sulla quale sviluppare un discorso teorico, mi ha portata gradualmente a una pratica autodistruttiva, in cui godere dell’esperienza di qualcosa è un momento impossibile da liberare dall’ansia da prestazione e dal senso di colpa. Mi sto fermando, intanto altre cose stanno accadendo: e se fossero più importanti? E se stessi compiendo un errore nel fermarmi qui e non più in là? Nella difficoltà del lavorare sull’impermanenza di informazioni non storicizzate perché in divenire, ho iniziato a comprendere quale dovesse essere il punto di partenza. How to live? è il titolo dell’ultima serie di opere di Andrea Zittel. Ho sempre amato il lavoro di Andrea Zittel per il suo pragmatismo e la sua radicalità; le sue opere finite spesso sono assimilabili più al design che all’arte, tuttavia i processi che portano alla loro creazione sono estremamente poetici: lo sforzo immaginifico verso una possibilità alternativa di sopravvivenza viene sfidato e raccontato nella sua urgenza, oggetto dopo oggetto, un modulo abitativo dopo l’altro, sondando i confini e gli standard del vivibile. The series of billboards titled “How to Live?” depicts domestic settings that embody this question with the everyday. The overarching question of “How To Live?” is derived from the essays of Michel de Montaigne, who’s life’s writings comprise a massive volume of essays and anecdotes on all the nuances of day-to-day living.

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Like Montaigne’s essays, these questions evolve in a personal and idiosyncratic manner, often being rewritten, or reevaluated in accordance to time and place.4

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Riconsiderare, rivedere, rivalutare ogni oggetto che mi sembrava rappresentare un buon punto di partenza non ha fatto nient’altro che riportarmi a quella semplice domanda: How to live? Che nome dare a questa impossibilità di delineare lucidamente se non in preda all’ansia da prestazione, se non ragionando sul fallimento come unica opzione liberatoria possibile? Jaakko Pallasvuo porta avanti da tempo un eccellente discorso poetico sulla possibilità del fallimento come unica soluzione: una possibile risposta della propria (la nostra) generazione, successiva a quella di Andrea Zittel, alla domanda How to live? Started writing something about the election results etc. but it’s beginning to dawn on me that my entire adult life will most likely be spent in opposition in a violently dumb uncaring historical era (to be exact my childhood too since my generation grew up during the post Soviet banking crisis era in Finland and has really only witnessed three decades of cuts to cultural social mental health etc. services and none of the hype of a social democracy being constructed and improved upon)…feels like it’s a question of conserving energy and using it tactically, like how to practice art & life with diminishing resources for an extended period of time. How to forgot dreams of Matthew Barney style grandeur and switch visions of the future to cardboard installations and shoplifting? Both in terms of queerness 4

www.zittel.org/works


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and art I’d love to let go of notions of general acceptability and legitimacy, campaigning for one’s right to be in the face of monumental self-destructive anti-culture stupidity is fucking exhausting. Maybe more direct action, maybe everyone do what the fuck they want to, less admin shit since the world is uncontrollable anyways. More fun without money, less HD and Nike art since we’re fools for wasting money on competing with advertising. More anonymity, more fun, less cvs, less statements, less responsibilities, less budget flights, less anxiety.5 Ho iniziato a delineare chiaramente il disagio attentivo, l’esigenza impossibile da assecondare di resistere al flusso. Il collettivo curatoriale DIS, nella sua più recente ricerca che stenderà le basi per la prossima Biennale di Berlino, sembra cogliere l’urgenza di una riflessione profonda a riguardo, urgenza che sta letteralmente esplodendo nell’attuale dibattito culturale. […] But for others the algorithmic regime is something much more virulent than anything capitalism has ever produced, perhaps something altogether more strange. The entrenched relationship between monopolized networks and networked monopolies has created an economic landscape whose power is centralized and whose beating heart grows ever more opaque. Ideologies used to have explicit fixations and institutions. But the presence of brutal information capitalism pervades us inside and out. It wakes us in the morning and feeds us at night. It sends us to the clinic and gets us to work. Meanwhile the old forms of resistance 5

Jaakko Pallasvuo, fb status 8 maggio 2015

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are frozen in technological obsolescence, petrified by the hyper-efficient Medusa’s gaze of disruptive innovation. From all nodes in the network, from underseas cables to overseas data centers, from client to server and back again, one thing is clear: the datalogical mind is just beginning to take shape.6

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Se esiste una possibile assonanza con l’idea accademica pre-internet di quello che è una tesi, questo, per me è senza dubbio il punto di partenza. Ogni antitesi non è nient’altro che un punto di vista possibile sullo stato delle cose, espressa nella forma di un’ipotesi teorica e non può che diventare l’ennesimo testo insignificante, senza conseguenza alcuna sulla realtà. Per quanto circoscritta, la mia scelta è stata quella di incidere almeno su di una parte di realtà in cui ho possibilità di azione: quella adiacente alla mia persona. La produzione di questo testo è stata pretesto per dialoghi ed esperienze, nel tentativo di costruire un’antitesi basata sulla pratica. Non ci saranno più parole del dovuto, utilizzerò le parole di altri quando le considererò la forma espressiva più adeguata per esprimere un concetto. Durante questo percorso ho imparato bene una lingua, l’inglese, e meno bene un’altra lingua, il francese: le fonti saranno espresse in tutte e tre le lingue, la traduzione implica una concertazione linguistica basata sul referente che questa sede non mi permetterebbe di sviluppare nel migliore dei modi e non essendo stata la traduzione un passaggio obbligato al fine della comprensione, la eviterò anche nella trascrizione. Nel caso del francese, trattasi di testi di recente pubblicazione non ancora tradotti né in 6

Marvin Jordan and Mike Pepi, “Too big to scale: introducing the Data Issue”, http:// dismagazine.com/discussion/73440/dis-presents-the-data-issue/


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inglese né in italiano. Per quanto riguarda l’inglese, laddove esiste una versione tradotta dei testi, la mia scelta ricadrà su di essa solo nel caso in cui l’aderenza linguistica sia sensata rispetto al mio contesto di scrittura. È difficile determinare quanti testi siano scritti secondo i dogmi del British National Corpus (BNC), e quanti in International Art English (IAE). Hito Steyerl, a questo riguardo, ha ben argomentato l’impossibilità di una ricerca di purezza di fronte all’attuale lingua franca dell’arte in un saggio intitolato International Disco Latin : As Mladen Stilinović told us a long time ago: an artist who cannot speak English is not an artist. This is now extended to gallery interns, curatorial graduate students, and copywriters. And even within our beloved and seemingly global art world, there is a Standard English Defence League at work, and the BNC is its unspoken benchmark. Its norms are not only defined by grammar and spelling, but also by an extremely narrow view of “incorrect English.” As Aileen Derieg, one of the best translators of contemporary political theory, has beautifully argued: “incorrect English” is anything “not phrased in the simplest, shallowest terms, and the person reading it can’t be bothered to make an effort to understand anything they don’t already know.”7 Leggendo saggistica e articoli quasi esclusivamente in inglese da due anni a questa parte, utilizzando la scrittura sia in italiano che in inglese quasi unicamente a scopo epistolare, anche il mio modo di esprimermi in italiano per iscritto è sicuramente cambiato e la mia logica si è sicuramente formata in termini linguistici prevalentemente 7

Hito Steyerl, “International disco latin”, e-flux Journal n.45, New York, maggio 2013

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su processi dialogici che inevitabilmente influiscono sul mio modo di pensare e organizzare un discorso. Ho dunque utilizzato per comunicare, durante buona parte della mia ricerca, un linguaggio ibrido e prevalentemente dialogico, costituito da tutte le lingue citate: la non traduzione è dunque considerabile come fenomenologicamente intrinseca alla costruzione di questo testo. […]Beaucoup de textes sont toujours écrits comme si le Web n’avait jamais existé. […] Avec internet, nous lisons et nous écrivons plus qu’avant, mais ces usages n’ont pas encore vraiment été reconnus à leur juste valeur littéraire. Encore une fois, c’est ce que j’espère changer.[…]8

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Internet per me, come per un numero di persone sempre più alto anche in Italia, esiste tantissimo: fonte e argomento, luogo da cui staccarsi per esperire e luogo di esperienza e tutto questo e il suo contrario contemporaneamente. Il salvataggio di una sessione di navigazione ponderata potrebbe essere efficace nell’esprimere un concetto tanto quanto un libro, inclusa una certa poetica: questo testo non può che tenerlo in considerazione.

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Kenneth Goldsmith, intervistato da Ingrid Luquet-Gad per Les in Rocks, 13 maggio 2015




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parte prima

Il tentativo di delineare il più possibile cosa entri in gioco quando si parla di attenzione, è un passo a cui non ci si può sottrarre nel tentare di comprendere la condizione umana contemporanea nel mondo occidentale. Se da un lato le sindromi da disturbo attentivo—ADHD—e quelle da burnout—BD—fanno emergere clinicamente una problematicità nella gestione della quotidianità in relazione a una iperstimolazione, su di un altro livello il dibattito culturale vaglia l’influenza che questo tipo di contesto sta avendo sulla formazione del pensiero. La definizione di attenzione a cui si fa ancora largamente riferimento è contenuta in Principles of Psychology, di William James, un docente di Filosofia di Harvard che, con la pubblicazione di questo testo nel 1890, sancisce il passaggio degli studi sull’attenzione, in termini di discussione e competenza, dalla filosofia alla psicologia. Everyone knows what attention is. It is the taking possession by the mind, in clear and vivid form, of one out of what seem several simultaneously possible objects or trains of thought. Focalization, concentration, of consciousness are of its essence. It implies withdrawal from some things in order to deal effectively with others, and is a condition which has a real opposite in the confused, dazed, scatterbrainad

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state which in French is called distraction and zerstreutheit in German.9

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Tentando una tassonomia, James distingue gli oggetti della nostra attenzione in due categorie: quelli derivanti dalla percezione sensoriale—object of sense—oppure ideali e quelli rappresentati nella nostra mente—intellectual attention. Distingue quindi le differenti tipologie di attenzione in attenzioni immediate o derivate, attive o passive. La riconoscibilità per esempio, giocherebbe un ruolo molto importante nel caso in cui si applichi a un oggetto un’attenzione sensoriale derivata passiva: istintivamente si viene attratti da un elemento che stimola una percezione già conosciuta, senza che essa sia necessariamente presente in pienezza nel momento presente. L’attenzione attiva o volontaria invece è definita come sempre derivata perché collegata a uno sforzo, non è istintiva, ma spinta dal pensiero remoto di una concatenazione di eventi/oggetti che ci portano a raggiungere il nostro obiettivo. Parlando di attenzione intellettuale, James arriva ad ammettere che un soggetto può essere così assorto da risultare distratto, contraddicendo in parte la definizione base di attenzione su cui si fondano le sue considerazioni. Il paradosso che ne emerge è che la distrazione o la disattenzione sono entrambe espressioni utilizzate come contrari dell’attenzione, se non che, di fatto, definiscono generalmente uno spostamento dell’attenzione verso altro oggetto rispetto a quello preposto. In un certo senso, in un contesto disattentivo, l’attenzione sembrerebbe esserci comunque, ma in forma volubile, mobile, soggetta al cambiamento nel tempo. 9

William James, Principles of Psychology, Cambridge, Harvard Univ. Press, 1890


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James tenta dunque di circoscrivere un concetto simile a quello che successivamente verrà chiamato “multitasking”: […] To how many things can we attend at once? […] indefinite, depending on the power of the individual intellect, on the form of the apprehension, and on what the things are.9 21

Le suddivisioni proposte da James sono senza dubbio parziali, purificate dall’opacità densa del reale, come un’onda sinusoidale in una camera anecoica: diventano utilizzabili se rapportate ad un contesto, considerandone tutte le variabili. In The Psychology of Attention, Théodule-Armand Ribot, psicologo francese molto conosciuto per i suoi studi sull’amnesia, definisce l’attenzione come un indistricabile insieme di fenomeni consci e inconsci, anche quando essa sembrerebbe ricadere del tutto sotto la nostra volontà. Nella sua lettura del fenomeno per fasi, oggetti, reazioni emotive e razionali, Ribot definisce l’attenzione involontaria come uno stato successivo alla sorpresa, condizione che sarebbe invece legata a una reazione emotiva impulsiva. Studi successivi sull’attenzione hanno suddiviso nuovamente le tipologie in: attenzione variabile—che cambia rapidamente tra differenti aree di interesse nello stesso momento—attenzione divisa—che segue due o più differenti processi di stimolo paralleli—attenzione selettiva— che si definisce isolando alcuni stimoli e ignorandone altri—attenzione sostenuta—riferita ad un’attività mentale per un periodo di tempo prolungato—attenzione focalizzata—che si sviluppa in un periodo di tempo molto breve, concentrando tutte le energie dell’individuo su di un singolo stimolo.


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Lo scopo di questa continua categorizzazione è l’utilità nell’ambito della misurazione che, tuttavia, in condizioni reali, ha ancora dei grandissimi limiti. È interesse di molti riuscire a capire come lavorare sulla soglia attentiva sulla base di dati certi, ma finora, in situazioni non protette, le uniche misurazioni possibili sono parziali. Le quantificazioni derivano dal movimento legato alla visione: come si sposta l’occhio e come si spostano le persone in una massa rispetto agli stimoli che le circondano. I dati sensibili vengono raccolti attraverso telecamere simili a quelle di sorveglianza. Il paradosso che lega l’attenzione alla disattenzione è alla base della cosiddetta attention economy. The wealth of information means a dearth of something else: a scarcity of whatever it is that information consumes. What information consumes is rather obvious: it consumes the attention of its recipients. Hence a wealth of information creates a poverty of attention.10 Se la parola “economia” definisce l’insieme di sistemi volti a gestire una risorsa di cui non vi è abbondanza, l’economia dell’attenzione viene quindi teorizzata in primis come inversione dell’economia dell’informazione: se vi è troppa informazione, sussiste una scarsità di attenzione. In tempi ancora non sospetti il potenziale dell’Internet, che attualmente occupa un ruolo primario nell’amplificazione della sovrabbondanza informativa, era già molto evidente:

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Herbert A. Simon, “Designing Organizations for an Information-Rich World”, in Martin Greenberger, Computers, Communication, and the Public Interest, Baltimore, The Johns Hopkins Press, 1971


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Ours is not truly an information economy. By definition, economics is the study of how a society uses its scarce resources. […] We are drowning in information, yet constantly increasing our generation of it. […] There is something else that moves through the Net, flowing in the opposite direction from information, namely attention.11 La società dell’informazione non è più la società dello spettacolo descritta da Guy Debord nel 1967: l’identificazione del corpo umano come luogo privilegiato dello sviluppo del capitalismo, si è spinta rapidamente molto più avanti. In questa direzione l’analisi di Franco Berardi, in linea con il cosiddetto pensiero post-fordista, conduce il discorso circa l’economia dell’attenzione partendo da una riflessione sul capitalismo cognitivo e delineandone le conseguenti influenze sulla formazione del pensiero libero negli esseri umani privati del proprio tempo emotivo. In their book Attention Economy, Davenport and Beck say that the central problem of the cognitive worker, and generally of people who are living in hypersaturated informational environments, is this: we have no more time for attention, we are no more able to understand and process information input because our time is saturated by a flow of hyper in formation. We don’t have time for attention in the workplace. We are forced to process far too large amounts of information and our body-mind is completely taken by this. And further, we have no time for affection, for communication, for erotic relationships. We have no more time for that spatial kind of attention 1 1 Michael

H. Goldaber, “The attention economy and the Net”, First Monday, 1997

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that means attention to the body – to our body, to the body of the other. So, more and more, we feel that we have run out of time; that we must accelerate. And we feel simultaneously that acceleration leads to a loss of life, of pleasure and of understanding.12

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Il tempo per superare lo stato istintivo di sorpresa che lascia spazio alla condizione attentiva viene bruciato sempre di più dall’accelerazione della frequenza degli stimoli. La disattenzione supera il proprio paradosso: il movimento attentivo accelera diventando distrazione emotiva permanente che non evolve mai in uno stato cosciente di presenza. L’individuo che ne risulta è debole e malleabile perché incapace di empatizzare e di conseguenza di sviluppare un pensiero critico condiviso. Han Byun-Chul, filosofo coreano, attualmente docente di filosofia e studi culturali presso la UdK di Berlino, analizza le sindromi da carenza attentiva escludendole dalla riflessione sull’estraneità e dal concetto di patologico, basandosi su principi di non contrapposizione ma di inclusione esponenziale. Traccia quindi una netta linea tra la descrizione della società disciplinare fatta da Focault, e quella attuale che egli definisce “società della prestazione”, in cui il disagio si sviluppa a partire da un perenne senso di colpa, di mancata adeguatezza ad un contesto iper-positivo, che rende ognuno sfruttatore di sé stesso fino all’auto-consunzione. Da questo deriva una riflessione sul multitasking completamente in controtendenza: esso non rappresenta il prossimo passo da ponderare, è invece un fenomeno noto proprio del mondo animale, ovvero un meccanismo che ci fa regredire. 12

Franco Berardi, Precarious Rhapsody - Semiocapitalism and the pathologies of the post-alpha generation, London, Minor Composition, 2009


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L’eccesso di positività si esprime anche come eccesso di stimoli, informazioni e impulsi. Ciò modifica radicalmente la struttura e l’economia dell’attenzione. Di conseguenza la percezione risulta frammentata e dispersa. Anche il carico di lavoro sempre crescente rende necessaria una particolare tecnica del tempo e dell’attenzione, che retroagisce sulla struttura dell’attenzione stessa. La tecnica del tempo e dell’attenzione definita multitasking non costituisce un progresso civilizzante. Il multitasking non è un’abilità di cui sarebbe capace soltanto l’uomo nella società del lavoro e dell’informazione tardo-moderna. Si tratta, piuttosto, di un regresso. Il multitasking infatti si trova già largamente diffuso tra gli animali in natura. È una tecnica dell’attenzione indispensabile per la sopravvivenza nell’habitat selvaggio. Un animale intento a nutrirsi deve svolgere contemporaneamente altri compiti. Per esempio, deve tenere gli altri predatori lontani dalla preda. Deve costantemente far attenzione, mentre mangia, a non essere anche lui divorato. Nello stesso tempo deve sorvegliare la prole e tenere d’occhio i partner sessuali. In natura, dunque, l’animale è abituato a suddividere la propria attenzione tra diverse attività. Così, è incapace – che stia mangiando o che si stia accoppiando – di qualsiasi immersione contemplativa. L’animale non può immergersi contemplativamente in ciò che ha di fronte perché, insieme, deve rielaborare lo sfondo. Non solo il multitasking ma anche attività come i videogiochi generano un’attenzione diffusa ma superficiale, simile al modo in cui è vigile un animale selvatico. Gli sviluppi sociali piú recenti e il modificarsi strutturale dell’attenzione avvicinano sempre piú la società umana allo stato di natura. Intanto, fenomeni come, per esempio, il mobbing hanno raggiunto una diffusione pandemica.

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La preoccupazione di vivere bene, nella quale rientra anche una riuscita convivenza, cede sempre piú il passo alla preoccupazione di sopravvivere.13 La conclusione di Bifo sulla condizione dell’arte in un contesto conseguente al disagio attentivo è una constatazione di cinismo da parte di chi dovrebbe produrla, basata sulla contrapposizione: 26

The art of the twenty first century no longer has that kind of energy, even though it keeps using expressions from the 1900s, perhaps out of modesty, perhaps because it is scared of its own truth. Artists no longer search the way to a rupture, and how could they? They seek a path that leads to a state of equilibrium between irony and cynicism that allows them to suspend the execution, at least for a moment. Is art the postponement of the holocaust? All energy has moved to the war front. Artistic sensibility registers this shift and is incapable of opposing it.12 Quella di Han Byun-Chul denota invece l’impossibilità dello sviluppo di un pensiero profondo, primi oppositori del quale, dal proprio interno, in quanto parte dell’umanità disattenta, sono i produttori di cultura stessi. Dobbiamo le attività culturali dell’umanità – tra cui rientra anche la filosofia – a una profonda attenzione contemplativa. La cultura presuppone un ambiente circostante in cui sia possibile un’attenzione profonda. L’attenzione profonda viene progressivamente sostituita da una forma di attenzione ben diversa, 13

Byung-Chul Han, La società della stanchezza, Roma, Nottetempo editore, 2012


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l’iperattenzione (hyperattention). Il rapido cambiamento di focus tra compiti, sorgenti d’informazione e processi diversi caratterizza questa attenzione dispersa. Poiché tra l’altro essa ha una tolleranza minima per la noia, ammette poco anche quella noia profonda che pure non sarebbe irrilevante per un processo creativo. Walter Benjamin definisce questa noia profonda un “uccello incantato, che cova l’uovo dell’esperienza”. Se il sonno è il culmine del riposo fisico, la noia profonda sarebbe il culmine del riposo spirituale. La pura frenesia non crea nulla di nuovo, ma riproduce e accelera ciò che è già disponibile. Benjamin lamenta che questi nidi dell’uccello incantato, nidi di riposo e di tempo, scompaiano sempre più nella modernità. Non si sarebbe piú “tessuto e filato”. La noia non sarebbe che un “un caldo panno grigio, rivestito all’interno di fodera di seta dai più smaglianti colori”, nel quale “ci avvolgiamo quando sogniamo”. “Nei suoi arabeschi” ci sentiamo “a casa”. Con la scomparsa del riposo si perderebbe la “facoltà di ascoltare” e sparirebbe la “comunità degli ascoltatori”. Diametralmente opposta a essa è la nostra società dell’azione. La “facoltà di ascoltare” si basa infatti su una capacità di attenzione profonda, contemplativa, a cui l’ego iperattivo non ha vie d’accesso.13 Yves Citton, docente di letteratura all’Università di Grenoble, in un saggio del 2013, Œuvres de lectures et économies de l’attention cita tre regimi attentivi definiti da Dominique Boullier—sociologo, attualmente insegnante a Science Po, specializzato in tecnologie cognitive—come gli ambiti in cui si dirama l’industria dell’attenzione: la fidelizzazione—ovvero la tendenza a legare il consumatore a qualcosa a lungo termine—l’allerta—basata sullo stupore costante e sulla stimolazione sensoriale continua—

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e l’immersione—tipica della costruzione di un mondo virtuale in cui la partecipazione si basa su un principio di inazione. Queste tre formule coesistono da molto tempo in forme differenti, l’origine dell’economia dell’attenzione è quindi collocabile in un tempo precedente alla sua definizione, la differenza è che ne è cambiata la densità: Est-ce à dire pour autant que l’économie de l’attention constitue un substrat transhistorique, dont nous ne faisons périodiquement que redécouvrir les mêmes règles de base, ancrées dans les principes élémentaires de la phénoménologie ou de la psychologie individuelle ? Rien n’est moins sûr. Tout suggère au contraire que l’avènement du numérique nous situe à un point de basculement majeur, dont nous ne pouvons encore qu’entrevoir les conséquences profondes.14

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È proprio questa frequenza variata, ancora in parte imprevedibile, che in relazione a quello che Citton definisce come il quarto regime attentivo, quello cioè dell’interpretazione—che si sviluppa quando si pone la propria attenzione ad un oggetto esterno relazionandolo con la propria persona e mettendo in campo differenti tipi di pratiche attentive—agisce in virtù della sola percezione visiva a discapito di tutto il resto. D’une part, la «littérature» est en train d’être asphyxiée par des objets communicants plus rapides et plus immédiats (photos, vidéos, sms, Twitter), tous balancés sur internet à la vitesse de la lumière. D’autre part, les 14

Yves Citton, “Ouvres de lecture et économies de l’attention. Le lecteur à l’ouvre”, Infolio, Genève, 2013


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activités «critiques» et « théoriques » qui ont accompagné la sacralisation de la littérature se trouvent aujourd’hui neutralisées par un surfing, un zapping et un copier-coller généralisés, qui se contentent de butiner le pollen où qu’il se trouve, se l’appropriant «sauvagement» sans perdre de temps à comprendre d’où il vient ni ce qu’il pourrait signifier «par lui-même» (GIGLIOLI 2012). Par voie de conséquence, «l’œuvre » ne dispose plus de l’espace protégé d’une «stase interprétative » lui permettant de déployer progressivement ses richesses cachées, mises au jour par le travail patient et ascétique d’un lecteur-exégète les dispositifs contemporains visant davantage à exercer une « action directe» sur leur récepteur-consommateur (HANNA 2010; COULANGEON 2011). Enfin, le «lecteur» serait lui-même en voie d’extinction au sein d’un monde qui, au fil de la multiplication des écrans et de «l’obsolescence du livre», deviendrait de plus en plus une «civilisation de l’image» déléguant les basses tâches de la lecture aux interactions machiniques entre scanneurs et bar-codes.14 L’universo percettivo è quindi sbilanciato sulla visione e il suo contenuto è funzionale ad uno stato di permanente iperattenzione. Jonathan Crary ha studiato le origini di questo sbilanciamento graduale nei confronti della visione, che lentamente scivola attraverso un secolo e mezzo nel capitalismo dell’immagine, dal punto di vista del consumatore/osservatore. Egli identifica con la diffusione della fotografia, preparata da anni di percezione mediata dalla camera obscura, il primo esempio di potere economico legato all’attenzione visiva modellata nel tempo sulla base di una tecnica di osservazione.

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Within this new field of serially produced objects, the most significant, in terms of their social and cultural impact, were photography and a host of related techniques for the industrialization of image making. The photograph becomes a central element not only in a new commodity economy but in the reshaping of an entire territory on which signs and images, each effectively severed from a referent, circulate and proliferate. Photographs may have some apparent similarities with older types of images, such as perspectival painting or drawings made with the aid of a camera obscura; but the vast systemic rupture of which photography is a pan renders such similarities insignificant. Photography is an element of a new and homogeneous terrain of consumption and circulation in which an observer becomes lodged. To understand the “photography effect” in the nineteenth century, one must see it as a crucial component of a new cultural economy of value and exchange, not as pan of a continuous history of visual representation. “Photography and money become homologous forms of social power in the nineteenth century.” They are equally totalizing systems for binding and unifying all subjects within a single global network of valuation and desire. As Marx said of money, photography is also a great leveler, a democratizer, a “mere symbol,” a fiction “sanctioned by the so-called universal consent of mankind.” Both are magical forms that establish a new set of abstract relations between individuals and things and impose those relations as the real. It is through the distinct but interpenetrating economies of money and photography that a whole social world is represented and constituted exclusively as signs.


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[…] If there is ever a “liberation” of vision in the nineteenth century, this is when it first happens. In the absence of the juridical model of the camera obscura, there is a freeing up of vision, a falling away oft he rigid structures that had shaped it and constituted its objects. But almost simultaneous with this final dissolution of a transcendent foundation for vision emerges a plurality of means to recode the activity of the eye, to regiment it, to heighten its productivity and to prevent its distraction. Thus the imperatives of capitalist modernization, while demolishing the field of classical vision, generated techniques for imposing visual attentiveness, rationalizing sensation, and managing perception. They were disciplinary techniques that required a notion of visual experience as instrumental, modifiable, and essentially abstract, and that never allowed a real world to acquire solidity or permanence. Once vision became located in the empirical immediacy of the observer’s body, it belonged to time, to flux, to death. The guarantees of authority, identity, and universality supplied by the camera obscura are of another epoch.15 La più recente ricerca di Crary si è concentrata poi nell’analisi del tempo del sonno. Similmente alla noia profonda definita da Han Byun-Chul, il sonno è il luogo in cui avviene una liberazione. Se la noia profonda genera una libertà creativa cosciente, il sonno libera il subconscio, permette un rilassamento emotivo, ed è un momento, dal punto di vista capitalista, completamente non funzionale.

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Jonathan Crary, Techniques of the Observer, Cambridge, October Book - MIT Press, 1990

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Durante il sonno si sospende forzatamente il consumo, gli occhi sono chiusi, non siamo raggiungibili. La società dell’economia attentiva basata sulla visione segue il modello 24/7, in cui il sonno diventa il fenomeno perfetto per l’amplificazione del senso di colpa da non produzione. Nella condizione iperattentiva, in cui lo stimolo è costante, il sonno rappresenta a livello pratico e simbolico l’interruzione basata sull’alternanza tra attività e inattività, tra movimento e stasi, tra comunicazione e silenzio. Le conseguenze dell’erosione del sonno che vengono tracciate in 24/716 sono catastrofiche, e non dissimili alle considerazioni di Bifo circa l’incapacità emotiva che evolve in incapacità politica e abbandono immediato della forma democratica basata sull’ascolto reciproco. Sleep has always been porous, suffused with the flows of waking activity, though today it is more unshielded than ever from assaults that corrode and diminish it. In spite of these degradations, sleep is the recurrence in our lives of a waiting, of a pause. It affirms the necessity of postponement, and the deferred retrieval or recommencement of whatever has been postponed. Sleep is a remission, a release from the “constant continuity” of all the threads in which one is enmeshed while waking. It seems too obvious to state that sleep requires periodic disengagement from networks and devices in order to enter a state of inactivity and uselessness. It is a form of time that leads us elsewhere than to the things we own or are told we need. In my account, modern sleep includes the interval before sleep—the lying awake in quasi-darkness, waiting

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Jonathan Crary, 24/7, New York, VersoBook, 2013


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indefinitely for the desired loss of consciousness. During this suspended time, there is a recovery of perceptual capacities that are nullified or disregarded during the day. Involuntarily, one reclaims a sensitivity or responsiveness to both internal and external sensations within a non-metric duration. One hears sounds of traffic, a dog barking, the hum of a white-noise machine, police sirens, heat pipes clanking, or feels the quick twitching of one’s limbs, the pounding of blood in one’s temples, and sees the granular fluctuations of retinal luminosity with one’s eyes shut. One follows an uneven succession of groundless points of temporary focus and shifting alertness, as well as the wavering onset of hypnagogic events. Sleep coincides with the metabolizing of what is ingested by day: drugs, alcohol, all the detritus from interfacing with illuminated screens; but also the flood of anxieties, fears, doubts, longings, imaginings of failure or the big score. This is the monotony of sleep and sleeplessness, night after night. In its repetition and unconcealment, it is one of the unvanquishable remnants of the everyday. One of the many reasons human cultures have long associated sleep with death is that they each demonstrate the continuity of the world in our absence. However, the only temporary absence of the sleeper always contains a bond to a future, to a possibility of renewal and hence of freedom. It is an interval into which glimpses of an unlived life, of a postponed life, can edge faintly into awareness. The nightly hope for the insensible state of deep sleep is at the same time an anticipation of an awakening that could hold something unforeseen. […] Now, in the twenty-first century, the disquiet of sleep has a more troubling relation to the future. Located somewhere on the border between the social

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and the natural, sleep ensures the presence in the world of the phasic and cyclical patterns essential to life and incompatible with capitalism. Sleep’s anomalous persistence has to be understood in relation to the ongoing destruction of the processes that sustain existence on the planet. Because capitalism cannot limit itself, the notion of preservation or conservation is a systemic impossibility. Against this background, the restorative inertness of sleep counters the deathliness of all the accumulation, financialization, and waste that have devastated anything once held in common. Now there is actually only one dream, superseding all others: it is of a shared world whose fate is not terminal, a world without billionaires, which has a future other than barbarism or the post-human, and in which history can take on other forms than reified nightmares of catastrophe. It is possible that— in many different places, in many disparate states, including reverie or daydream— the imaginings of a future without capitalism begin as dreams of sleep. These would be intimations of sleep as a radical interruption, as a refusal of the unsparing weight of our global present, of sleep which, at the most mundane level of everyday experience, can always rehearse the outlines of what more consequential renewals and beginnings might be.16 Chiudere gli occhi e dormire è una forma di resistenza primaria all’economia dell’attenzione che ci sottrae dal gioco di sguardi a cui siamo costantemente sottoposti. Ci viene richiesto di guardare e siamo guardati: il formato in cui viene incasellato il nostro sguardo è diventato nel tempo il luogo prediletto dello sviluppo della sua capitalizzazione e la consapevolezza della sua centralità, soprattutto in termini di comunicazione generalista,


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non è affatto scontata. Incalculable streams of images are omnipresent 24/ 7, but what finally occupies individual attention is the management of the technical conditions that surround them: all the expanding determinations of delivery, display, format, storage, upgrades, and accessories. […] Any act of viewing is layered with options of simultaneous and interruptive actions, choices, and feedback. The idea of long blocks of time spent exclusively as a spectator is outmoded. This time is far too valuable not to be leveraged with plural sources of solicitation and choices that maximize possibilities of monetization and that allow the continuous accumulation of information about the user.16 Buona parte del giornalismo italiano utilizza le parole “Google”, “Facebook” e “Instagram” come sinonimi di “Internet”, la biodiversità del Web andrebbe invece preservata e diffusa ma certamente la libertà che questo implica, per quella che Bifo definisce “la generazione che ha imparato più parole dalla macchina che dalla mamma” è un problema che spesso non si pone, per la politica è una zona grigia troppo complessa per riuscire a discuterla rispettandone l’autonomia. Nel suo contributo alla raccolta di saggi recentemente curata da Yves Citton sull’economia dell’attenzione, Matteo Pasquinelli, ricercatore italiano attualmente di base a Londra17, ha identificato come uno dei più potenti strumenti dell’economia dell’attenzione il PageRank, ovvero l’algoritmo che sta dietro all’indicizzazione delle pagine di Google. Il PageRank gestisce la selezione di una infinità di dati 17

http://matteopasquinelli.com/

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per fornirci un risultato di ricerca sintetizzato e parziale. Più viene migliorato l’algoritmo e più la capitalizzazione dell’attenzione che mettiamo online diviene perfetta. La prospettiva paradossale in cui l’utente consapevole rimane incastrato viene spiegata molto bene in questi termini: La battaglia contro l’accumulazione di dati operata da PageRank è molto simile alle battaglie contro l’accumulazione di capitali e contro i monopoli tradizionali. PageRank sta all’Internet, come l’accumulazione originaria e la rendita fondiaria stanno agli albori del capitalismo. Se parliamo di general intellect, dovremmo immaginare quindi anche una accumulazione originaria del sapere che nell’era del digitale acquista tutto il suo senso. Ad ogni modo, una critica dell’attuale forma rete non può essere stabilita sulla prevedibile narrazione dei network buoni e cooperativi contro i network cattivi e monopolistici. Una risposta politica può essere immaginata solo se si comprende la natura del dispositivo molecolare che produce il valore di rete. PageRank e lo stesso Google non saranno neutralizzati facilmente. Ma per essere precisi, anche le scuole tanto di moda della cooperazione peer-to-peer e della “produzione sociale” attraverso Internet non rappresenteranno mai una coerente proposta politica finché non affronteranno il punto nodale della produzione e accumulazione del plusvalore di rete.18

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Matteo Pasquinelli, “Google PageRank: une machine de valorisation et d’exploitation de l’attention”, in Yves Citton, L’économie de l’attention, Paris, Éditions La Découverte, 2014


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La questione posta da Matteo Pasquinelli circa il PageRank di Google non viene superata dal manifesto accelerazionista19, che tra vaghezze e nettezze suddivise per punti, cerca di discutere l’annosa questione dell’immaginazione di un altro tipo di futuro, mettendo in campo principalmente idee per lo smantellamento del presente. Toni Negri ha scritto un testo, recentemente pubblicato in versione tradotta da e-flux Journal20, in cui, quasi paternamente, commenta e critica il manifesto accelerazionista parlando del futuro in questi termini: Il futuro ha bisogno di essere costruito: questa istanza illuminista corre attraverso tutto il MPA. Ed anche una politica prometeica, umanista, vi è completamente inclusa – un umanesimo che tuttavia, proponendosi di andare oltre i limiti imposti dalla società capitalistica, si apre al post-umano, all’utopia scientifica, fra l’altro riprendendo per esempio i sogni spaziali del XX secolo, oppure, sempre per fare esempi, costruire muraglie sempre più insuperabili contro la morte e tutti gli accidenti della vita. L’immaginazione razionale deve accompagnarsi alla fantasia collettiva di nuovi mondi, organizzando un’“auto-valorizzazione” forte del lavoro e del sociale. L’epoca più moderna che abbiamo vissuto, ci ha mostrato che non c’è altro che un Dentro della globalizzazione, che non c’è più un Fuori – oggi tuttavia, ponendoci nuovamente il tema della costruzione del futuro, abbiamo la necessità, e senza dubbio la possibilità, di portare Dentro anche il Fuori, di dare al Dentro un respiro possente. 19

Nick Srnicek e Alex Williams, ”Manifesto for an Accelerationist Politics” in: Jousha Johnson (a cura di), Dark Trajectories: Politics of the Outside. Miami, Name, 2013

20

Antonio Negri, “Reflections on the ‘manifesto for an Accelerationist Politics’”, e-flux Journal n.53, New York, marzo 2014

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Che dire di questo documento? Alcuni di noi lo sentono come un “complemento” post-operaista, nato sul terreno anglo-sassone, meno disponibile a riedizioni dell’umanesimo socialista, più capace di sviluppare un umanesimo positivo. Il nome “accelerazionismo” è senz’altro infelice, dà un senso “futurista” a quello che futurista non è. Il documento ha indubbiamente un sapore di attualità, non solo nella critica del socialismo e della social-democrazia “reali”, ma anche nell’analisi e nella critica dei movimenti 2011 e seguenti. Pone con estrema forza il tema della tendenza dello sviluppo capitalistico, della necessità di una sua riappropriazione e della sua rottura: insomma, su questa base, propone la costruzione di un programma comunista. Tutto questo dà gambe forti per andare avanti.21 Matteo Pasquinelli ha curato la traduzione in italiano del Manifesto dell’Accelerazionismo, come anche la traduzione in inglese per e-flux del testo di Toni Negri. Il tema, probabilmente per questioni di appannaggio culturale, è oggetto di scambio tra pensatori di origini prevalentemente europee, vi è una vera e propria rete di pensiero che ruota intorno ad alcune case editrici, siti, blog, ed è uno scambio estremamente aperto, in cerca di soluzioni ma non ancora risolutivo, se non per fatto stesso di esistere in forma aperta. La complessità della società della disattenzione lascia a buona parte dei tentativi di analisi larghi margini di paradosso entro i quali la sollevazione di massa non sembra essere un’opzione percorribile. La riflessione sulle problematiche attentive è però 2 1 Toni

Negri, “Riflessioni sul manifesto per una politica accelerazionista”, Euronomade,

7 febbraio 2014


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talmente centrale da aver già ampiamente toccato aree di discussione più generaliste. Il New Yorker ha pubblicato in data 16 giugno 2015 un articolo di Joshua Rothman, “A new theory of distraction” che recensisce l’ultimo best seller di Matthew Crawford, ricercatore americano piuttosto conosciuto per aver abbandonato la carriera accademica non potendo scendere a patti con l’incoerenza che gli è propria in un contesto, gli Stati Uniti, in cui il capitale privato è il principale investitore di ogni istituzione culturale. Il libro è intitolato The World Beyond Your Head22 e porta avanti un discorso estremamente negativo sulla distrazione. La critica di Rothman è interessante proprio perché gioca sul legame complementare tra attenzione e disattenzione. In poche righe spinge il paradosso talmente in là da ridefinire la distrazione negli stessi termini in cui Han ByunChul parla della noia profonda: un luogo prolifico che necessita del suo spazio libero. Why do so many writers find distraction so scary? The obvious answer is that they’re writers. For them, more than for other people, distraction really is a clear and present danger. […] More generally, distraction is scary for another, complementary reason: the tremendous value that we’ve come to place on attending. The modern world valorizes few things more than attention. It demands that we pay attention at school and at work; it punishes parents for being inattentive; it urges us to be mindful about money, food, and fitness; it celebrates people who command others’ attention. As individuals, we derive a great deal of meaning from the 2 2 http://conversations.e-flux.com/t/on-becoming-an-individual-in-an-age-of-

distraction/2634

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products of sustained attention and concentration— from the projects we’ve completed, the relationships we’ve maintained, the commitments we’ve upheld, the skills we’ve mastered. Life often seems to be “about” paying attention—and the general trend seems to be toward an ever more attentive way of life. Behind the crisis of distraction, in short, there is what amounts to a crisis of attention: the more valuable and in demand attention becomes, the more problematic even innocuous distractions seem to be. […] Our minds wander, and life is full of meaningless moments. Whole minutes go by during which you listen to Rihanna in your head, or look idly at people’s shoes, or remember high school. Sometimes, your mind is just a random jumble of images, sensations, sounds, recollections; at other times, you can stare out the window and think about nothing. This kind of distracted time contributes little to the project of coherent selfhood, and can even seem to undermine it. Where are you when you play Temple Run? Who are you when you look at cat GIFs? If you are what you think about, then what are you when your thoughts don’t add up to anything? Getting distracted, from this perspective, is like falling asleep. It’s like hitting pause on selfhood. What is to be done about this persistent non-self, or anti-self? […] My favorite approach is the one James Joyce took, in Ulysses: he just accepted this non-self, in a “no judgment” kind of way. In Ulysses, the characters are always distracted. They hum songs in their heads, long for food, have idle sex fantasies. Because they don’t feel guilty about this, they never remark upon it. In fact, they hardly ever feel bad about the thoughts in their heads. […] Why fight it? That’s how people are. Their minds drift. “Ulysses” regards the deliberate, focussed,


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attending mind, with its useful plans, thoughts, and skills, as just a part of the self. Our distracted thoughts are part of us, too. Over the past few weeks, as I read Crawford’s solemn prescriptions for the elimination of distraction, it occurred to me that we might have everything backward. What if, in fact, we’re not very good at being distracted? What if we actually don’t value distraction enough? It may be that, with our mobile games and Twitter feeds and YouTube playlists, we’ve allowed distraction to become predictable and repetitive, manageable and organized, dull and boring—too much, in short, like work. If Ulysses were written today, Bloom would probably be checking his phone, but I doubt he could Google anything better than what’s already in his mind. We should grow more comfortable with our unfocussed selves, and, instead of repudiating them, reclaim them. Twitter can’t compete with uncensored memory. Facebook has nothing on that kiss.23 L’economia dell’attenzione sembra in grado di minare l’esistenza dell’autore, dell’opera e del suo fruitore e se di morte dell’arte si teorizza da due secoli, ciò che di nuovo sembra invece emergere è la visione formattata di ogni aspetto dell’esistenza, che va molto oltre allo spauracchio della globalizzazione e che include la disattenzione stessa. Con l’immagine al centro di tutta la produzione di capitale, come hanno reagito e stanno reagendo le arti visive all’ipertrofia in termini di costruzione di immaginario? In che modo gli artisti e il sistema dell’arte si sono lasciati penetrare da questa contemporaneità nella ricerca di un osservatore? 23

Joshua Rothman, “A New Theory of Distraction”, The New Yorker, 16 giugno 2015

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parte seconda

Le successive ridefinizioni che vedono l’attenzione diventare via via qualcosa su cui costruire sempre di più un’economia, seguono un’evoluzione che va di pari passo con l’accelerazione e l’aumento della frequenza degli stimoli conseguente alla velocità delle comunicazioni e all’evoluzione di Internet. Nel 1997 David Shenk24 ha pubblicato un libro, il cui titolo, nel 2004, è entrato nell’Oxford Dictionary con il significato di “un insostenibile eccesso di informazioni, che si ottiene particolarmente come risultato di una ricerca su Internet”, ovvero, Data Smog25. Dello stesso anno è anche la definizione diagnostica dell’IFS26: Internet era stato commercializzato solo qualche anno prima, con Netscape27, nel 1994, e tra il 1995 e il 1997 si era consolidato il termine “Net.Art”, con una sezione dedicata di Documenta X28. Sempre nel 1997 viene fondato Google29, mentre l’anno 24

David Shenk è un autore e giornalista americano con numerose collaborazioni con grandi testate all’attivo, focalizzato su questioni attinenti la mente e la comunicazione

25

David Shenk, Data Smog, New York, HarperCollins, 1997

26

Information Fatigue Syndrome: termine coniato da David Lewis, psicologo inglese. “Lewis has observed consistent response in focus groups he’s conducted with other managers, financial analysts and information workers. When inundated with data, they make more mistakes, misunderstand others and snap at co- workers and customers. Of the excess of information that we absorb every day, Lewis makes the analogy. «If you’re thirsty, it’s sensible to stand under a faucet, not the Niagara Falls» he says.”

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Netscape Navigator fu il primo browser grafico commercializzato per il web, la cui ultima versione è stata rilasciata, con una sostanziale chiusura dello sviluppo, il 1 marzo del 2008

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seguente viene pubblicato Esthétique Relationelle30, un saggio di Nicolas Bourriaud31 sullo stato di trasformazione dei luoghi d’arte in virtù di artisti che impostano la loro pratica sulla relazione diretta con il pubblico. Nel 2001 vengono abbattute le torri gemelle e l’evento diviene immediatamente un paradigma nella storia della comunicazione: la diffusione sovrabbondante di quelle immagini e la loro potenza simbolica hanno avuto la forza di segnare profondamente l’immaginario di chiunque vivesse in contatto con la civiltà occidentale. Seth Price scrive nel 2002 Dispersion32, iniziando nel contempo a sondare la dispersione dell’opera e dell’immagine nella sua pratica artistica. Nel 2003 viene lanciato 4chan33, in cui “chan” è l’abbreviazione di channel, un sinonimo di imageboard, ovvero un sito in cui il contenuto è composto dalla pubblicazione di immagini da parte dei propri utenti. 28

Documenta X ebbe luogo dal 21 giugno al 28 settembre 1997 a Kassel, curata da Catherine David. Per la prima volta la curatela è stata affidata a una donna non teutofona e il sito internet dell’evento concepito come uno spazio espositivo con un curatore designato, lo svizzero Simon Lamunière. “Among the infinity of accessible things, the computer screen acts like the surface of a map, abstracting the real world. The texts and projects in Surfaces & Territories are all independent proposals dealing with the representation (here) on your screen of things coming from elsewhere.”

2 9 www.google.com 30

Nicolas Bourriaud, Estetica Relazionale, trad. it. Marco Enrico Giacomelli, Milano,

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Nicolas Bourriaud è nato nel 1965, è stato co-fondatore del Palais de Tokyo che ha

Postmedia Books, 2010 diretto fino al 2006. Fino al 2015 è stato direttore dell’Accademia di Belle Arti di Parigi. 32

“Price’s illustrated essay Dispersion (2002–ongoing) is freely available to download from his website [www.distributedhistory.com]. The piece is a succinctly idiosyncratic assessment of distributed media, art production and the socio-economic forces shaping everything from the status of objects to the position of the audience. This essay, establishing a pitch and tone developed in more recent works such as Redistribution, is one of the most significant art works to come out of New York in the early 21st century.” di Polly Staple in Frieze n.118, Berlino, Ottobre 2008

3 3 www.4chan.org


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Nel 2004 Claire Bishop scrive Antagonism and Relational Aesthetics34, mettendo in discussione le linee entro le quali Bourriaud aveva chiuso uno specifico gruppo di artisti, proclamandoli portavoce di un decennio di profondi cambiamenti, Mark Zuckerberg fonda The Facebook35 nello stesso anno, il social network inizierà però a diffondersi in Europa e in Italia solo a partire dal 2007, anno in cui il giovanissimo David Karp apre la piattaforma che cambierà profondamente il microblogging: Tumblr36. L’anno prima, YouTube37, fondato nel 2005, era stato acquistato da Google. Gene McHugh38 fa risalire agli anni tra il 2007 e il 2009 l’espressione “post-internet”, nel 2009 apre un blog39 in cui raccoglie le sue ricerche sull’argomento fino all’anno seguente40. Nel 2010 viene lanciata l’applicazione Instagram41, acquisita e consequenzialmente potenziata da Facebook nel 2012. Nel 2010 Brad Troemel scrive un articolo42 in cui vengono messe in relazio34

Claire Bishop, “Antagonism and Relational Aesthetics”, October n.110, Ltd. and Massachussetts Institute of Technology, autunno 2008

3 5 www.facebook.com 36

www.tumblr.com

3 7 www.youtube.com 3 8 https://www.facebook.com/gene.mchugh/about 39

“Gene McHugh, Rhizome’s former Editorial Fellow and a periodic contributor to the site, received the Creative Capital | Andy Warhol Foundation Arts’ Writers Grant earlier this year and has used these funds to begin the Post Internet blog. His project aims to build a space to reflect on «...art responding to an existential condition that may also be described as “Post Internet”—when the Internet is less a novelty and more a banality. Perhaps this is closer to what Guthrie Lonergan described as “Internet Aware”—a term that I’m sure I will be thinking through here sooner or later.» The blog is essentially a bare-bones workspace for his loose, often train-of-thought musings on contemporary internet-based art, and covers everything from Google’s Parisian Love ad to Seth Price.” di Ceci Moss in Rhizome.org, 9 marzo 2010

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attualmente www.122909a.com/ è offline e il suo contenuto è stato pubblicato in Gene McHugh, Post Internet, Brescia, LINK Editions, 2011

4 1 www.instagram.com 42

Brad Troemel, “What Relational Aesthetics Can Learn From 4Chan”, Artfcity.com, 9 settembre 2010

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ne le caratteristiche dell’estetica relazionale con l’attività borderline di 4chan, ipotizzandone così un’evoluzione più contemporanea e Internet-aware. È la stessa evidenza di una differente forma emergente che porta James Bridle43 a fare ricerca intorno al concetto di “new aesthetic”: il primo post di new-aesthetic.tumblr.com risale a marzo 2012. Sempre Brad Troemel, allargando nel tempo a più collaboratori, farà partire a giugno dello stesso anno, ugualmente su piattaforma Tumblr, The Jogging44, un contenitore di immagini virali prodotte dai contributors e selezionate da una board curatoriale: agglomerati di oggetti rispecchianti un certo aspetto trash della cultura visiva Internet-based, che in parte vengono anche venduti come sculture su etsy.com. Il 2013 invece è l’anno dell’istituzionalizzazione del post-internet, con la mostra Speculations on Anonymous Materials45 al Fridricianum di Kassel e la prima uscita pubblica del progetto 89+, curato da Hans Ulrich Obrist e Simon Castets: una ricerca che si sviluppa su varie piattaforme volta a indagare l’effetto che Internet ha avuto sulla generazione di artisti nati dopo il 1989. Parallelamente alla sua istituzionalizzazione, l’entusiasmo intorno al vago concetto di post-internet inizia a scemare in virtù di una messa in discussione più profonda: Ben Vickers46 parlerà di “how post-internet got lost” solo qualche mese dopo lo scandalo scoppiato intorno all’NSA (National Security Agency), conseguenza del leak di informazioni ad opera di Edward Snowden. 43

www.shorttermmemoryloss.com

4 4 www.thejogging.tumblr.com 4 5 “ The

Speculations on Anonymous Materials exhibition for the first time worldwide

brings together approaches in international art that reinterpret the Anonymous Materials created by rapid and incisive technological change.” Susanne Pfefe 4 6 http://www.benvickers.net/


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Pablo Larios, editor di Frieze Magazine, conia alla fine del 2014 l’espressione “Network Fatigue”, nel 2015 Citizen Four, il film di Laura Poitras che ha seguito le vicende e le rivelazioni di Edward Snowden, ha vinto l’Oscar come miglior documentario e la musicista Holly Herndon ha pubblicato un disco, Platform, in cui una canzone d’amore fatta con suoni generati dal flusso di dati quotidiano del suo laptop, è dedicata a un agente NSA in ascolto. Questa time-line parziale degli ultimi diciotto anni parla di un’evoluzione molto rapida del modo di esperire, sopratutto a livello visivo, il reale. Rivela picchi di entusiasmo nell’esplorazione del mezzo, seguiti a rapide disillusioni. All’inizio di questa timeline, nel 1997, compivo dieci anni. Quando tutte le televisioni del mondo nel 2001 trasmettevano in diretta Ground Zero, ovvero quello che stava rimanendo del World Trade Center dopo gli attacchi terroristici, ero a casa di una mia amica chiacchierando dell’imminente inizio delle scuole superiori, tutta l’adolescenza davanti, un profilo msn.messenger47 attivo da un anno, con la tv 47

“Microsoft’s MSN Messenger, or Windows Live Messenger as it’s now known, will be fully retired on October 31st. The software maker originally announced its plans to shift users over to Skype last year, but Microsoft kept the service running in China. After October 31st Chinese Messenger users will need to use Skype, bringing an end to 15 years of the service. MSN Messenger started off life in 1999 as a rival to AOL’s AIM service. Both companies battled over chat dominance, and Microsoft engineers reverse-engineered AOL’s chat protocol to allow MSN Messenger to sign into AIM, a process that AOL wasn’t happy with when Microsoft first released its instant messaging client. Over the years Microsoft added various features, including custom emoticons, the ability to play Minesweeper with friends, a nudge feature that would shake a friends chat window, and the super annoying winks option to send friends giant animated emoticons. Microsoft has typically celebrated its MSN Messenger milestones with big green mascot outfits, but the 15-year mark and the end of the Messenger era is departing quietly. Here’s a look back at how MSN Messenger used to look, during a time when everyone put emoticons in their name or status message, and your mom picking up the phone and killing your modem connection to MSN Messenger was just as annoying as someone using the same font and color as you during a conversation. Farewell, MSN Messenger.” di Tom Warren in www.theverge.com, 29 agosto 2014

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sintonizzata sui cartoni animati pomeridiani, interrotti da immagini che non abbiamo compreso prima di una quarantina di minuti e di un paio di telefonate di genitori allarmati. Sono una quasi nativa digitale, cresciuta in un luogo con caratteristiche borderline per quanto concerne la produzione visiva e soprattutto la sua velocità di trasmissione nelle strutture educative. Milano è una città italiana, inevitabilmente ricchissima da questo punto di vista, ma la rapidità di diffusione delle informazioni ha seguito un passo leggermente diverso da città come Berlino, Londra e New York, ponendo la fruizione da questo luogo inevitabilmente filtrata, in qualche modo periferica. Consapevoli di quello che accade e nella posizione di poterlo raggiungere facilmente, ma mai fisicamente troppo presenti nel luogo in cui le cose stanno accadendo. Questo punto di vista di forzata assenza e conseguente distanza è un posto privilegiato per ragionare sugli echi visivi che si diffondono a partire dalla rete e sul loro distrarsi a vicenda. La questione attentiva è un fatto fortemente generazionale e globalmente non c’è mai stata tanta uniformità, che si palesa in modo evidente soprattutto nella velocità dei cambiamenti: incapacità empatica diffusa per via memetica veicolata in quella che già in Data-Smog veniva descritta come difficoltà di distinzione tra il reale e la finzione come conseguenza del sovrastimolo. I combattenti dello Stato Islamico stanno fornendo in questo preciso momento storico una controversa visione di questa confusione in modo piuttosto chiaro. Qualche settimana fa è uscita la notizia dell’assassinio di un leader iracheno ribelle secondo lo screenplay di una scena dell’ultima puntata dell’ultima stagione di Game of Thrones48: la regina madre cammina per le vie della 48

Game of thrones, “Mother’s Mercy”, Stagione 5, Episodio 10


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città nuda subendo una punizione espiatoria da parte di una setta religiosa di invasati che ha preso il potere in città, mentre la folla la sbeffeggia e le tira contro qualunque cosa. L’omicidio del ribelle è stato effettivamente progettato ricalcando tutta la scena. Ho deciso di guardare dall’inizio alla fine solo uno dei video di propaganda diffusi dallo Stato Islamico. Il contenuto centrale doveva essere l’esecuzione sul rogo di un pilota giordano abbattuto e catturato, tuttavia è il preludio all’omicidio la parte che mi ha lasciato più perplessa: i “personaggi” presenti nel video vengono presentati come in un videogame, come se da un momento all’altro mi fosse richiesto di scegliere il pilota, l’imam, il ribelle e giocare la mia partita, sapendo chi sono i “buoni” e chi i “cattivi”. Il momento del rogo era filmato con almeno tre diversi punti macchina e non di certo con un cellulare, ipotizzerei ci fosse addirittura un dolly o un drone per le riprese dall’alto, le divise dei combattenti così come quella del prigioniero ricalcano totalmente quelle delle prigioni americane, sono costumi scenici, che tutti noi abbiamo visto mille volte in serie televisive e film. Chi stava comunicando qualcosa a chi? Avevo davanti la vera morte di un uomo vero, una parte di me però non riusciva a non pensare ai combattenti dello Stato Islamico, in mezzo al deserto, alla desolazione di luoghi mezzi bombardati ricoperti di calcinacci, che discutono di rendering e qualità del video, come un ventitreenne qualunque studierebbe con gli amici il modo migliore per attaccare una goPro allo skate, combattenti indipendenti entusiasti per la propria causa cercano il modo di procurarsi non solo kalashnikov e munizioni ma anche MacBookPro e Canon 5D, il che li distanzia dall’idea dei video di regime, accomodanti, creati da ministeri appositi per indorare la pillola alle masse già sottomesse.

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Ingo Niermann ha scritto dell’immaginario dell’ISIS in un articolo apparso in Mousse Magazine n.47 in questi termini:

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In order to evolve, society needs transgressions that either diffuse reality as fiction or intensify fiction as reality. Childhood learning is based on nothing else. Anyone who always knows exactly how to separate fiction from reality is doomed to mental ossification. Thanks to Postmodernism, Western society is more conscious of this than ever before, only it doesn’t seem to help. A number of developing formats such as reality TV, scripted reality, docu-fiction and mockumentary have the encroaching of fiction into reality as a precondition, but they also tame it. These days, a truly Romantic transgression is taking aim at the one taboo that is intrinsic to the welfare state: violence. Whoever practices violence can still perceive himself as being in control—of those upon whom he inflicts the violence, but also and especially of his own cowardice and shame. Those who prefer to think of themselves as lone wolves will opt for the rampage, while those searching for connection to the group become hooligans or Islamists. Even as Al-Qaeda was attracting young men from around the world, it was still difficult to think of it as a youth movement. Attacks like 9/11 were clearly inspired by American films, yet in his barren hideout the ailing, gaunt millionaire’s son Osama bin Laden looked like a cave hermit who barely knew what a video camera is. His entire self-presentation was designed to claim the greatest possible contrast to the Western world. This is different in the case of the Islamic State. The name recalls the Nation of Islam, the African-American freedom movement. The urge to wear a big, bushy


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beard and banish cropped trousers—any one of today’s hipsters could identify with that. And when you see IS fighters shooting Syrian soldiers from the hip with machine guns or severing their heads on command, they do it as skillfully as demonstration experts at a Brooklyn butcher shop. It’s no wonder the evil Islamists are really only Westerners themselves. No matter where they grew up, be it with Islamic parents or converted, they were shaped by the same shocking, violent productions staged in first-person shooter video games and action movies. Execution videos released by the Islamic State copy this aesthetic in both their presentation and special effects; similar to reality TV, it is done to maximize the moment of shock and at the same time to defuse it as unreal.49 La generazione che combatte tra le fila dello Stato Islamico è la stessa degli 89+: gli “younger than Rihanna”, Corano alla mano, mettono in atto pratiche di economia d’attenzione applicate alla produzione visiva da manuale, in cui fiction e realtà si fondono in sfumature di grigio che fanno rabbrividire. La controparte, non va dimenticato, è altrettanto confusa. Come ci hanno rivelato le informazioni diffuse da Wikileaks, chi combatte queste persone, generalizzando, è spesso un individuo che si sveglia alla mattina, fa colazione con i suoi figli, va al lavoro. Qui pilota a distanza un drone che sgancia bombe dall’altra parte del mondo, su luoghi e persone di cui non farà mai esperienza diretta, poi pausa pranzo, di nuovo qualche ora di guida e poi di nuovo a casa dalla famiglia. 49

Ingo Niermann, “What comes After the welfare”, Mousse Magazine n.47, Milano, marzo 2015

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Lì potrebbe attenderlo HBO su di una potenziale televisione accesa con l’ultima puntata di Homeland50 e un sacchetto di popcorn. Che differenze percettive esistono tra realtà e finzione nel momento in cui gli immaginari in cui esse prendono forma si influenzano reciprocamente senza soluzione di continuità? Questo è esattamente l’equilibrio teso entro il quale esiste l’opera, uno spazio che può essere descritto geograficamente tra luoghi fisici e virtuali tenuti in piedi da un sistema che al centro dovrebbe avere una parte che produce e un’altra che osserva. La percezione confusa, accresciuta come conseguenza dall’economia dell’attenzione, influisce su questo spazio in molte modalità e attraverso vie differenti. Il luogo “geografico” in cui l’opera si manifesta esiste se riesce a restare economicamente sostenibile nell’intreccio di relazioni tra artista, osservatore, intricato sistema di finanziamento che a sua volta vede più parti in gioco: collezionisti, curatori, magazine. Mousse Magazine è una realtà editoriale in crescita, che si occupa di arte contemporanea. […] Nasce nel 2006 in un peculiare formato tabloid e contiene interviste, conversazioni, saggi a cura delle più importanti firme della critica e della curatela internazionale, alternati da una serie di rubriche distintive. Mousse registra le tendenze internazionali del contemporaneo grazie anche alla presenza di city editor nelle principali capitali dell’arte, come a Berlino, New York, Londra, Parigi e Los Angeles.51

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Homeland è una serie televisiva statunitense, prodotta dal 2011 e basata sulla serie

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http://moussemagazine.it/about-us.mm?lang=it

israeliana Hatufim. La trama segue le vicende di Carrie Mathinson, un’agente della CIA


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Come altre riviste del settore ha una funzione specifica di connessione delle parti, mantenendo una posizione ibrida tra sequela del flusso informativo—perlopiù attraverso contenuti di approfondimento—e ricerca, generando contenuto che spinge all’osservazione e allo spostamento di interesse verso alcune produzioni, ma che è esso stesso munito di un apparato visivo, presentato in un determinato formato, i cui contenuti sono continuamente mediati da decisioni editoriali e curatoriali. Mousse è nato a cavallo delle prime dichiarazioni dell’espressione “post-internet,” mentre iniziavano a emergere con impeto i social network, rendendo una presenza attiva online, sopratutto per chiunque avesse a che fare con la costruzione di un mezzo di comunicazione qualunque, non opzionale. Mousse ha un sito che contiene un blog aggiornato quotidianamente, non a caso la persona che riveste il ruolo di photo editor della rivista è anche la curatrice degli aggiornamenti del blog. Attualmente questa persona è Stella Succi, con cui ho avuto modo di discutere delle dinamiche decisionali che determinano il contenuto visivo online e cartaceo del magazine. In che cosa consiste il tuo lavoro? Il lavoro di un web-photo editor in un magazine di arte contemporanea è innanzitutto gestire i materiali digitali della rivista, nel caso di Mousse, la selezione di contenuti del blog più la scelta degli articoli che decidiamo di mettere in chiaro che in genere sono quattro per ogni issue. Il contenuto del blog consiste in una selezione di mostre in tutto il mondo di cui pubblichiamo foto più press release, non creiamo niente di nuovo in questo senso,

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ma utilizziamo materiale già esistente. Per quanto riguarda invece la parte di photo editing il mio lavoro consiste nel leggere gli articoli e deciderne l’apparato iconografico, quindi decidere se illustrare l’articolo con delle foto, con quali foto, se con le opere di un artista o con delle illustrazioni, se sono illustrazioni a chi commissionarle, se sono opere entrare in contatto con gli artisti e le gallerie degli artisti, concertando un po’ le esigenze degli autori dell’articolo con i contenuti e quelle degli artisti stessi e quelle del nostro layout. Come scegli cosa pubblicare nel blog? Che parametri definiscono la priorità di pubblicazione, se sono tracciabili? Uno strumento che utilizzo moltissimo sono le newsletter di qualunque entità, gallerie, gruppi curatoriali, musei… Spesso sono gli artisti stessi che richiedono la pubblicazione di qualcosa. Quindi quando arrivo in ufficio al mattino inizio ad aprire le mie mail e a selezionare il materiale che mi arriva. Oltre al materiale che arriva a me c’è quello che riceve tutto il resto della redazione, ogni persona quando riceve qualcosa che reputa interessante me lo gira, a quel punto divido il materiale per la selezione finale. Ne discuto spesso anche con la redazione e, certamente, abbiamo anche tanti inserzionisti di cui ci fa piacere pubblicare le attività. C’è da dire che gli inserzionisti sono ottimi, perché anche su di loro avviene una sorta di selezione a monte e probabilmente sceglierei comunque di pubblicare le loro attività. Quindi è un po’ un insieme delle due cose, cerco sempre un buon bilancio tra le due, ovviamente, le grandi


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istituzioni spesso non sono nostre inserzioniste ma le pubblico lo stesso. Ogni tanto faccio, senza dichiararli propriamente, dei piccoli speciali… Per esempio adesso su Venezia, le mostre che mi sono piaciute di più, per dare delle piccole panoramiche. Quindi alcune cose che pubblichi le hai anche viste. 55

Sì, non tutto ovviamente, il più che posso… Seguendo l’attività di tutto il mondo, quantomeno quello occidentale, è un po’ difficile che io riesca a vedere la maggior parte delle cose che pubblico… Però ecco, mi è capitato spesso di pubblicare una mostra dopo averla vista. Che differenza c’è per te nel pubblicare una mostra che hai visto piuttosto di una di cui hai solo visto la documentazione o hai sentito parlare? Quanto ti fidi della documentazione che ti arriva rispetto a quanto invece ne hai sentito parlare? La costruzione di un post cambia radicalmente a seconda che io abbia visto oppure no una mostra, generalmente cerco di dare in ogni post una panoramica della mostra e di impostare la visualizzazione delle immagini sulla base della disposizione. Se l’ho vista, so come suddividere le immagini, posso scegliere meglio rispetto a questa idea di visione panoramica. Il testo è sempre quello della press release. Cambia molto comunque, anche a livello emotivo, il modo in cui scelgo le immagini. Ci sono un persone di cui mi fido e altre di cui mi fido meno, dopodiché vado sempre a verificare che tipo di documentazione c’è di quella mostra, che


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a volte non è sufficiente per esempio, insomma è un lavoro di diplomazia in questo senso, ricercando equilibri. Le persone di cui ti fidi sono persone con cui hai una interdipendenza esclusivamente lavorativa o anche con cui hai altri tipi di rapporti? 56

Prendo in considerazione veramente qualunque consiglio mi arrivi da persone intelligenti con cui ho un qualche tipo di legame intellettuale, a volte quella persona è il mio capo, ma potrebbe essere anche la mia vicina di casa. Parlando invece di scelta delle immagini che differenza di peso c’è tra le immagini di un articolo e del blog, e in base a questo come scegli le immagini? C’è sicuramente differenza tra blog e magazine, sia di forma che di sostanza. Per quanto riguarda il blog pubblichiamo quasi esclusivamente mostre, quindi chiedo installation view, così che una persona possa farsi un’idea il più chiara possibile della mostra. Il focus è quindi più su un piano curatoriale e spaziale in quel caso... Sì, diciamo che diamo più spazio all’ambiente, una installation view invece sul cartaceo si perde, assume un peso completamente differente, sia per questioni di dimensioni che di qualità dell’immagine, perciò sia io che i grafici prediligiamo immagini di opere singole: è completamente diverso.


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Oltretutto gli articoli non hanno mai un focus su di una singola mostra, l’immagine ha un peso “didattico” molto diverso. Vale sempre il discorso di differente consapevolezza nei confronti dell’opera in base al fatto che io l’abbia vista o meno, banalmente è anche una questione di dimensione: un’immagine stampata di un singolo lavoro non rende l’idea delle dimensioni reali, avendolo visto dal vivo cambia ovviamente tutto. Scegliere di stampare in grande un lavoro molto piccolo o viceversa di stampare in piccolo un lavoro molto grande, è una scelta interpretativa di un certo peso, una scelta editoriale a tutti gli effetti. Lavori molto con i grafici? Sì, lavoriamo braccio a braccio, diciamo che volendo cercare due poli differenziali tra il mio e il loro lavoro, il mio è un approccio prettamente contenutistico, il loro più formale, è inevitabile e deve essere così: i miei riferimenti primari sono l’articolo e il rapporto con l’artista e l’autore, parte che al grafico manca del tutto. In qualche modo sono portavoce e mediatore tra le parti nella decisione finale. Quindi tu hai un rapporto molto più stretto con l’artista. Non sempre, a volte le immagini arrivano direttamente dalle gallerie e l’artista non viene interpellato, ma generalmente se l’artista ha dato delle direttive circa la gestione delle immagini la galleria lo sa e me lo comunica, si fanno loro portavoce del proprio artista, lo tutelano in questo senso.

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C’è qualche crepa in questo continuo passaggio decisionale sulle immagini?

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Mah, dipende, ci sono artisti più rigidi o meno rigidi, a volte discuto io con i grafici per un’immagine piuttosto che un’altra e in genere l’ho “vinta io” perché siamo un magazine che punta molto al contenuto, gli articoli parlano e l’apparato iconografico è parte integrante del discorso, il mio ruolo è quello di far parlare le immagini attraverso la scelta, di ricercare innanzitutto la coerenza editoriale. Quindi cosa significa per te che un’immagine “funziona?” Per me e per un grafico sono due modi differenti di intenderla, per me è una questione di espressione immediata di quello che è il contenuto dell’articolo, per un grafico è più una questione di peso visivo, di valorizzazione del layout. Sono due aspetti della fruizione che devono trovare un compromesso. Lavoriamo sempre insieme per trovare soluzioni interessanti per tutti, ovviamente arrivano più complimenti alla grafica che alla qualità didattica delle immagini, è un lavoro più sottile, ma credo sia importante. Parlando della materia con cui hai a che fare quotidianamente, che peso credi che abbia la documentazione nel modo in cui il pubblico percepisce il lavoro di un artista o di un curatore? La documentazione ha un peso enorme, nel caso del blog ha una valenza ancora più chiara, generalmente le immagini a schermo non vengono toccate, le pubblichiamo esattamente come arrivano, mentre per


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la rivista, anche solo per motivi fisici di stampa, c’è un po’ di post-produzione. Esistono mostre belle con una brutta documentazione e le opere ne escono realmente svilite. Immagini particolarmente scure per esempio… Recentemente incontro spesso dipinti a parete ritratti di sbieco per esempio, la foto è più suggestiva, ma traduce malissimo la natura dell’opera, una foto frontale sarebbe molto più chiara. Un’immagine bella però viene pubblicata di più che un’immagine brutta, senza dubbio, quindi poi soprattutto via social network—gestione dei quali non rientra nelle mie mansioni—gira di più: se quell’immagine bella non è coerente rispetto al lavoro, fondamentalmente gira un prodotto terzo che non svolge propriamente il suo compito, perché magari non si capisce niente. Ci sono immagini più forzatamente “cool” e per il magazine non le utilizziamo per niente. Per il blog ogni tanto mi arrivano in blocco tutte di quel tipo, molto post-prodotte, al punto che non sembrano foto di opere ma rendering e in quel caso le pubblico lo stesso scegliendo il meno peggio. Anche foto molto scure, se vogliamo pubblicare la mostra nel blog, alla fine escono lo stesso. Lì la responsabilità è principalmente della galleria, ci sono quelle che curano bene la documentazione e mandano immagini chiare, quelle che invece prediligono un’immagine più catchy, un metodo che io credo alla lunga non ripaghi. In che modo credi cambi la percezione del lavoro di un artista, anche rispetto alla prospettiva futura di quello che farà, in base alle immagini che vengono scelte per raccontarlo?

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Credo che indipendentemente dall’immagine in sé, sia la circolazione stessa a definire queste due cose, ovviamente come photo editor ho questa responsabilità di far vedere un’immagine oppure un’altra. Sì, è interessante capire un po’ quali questioni vengono messe in gioco nel momento in cui un artista non può più controllare del tutto il modo in cui un pubblico più ampio fruisce del suo lavoro, in cui sono altri a prendersi questa responsabilità.

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Mi avevi accennato il discorso sulla copertina in questo stesso contesto, giusto? Sì, perché credo sia un buon esempio di una responsabilità evidente circa la circolazione di un’immagine piuttosto che di un’altra. Per la scelta della copertina in genere non coinvolgiamo gli artisti ma siamo molto rispettosi del loro lavoro, non sceglieremmo mai di mettere in circolazione un’immagine in cui l’opera possa essere fraintesa o non sia centrata in termini di quello che comunica. Se proprio facciamo una cosa più pazza, come quella che abbiamo fatto con Urs Fischer52, è talmente dichiarata come tipologia di operazione che non c’è possibilità di fraintendimento. La scelta della copertina spesso dura giorni. Devo dire con un certo orgoglio che gli interessi commerciali non sono parte in causa, ci basiamo davvero solo su ciò che ci piace. Effettivamente come dici tu, l’artista non ha più voce 52

MousseMagazine n.49


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in capitolo sull’immagine che è messa in circolazione e da questo punto di vista la responsabilità maggiore penso l’abbiano le gallerie, è la galleria che ha il dovere di tutelare le immagini degli artisti con cui collabora e loro di discutere con la galleria quali immagini vogliono far circolare e come le vogliono far circolare. Quando dici “scegliamo un’immagine che ci piace” quali sono le argomentazioni per sostenere la propria opinione di gusto visivo? Come vi mettete d’accordo? Le argomentazioni in genere sono le più svariate. Per esempio per la copertina di Torbjørn Rødland53 abbiamo davvero discusso tantissimo. Come photo editor sono deresponsabilizzata, nel senso che non abbiamo bisogno di associare un contenuto a quell’immagine: va bene anche che sia anche solo catchy. Non essendoci nemmeno una vera e propria esigenza commerciale, forse hanno un po’ più voce in capitolo i grafici, ma è una scelta che prendiamo insieme in redazione e ognuno spinge per la propria immagine preferita. È bello quando decidiamo di mettere in copertina un artista giovane, perché ovviamente quella visibilità gli fa gioco e spesso è una sorpresa, perché non avvisiamo anticipatamente gli artisti. Nel caso di Darja Bajagić54 per esempio, qualche giorno dopo la pubblicazione la galleria ha mandato una newsletter con la cover di Mousse, erano davvero entusiasti. Una logica che seguiamo nella decisione è quella di prediligere immagini che arrivino da articoli che nel 53

MousseMagazine n.42

5 4 http://darjabajagic.com/

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numero hanno un certo peso, questa sì credo sia una variabile importante. Come ti muovi quando succede di lavorare con artisti che non sono a contratto con nessuna galleria?

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In quel caso contattiamo direttamente gli artisti. Spesso è più semplice lavorare con loro perché sono molto contenti della pubblicazione e si rendono più disponibili, d’altro canto a volte sono un po’ più puntigliosi perché si devono tutelare da soli. Personalmente preferisco avere contatti con gli artisti, proprio perché mi interessa di più parlare con loro che con le gallerie. Mi dicevi che sei da Mousse da un paio d’anni, il post-internet quindi non è mai stata una novità nel tuo lavoro. Non essendo le scelte editoriali di Mousse esclusivamente super giovani, mi chiedevo se avessi mai riscontrato delle differenze nel raffrontarti con chi ha la piena coscienza del sistema di circolazione dell’immagine e delle potenzialità del suo utilizzo, soprattutto in termini di comunicazione di sé, e altri con uno stampo un po’ più old school. Non credo ci sia nessuno più del tutto inconsapevole del tipo di diffusione che l’oggetto che produce avrà, in termini di immagine. Parlando di ricerca, quando si lavora con alcune opere degli anni ’60, in questo caso sì, la tipologia di documentazione ha una funzione originaria evidentemente molto diversa da quella con cui la utilizziamo. Le immagini hanno un che di pittoresco, sono realizzate più come foto-ricordo di un avvenimento, senza troppe velleità contenutistiche.


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Al di là degli anni ’60, ti è mai capitato di doverti relazionare all’assenza di documentazione non fatta per scelta? In quel caso come ti comporti? Sì, è successo. Molto di rado pubblichiamo qualcosa senza immagini, quindi in questi casi commissioniamo illustrazioni o proviamo a giocare visivamente con qualcosa di diverso. Abbiamo pubblicato poco tempo fa un articolo su artisti che si sono ritirati dalla vita pubblica e hanno iniziato a far sparire le loro opere, in quel caso abbiamo un po’ giocato con quello che abbiamo trovato, lavorando molto con il layout. Sicuramente non facciamo mai niente contro la decisione di un artista, come pubblicare qualcosa che lui non vorrebbe pubblicato. In genere sono molto aperta al dialogo su cosa pubblicare, a volte data una certa selezione di immagini ci ritroviamo a discutere dell’ordine che dovrebbero avere, anche in quel caso il lavoro di mediazione è molto importante. È successo solo una volta che un artista fosse scontento di quello che avevamo già pubblicato, ma può capitare: sono mondi diversi, che cercano di relazionarsi tra di loro convergendo poi su un terzo oggetto, stampato, può essere che a volte ci sia più difficoltà. Per la mia esperienza non c’è una tendenza di consapevolezza né da un punto di vista generazionale né di appartenenza alla scena, ogni caso è un po’ a sé, dipende. L’immagine dell’opera è un oggetto delicato, il modo che hanno gli artisti di esporsi e di ragionarci è una delle cose a cui mi piace assistere nel mio lavoro.

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Ti è mai capitato di notare nel percorso di qualcuno che insieme a un implemento di qualità della documentazione avvenisse anche un cambiamento di produzione nella direzione di un oggetto più facile da diffondere in termini di immagine documentaria?

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Sicuramente gli artisti lavorano sempre di più anche con l’immagine di documentazione delle loro opere, credo che questo si veda tanto soprattutto quando le foto arrivano dalle gallerie, curare la comprensione immediata dell’immagine è nel loro interesse. Spesso le fotografie che arrivano dalle istituzioni non sono altrettanto chiare perché l’interesse che c’è dietro è differente. Mi è successo di avere un gap di riconoscimento tra opera e documentazione, da questo punto di vista le dimensioni del lavoro sono le parti in causa più controverse, è davvero difficile raccontare bene un’opera con un’immagine al punto da rendere l’idea anche le sue dimensioni, spesso non si riesce. Alcune volte invece è proprio impossibile identificare un’opera con la propria immagine: se penso alle Nonprojections di Paul Chan55, non credo ci possa essere foto che renda l’esperienza di quel lavoro installato, la riconoscibilità salta completamente. Quindi si può dire che il riconoscimento sia legato all’esigenza commerciale, una sorta di branding visivo dell’opera che un’istituzione ha meno bisogno di portare avanti rispetto a una galleria? Mi viene in mente la potenza visiva di una delle prime serie di Timur Si Quin, Axe Effect56, ho visto quel 5 5 http://www.schaulager.org/paul-chan/en/exhibition.html


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lavoro dal vivo in una fiera dopo un paio d’anni che ne circolavano le immagini, la forza della documentazione rispetto al lavoro in sé era impressionante per differenza. Sì credo sia un’affermazione sensata. Parlando di documentazione a servizio dell’arte e arte al servizio della documentazione, non vedi dunque il post-internet molto differente dal resto. No, onestamente no. Nel caso di ognuno, “artisti post-internet” inclusi, ci sono esigenze differenti: è tutto trasversale. Noti delle differenze invece nel modo in cui viene documentato il post-internet rispetto al resto? Spesso sono lavori che per propria natura si prestano molto di più alla fotografia, non so se ci sia un’intenzionalità in questo, però sì, il risultato è che arrivano effettivamente immagini migliori di quel tipo di oggetti. Ti è mai capitato di lavorare con immagini scattate dall’artista stesso? In quel caso lo sbilanciamento sull’opera è evidente oppure hai riscontrato la tendenza a far diventare anche la fotografia del proprio lavoro un lavoro? Sì, ci sono quelli che lo fanno e sì, è successo di avere delle immagini davvero molto post prodotte, ma essendo realizzate dall’artista, in quel caso le abbiamo 5 6 http://timursiqin.com/axe-effect/

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tenute così e l’intervento sull’immagine è stato un po’ considerato come un’opera terza. Quindi nel caso in cui questo vada a invalidare l’esperienza visiva in termini di comprensione dell’oggetto originariamente rappresentato, pubblichi lo stesso perché è quella l’immagine che l’artista vuol far circolare di sé? 66

Sì, credo sia un fatto di generosità nei confronti dell’artista, se quella è l’immagine che lui vuole di sé è giusto rispettarla. È successo ci fossero foto scattate invece da fotografi molto belle ma, da un punto di vista didattico, non comunicative, in genere questo è il caso in cui discuto molto con i grafici e abbiamo opinioni un po’ differenti. Per me la questione si pone di più nella scelta dell’immagine di testa di un articolo del blog, a seconda del tipo di mostra vado a scegliere una installation view più piatta o una fotografia più “catchy”, nel caso dello stampato è differente, se ne discute di più. Hai un’opinione personale rispetto al peso che le immagini di documentazione hanno nel sistema generale? È molto difficile, la circolazione di un’immagine non è solo valore commerciale, dipende davvero da opera a opera, alcune per noi sono più dei jpg che degli oggetti, nel senso che è giocoforza per l’artista che esista una sorta di circolarità digitale, alcuni lavori vengono traditi dalla circolazione, altri vengono completati. Alcuni lavori sono talmente complessi da documentare che è meglio quasi che non circolino.


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Per me il dilemma è sempre… se uno fa un lavoro non documentabile, verrà mai venduto? Anche la non documentabilità viene attuata per farsene fregio? Negli anni 60-70 è sempre stato così, del resto. Tu senti mai il tuo lavoro come parte in causa di possibili speculazioni di mercato basate sulla circolazione di un’immagine? Per esempio nel caso di Darja Bajagić in copertina… esiste una sorta di segreto professionale? Sì questa questione esiste, ma anche in positivo, quando per esempio pubblichiamo un artista giovane so che quella sarà una cosa molto positiva per lui/ lei e questo mi fa piacere, se lo aiuta anche a livello di mercato, e il suo lavoro mi piace, sono solo contenta. Sento la responsabilità del supporto, dopodiché non mi faccio troppi problemi sul mercato e su come quello che faccio ci interagisce, scelgo di stare su altri tipi di discorsi. Poi so che non sono mai del tutto sola in quello che faccio, il lavoro di redazione funziona molto bene, ognuno ha delle conoscenze differenti da mettere in gioco e ci consultiamo tanto. Devo dire che in generale non abbiamo mai ragionato sul mercato in quel senso, di fatto ogni numero è sempre ben bilanciato, c’è qualcosa di più “catchy”, qualcosa di più istituzionale, ma poi ci prendiamo moltissime libertà, da questo punto di vista esiste veramente un buon intuito dietro alla rivista e ormai c’è una certa fiducia costruita nel tempo, per cui ci si può permettere di pubblicare anche cose che lì per lì fanno mettere le mani nei capelli all’ufficio marketing.

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parte terza

Tutte le parti del sistema dell’arte, incluso l’artista, sono soggetti osservanti, parte integrante dell’audience in cui giocano un ruolo duplice: senza il loro lavoro, così strettamente legato allo sguardo, lo sguardo stesso sull’opera non esisterebbe, perché l’opera non avrebbe condizione alcuna di sussistenza. Lo sguardo di chi cura e di chi comunica l’opera attraverso selezioni di immagini, non è libero ma funzionale a uno scopo terzo. Il collezionista in quest’ottica sembra essere il soggetto in gioco il cui obiettivo più si avvicina a quello dell’osservatore puro: il suo ruolo esiste in sola funzione del godere di un oggetto sempre di più, possedendolo. Ovviamente questa è una semplificazione, ci sono molti altri fattori in campo, soprattutto quando si parla di collezioni particolarmente grandi, ma, semplificando, l’origine del collezionismo si può definire come tendenzialmente edonistica. La maggiore consapevolezza da parte degli artisti dell’importanza della diffusione della documentazione fotografica delle proprie produzioni, ha avuto un’influenza a catena nel modo di lavorare di tutto quanto l’indotto degli osservatori produttivi, in primis perché il cambiamento più evidente è una maggiore disponibilità di immagini— nello specifico di immagini digitali. Questo, in un contesto di accelerazionismo informativo e visivo generale, corrodendo i tempi attentivi dell’osservazione e riducendo e

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modificando l’esperienza, è complice di una recente forma di collezionismo che, analogamente ad altre forme speculative di derivazione tardo capitalista, utilizza la convergenza di attenzione con lo scopo di sfruttarne il potenziale economico. Alain Servais, collezionista belga che si occupa di gestione di fondi bancari, ha iniziato a collezionare alla fine degli anni ’90 e negli ultimi anni sta portando avanti una battaglia per una maggiore regolamentazione del sistema che impedisca le speculazioni. La questione speculativa è estremamente delicata perché ha tutte le sembianze di una bolla finanziaria con la capacità di influenzare la produzione e, in caso di collasso, di mettere in seria difficoltà, a catena, una serie di grandi istituzioni culturali. Right now, we are going through a massive period of brand-building, and it’s perfect for those new buyers, because they might not know much about art, but they do know about one thing: brands. “I want to buy from Zwirner.” “I want to buy from White Cube.” “I want to buy whatever Gagosian will bring me.” What this does is that it allows the galleries to sell anything. A speciality of Hauser & Wirth, for instance, is to dig up an artist from the past who has been a little bit forgotten, write a nice catalogue on them, and move the prices from $10,000 to $100,000. Done! You have an unlimited supply for that stuff, and you don’t even have to pay for production because it’s already produced. […] What I mean by all of this is that all of the money that’s pouring in to the art market from all over, and that money is spoiling things. And you ask me what my agency is in all of this. My agency is to try to make it possible for real art to survive. Because right now the artists are producing to sell, because that’s the only thing they


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can show in galleries. And I’m worried, I’m really worried, like many people are. There could be a lost generation. […] It’s virtual. So don’t try to bring everything back to objects, like self-branded Post-Internet art tries to do. It goes back to what I was saying about new buyers needing something they can refer back to—the easiest thing to refer back to is an object: “A work of art is about an object. No object, no art. […] And this is why I’m so sorry about all the artists who have been working for the last decade in digital art—all of a sudden, people are saying, “They’re in the past, they’re the first version of Internet art, and now we can’t even turn their material on anymore.” That’s the thing we need to save! That’s the real work of art—that’s what will make history—and not the kind of object that’s made using 3-D printing so we can say, “Yes, we’ve got an object.” It really makes me want to throw up. If you saw things the way I see them you would understand why I’m so irritated by this. Because, I’m sorry, calling it “Post-Internet” as if what came before is a kind of backcountry precursor and what’s happening now is the real art? Come on guys, you’re just a victim of the art market. So I tell all the galleries coming to me, “Show me only the things that are digital. Show me screens, show me software.” And even with the software, I don’t want a video, I want a random composition, like Ian Cheng.57 In questa analisi del collezionismo la bolla speculativa visiva viene abbinata a una certa parte della produzione artistica associata al post-internet; in un’altra intervista, 57

Andrew M.Goldstein, “How I Collect: Collector Alain Servais on Insider Trading in the Art Market, “Blood-Sucking Leeches,” and Why We’re Now Just the Fashion Industry”, Artspace.com, maggio 2015

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parlando delle Biennali, Servais problematizza la questione della produzione in relazione alle gallerie, e nello specifico, allo strano luogo fittizio rappresentato dalle fiere. A difference, however, is that the artist will give his best for a museum, which he will not do when it comes to sending a work to an art fair. I’m speaking from experience. I was once speaking to an artist in New York about how it’s really tiring to see “art-fair art,” if you know what I mean—art with a lot of sugar and a lot of whatever is necessary in that market to sell. The guy said to me, very candidly, “You’re right, because I was at the booth of my gallery at Frieze New York and I considered my work… it’s not that I’m disowning it, but I must recognize that I did it for selling.” Everybody needs to make some money and to earn a living and I respect that 100 percent. I’m not anti-market, I’m not anti-art fairs. Not at all. It’s a necessary evil. But let’s be clear: let’s not call it art. It’s something else.58

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Il demonio necessario sta dunque prendendo un ruolo centrale nel modo in cui avviene la produzione artistica e il post-internet è la sua legittimazione “teorica?” Quello che c’è di certo, riprendendo la cronologia con cui ho aperto la seconda parte di questo testo, è che dichiarazioni di una densa esistenza e di presunta morte del post-internet sono state quasi contemporanee, la rapidità con cui l’immaginario collegato a questo termine è stato fagocitato dalla cultura popolare e dal commercio atterrando nel fashion e mietendo vittime nel suo breve percorso verso il dominio visivo, rende davvero immediato il 58

Andrew M.Goldstein, “How I Collect: Collector Alain Servais on Why the Venice Biennale is the World’s Best Art Fair”, Artspace.com, maggio 2015


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parallelismo con una qualunque bolla speculativa degenerata nell’ambito dell’economia dell’attenzione. Alla domanda How do you define “post-internet?” How does this terminology relate to artistic practices? nell’appendice di interviste del catalogo di Art Post-Internet59—mostra inaugurata a Pechino nel 2014 curata da Karen Archey e Robin Peckham—Ben Vickers, nella più completa mancanza di fiducia circa lo stato attuale dei processi relazionali online, risponde dicendo: I don’t know any more. There was a time, when this wasn’t a definitive capture-all term, it had a genuine use value, in so much that there was a moment when it was difficult to describe the work that was being produced in a particular online community, probably around 2006–11. This work seemed to stand out from other forms of artistic production and in discussion existing writing/discourse couldn’t really convey what was being pursued; so it was useful to be able to reference a shorthand, in order to advance discussion, increasingly that shorthand became postinternet. Similar to the way that #stacktivism now acts as a wrapper for a specific conversation about infrastructure. Now I guess I’d define “postinternet” as a lost sign post to a community that doesn’t exist anymore, one that fell apart due to opportunists and general distrust but that serves as a convenient marketing term for dealers and young curators wanting to establish themselves on the first rung of the art industrial complex ladder. Qualche domanda più in là, ipotizzando una possibile parola sostitutiva che racchiuda il suo pensiero 5 9 http://post-inter.net/

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sull’attuale stato delle cose in modo più coerente, procede dunque sul crinale della disillusione, con il tocco poetico che gli è proprio.

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Ruinophilia; at the tail end of what I think can appropriately be decreed as post-internet, there seemed to be this collision with the collapse of a utopian dream, often characterized by terms like the “democratized image,” the next “industrial revolution” or the notion of horizontalism. The term coincidentally came to prominence at a moment when the belief that the internet (at least the technological layer) might be capable of emancipating us was shattered in popular consciousness. Given that we’re still discussing it, it seems appropriate to excavate its value through the lens of Svetlana Boym’s Appreciation of Ruins. “Ruins make us think of the past that could have been and the future that never took place, tantalizing us with utopian dreams of escaping the irreversibility of time.” Group of individuals circulate through a broader discourse. The problem with post-internet is that it has no definition. But perhaps it doesn’t need one. Brands, after all, don’t really have definitions. Vickers identifica un passaggio avvenuto dalla galleria come luogo contiguo al web—un altro snodo della rete presente in uno spazio fisico—alla centralità produttiva della galleria, con la conseguente disillusione rispetto a qualunque tipo di discorso comunitario sembrasse essere sul punto di consolidarsi nella community “post-surfingclub” del web 2.0. Quell’aspetto performativo sviluppato via socialnetwork che ha contribuito alla costruzione della personalità online di molti artisti—tratto che Gene McHugh


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ha identificato come una delle presumibili caratteristiche chiave del post-internet—si è ritrovato inglobato in strutture sempre più rigide, schemi più difficili da evadere, regole da seguire, fino a uscirne quasi innocuo, depotenziato, e cadere sotto la definizione di “self-branding.” C’è un tratto cinico in questo primo post-internet, un’assenza di resistenza critica, che sembra puntare a conquistare le istituzioni legittimandosi attraverso l’acquisizione di un potere economico, più che mettendone in discussione le forme e i luoghi, almeno da un punto di vista teorico. Le immagini di documentazione hanno avuto un ruolo fondamentale in questo passaggio, dapprima nuovo terreno di gioco ibrido per gli artisti consapevoli, post-prodotte, modificate, sono diventate poi il mezzo principale per arrivare alla galleria e altrove dalla galleria, amplificando la narrazione visiva dell’oggetto rappresentato. Lì le immagini hanno in qualche modo interrotto il loro moto evolutivo, rientrando quasi esclusivamente in dinamiche di soddisfazione delle esigenze di mercato, continuando a scorrere, ma solo dentro precisi canali. Chi ha cercato elementi di critica istituzionale60 nel primo post-internet sicuramente è rimasto deluso, tuttavia la radicalità della Net.Art nel lavorare nel web in quanto luogo libero—scendendo ancora meno a compromessi di chi critica istituzionale l’ha fatta nei musei—era 60

“La “critica istituzionale” si riferisce all’arte che riflette criticamente sulla propria istituzionalizzazione in sedi come gallerie e musei, o sulla categoria concettuale e funzione sociale dell’arte stessa. Queste riflessioni sono in qualche modo parte dell’arte moderna fin dalla sua nascita, ma è alla fine degli anni Sessanta ed all’inizio degli anni Settanta che hanno acquisito una nuova centralità, accentuata dai movimenti sociali del periodo e legittimata dagli strumenti stilistici sviluppati dall’arte concettuale. Solo allora la critica istituzionale ha cominciato a diventare un genere a sé stante.” (Alexander Alberro, intervista alla conferenza tenuta nel contesto del Corso di Alta Formazione in Arti Visive della Fondazione Ratti, (Como) nel 2010 (https://vimeo.com/21990576)

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difficilmente replicabile nel web 2.0, sopraffatta da sistemi di visibilità diversi e da miriadi di user che di fatto difficilmente hanno la capacità di gestire una pagina bianca. Il loro spazio vuoto è un pattern preconfezionato, un’interfaccia schematica, una tabella da compilare. Anche questo ovviamente può essere affrontato in modo geniale, creativo e critico, ma la considerazione di quello che si nasconde dietro all’interfaccia non può che diventare centrale nel suo essere rivelata attraverso una consapevolezza delle infrastrutture superiore alla media. Due buoni esempi di percorso nel primo post-internet, che allo stato attuale delle cose permangono in una certa condizione di cinismo, sono Petra Cortright61 e Brad Troemel. Dal mio punto di vista di europea nata alla fine degli anni ’80, entrambi inevitabilmente incarnano una serie di cliché televisivi legati al mondo dei figli della classe media americana: lo sport, il cheerleading, il cibo spazzatura, le feste negli appartamenti con la moquette beige un po’ macchiata, il prom-dress per il ballo della scuola. Partendo da una buona aderenza a quell’immaginario— lo stesso esploso in video da Ryan Trecartin62 negli stessi anni—hanno lavorato indagando il loro medium “naturale:” il tardo web 2.0. Petra Cortright ha sviluppato nel tempo una pratica prettamente formale, direttamente derivante dall’esperienza dei surfing club e dal primissimo Youtube alle prese con la nascita dei video virali. Dagli esordi video, esteticamente impeccabili nel loro essere low-fi, è arrivata alla pittura digitale, alle collaborazioni con Stella McCarthy, alla vita personale esposta via social-network da rivista femminile—i cani, la spiaggia in viaggio di nozze, l’abito 6 1 “http://www.petracortright.com/hello.html 6 2 https://vimeo.com/trecartin


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da sera al MET Gala—in cui l’unica nota non accomodante sono gli interventi tardo-femministi63, sempre giocati sulla richiesta di più centralità, visibilità, sostanzialmente potere mediatico. Sicuramente la femminilità gioca un grande ruolo nella pratica artistica di Petra Cortright, la sua scelta è senza dubbio quella di averne fatto un mezzo, uno strumento che aumenta l’incisività di un lavoro prettamente formale. L’atteggiamento un po’ sfrontato delle ultime pagine del suo portfolio online è una buona metafora per descrivere il suo punto di arrivo attuale, Let me google that for you: Petra Cortright 2015 2014 2013 2012.64 Non ha più bisogno di costruire un personaggio, lo è già, non ha bisogno nemmeno di un portfolio personale, la gestione della sua immagine corrisponde all’apparato comunicativo del sistema con cui è in piena sintonia. Brad Troemel ha una pratica altrettanto formale e deliberatamente “made to be sold” che diventa contestuale all’economia attentiva nel momento in cui viene legittimata da un apparato comunicativo appositamente costruito come parte integrante della pratica stessa. The jogging è stato un progetto partecipativo da cui diffondere viralmente un fare artistico: gli elementi in campo sono non a caso l’immagine di documentazione, la diffusione virale dei contenuti via social network, il valore assunto attraverso il sistema dei “like” e il commercio dell’oggetto. La piattaforma inizialmente pubblicava solo produzioni 63

“Probably one of the better-known artists of gen 2.0, the CalArts-educated “camgirl” isn’t explicitly subversive but worth a mention as a leader in bringing awareness of woman net artists to a broader public. Winning a Frieze film commission for her “Bridal Shower” (featuring music by nightcoregirl) video last year, Cortright’s self-realised subjectivities work by functioning within, rather than disrupting, normative structures. That’s both in playing with stereotypes of ‘feminine’ online behaviours and using readily available consumer software to produce them.” http://www.dazeddigital.com/ artsandculture/article/18432/1/our-ten-favourite-digifeminist-artists

6 4 http://lmgtfy.com/?q=petra+cortright+2015+2014+2013+2012#

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proprie, dopodiché si è aperta alle submission degli utenti, selezionate secondo gli stessi elementi, generando una sorta di implicita sfida al raggiungimento degli standard di pubblicazione per raccogliere un numero sempre più alto di like e condivisioni, effetto a catena che attraverso gli utenti coinvolge la piattaforma e viceversa. Quando Brad Troemel scrive il saggio Athletic Aesthetics, definisce uno stato delle cose, dà un nome all’attitudine accelerazionista insita nelle pratiche del primo post-internet perfettamente incarnate da the jogging, propone una visione, aderisce, descrivendola e nominandola, a una tendenza già esistente frutto di un sempre maggiore consumo di immagini. A new species of hyperproductive artist flooding the Internet with content invites audiences to complete their work by loving their brand, making the artists themselves the masterpiece. Visual artists, poets, and musicians are releasing free content online faster than ever before. There is an athleticism to these aesthetic outpourings, with artists taking on the creative act as a way of exercising other muscle groups, bodybuilding a personal brand or self-mythology, a concept or a formal vocabulary. Images, music, and words become drips in a pool of art sweat, puddling online for all to view. The long-derided notion of the “masterpiece” has reached its logical antithesis with the aesthlete: a cultural producer who trumps craft and contemplative brooding with immediacy and rapid production.”65 Una parte produce, l’altra osserva, entrambe diffondono contenuto, si guardano, con scopi differenti. 65

Brad Troemel, “Athletic Aesthetics”, The New Inquiry, 10 maggio 2013


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Questo gioco di sguardi sempre più rapidi e fitti, il consumo di immagini via via sempre più centrale in tutte le dinamiche di scambio, è una materia prima per tutti i soggetti in causa, fino al burn out, fino alla saturazione il cui limite si spinge sempre un po’ più avanti. Se Petra Cortright e Brad Troemel—qui citati come esempi eccellenti—la sfruttano per legittimare la propria pratica, Amalia Ulman66, che ha iniziato la sua rapida ascesa dopo aver partecipato come relatrice nel 2013 all’evento organizzato dal progetto curatoriale 89+ per il DLD a Monaco, la cavalca scoprendone i punti deboli, utilizzandoli per costruire il proprio lavoro in termini di contenuto. Gaze as cultural construction: How do we consume images and how they consume us. Are we judgmental, maybe? Or not at all or ABSOLUTELY YES!67 Questa frase è tratta dalle slide che Amalia Ulman ha utilizzato nella tavola rotonda Salon | Digital Talk | Instagram as an Artistic Medium svoltasi in Art Basel Miami nel 2014, per spiegare Excellences and Perfections68 una sua performance della durata di cinque mesi messa in atto attraverso Instagram. Seguivo il suo profilo da tempo e ho assistito un po’ attonita a tutta la narrazione, foto dopo foto e sopratutto al dibattito che stava generando. Amalia ha posto il suo corpo rappresentato al centro di discussioni molto accese sul suo essere donna, sulla condivisione estrema come parte di una pratica artistica, sulla verità dell’immagine, sulla manipolazione dell’attenzione attraverso la condivisione di un tipo di fotografia o di un’altra, 66

http://amaliaulman.eu/

6 7 https://www.youtube.com/watch?v=m8PHAtm9Buk 6 8 http://rhizome.org/editorial/2014/oct/20/first-look-amalia-ulmanexcellences-perfec-

tions/

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sul narcisismo performativo. In tutte le fasi del disvelamento della performance i luoghi ospiti sono stati riviste, blog e talk in gallerie o fiere. Il lavoro è stato venduto, e in virtù dell’accuratissima ricerca attraverso la quale sono state costruite ad hoc immagini fasulle e dell’estrema dedizione nel portarlo avanti, il suo valore è indiscutibile. È stato un vero e proprio esperimento di economia dell’attenzione, in cui anche il profitto finale e il modo di legittimarlo, hanno rispecchiato coerentemente tutta la pratica della performance stessa. Una forma differente, transitoria, è ascrivibile al post-internet? Se Ben Vickers considera il termine ormai inutilizzabile perché connesso a troppe esperienze fallimentari, esplose e risoltesi senza di fatto aver cambiato radicalmente nulla, pratiche come quella di Amalia Ulman si collocano in una terra di mezzo dove sembra ancora possibile della vera e propria ricerca di contenuti. Il nome da dare alla terra di mezzo è oggetto di dibattito, ma le sue sembianze si stanno condensando rapidamente. Jaakko Pallasvuo, forte dell’inclusione del fallimento nella propria pratica artistica—una reazione allo stato delle cose diametralmente opposta a quella di Brad Troemel—ne fa un oggetto quasi fenomenologico: I see post-internet as something that thrives on the negativity that surrounds it. Every dismissal seems to drive the term further. I don’t see a decline yet. The first phase is over—the ‘initial theorisation’ that you mention along with the production of some necessary work to illustrate the point and to set up a kind of aesthetic playing field. This might be just a beginning, rather than a peak. To me it’s like, okay, the obvious things are


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out of the way, now we can begin to get into the exact details, into individual practices, into internet-culture oriented work instead of platform-based ‘new media’ angles, etc. There is a lot to do and mutations ahead. The term doesn’t require any kind of ideological/ conceptual cohesion. I like that people are disagreeing on its definitions and with each other. I hope post-internet will begin to stand for this continuous debate instead of being cemented into an art historical one-liner.69 Recentemente Jaakko ha dichiarato di non voler più postare nulla sul proprio blog in preda a una Nausea of Uploading70 che arriva seconda, all’abbandono da parte di

6 9 http://www.jaakkopallasvuo.com/careers.pdf 70

“Last month I decided to cease uploading. It was supposed to be a summer break but now I see no reason not to stretch this break out from here, possibly, to eternity. This disturbance to my 12 years of uploading could only begin with a self-defeating announcement. A stab at a contemporary classic: the blog post about how one has grown disillusioned with blogging. I was 16 when I began ‘sharing content’ on various online platforms. It began on Finnish amateur art and graphic design forums and on an ingenious, also Finnish, proto-Facebook social media website called IRC-galleria. Livejournal, MySpace and Flickr followed. I was not an artist when I began uploading, but my content was always ‘artistic’. My fantasy of art and artistry was pure then. Youth has a non-causal relationship to purity. It was not my job to share. I was in the process of making a self. It gave me life. […] When I dropped out and moved to Berlin I gave up on having a studio, bought a laptop and registered a Tumblr blog or two. The Jogging had begun, and still contained anonymous vitality. A potato attached to the wall with a band-aid, rapidly photographed and abandoned. The photograph posted online, gathering notes, gently mocking the weight of history and gesture I was still holding onto. I felt like a peasant, but also that I could change. I could still become light. […] Post-Internet was around. It was a joke, I thought. I was into it. It felt good to joke around. I was still lolling about when it began to transform into a hashtag for financial investment, something to grind in the gallery-fair-biennial-retrospective mill. Facebook, Tumblr, Twitter, Instagram. The platforms were sleeker, more rapid. ‘Dialogue’ became a relentless and repetitive mode of (self)-promotion. The same five group shows happened a hundred times with minor differences. The short story as an FB event description, the animist tech musing as an A4 press release. Hot artists who took taxis to the gym and posed for strategic selfies. Contemporary Art Daily. The exhaustion mounted.” http://www.spikeartmagazine.com/en/articles/nausea-uploading

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Nik Kosmas,71 del progetto AIDS 3D72—sempre dalle pagine di Spike Magazine—avvenuto quasi in contemporanea alla diffusione dell’idea di Network Fatigue73. Le vittime di the jogging stanno reagendo con una pausa, un passo indietro, una riconsiderazione poco entusiasta degli effetti del proprio medium. La produzione e l’esperienza del lavoro ritornano in qualche modo a valorizzare la propria unicità locale, il luogo dell’opera è più fisico ed esperienziale, quel senso di comunità intorno alle produzioni del primo post-internet viene ricercato in un dibattito critico online che raggiunge però l’apice nei momenti di incontro away from keyboard e senza di essi, probabilmente, non sarebbe altrettanto intenso. At the risk of sounding unfashionably romantic, I wanted to ask, is it possible that your life is over-edited? 71

“As a member of the collective AIDS-3D, I belonged to that genre of art called Post-Internet, which had something to do with “discussing the digital lifestyle and implications ...”. At first we did this with a witch-house post-apocalyptic tech-dystopia flavor, but then this evolved into projects like The Jogging and a lot of sculptures of running shoes, water droplets, and lots of cheap stuff stacked or melted on top of each other and sold in big editions for €3k-12k. I just didn’t think there was a point or a respectable future in endlessly critiquing or arrogantly joking about innovations coming from other fields. ”http://www.spikeartmagazine.com/en/articles/qa-nik-kosmas

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Duo molto attivo nella scena berlinese che muove i suoi primi passi decisi nel 2009, quando Nik e Daniel—Keller—avevano solo 23 anni

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“[…] it is saturation through mass circulation… that now produces value in and through images.’[…] Network fatigue is the image’s prior admission of its own defeat before the matrix of connectivity. It constructs small mechanisms of temporary exclusion – what used to be called privacy, and which is partly, though not entirely, closed – to counter larger, widespread ones that occurred under the spectre of the ‘network’ and ‘the social’, but which only served to exclude us from ourselves. Network fatigue privileges the temporary, the contingent, and the to-hand – simply, the people and things around you – sealing off something real and personal before a work’s assumed, and perhaps inevitable, reentrance into the digital agora. […]then perhaps this discomfort really arises from the culture that confused connectivity with ‘friendship,’ and betrayed the latter.” http://frieze-magazin.de/archiv/features/network-fatigue/?lang=en


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I think you know what I mean. ‘Over-edited’ mostly likely isn’t even the right word, but that’s kind of my point. To consider the wrong one. It was beginning to seem like the accumulation of sense-data that, clumped together, we call experience was in fact shrinking and not growing. In the name of efficiency or high definition, the automatic processes that prune out everything unwanted or unexpected from one’s field of vision. Just as a search function learns to predict one’s habits; and one’s habits, then, predictively correct themselves. […] This past Spring, in Manhattan, I walked past the glass, glossy storefronts and restaurants and began to wonder if anything’s ever allowed to look or taste bad anymore. More than ever, the city was crisp, and medically 99.8% clean. Then elbowing past the mad men in cubically precise midtown, I began thinking about vision. And how the eyeball has probably already morphed in the age of Google Glass. And that maybe it was vision, not just space, that was becoming gentrified. Further, it was if the sleekness one had come to expect from seeing things online, was already having after effects off screen, to the extent that that even exists anymore. I think the art was suffering. When everything else is as sleek and contagious as a hash-tag, is it time for an aesthetic that smiles a little at its own resistant ugliness? […] It’s pretty much compulsory now that any work – if it’s to be considered art – be transparent, legible, translatable, imageble, and repeatable. We demand the JPEG before the exhibition, which we might not even see. […] I began to think that maybe the New Theater, and some of us involved there, were enacting a network fatigue. A resistance to the totalizing effects of digital circulation. That is, The impulses of generalizability under a hallucinated umbrella of

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‘connectivity.’ I’m not saying that there are no images, and no image consciousness – we’re not talking about any actual outsiders – but rather that the resulting aesthetic shapes itself into something deliberately grubby and imperfect. Further, this network fatigue is not a conservative retreat into a circle of friends, another network. But rather an affect of withdrawal from the conflation of art with data flow. In an age when the making of art quickly turns into the cultivation of a brand, there might be something liberating about negating that, for a moment, and simply letting a work be a work. I told you this would sound romantic. Network fatigue is just a theory – responding, I think, to the intimacy, proximity, and meaningful imperfection we probably once expected from art, but which quietly slipped out the back door somewhere along the way.74

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Discutevo con Olivia Erlanger75 la scorsa primavera a New York, di una sua mostra recente, “Meat Eater” alla Seventeen Gallery di Londra76. Olivia è nata nel 1990, è newyorkese, ci siamo incontrate la prima volta a Milano in una situazione un po’ rocambolesca dove, durante l’allestimento di una mostra da Fluxia77 con Andrew Norman Wilson78 e Nick Bastis79, curata da Alex Ross80, qualcuno li aveva derubati di computer e telefoni. Seguivo il lavoro di Norm da molto tempo, ci conoscevamo online e ci saremmo incontrati di lì a poco durante la loro permanenza 74 http://video.frieze.com/film/network-fatigue/ 7 5 http://www.oliviaerlanger.com/ 7 6 http://www.seventeengallery.com/exhibitions/olivia-erlanger/ 77

Galleria milanese che ha chiuso recentemente i battenti http://www.fluxiagallery.com/

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Artista http://www.andrewnormanwilson.com/ tra le altre cose, collaboratore di the jogging e all’epoca coinquilino di Olivia

7 9 http://www.nickbastis.com/ 80

Da un anno circa direttore e gallerista a China Town di Hester http://hester.nyc/


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in città, ma l’occasione venne anticipata da un necessario aiuto in questura nel fare la denuncia. Era invece un aprile freddo a New York, abbiamo bevuto un caffè bollente insieme sul tetto di un palazzo in Grand Street, in cui si trova l’artists run space che Olivia gestisce con Dora Budor e Alex Mackin Dolan: Grand Century81 a volte è il loro studio, a volte uno spazio espositivo, la galleria di Alex è a pochi incroci di distanza. “Meat Eater” partiva da un dialogo poetico scritto da Joel Dean82, tra TL e MH che si avvicendano in uno spazio ragionando sul senso di quello che hanno intorno. Il discorso, farcito di supposizioni simboliche e asserzioni, finisce con uno svogliato e definitivo “I don’t remember” senza infine descrivere mai realmente nulla di quello che i due personaggi hanno di fronte. Quel pomeriggio non sapevo ancora niente della mostra a Londra né di questo bislacco dialogo su opere che non si vedono, che di fatto termina con una parte che si sottrae. A fronte di questa dichiarazione di mancata visione ipotetica, introduttiva di un percorso espositivo reale, prende ulteriormente senso a posteriori il preciso fastidio di Olivia nei confronti di chi si fosse congratulato con lei per la sua mostra, pur non essendosi mai mosso da New York. I saw it on Instagram, come on, what it’s supposed to mean? We don’t even have the official pictures yet, you know, the good ones. All those people just scrolling your work bad pictures just before falling asleep. I feel like it’s too much, I wanna go to do a residency in Lithuania. 8 1 http://grandcentury.biz/ 8 2 http://joeldean.info/txt/tl_mh_and_the_organization_of_time.html

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Immagino che la reazione di qualcuno meno abituato allo sharing compulsivo potesse essere entusiasta anziché infastidita, per citare nuovamente Pablo Larios, in altri tempi questa volontà di sottrazione di Olivia sarebbe stata meno significativa e sarebbe meno significativa se lei non fosse nata nel 1990. È sulla linea di questo tipo di messa in discussione del mezzo che prende piede una seconda versione del post-internet, meno legata alla forma e al self-branding, che si muove nella costruzione di immaginari consapevolizzanti. La coscienza dell’esistenza dell’Internet è sempre fondamentale, ma non è il luogo in cui l’immaginario si manifesta, piuttosto è il mezzo che viene utilizzato per proiettare un “oggetto” al di fuori di esso, un oggetto che lo rappresenta distopicamente, che ne forza i limiti, che non esiste per essere di nuovo risucchiato in un flusso di immagini, ma è presente per esplicitare il processo del proprio percorso dall’online all’offline, evidenziando i passaggi intermedi che legano i due luoghi contigui. We cannot have a conversation about something whilst it remains unseen. #stacktivism is a term that attempts to give form to a critical conversation & line of enquiry around infrastructure & the relationship we have to it.83 Il 2013 è stato in molti modi un anno chiave, in cui simultanemente si sono avvicendate tendenze differenti, istituzionalizzazione del post-internet, critica, revisione dei luoghi e dei mezzi e nuove produzioni.

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Stacktivism London Unconference, 13 giugno 2013


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Un recente articolo di ArtForum ha stroncato l’ultima mostra personale di Daniel Keller84, esplicitando brutalmente la problematicità di una tendenza in esaurimento: non dice abbastanza del presente a cui rimane ancorata, non riesce a spingersi nell’immaginare il futuro. Thus the new norm: the marriage of business with society, and of business with culture. But turning broken windows into an aestheticized artifact of a normative event such as gentrification is weird. That protests might be cast as an obsolescent curiosity is unsettling. To create such an opaque framework out of loaded references without fully accounting for them is unbalanced. “Kai Dalston Bushwick” didn’t say all that much about the present, or much that’s all that convincing about the near future.85 Lo scandalo seguito alle rivelazioni fatte da Edward Snowden nel 2013 circa il controllo dei dati personali degli utenti effettuato dall’NSA, ha avuto delle enormi conseguenze, piuttosto traumatiche, su tutti gli artisti frequentatori assidui di Internet. L’idea di “black stack,”86 l’oscuro intricato sistema nascosto che gestisce nell’ombra tutti i passaggi di dati, diventa il centro del discorso, un immaginario fantascientifico già realizzato ma impercettibile, rivelato in parte ma non visibile. È l’emersione di un presente parallelo non ancora constatato, una differente riflessione sulla geografia del web, su che tipologia di spazio sia, su quanti luoghi contenga, su che forme essi prendano, sui sistemi che 8 4 http://aktnz.com/kai-%E2%9D%A4-dalston-bushwick/ 85

John Beeson, “Daniel Keller”, Artforum, October 2015

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Benjamin Bratton, “The black stack”, e-flux Journal n.53, New York, marzo 2014

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gli esseri umani utilizzano per regolamentare le aree che riescono a controllare.

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C’è stato un grandissimo cambiamento nel nostro modo di vedere il mondo quando siamo venuti drammaticamente a sapere quelle cose, quello che il nostri governi stavano facendo. Non è solo quello che ha detto Snowden, anche tutto quello che era uscito già qualche anno prima su Wikileaks, la vicenda del Collateral Murder… Abbiamo messo in discussione il nostro governo per molto tempo, non potevamo non farlo nel momento in cui ci siamo dovuti scontrare con le prove che ci rendevano consapevoli di quello che era successo. Non c’è stata più scelta: capire come funzionano le infrastrutture e constatarne i limiti e il fallimento è stato necessario, il passo successivo è stato ovviamente quello di richiedere più trasparenza nei confronti dei cittadini, degli utenti. Stiamo vivendo in una società definibile come post-Wikileaks e credo che si stia sviluppando, che stiamo sviluppando, un’estetica che rappresenta questo specifico passaggio.87 La scorsa estate ho intervistato per NoiseyItalia Holly Herndon, musicista che nella sua ricerca sta interagendo come nessun altro con chi fa riferimento all’idea di stacktivism: il processo di generazione dei suoni, di scrittura dei testi dei pezzi e di messa in scena dal vivo è frutto di una ricerca di consapevolezza del mezzo senza soluzione di continuità. I dati sensibili possono essere informazioni da spiare, oppure possono diventare forme d’onda con cui costruire sonorità pop.

8 7 http://noisey.vice.com/it/blog/holly-herndon-dancity


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Similmente, in termini di immaginario visivo, Simon Denny88 e Trevor Paglen89 stanno sviluppando una pratica molto articolata sui paradossi estetici del black stack, sfumando realtà e fiction in una visione futuribile già possibile, forma emergente o già emersa, poco importa. Non tutti questi artisti sono propriamente solo degli attivisti, l’output finale della loro ricerca è cosciente anche dell’estetizzazione massima dell’oggetto operata dalla prima fase post-internet e ne fa tesoro. Essi descrivono in termini di forme e contenuto un luogo invisibile, decentrando il lavoro dalla propria immagine ma mantenendosi coscientemente totalmente presenti, anche quando l’immaginazione si spinge oltre quello che già è, a costruire futuri visivi, sonori e sociali contemporanei. La vittoria dell’Oscar come miglior documentario di Citizen Four90—il film di Laura Poitras che racconta la storia delle rivelazioni di Edward Snowden—ha reso evidentissima la centralità che hanno preso i temi delle “riflessioni stacktiviste” anche nella cultura popolare, che non fa troppa distinzione tra rappresentazioni fedeli e deformate. Il 2015 è stato l’anno in cui tutti i maggiori serial crime hanno dedicato le loro prime puntate a raccontare al grande pubblico come i servizi segreti monitorino la popolazione per proteggerla dai veri cattivi.

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“Denny’s project is a complex puzzle. Each element is nested in and reframed by other elements in an expanding allegory, making interpretation potentially interminable. And yet, despite this, Denny gets us close to his ostensible subject—the visual language of western intelligence agencies. Paradoxically, he places himself and us (as artist and viewers) in positions oddly analogous to these agencies, as we trawl through data and metadata, engaging in analytics, pattern recognition, and profiling, trying to make sense of things. Secret Power takes its title from investigative journalist Nicky Hager’s 1996 book, which first revealed New Zealand’s involvement in US intelligence gathering.” presentazione del Padiglione della Nuova Zelanda alla 56.Biennale di Venezia.

8 9 http://www.paglen.com/ 9 0 https://citizenfourfilm.com/

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Gli hacker—frequentemente nominati come tali in modo improprio—sono sempre vittima di una costruzione del personaggio aderente allo stereotipo del nerd anni ’90, incapace di interagire nel mondo reale, che riesce a prendere contatto solo con comunità di soggetti altrettanto disagiati. Il pubblico è sensibile al tema, di conseguenza lo stanno diventando anche le istituzioni dell’arte, e in molti modi, attraverso diversi tipi di ibridazione, nell’era post-Snowden del post-internet, si sta tornando a forme di critica istituzionale. Un certo torpore del primo post-internet può essere paragonato alla mancata riuscita critica dell’estetica relazionale, a cui giustamente Brad Troemel aveva associato, con un altro parallelismo, la pratica di 4chan. L’“istituzione” con cui si confrontano questi artisti in questo caso non è più il museo, non è una forma statica, un luogo fisico, ma il flusso di dati e immagini che determinano il potere a cui infine, i musei e gli artisti stessi, non sono immuni. Il video saggio di Hito Steyerl Is the Museum a Battlefield? compie un perfetto volo pindarico che descrive alcune possibili forme del flusso. Is a museum a battlefield? Most of all would said “of course not,” on the contrary it is an ivory tower secluded from social reality, it is a playground for the 5%. If artists going to have anything to do with social reality what so ever than certain not within the museum. So how could such a secluded and isolated place be a battlefield? And effort a battle? But museums are of course battlefields, they have been throughout history they have been torture chambers, sites of war crimes, civil wars, and also revolutions. Take the sequence in Einsestain’s seminal movie October, when bolscevics


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are storming the winter palace. What they’re actually storming is a museum, namely the Hermitage Museum. We see how the crowds flood the museum and take the government prisoner. Yes, you might say, but today in 2012 the situation is much different. I agree. But also it is much less different then one might expect. The future art collections will be established by well seen patricians and aristocrats who put their wills and taste on display. Today art spaces worldwide in emerging countries just as in formal metropoles are shifting back or rather forward to feudal lords, again, turning into flagships these place of oligarch wills and bubble money. This is a rendering I found online, plans by Rem Koolhaas’ studio OMA (office for metropolitan architecture) to redevelop a part of the formal winter palace into yet another Guggenheim franchise. So, to fast forward the story, is the battle inside the museum? Is the revolution itself? Is this a prelude to all-out gentrification? But we could also look at it from a different perspective, not from the perspective of the Museum which becomes a battlefield or not, but from the prospective of the battlefield. Does it have any link to, let’s say, a contemporary art space, to a museum? And what would it look like?91 Con la seconda partecipazione alla Biennale di Venezia e una recente grande mostra personale agli ArtistSpace a New York92 il lavoro di Hito Steyerl, attiva come artista solo dal 2004, è legittimamente ascrivibile alla definizione di “istituzionale” per quanto riguarda la sua dislocazione e i luoghi di fruizione. È proprio il suo 9 1 https://vimeo.com/76011774 9 2 http://artistsspace.org/exhibitions/hito-steyerl

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essere fisicamente nell’istituzione lavorando sul flusso di dati che la circonda che le permette di mettere a fuoco il luogo vibrante da cui scaturisce tutto l’immaginario che mette in scena per via distopica. Hito Steyerl insegna all’Università delle Arti di Berlino, scrive frequentemente per e-flux Journal e non è a contratto con nessuna galleria: quando vende un video, predispone una trattativa molto specifica che include la possibilità della libera diffusione delle copie dello stesso. Un sabotaggio alla carriera o la scelta di una via alternativa che la ridisegna discutendone le forme standardizzate? DIS93 è invece un progetto collettivo che in modo diverso sta seguendo dei percorsi altrettanto inesplorati con un’attività che fin dal principio è stata difficilmente associabile a un ruolo preciso. DIS in sé stesso è un brand, ma le singole personalità che lo compongono non hanno bisogno di diventarlo. È una rivista, un collettivo artistico, una piattaforma curatoriale, un e-shop. “I just assumed they meant a regular print magazine or PDF,” recalls Trecartin, the poster boy for the current generation of artists reared on, and working in the patois of, the Internet. “I was like, Okay, whatever.” But after receiving his first assignment for DIS, a fashion editorial in collaboration with Buntah, a coder, and modeled by virtual characters from the video game the Sims, Trecartin realized that Chase and Toro were thinking bigger. “They wanted to encourage transactions between people who have no reason to collaborate. They were bending the concept of what a magazine is.” 9 3 http://dismagazine.com/about/


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DIS isn’t, in fact, a magazine. What DIS is, however, remains open to question. It has been described by artists, critics, fans, and its own contributors as “a social network,” “a wormhole,” “a cultural reparations racket,” “a kind of 21st-century end game of counterculture,” and “an incredible hub of context invention.” Artforum went so far as to suggest that the creators of DIS may one day prove to be “the most important artists of the decade.” DIS is, or may turn out to be, all those things. But it might be simpler to think of it as a virtual incarnation of that overstuffed house in Miami—an online space where a bunch of like-minded cohorts can riff and egg one another on, which is how most important artistic movements tend to start.94 Probabilmente, tanto quanto il 2013 è stato un anno cruciale per il primo post-internet, il 2016 lo sarà per il post-internet post-Snowden anche in virtù della curatela della prossima Biennale di Berlino affidata a DIS. The 9th Berlin Biennale for contemporary art may or may not include Contemporary Art. […] The 9th Berlin Biennale may or may not render the present in drag.95 La produzione artistica sembra aver trovato il modo di immaginare una strada da percorrere che le permetta di lavorare senza essere dipendente dal capitalismo attentivo, mettendolo in discussione con tutte le controversie e le ambiguità del caso, che diventano punti di forza nel momento in cui non vengono nascoste in virtù di un’etica assolutista—dal mio punto di vista nemmeno troppo 9 4 http://www.wmagazine.com/culture/art-and-design/2015/09/dis-art-collective/photos 9 5 http://www.berlinbiennale.de/blog/en/8th-berlin-biennale

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auspicabile—le cui condizioni di esistenza sono ben lontane dal realizzarsi. Chiudendo dunque il cerchio, l’anello finale di questa catena, ovvero l’osservatore, quali possibilità ha? Se il contenuto consapevole sta permettendo la liberazione della forma in chi produce, la sua divulgazione, attraverso un apparato dedicato che non solo non è libero da dinamiche di capitalismo attentivo, ma deve ancora forzatamente scenderci a compromessi, può lasciare spazio a uno sguardo libero? Esistono vie percorribili verso una critica istituzionale nell’ambito dell’osservazione contemporanea?




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parte quarta

I primi di marzo del 2014 mi trovavo a Parigi per un viaggio di piacere e visitando il Palais de Tokyo, che in quel momento ospitava Family Business96 mi sono imbattuta per la prima volta nell’Order of the Third Bird. Family Business introduces The Work of Art under Conditions of Intermittent Accessibility: An Installation and Performance-Practices by The Order of The Third Bird. […] New evidence strongly suggests that the Francophone Transylvanian philologist-explorer Marton Bialek (1889-1966) was an associate of the Order of the Third Bird. Several scholars with an interest in these matters will present a brief biography, and reveal Bialek’s fascinating “Exercise of the Trochilus,” a formal protocol for sustained attention to a work of art. Some guided collective experimentation will be encouraged. All are welcome, regardless of their knowledge of Bird practices. And please note: Visiting adepts of the Order 96

“Family Business is an exhibition space initiated by Maurizio Cattelan and Massimiliano Gioni on February 2012. FAMILY BUSINESS is a guest house – a place where friends, enemies, people admired and respected are invited to present the works of artists they support and projects they believe in. It is a free time-share: a space made available to people who have something interesting to say; a way to get to know new families and friends. Family Business is a non-for-profit space open to experimentation and irreverent exhibition formats powered by the Center for Curatorial Studies at Bard College. Nadja Argyropoulou is the Family Business guest (or ghost) curator.” http://familybusiness.us/

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of the Third Bird will, we believe, be engaging in their ritual practices hourly, on the hour (from 15:00-20:00), within the Order’s temporary sanctuary in Family Business house.97

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I relatori della conferenza erano associati a quello che, sempre un po’ misteriosamente, si presenta come un gruppo di studio di appassionati di estetica, adepti dell’Ordine: ESTAR(SER) — The Esthetical Society for Transcendental and Applied Realization (now incorporating the Society for Esthetic Realizers) — is a private, dedicated body of amateurs, scholars, and interested parties who concern themselves with the historicity of The Order of the Third Bird. This community of researchers works to sift evidences of Bird-like attentional practices in the historical record, and to present those evidences to critical readers. In this project ESTAR(SER) is fortunate to be in possession of a vast (possibly infinite) body of source materials — known as “The W Cache” — which appears to have been assembled by an aspiring historian of the Order seeking to write a comprehensive history of the Birds. He or she did not succeed, but bequeathed to the Society a valuable and diverse archive. The academicians of ESTAR(SER) have made it their business, over the years, to publish critical editions of these primary sources, materials that see print in the Proceedings of ESTAR(SER).98

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Nota introduttiva agli eventi dell’Order of the Third Bird presso Family Business al Palais de Tokyo

9 8 http://estarser.net


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L’esercizio proposto in quella sede era un protocollo attentivo per guardare un quadro, da provare ad eseguire per una durata minima totale di una decina di minuti, mantenendo le mani e il corpo liberi, restando in silenzio. Durante la mia permanenza ho avuto modo di osservare all’interno dello spazio espositivo del Palais de Tokyo, gruppi di praticanti che seguivano un differente tipo di esercizio, muovendosi insieme di un passo verso l’oggetto intorno al quale stavano praticando il protocollo prima, e di un passo indietro poi, con una tempistica precisa, scandita da un campanello. Facendo alcune ricerche intorno alle attività del Third Bird Order, sono entrata in contatto con alcuni dei suoi membri con cui ho avuto il piacere di avere una fitta corrispondenza intorno al tema dell’attenzione. La metodologia di osservazione proposta dall’Ordine non ha la supponenza di essere definitiva, si pone come un esercizio di visione, che, a detta di molti praticanti, aumenta la consapevolezza dell’esperienza estetica, senza chiuderne le potenzialità più recondite e impreviste. L’approccio critico nei confronti dell’oggetto viene messo da parte per disporsi in apertura ricettiva, cercando di non giudicare l’opera che si ha di fronte, spesso nemmeno scegliendola, spesso nemmeno sapendo prima cosa si guarderà durante l’esercizio. Se la via attraverso cui l’economia dell’attenzione invade con prepotenza il campo dell’osservazione è la condivisione dei contenuti—la diffusione di prodotti terzi adiacenti all’opera, che finiscono per diventare involucri ingombranti nel momento in cui finalmente si fa esperienza dell’opera—la condivisione nel contesto dell’Order of the Third Bird assume una sembianza completamente differente, senza scopi secondari, da portare avanti in momenti specifici secondo un principio di generosità nei

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confronti dell’oggetto che si va ad osservare e degli esseri umani con cui si comunica circa l’esperienza di visione. L’elemento partecipativo e relazionale viene utilizzato per portare avanti quello che di fatto è una critica istituzionale dell’osservatore e della pratica partecipativa stessa. A questo riguardo, Alison Burnstein99 ha scritto un saggio non pubblicato, che mette in relazione le sue ricerche sulle pratiche attentive dell’Ordine al discorso di Claire Bishop sulla Critica Istituzionale. Qui di seguito alcuni estratti significativi: It is the intention of this essay to take up the work of the Order of the Third Bird and to examine critically certain aspects of this enigmatic enterprise, which accounts for itself as follows: The Order of the Third Bird is an association of like-minded individuals (together with an intimate penumbra of splitters and apostates) who work at the convergence of performance, aesthetic theory and what might be called “art appreciation.” Members of the Order cultivate inherited practices of sustained attention suitable to the occasion of a work of art, mobilizing these experimental modes of practical aesthesis in a variety of interventions and engagements. Through statements such as this one (which is the clearest description I have been able to locate), it becomes clear that a number of intricacies complicate the task of investigating the project; while the text delineates the project’s area of focus as sustained at99

attualmente program director presso Process Activities, Inc., New York (https://www. facebook.com/recessart/info/?tab=overview)


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tentional practices, it leaves unresolved the perplexing factors of a sometimes-divergent community of practitioners and an unspecified source of “inherited” content. This form of writing alone presents challenges, but the Order’s structure poses a more fundamental obstacle: “the canons of secrecy around these [the Order’s] activities—their structure and purposes—have traditionally been sufficiently restrictive as to leave some doubt as to whether any individual professing knowledge of the Order could in fact be genuinely associated therewith.” […] While this approach differs notably from other social practice projects, which tend to make themselves immediately available to audiences, it also arguably enhances the resultant social dynamics by ensuring that all participants demonstrate a certain level of interest and investment prior to taking part. […] Beyond the dilated temporality of a bird action, the elements of the group’s silence, its precise linear formation (in at least two out of the four phases), and its synchronized transitions distinguish this looking behavior from that of a typical museumgoer. Although these characteristics are not entirely foreign in a museum setting, the group’s comportment as a unit exaggerates the normal etiquette of quiet contemplation before an artwork to the point of theatricalizing the act of viewing. In doing so, the Order turns an ordinary feature of a museum experience into a subject that warrants attention and questioning. This move is similar to one that artist Andrea Fraser, a prominent practitioner of institutional critique, affected in her performance Museum Highlights: A Gallery Talk (1989). In this piece, Fraser assumed the role of museum docent Jane Castleton and led visitors on a tour of the Philadelphia Museum of Art, using a pastiche of quoted source material

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to refer to different objects than the original speakers intended. In sociologist Pierre Bourdieu’s estimation, this performance “[created] a genuine experimental situation: a provocation that challenges the existent itself, as when a museum’s security apparatus is parodically described in the language of aesthetic analysis.” Whereas Fraser’s performance uses an excess of language to call attention to how the museum’s structures—in this case, its docents charged with disseminating knowledge—can overdetermine experience, the Order’s attentional practices invert the equation, utilizing an absence of language and an excess of attention to point toward the ways in which the museum’s systems can obstruct the art experience. Through the Order’s staged actions, it becomes clear that a rigid formation of silent attendees is in fact inimical to the constant flow of bodies and the detached yet upbeat tone that most museums encourage within their galleries. […] By modeling an extreme and spatialized form of attentiveness that exceeds the norms of viewing, the Order takes seriously the assumed elevation of the art experience and, in so doing, makes transparent the ways in which the institution falters in its claim to support such an encounter. Based on the previous analysis, it is clear that the Order’s practices deny recourse to traditional strategies for interpreting artworks and impose strict physical and temporal guidelines on the physical looking process—tactics that might seem to restrict the forms of art experiences that can arise. Yet, within the context of institutional critique, these limitations exhibit the “dialectical” logic early works of the genre deployed against the institution of art; […] Since the Order directs this open-minded reciprocity first to made things and then to standard audiences of


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people as a corollary effect, the project expands upon the bounds of social practice, indicating that the ideology of exchange within a community has benefits beyond human connections. In addition to promoting a union between individual and object, the structure of the Order’s attentional practices also promotes connections amongst the body of practitioners. […] actualizing the category of the institutional critique of social practice, the Order of the Third Bird does more than propose solutions to the insular tensions of critical discourse. Beyond this, the Order models an effective escape from the shortcoming that, according to art historian Amy Pederson, already plagues institutional critique and, I would argue, poses a similar threat to social practice’s efficacy: “the tendency they share to reify social relations in the territories they occupy or traverse” and thereby “[transform] their systems of art into closed structures, largely unable to reach beyond the discursive limits of art history and criticism.” Through its fundamental principles of generosity of attention and reciprocity between subject and object, the Order articulates a critique of art and its institutions while simultaneously projecting beyond their boundaries; crucially, the Order’s values and its practice-oriented means of upholding them are relevant outside the realm of art, since they offer productive methods for becoming attuned to the world and behaving in relation to others (both human and non-human). Here, the Order’s institutional critique of social practice proves expansive in its potential impact; in throwing open the art institution’s characteristically hermetic circuits, the Order affirms that the aesthetic can have transformative effect in the world at large, even if its accomplishments are seemingly as simple as inspiring what one

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practitioner cited by ESTAR(SER) calls a “passionate enthusiasm” for “new ways of thinking and feeling.” 100

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Mantenendo per qualche tempo aperta questa corrispondenza di scambio di testi e ricerche, sono riuscita ad ottenere i contatti di due membri italiani dell’Ordine, a cui ho chiesto un’intervista al fine di capire qualcosa di più della ricerca che portano avanti e dell’Ordine stesso. Uno dei due non mi ha voluto rispondere, spiegandomi che la riservatezza è più importante di qualunque tipo di curiosità più o meno morbosa a riguardo, e che è contro la sua idea di essere parte dell’Ordine il rilasciare interviste a riguardo. L’altro ha concordato sull’intervista, a patto che utilizzassi per lui/lei un nome in codice, Erithacus Rubecola.101 Come sei entrato in contatto con L’Ordine? Facendo un workshop, studiavo all’estero e un gruppo di praticanti di ESTAR(SER) ha tenuto una lezione all’interno di un seminario sulle pratiche dialogiche. Da quanto tempo esiste il gruppo italiano? Non te lo so dire di preciso, la declinazione italiana dell’Ordine si chiama “Ordo Tertiae Avis”, io di solito partecipo alle pratiche quando avvengono a Milano, ma ci sono voci che indicano attività dell’Ordine anche in Campania e a Venezia, non lo so di preciso perché non ho mai incontrato nessuno di italiano a parte quelli

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Alison Burnstein, Paying Attention Inside and Outside the Institution: A study of the

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Nome scientifico del pettirosso europeo

order of the third bird as an institutional critique social practice


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con cui pratico. Siamo molto attenti alla riservatezza, questo rende anche più complicato venire a conoscenza delle attività globali dell’Ordo, ma va bene così, se avrò bisogno di sapere delle cose qualcuno che ne sa più di me probabilmente me le dirà o le scoprirò più avanti o le so già e non voglio dirtele. In linea generale non esiste un indice delle attività di tutti i gruppi di studio presenti nel mondo, ma ci sono modi, se serve, per provare a mettersi in contatto. A questo proposito, parliamo della segretezza. È così indispensabile? Non rende tutta questa cosa un po’ ridicola? Per quanto l’Ordine non sia collegato a nessuna forma di massoneria e simili, condivide una parte delle proprie origini con quelle tipologie di associazionismo, le loro radici risalgono ad un periodo in cui rifiorivano gruppi privati di studio sulle più svariate materie, infatti credo sia più sensato parlare di privatezza piuttosto che segretezza. Non esiste una vera e propria unica traccia storica dell’Ordine, la sua conformazione assomiglia a quella dei tordi nell’azione del cosiddetto “murmuring”, è un verbo intraducibile in italiano e indica il volo di stormi di uccelli insieme, quando formano quelle bizzarre conformazioni che non si può fare a meno di guardare. Nel “murmuring” non esiste un capo, il movimento avviene per vicinanza, per prossimità, allo stesso modo i gruppi di studio, le cosiddette volée, si formano per via di contatti, coincidenze, interessi comuni di ricerca. È indispensabile che tutto questo non sia pubblico, la pratica, il nostro protocollo di base, viene spiegato solo

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a chi dimostra un sincero interesse e una certa predisposizione, non è materiale che trovi online alla mercé di chiunque, non avrebbe senso farlo diventare un tutorial. Ci sono gruppi di studio che si occupano della ricerca storica, come ESTAR(SER) per esempio, altri che vanno avanti a lavorare sulle pratiche. Alla fine quello che conta realmente è la sua contemporaneità, le ricerche storiche non sono mai fine a sé stesse, sono fatte in funzione di una sperimentazione nel presente. Le relazioni che si costruiscono a partire da questi presupposti sono notevolmente avvantaggiate sul piano della condivisione, io penso che a Milano abbiano agevolato una socialità di scambio entro un certo gruppo di persone, o almeno, questa è la mia esperienza, che non è mai stata negata del resto nel momento in cui ho avuto a che fare con persone provenienti da gruppi diversi. Quindi secondo te la privatezza è una buona soluzione per sottrarsi a dinamiche che hanno a che fare con le speculazioni basate sull’economia dell’attenzione? Totalmente, usiamo le mail, questo sì, ma l’online è un luogo in cui generalmente non avviene nessuna parte della pratica attentiva. In più, dal momento che il medium non è neutro, sarebbe davvero insensato portare avanti una pratica decelerazionista, apolitica, in qualche modo anche anticapitalista perché caratterizzata dall’assenza assoluta di speculazione economica di alcun genere, attraverso gli stessi mezzi che allo stato attuale delle cose generano ciò che la pratica cerca di alleviare. Anzi, dire apolitico è scorretto, io penso che sia un’a-


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zione fortemente politica, ma totalmente al di fuori degli schemi di potere della politica, la pratica non punta a governare niente, nemmeno si propone come unica azione possibile nel suo ambito specifico. Succede tutto in un posto fisico, e finisce in un posto fisico, almeno per quello a cui abbiamo lavorato finora. Dal momento che uno degli obiettivi della pratica è quello di lavorare su oggetti che per qualche ragione necessitino attenzione, stiamo ragionando sulla creazione di un protocollo per guardare la Net.Art, forse in quel caso potremmo far avvenire una parte della pratica online, ma sarebbe un utilizzo molto cosciente delle dinamiche che sono in grado di bruciare rapidamente esperienze come queste. Le forme che assume quello che facciamo nel praticare vogliamo che restino libere, basate su scelte coscienti. Qual è quindi lo scopo dell’Ordine, se non punta a diffondersi il più possibile? Una volta mi è stato detto “of the purpose of the Order, little can be said that cannot be discovered in its practice.” Il centro di tutto è la pratica, tutto esiste solo in funzione di essa ed essa è lo scopo. Lo scopo della pratica è quello di realizzare le relazioni tra esseri percepienti e oggetti del mondo presente, nello specifico quelli creati per essere visti. Nella storia approssimativa dell’Ordine, la fondazione dei grandi musei nel corso del Settecento è un evento fondamentale. Il museo si fonda su di un paradosso visivo, da una parte l’opera viene conservata e messa in un posto in cui può essere raggiunta per sempre dal nostro sguardo, dall’altra è in mezzo a centinaia di altre opere: la sua

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aura in quanto opera è preservata e totalmente legittimata dal contesto in cui si trova, tuttavia la sua aura attentiva viene costantemente intaccata dalla forzata compresenza. Un processo simile avviene con le immagini di documentazione delle opere che circolano sui social network o con gli innumerevoli eventi collegati agli opening delle mostre: potenzialmente le possibilità di fruizione aumentano, ma alla fine aumentano talmente tanto da annullarsi parzialmente a vicenda. Questo tipo di esercizio, nella mia esperienza è assolutamente utile e attuale. Le regole che si seguono sono strategie attentive largamente utilizzate sia in psicologia che nella meditazione e nella formazione teatrale per esempio. Victor Turner in questo contesto parla del raggiungimento dello stato di flusso, il punto in cui si fa esperienza tra azione e coscienza: le regole formali permettono di limitare gli stimoli e di restringere e intensificare la coscienza liberando mente e volontà da tutti gli elementi irrilevanti, per essere maggiormente liberi nell’azione che si è scelto di intraprendere. La pratica è quindi il centro di tutto. In practice, practice. Non potendo quindi avere avere accesso o, nel caso l’avessi avuto, non potendo diffondere i contenuti della pratica dell’Ordine in una sede che non sia quella della pratica stessa, ho chiesto ad alcuni membri dell’Ordine di condividere con me alcuni loro appunti riguardanti le loro osservazioni derivanti dagli esercizi attentivi. Le opere generano forme terze, esperienziali, impreviste e a volte, si riservano il privilegio di essere solo quello che sono o qualcosa di completamente diverso.




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APPENDICE

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An object coming .htron gfrom nidaeh nianother art eht morf gworld, nitirw m’I sa a white ,dnah roopworld, ym evigroF gninruojos sseltser ym tsdima ecnednopserroc rof emit elttil os smees erehT a yellow and bronzesa world. It’s not shining enough, maybe traeh ym ot esolc os ecnednopserroc a rof neve ,sesirpretne sseldne dna y ot etirw ot esbecause imorp gnidnatsit gnohas l ym llbeen ew rebmem er I tuB .eno siht he’s hiding his trueuoessence captured ym fo ynam os sdnammoc hcihw yteicos eht fo sgniod eht fo gnihtemos in another world. It’s probably some.sthkind guoht ymof fo nplant, oitrop a egsimilar ral os dna sruoh tahwemos( gniteem eno fo ,seton ym morf nward ,tnuocca na si ereH shapes, little doors,.opressed ga thgintrof a edown calp koot hopaque cihw ,)era syawprojections. la yeht sa ,ton tahwemos ,lacipyt d n a s e h s i w t r a e h y m s a h c u m ,uoy ot gnihtyrthe eve laevveil. er tonnahe c I ,eeveil s ll’uoy sA The plant has a mission: defending .stpmorp ssapmoc larom eurt ym ni thgsomething. indim retfa etunim eIt’s no ,laumoving: su sa ,denevnocit’s ytrapalive. llams ruO is somehow the keyehtfor htiw detoof-thgil saw I .yrubsmoolB ni esuoh s’L .srM fo moor gniward The base is earth, raw hcihw kmaterial row a fo gnilievnis u egrowing ht rof tneserp eup, b ot erit’s ew ew almost sa ,noitapicitna impossible to see him alone, nodnoL fit’s o aera yhidden rubsmoolB eht ,by yrutnecreflections, htneetenin eht fo flah rebut ttal eht I tuosee hguorhT .1 I see reflections, ro/dna citehtsea decnuonorp htiw snoitailfifa enitsednalc-imes ro terces ot tsoh netfo saw hcihw ,doohrehtorB etileahpaR-erP eht ,ylsuomaf ,gnidulcni — stnemtimmoc larutluc-tra two fruits, imperfections, it really looks like a plant from erew setyloca dna ,setailfifa ,srebmem esohw fo suoirav dna ,yrubsmoolB ni dednuof saw mailliW si eseht fo elbaton tsoM .no 0581 morf yrubsmoolB ni evitca ro tnediser rehtie another word. eht fo sdneirF .2781 ot 5681 morf yrubsmoolB ni deretrauqdaeh saw mrfi esohw ,sirroM nwo s’sirroM neewteb seitinfifa nrecsid lliw krow s’sirroM htiw railimaf era ohw redrO On a white background dna latnem s’redrO eht fo nsome iatrec ni ticilcut pmi sedupieces: titta eht dna 0781aacriviolent c margorp citehtsea eht fo weivrevo elbacitcarp a roF .stnemucod tneserp eht ni htrof tes sa ,serutsop lanoitaler taxonomy. Forcing trthe A ehT ,educational nhojetterP .E tlusnoc dluocontext hs redaer detsereuntil tni eht ,dooit hrebecome htorB etileahpaR-erP etileahpaR-erP eht dna msitileahpaR-erP ,tnuH namloH .W ;)0002 ,notecnirP( setileahpaR-erP eht fo completely not respectful of the object of content. Coming back to the plant, complete, it wants to grow. It grows and grows like a climber, but… what about the feeding? Rail is not enough, so the veil is the first step of its final perfect shape, It’s meant to be perfect, it has to be tiny and light as a spider web and just grow around the place filling it with a shiny light presence. Connecting one world to the other, being the key for a relationship between them. Love. Eopsaltria Griseogularis 1

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Object-Oriented Ornitology—“Non avevo mai notato il profilo ondulato delle aiuole che circondano il cortile. Non avevo nemmeno notato che la Cosa stessa che il cortile sembra nato per accudire, fosse ondulata. Avevo sì girato intorno ad altre Cose sue sorelle ma a lei ho sempre preferito una visione frontale, la lettura sequenziale delle forme che immaginavo piatte. Oggi ne scopro le curve. Bene: mi permette di continuare a pensarne il corpo senza che si faccia testo. Mi accorgo che il modo più facile per accedere alla Cosa sarebbe planando, da sopra: la vegetazione che lo circonda è inaffidabile e tortuosa, e non permette la visione di insieme che cerco. Non che cerchi un rapporto funzionale con la Cosa: non è qui per me. Un umano tedesco direbbe che non “è alla mano”; cerco di dimenticarmelo—e soprattuto non capisco: non ho mani. Ma ecco, mi piacerebbe che la Cosa fosse allo stesso tempo torre di vedetta e oggetto stesso della visione. Ha senso? Torna in mente il suo essere curva, irregolare. Difficilmente riesco ad immaginarne una Cosa amica, che le si incastri e questo mi rende triste. Più facile supporne un opposto: un Coso modulare, seriale, “puro”—ho allenato la parte di me che più frequenta gli umani a rabbrividire al pensiero di questa idea che alla mia specie non appartiene. Se la Cosa sembra non avere un buon rapporto con il cortile che al contrario la protegge maternamente—non che si ribelli; si protegge a sua volta—un Coso influenzerebbe l’ecosistema, di cui sarebbe parte integrante, con la sua presenza. Come una caverna o qualcosa del genere. Ma una caverna forse genera sistemi. Non sono sicuro e il vento sta continuando a soffiare tra la Cosa sibilando. Il Coso-caverna tacerebbe?”


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Il resoconto si interrompe qui. Di quel pomeriggio ricordo la sensazione di voler aiutare la Cosa. “Aiutare” forse non è la parola esatta. È come se ne avessi pensato un’essenza latente che volesse emergere. Un lì-lì sull’orlo di. Turdus Migratorius

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Questo è chiaramente un funerale: gli insetti che volano abitualmente sulle cose morte e putrefatte, le tende di velluto pesante, una distratta statua di marmo drammatica. Eppure l’oggetto si sottrae al proprio funerale mettendo in atto una fuga, tradisce le proprie simmetrie. La presenza del soggetto nell’oggetto rompe l’equilibrio della morte e diviene presenza motrice, ombre dinamiche salgono le corde. Tutto è un po’ vivo ma sta morendo, in questo c’è una mimesi, un’assonanza con le cose nascoste, ma non c’è assonanza tra le cose nascoste, a volte sono fisicamente presenti, a volte abitano solo il pensiero, ma anche nel pensiero si nascondono in un angolo, lo stesso che giungendo nella sala permette all’oggetto di negarsi. Improvvisamente le forme si sottraggono del tutto, la sparizione lascia un’assenza simmetrica. Se qualcosa ritornasse, sarebbe comunque nel luogo giusto, tra una tenda e un vetro sarebbe ben protetta, ci vorrebbe qualcuno che la tranquilllizzi, qualcuno che ne racconti le gesta, ricordandole che lei esiste anche se è celata. Viva ma invisibile come un fantasma di cui si raccontano storie terrificanti e malinconiche. Petroica Rodinogaster 3102 NMUTUA/GNIRPS 46/36 SER

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BIBLIOGRAFIA

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24 settembre 2015




MAY I HAVE YOUR ATTENTION PLEASE?

grazie

Alessandra Piolotto

Leila Amacker

Alison Burstein

Leonard Nalencz

Andrea Lissoni

Livia Mariani

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Giovanna Manzotti

Zoe De Luca

Giulia Mengozzi Guido Tamino Graham Burnett Holly Herndon Ivan Rachieli Jac Mullen

Le font utilizzate sono di

Jeff Dolven

Ian Party — Swiss Typefaces, Suisse Int’l

Laurent Schmidt

Ludovic Balland — Optimo, Stanley

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NOTE AL VOLUME: Questo volume contiene in allegato una riproduzione della cartolina pubblicitaria originale dell’Elixir of Attention del dott. Ketchem, documento ritrovato in circostanze non meglio specificate dal gruppo di studio ESTAR(SER). A

Questo volume va in stampa a distanza di tre giorni dall’attacco terroristico avvenuto simultaneamente alla sala da concerti Bataclan, allo stadio di Parigi, a Rue de Charonne, a Boulevard Voltaire, a Rue dela Fontaine au Roi e a Rue Alibert, a opera dell’ISIS. Al momento non mi è ancora chiaro come questo cambierà le cose, ma il sentimento attuale, a tre giorni di distanza dai fatti, è che il quadro contemporaneo descritto parzialmente anche da questo testo, si sia chiuso per lasciare spazio a un’altra situazione. B



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