Libra

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NUMERO 10, NOVEMBRE 2006

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Giornale della facoltà di giurisprudenza “IO NON VOGLIO LETTORI, MA COLLABORATORI” P. Gobetti

Libra, anno nuovo Mi ricordo che un giorno andai con la mia scuola alla sede del Resto del Carlino di Ferrara.Ricordo l’odore di fumo tra gli studioli piccoli, i posacenere vicino alle tastiere. Qualche arcaica olivetti, vecchia isola nel mare moderno dei computer. Ricordo che pensai dovesse essere un lavoro ben strano quello del giornalista. Centinaia di camel per raccontare una storia di cui non si è mai protagonisti, per parlare di qualcuno che è morto, sta morendo o fa il politico. Praticamente un girone infernale. Spiegarono che lì la paga era da schifo, non succedeva mai niente e l’editorialista aveva mollato tutto per sposarsi e fare l’addetto stampa di qualche impresa della provincia. Da quella visita cominciai a studiare tantissimo; impaurito dall’idea che a batter la fiacca non avrei potuto che finire a fumare davanti ad uno schermo come i dannati di quella redazione.

( Segue in ultima pagina) In questo numero: • Finanziaria 2006, cosa cambia? a pag 2. • Eutanasia, pro e contro, a pag 8-11. • Da Ingrao a “Political Circus”: la luna è lontana, a pag 18. • Libra cambia veste!, a pag 27. Attualità


Attualità Qualcosa è cambiato? 'Rossi e neri tutti uguali?!Tu te lo meriti Alberto Sordi!' urlava in 'Ecce Bombo' un irritato Nanni Moretti di fronte ai soliti luoghi comuni. Eppure visto l'andazzo degli ultimi tempi, ci sarebbe veramente da arrendersi alla tragicità del qualunquismo per cui tutti i governi, qualsiasi colore essi portino, in fondo poco si distinguano l'uno dall'altro. Dopo una legislatura azzurra in cui si sono visti più tagli che in un film di Dario Argento, la scuola pubblica, e più precisamente l'Università, confidava nel buon cuore della Sinistra, seppure costituita da una classe politica al Gerovital. Assodato che degli under 30 si aspettino grossi cambiamenti da un gruppo di sessantenni sembra un assurdo già di per sè, quelli che avevano votato per l'attuale maggioranza ci avevano creduto, in una rinascita, in un evolvere in positivo delle cose. L'Italia aveva perfino vinto i Mondiali di calcio, non poteva trattarsi di una semplice coincidenza. Tirava un'aria nuova, insomma. E invece non solo si è tornati alle solite questioni dei conti in deficit, per la serie 'Scusate bambini, magari Babbo Natale ripasserà a Pasqua', ma si è creato un mirabolante malcontento trasversale in grado di colpire tutte le fasce sociali. Laddove si poteva tirare la cinghia ed evitare nuovi e vecchi sprechi, il Governo ha preferito lasciare le cose come stavano e fare sputare sangue a tutti gli altri, ossia coloro i quali pagano le tasse e lavorano, producono. Invece di tagliare posti alla Pubblica Amministrazione più lassista, andando così finalmente a centrare l'obiettivo di un'amministrazione più snella e moderna. A onor del vero 50.000 posti di lavoro alla PA sono stati sforbiciati in un solo e deciso colpo, ma alla Scuola, quella pubblica. E va precisato che contributi statali la scuola privata ne ha visti eccome anche quest'anno, alla faccia di chi della Sinistra scendeva in campo contro i provvedimenti della Moratti. Rossi, neri, tutti uguali? In prima facie non sembrerebbe. Si è distribuito un contentino qua e là, un 19% degli affitti deducibile dalle tasse dei fuori-sede (un regalo che cambia la vita, certo), il bollo del motorino non più cosa da notai (casta chiusa che meriterebbe l'abolizione con decreto legge, in quanto i motivi non possono che essere dettati da necessità e urgenza di salvare le tasche dei poveri italiani costretti a ricorrervi), le spese per la palestra degli under 18 anch'esse detraibili... Ma poi. In conseguenza di quelli che possono essere giustificabili solo come i postumi traumatici della visione di 'Fuga di mezzanotte', invece di costruire nuove carceri si emana un bell'indulto. Giusto per non fomentare la delinquenza. Non si tocca neppure la Legge Biagi, la legge sulla fecondazione assistita, cavalli di battaglia in campagna elettorale ora annoverabili tra i tristi casi di 'Chi l'ha

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visto'. Si fa pagare di più chi s'è sempre svenato in tasse e contestualmente si comunica che la lotta all'evasione fiscale sarà dura e pura, tanto da coniare l'edificante slogan 'Pagheremo tutti per pagare meno'. Bei propositi ma finchè i cattivi non verranno smascherati e sottoposti alla proporzionatissima pena che prevede una blanda multa e il possibile carcere per la terribile durata che potrebbe raggiungere il periodo di un anno, a mantenere un intero Paese saranno sempre i soliti che danno e in cambio ricevono, tra gli altri, un servizio sanitario pubblico al di sotto di ogni più rosea aspettativa, un'istruzione fatta con mezzi di fortuna e trasporti pubblici inefficienti e costosi. Un quadro all'apparenza apolcalittico ma che in realtà poco si discosta da quello in cui abbiamo sempre vissuto da almeno dieci anni a questa parte. Per esempio all'Università parevano destinate nuove e cospicue risorse e invece ecco che per effetto del decreto Bersani resterà a bocca asciutta, con tanti saluti alla ricerca per giunta. E dal 23 al 27 ottobre un'ondata di scioperi avranno colpito le facoltà italiane, deluse, amareggiate da un governo di Sinistra, che dovrebbe tutelare il bene pubblico e che invece premia solo se stessa, con vassalli e privilegi profumatamente pagati dalle tasche degli italiani. In un Paese di vera sinistra uno studente universitario non sarebbe costretto a pagare tasse da capogiro per poter frequentare l'università pubblica, non sarebbe sottoposto alla regola per cui non può neppure fotocopiare più del 15% di un manuale previsto dalla materia del proprio corso di studi, non dovrebbe sborsare denaro a palate per il trasporto o l'alloggio, o meglio, potrebbe tranquillamente farlo ma a fronte di una completa deducibilità di queste voci nella dichiarazione dei redditi. Fantascienza? Se si conta che lo Stato spende 10 miliardi e mezzo di euro solo per la manutenzione delle auto blu, non sembra più tanto Star Trek. Ma a dirlo si passa per naif, pauperisti, qualunquisti. Io amo Nanni Moretti e detesto la banalità, ma quanto ha ragione a volte questa banalità. Ana Pivato

Terrorismo: un’opzione realistica Da tempo mi preme una domanda cui vorrei cercare di rispondere: perché il terrorismo è considerato peggiore della guerra? Perché si percepisce un maggior disvalore nell’atto di farsi saltare in aria in un luogo affollato piuttosto che nel premere un bottone e sganciare una bomba in quello stesso luogo? Questa differenza io non la vedo, e cercherò di spiegare il perché. E’ necessario innanzitutto constatare che manca una definizione di terrorismo univocamente condivisa. La prevalente dottrina internazionalistica occidentale ritiene che un atto terroristico sia caratterizzato dall’uso indiscriminato della violenza contro una popolazione civile, con l’intento di diffondere il panico e

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di coartare un governo o un’autorità politica internazionale. Autori non occidentali però, fanno notare che questa definizione apparentemente esaustiva non tiene conto dello stato di oppressione in cui versano le popolazioni che subiscono un’occupazione: secondo alcuni gli atti di chi agisce per liberare la propria terra e il proprio popolo, atti riconducibili ad una lotta di resistenza, non possono mai essere considerati terroristici, nemmeno se rivolti contro civili. All’opposto in Occidente è diffusissima l’idea secondo cui le azioni di uno Stato, di un esercito regolare, non possono mai dirsi terroristiche, nemmeno le più distruttive e devastanti; si ha così il paradosso per cui le guerre si autolegittimano grazie al soverchiante potere militare di uno Stato. Danilo Zolo (La giustizia dei vincitori, 2006) sottolinea la contraddizione insita in questa tesi portando ad esempio i bombardamenti alleati di Berlino e Dresda e quelli statunitensi di Hiroshima e Nagasaki (costati centinaia di migliaia di civili) per dimostrare come la suddetta definizione di terrorismo sia sovrapponibile alla nozione di guerra: violenza indiscriminata (e ben peggiore), morti civili (molti di più), diffusione del panico, coartazione di un governo. Possiamo notare come gli elementi costitutivi della fattispecie siano tutti presenti; eppure la percezione della differenza persiste. Perché? La spettacolarizzazione che i media danno di un attentato, unita a un ben determinato linguaggio, ha il risultato di differenziare fortemente la reazione emotiva dell’opinione pubblica rispetto alla notizia di una strage di guerra. Un esempio? I raid israeliani contro la popolazione palestinese. L’utilizzo di un termine tanto neutrale e asettico fa sì che nella mente dell’ascoltatore non si crei alcuna immagine, tutt’al più qualcosa di meccanico, di indifferente, di pulito; alla parola raid non si associano le immagini di corpi fatti a pezzi, di brandelli di carne sparsi qua e là, di gente ferita e confusa, non si associa insomma quell’idea di morte e distruzione appiccicata invece alla parola terrorismo. La neutralità dei termini e l’assenza di immagini non permettono nemmeno l’indignazione, tanto che dalle nostre parti, dove i minuti di silenzio in onore alle vittime del terrorismo si sprecano, non si è dedicata neanche una manciata di secondi (né di lacrime) in ricordo di un’intera famiglia sterminata a Gaza nel giugno scorso durante uno di questi attacchi. Mi viene da pensare quindi che la distinzione tra guerra e terrorismo poggi non tanto su ragioni logiche quanto su basi emotive (artificiali); in tutto questo gioca un ruolo fondamentale la sensazione di pericolo che costantemente ci viene trasmessa. La stigmatizzazione del terrorismo come nichilista e irrazionale, frutto di un’autentica tendenza criminale, domina il discorso politico e mediatico con il fine di eliminarne qualsiasi logica e legittimità. Alain de Benoist (Dal partigiano al terrorista globale, in “Trasgressioni”, n.

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41, 2006) sottolinea invece come l’atto terroristico sia atto eminentemente politico e vada di conseguenza considerato come un crimine politico, sottratto al genere dei crimini comuni: è necessario decifrarne il contesto, le cause, le ragioni. L’atto terroristico si colloca all’interno di un orizzonte politico e risponde a una determinata logica strategica; le condanne meramente morali e l’indignazione mediatica non fanno che perdere di vista questa prospettiva. Su questo punto anche Robert Pape (Dying to win, 2005, citato da Danilo Zolo) ha fondato la propria analisi, giungendo ad affermare che il terrorismo va considerato come un’”opzione realistica” che unisce il massimo dell’efficacia al minor costo di vite possibile. Pape definisce il terrorismo come una risposta organizzata all’occupazione di un paese, intendendo per occupazione non solo la conquista del territorio da parte di truppe straniere ma anche e soprattutto la presenza invasiva e la pressione ideologica volte a trasformare in radice le strutture sociali, economiche, politiche di un paese. L’atto terroristico ha carattere prettamente secolare: l’elemento religioso, o meglio ideologico, serve solamente ad elevare il terrorista a martire agli occhi della comunità; e vale solo in contrapposizione all’eventuale diversa religione, ideologia o presunta irreligiosità dell’occupante. Stando a ciò viene meno la logica secondo cui il terrorismo va represso incondizionatamente e con ogni mezzo, dalla tortura alla guerra, negandone in radice qualsiasi legittimità politica; anzi, è proprio la reazione violenta e disumana a fomentare il fenomeno. A mio parere una risposta alla violenza terroristica è la ricerca delle ragioni che vi stanno a monte, che la fondano e, forse, la legittimano politicamente: solo la comprensione di esse può permettere di eliminare tale possibile legittimità, nonché il largo consenso sociale alla base. Se si considerano valide tali premesse, l’operazione necessaria è un esame di coscienza da parte dell’Occidente: bisogna guardarsi allo specchio e riconoscere che questo è il frutto delle logiche imperialistiche che guidano le politiche estere degli Stati. Senza questa presa di coscienza, è inutile e ipocrita considerare il terrorismo come un male da estirpare, peggiore persino della guerra; anzi, è meglio abituarsi all’idea che si tratti di una nuova forma di conflitto, che noi stessi incitiamo e conseguente alla logica del dominio. Vito Todeschini

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Quanto costa la libertà di stampa? La giornalista russa Anna Politkoskaja è stata trovata uccisa sabato 6 Ottobre nell’atrio di casa. Famosa, negli ambienti sensibili ai diritti umani, per aver divulgato in tutto il mondo reportage sugli abusi compiuti durante la guerra in Cecenia dalle truppe federali, e corrispondente del giornale d’opposizione Novaya Gazeta. Il giorno dopo la sua morte, è stata trovata, presso la sede del giornale in cui lavorava, la bozza del suo ultimo servizio, che descriveva le torture inflitte a civili da forze cecene filorusse. Le istituzioni europee la definiscono come una grave perdita per la Russia e per tutti coloro che lottano per la difesa dei diritti umani nel mondo. Il Cremlino, dopo un assordante ed angoscioso silenzio, definisce quest’assassinio come un danno per la leadership russa e per quella cecena. Putin appare amareggiato per aver visto minacciato il suo progetto “politico” tendente alla costruzione di un sistema in cui la libertà d’opinione è garantita a tutti, persino ai mass media. Nonostante le rassicuranti parole del premier russo, pochi, in Russia, credono che sarà fatta luce sui mandanti di quest’omicidio. Passiamo ad una storia partenopea. Roberto Saviano, autore di Gomorra, suo primo e unico libro in cui denuncia a piede libero i camorristi, chiamandoli per nome. Dopo l'uscita di Gomorra, lo scrittore è stato soggetto di pesanti minacce dai boss al vertice dei clan malavitosi, perchè il successo di questo libro ha imposto i loro traffici all'interesse nazionale. Il coraggioso scrittore, collaboratore dell'Espresso, ha denunciato l'emarginazione di cui è stato vittima dopo le minacce, soprattutto dalle autorità locali, capeggiate dal sindaco di Napoli, Rosa Russo Jervolino. Il risultato più grande però Saviano l'ha ottenuto mediante il sostegno di migliaia di lettori sul web, nonché da colleghi scrittori, come Eco e Carlotto. Ora Saviano ha ottenuto la scorta di Stato, dalla procura antimafia e dalla prefettura napoletana, ed è costretto a stare dietro i riflettori, è in gioco la sua vita. E ora un caso “europeo”. Orhan Pamuk, scrittore ed intellettuale turco che nel 2005 fu incriminato per alcune dichiarazioni inerenti al massacro, da parte dei turchi, di un milione di armeni e trentamila curdi in Anatolia durante la prima guerra mondiale. Il processo è stato annullato nel 2006 grazie alla modifica del codice penale, che non considera più reato questo genere di dichiarazioni. L'attenzione di questo caso, da parte della stampa internazionale, ha giovato al coraggioso scrittore, che altrimenti avrebbe avuto sorte ben diversa. I negoziati

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per l'entrata della Turchia all'interno dell'Unione Europea, hanno influito notevolmente in quanto, più volte, i rappresentanti delle istituzioni europee hanno ribadito che, alcune mosse della pubblica accusa nei confronti dello scrittore, vanno in direzione opposta alla Convenzione europea dei diritti umani. A premiare il lavoro di questo scrittore pochi giorni fa è stato l'arrivo del premio Nobel per la letteratura. Tre personaggi, tre storie diverse, accomunate dal coraggio di una scrittura che non vuole prendere in giro i lettori raccontando od omettendo fatti della vita reale. La storia ci ha dato personaggi con lo stesso coraggio ed ostinazione nel proprio lavoro, alcuni continuano ad essere con noi, altri hanno pagato il loro sforzo con la vita. L’opinione pubblica ha il dovere di non ripetere gli errori del passato, proteggendo il diritto di queste persone a manifestare legittimamente il proprio pensiero, nonché di farli sentire come voce di un gruppo e non, come spesso è accaduto, singola voce di un disagio che va taciuto. Inoltre per noi studenti universitari conoscere l’impegno di questi personaggi è d’ausilio per fare il lavoro di tutti i giorni con una maggiore convinzione, riscontrando che come diceva il grande Pasolini “battendo sullo stesso chiodo può persino crollare una casa!” Giulia Callegari

I Aborto, antinazisti e rispetto reciproco Mi piacciono le donne. Alte, basse, bionde, brune, mi piacciono proprio tutte. Hanno la forza e l’intelligenza di chi a lungo è stato costretto a subire, di chi ha mandato giù bocconi amari. Di chi non ha mai avuto la possibilità di dire la sua. Non sto facendo retorica da bar. Non sono un femminista. Dico la verità. Se io fossi donna sarei sempre girata. E non puoi fare questo, non puoi dire quest’altro. Non puoi nemmeno scegliere se abortire a meno. Ma come? Non c’e’ una legge. La legge c’e’ ma non piace. A chi non piace? Agli antinazisti. A chi?Agli antinazisti. E’ si, avete capito bene. L’aborto, una pratica prevista a norma di legge dallo Stato italiano, è uno strumento paragonabile solo alla soluzione finale nazista. Chi la pratica è un nazista appunto ed è anche da rinchiudere perché è un genocida.

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Pausa. Assimilate la notizia. Ora la fonte. I nuovi antinazisti sono:i cardinali della Chiesa Cattolica di Roma, in particolare il cardinale Meisner al quale dobbiamo questo illuminante paragone. Ma signori miei, il genocidio, e qui cito il dizionario Italiano Garzanti, è “ il delitto di chi tenta di sterminare, con metodi organizzati, un intero gruppo etnico o religioso”, Cosa c’entra l’aborto allora? Dov’è l’organizzazione atta allo sterminio? Chi lo ha pianificato? Chi lo sta perpetrando in maniera sì metodica da tenerci all’oscuro ed ignoranti? E’ mia modesta opinione che nessuno stia facendo niente di tutto questo. Le sparate, i grandi proclami sono pericolosi perché fanno leva sulle menti deboli, influenzano fanatici e invasati. Impariamo a discutere civilmente, riconoscendo nei nostri interlocutori dei semplici avversari e non dei nemici. Persone che posso avere idee diverse ma condivisibili. Scegliere se abortire o meno è una possibilità che va data alle donne, non alla religione. La legge 194 è arrivata dopo un’aspra battaglia, superando ben due referendum. Possiamo discutere ore, mesi, anni se l’embrione è un essere vivente o no, se ciò è dato da Dio o dal suo bagaglio genetico e ecc. ecc. Ciò che è indiscutibile è che la maggioranza degli italiani è a favore dell’aborto. Questo Paese si gioca molto sulle differenze tra laico e religioso, Chiesa e Stato. Superare queste differenze è credere nella possibilità di scelta che ognuno, uomo o donna, possiede. Senza che tale scelta venga strumentalizzata o peggio ancora, che chi la compie venga insultato, delegittimato, fatto oggetto di paragoni infanganti e devianti. Nel rispetto reciproco. Poco tempo fa qualcuno mi ha ricordato una frase di un grande illuminista “Non condivido ciò che dici, ma morirei per permetterti di dirla”. Penso faccia al caso nostro. Giacomo Capuzzo

Testamento Biologico Quando mi è stato chiesto di illustrare la posizione di un cattolico in merito alla tematica del testamento biologico mi sono sentito a disagio per due fondamentali motivi, il primo relativo alla natura della tematica stessa, troppe volte affrontata con leggerezza da coloro i quali assolutizzano valori che, altrettanto densi di significato, andrebbero meditati e ponderati; il secondo, per via del fatto che non mi è assolutamente chiaro come si possa ridurre una tematica così trasversale ad un contenzioso dialettico tra chi professa un credo religioso e chi ne è scevro. Deludendo forse le aspettative del redattore quindi,

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preferisco affrontare il tema da un punto di vista strettamente personale. La scelta che voglio anzitutto operare è quella di rendere spurio da ogni possibile approccio demagogico quanto scrivo. Sarebbe facilissimo sostenere che, in nome della necessità di porre fine ad un dolore superiore al tollerabile, l'individuo abbia la possibilità di decidere del termine dei suoi giorni; tanto semplicistico da essere persino dialetticamente scorretto. Il testamento biologico è di fatto un documento che ha trovato un riscontro anche da parte della Chiesa cattolica ed in tal senso si possono leggere le dichiarazioni di alcuni importanti prelati dei Dicasteri romani, quali Barragan e Pompedda. In sostanza, nulla quaestio se si tratta di affermare che alla persona deve essere lasciata la possibilità di decidere in merito a cure palliative (quelle che abbattono la soglia del dolore per intenderci) e all'eventuale rifiuto dell'accanimento terapeutico. Non è tanto sul testamento in se che l'attenzione va posta quindi, quanto su ciò che, tra le righe, si vorrebbe, forse, inserire. Il tema è annoso, ciclicamente ricorrente, forse perché l'uomo ha la necessità di sentirsi non solo artefice del proprio futuro ma anche arbitro dell'inizio e della fine. Il confine è labile, per quanto i termini della discussione paiano chiari. Da una parte, la possibilità di rifiutare un possibile accanimento terapeutico e intervenire con le cure palliative (su cui stranamente poco si investe), dall'altra l'eutanasia su cui Autori di notevole spessore e acume si sono spesi, basti ricordare a tal proposito Mantovani e le sue pagine in relazione alla problematica del consenso. Non serve infatti ricordare che anche ove la vita fosse valutata come bene disponibile, stravolgendo così un principio costituzionale, il consenso dovrebbe comunque essere attuale e consapevolmente dato, requisiti difficilmente soddisfabili nelle condizioni cliniche in cui versa un malato terminale. In merito a ciò va segnalato che uno degli otto progetti di legge presentati, attribuisce al soggetto maggiore di quattordici anni persino la possibilità di decidere e prestare un valido consenso in merito, con una scelta normativa dal peso tutt'altro che trascurabile. Il confine quindi tra testamento genetico e eutanasia è così incerto che, comunque, si presta ad essere valicato senza dover neppure allungare di troppo la gamba. Qaulora si attribuisse valore alla concreta, esplicita e consapevole richiesta del malato di porre termine ai suoi giorni, non si correrebbe il rischio di estendere a casi simili, solo estrinsecamente in analogia ai precedenti, il medesimo trattamento? No vero? Eppure è avvenuto in Olanda dove si è depenalizzata la pratica eutanasica giungendo a qualificarla come un rispetto della volontà (non espressa) del malato. Il pendio è ripido, scivolare inconsapevolmente o consapevolmente è un attimo, basti pensare alla differenza che, in alcuni dei sopracitati progetti di legge, viene sancita tra eutanasia passiva ed attiva, riconoscendo cittadinanza all'una piuttosto che all'altra o in taluni casi ad entrambe. Il tema poi nasconde un paradosso messo

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in luce da Le Monde già nel 2002, ossia quello per cui con la medicina pagliativa la soluzione eutanasica sarebbe svuotata di ogni suo intrinseco significato. Per la verità non concordo. Un significato permane e lo trovo sinceramente motivo di profonda apprensione; pare quasi che si voglia riconoscere dimora solo al soggetto sano, quantomeno al curabile o al socialmente sopportabile. Si instaura, in una deriva nichilista, una inversione del pensiero per la quale la vita non è un valore in sé e per sé, bensì è un bene che riceve consistenza dalla determinazione estrinseca di volontà e che quindi può venirne svuotato in forza di una volontà di segno opposto. Ben venga quindi, e mi preme ripeterlo, il testamento biologico dove il malato può dignitosamente, parola poco di moda, scegliere come morire, ma non il “se” morire. Alla fine, più mi soffermo sul tema, più mi ritrovo a riflettere su queste parole: “illuminare his, qui in tenebris et in umbra mortis sedent, ad dirigendos pedes nostros in viam pacis” (...illuminare coloro che siedono nelle tenebre e all'ombra della morte, per dirigere i nostri passi lungo la via della pace) e finisco con il chiedermi perché l'uomo sia più concentrato nel darsi la morte piuttosto che impegnato nel garantire un diritto in vita. Luca Morassutto

Il diritto alla dolce morte “Io vi chiedo il diritto di morire”. E’ il titolo del libro che racconta la storia di Vincent Humbert. Il ragazzo francese ha diciannove anni quando, nel 2000, un incidente stradale lo lascia tetraplegico, muto e quasi cieco. Del suo corpo non funziona più nulla. Tranne il cervello. Vincent è lucido. Sente, capisce, prova dolore. Ma non può comunicare con l’esterno se non tramite un lieve movimento del pollice. Vincent è prigioniero del suo corpo. Senza margini di miglioramento. Una morte non riuscita o una vita particolarissima? Credo che la risposta sia e debba essere soggettiva. Il senso che ciascuno dà alla vita è frutto di intime convinzioni (e coltivare intime convinzioni non è forse un diritto deducibile dall’art.19 della nostra Costituzione?). Quell’unico movimento del pollice unito all’amore straordinario della madre permette a Vincent di comunicare: la madre recita l’alfabeto, Vincent preme il palmo di lei quando vuole scegliere la lettera. Lettera dopo lettera, parola dopo parola si formano le frasi. Ma dopo tre anni di quella che Vincent definisce “non-vita”, nella quale non mancano, incredibilmente, i momenti di gioia, ma che per lo più è fatta di incubi notturni, dolori diffusi in tutto il corpo, raschiamenti dell’esofgo quando il cibo non scende, nausea e conati,

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incontinenze e altre situazioni che degradano la dignità umana; dopo aver scritto (sfruttando la madre come interprete dei gesti del suo pollice) al Presidente Chirac una lettera nella quale chiedeva, a lui che può concedere la grazia, “il diritto di morire” e dopo essersi visto negato tale diritto, ricorre alla estrema decisione. Chiede alla madre di fargli l’iniezione letale. La donna che gli ha dato la vita si trova costretta a dargli la morte. Costretta e sola: nessuno le viene in aiuto. Non i medici, nè lo Stato. E’ sola di fronte alle insistenti richieste di Vincent. Con un atto di amore estremo nel 2003 Marie inietta una dose letale di barbiturici nella flebo del figlio che dopo due giorni di coma, finalmente, muore. Vincent Humbert ha scelto di morire il giorno in cui nelle librerie è uscito il libro che racconta la sua storia e desidera che la sua “esperienza di morto vivente serva agli altri...”. Infatti le persone nelle condizioni di Vincent sono molte. E’ giusto tenerle attaccate ad una macchina per farle vivere forzatamente e artificialmente anche contro la loro volontà? Esiste il diritto ad una morte dignitosa? La scelta di metter fine ad una vita che non garantisce più la dignità e la libertà personali non è forse già implicitamente tutelata dagli artt. 2 e 13 della nostra carta Costituzionale? L’accanimento terapeutico può diventare “tortura”? Se io non posso scegliere di morire, perchè il medico può scegliere di farmi vivere ad ogni costo, senza sapere come si vive qui dentro, dentro un corpo immobile che può darmi solo inutile sofferenza? E soprattutto: è giusto considerare omicida chi decide di aiutare un malato terminale ad anticipare il momento della morte, risparmiandogli inutili sofferenze? Sono problemi di cui il legislatore dovrebbe occuparsi (come già hanno fatto Olanda, Belgio, Svezia e Germania) anche solo per evitare situazioni di clandestinità e illegalità pericolose. D’altra parte non è chiudendo i bordelli che si è risolto il problema della prostituzione, anzi. Ma quasto è un altro discorso. Due colonne in Times New Roman, 12 sono poche per affrontare il problema ma abbastanza per annoiare i meno coinvolti, quel che mi preme ribadire in conclusione è l’esistenza di un diritto negato, di una libertà non riconosciuta, di molte sofferenze imposte in nome di non si sa bene cosa. La vita è scegliere, negare la possibilità di scelta è negare la vita stessa. A chi si riempie la bocca con parole come “l’eutanasia è una sconfitta per l’uomo” o “la vita non ci appartiene” chiedo di guardare le cose con più umanità, di valutare con pietà, liberi da ideologie di alcun tipo, la richiesta di chi chiede solo una “dolce morte”. Edoardo Rosso

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Io, musulmano che vive in Italia Questo articolo vuole spiegare come i musulmani e gli arabi sono trattati, questa è la mia personale esperienza che ho vissuto da oltre un anno e mezzo in Italia. Sono uno studente libanese di ventidue anni e vivo a Ferrara dove frequento la facoltà d’Ingegneria. All’università ci sono molte persone che mi guardano in modo diverso, quando scoprono che sono arabo. La mia prima esperienza risale a quando chiesi ad un collega di prestarmi il quaderno degli appunti. Quel ragazzo capì, dal mio accento, che ovviamente non ero italiano. Così cominciò a chiedermi di dove fossi, e altre cose del genere, con fare altezzoso, e alla fine della conversazione mi disse che non poteva darmelo perchè avrebbe dovuto usarlo. Sembra stupido, ma non avevo etichettato il suo comportamento come razzista, fin quando non lo vidi parlare con i suoi amici e puntare il dito verso di me, in modo cosi strano, che ho sentito per la prima volta che davvero esiste una differenza tra gli esseri umani nel mondo. All'inizio in ogni modo non la presi male, se non fosse che, dopo poco, si verificò il mio più grande scontro col razzismo e sono stato costretto ad usare quella parola, anche se non avrei mai voluto. Dovevo sostenere un esame, così feci la parte scritta, a cui sarebbe succeduta la parte orale, ed ero veramente preparato! La mia impressione fu che quando il professore scoprì che ero arabo, decise che non gli avrei mai risposto correttamente, cosa che ho fatto e ne sono convinto; ciò nonostante dovetti rifare il compito. L'ho rifatto tre volte e le ragioni rimasero le stesse. Fino alla quarta volta in cui sostenni uno splendido esame per cui era impossibile scientificamente per lui di bocciarmi. Non volevo pensare che fosse razzista o qualcosa di simile, ma quando il professore vide che non avrebbe potuto di nuovo bocciarmi, cominciò ad urlarmi contro "Sei arabo, e non vogliamo arabi o mussulmani in Italia". Poi continuò affermando che sarei dovuto tornare nel mio paese, dove c'erano università e per questo motivo, non c'era ragione della mia permanenza in Italia." Non vogliamo estranei qua". Alla fine, invece di prendere 30, decise di darmi 18. Lo accettai. Perchè vi chiederete? Perchè non avevo più energie per ridarlo. Ma diciamo la verità, lo accettai soprattutto per non rivedere il suo volto un'altra volta. Lo accettai con le lacrime agli occhi. C'era una ragazza nell'aula e lei vide e ascoltò tutto, e quando uscì dall'aula mi segui ed abbracciandomi mi disse " Credimi, noi non siamo così!"

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Un'altra esperienza in questa terra, la ebbi quest'estate quando decisi di lavorare come cameriere, dato che non sarei potuto tornare a casa per via della guerra. Alcune persone mi accettarono, altre invece mi rimproverarono il fatto che stavo rubando il posto di lavoro ad altri ragazzi italiani, per non parlare di altri ancora che mi giudicavano un maledetto arabo. Non penso la mia vita come un mussulmano perchè non ho mai fatto le cose che l'Islam vorrebbe che facessi. Ma quando sento qualcuno parlare male di cose, in cui magari non sono coinvolto, ma che ho visto e ho vissuto attraverso i miei amici, mi sale nelle viscere un senso di rabbia e sentimento di inferiorità, che voi nono potete nemmeno immaginare! Per concludere devo dire qualcosa di veramente importante, sono consapevole di vivere in un fantastico paese, ecco perchè sono ancora qui, dove continuo ad avere la mia vita, i miei amici, la mia ragazza e devo ammettere che sono felice. Non mi arrabbierò più se qualcuno parlerà male di me, voglio fregarmene di questo, e continuare a vivere con tutti i normali sogni che un uomo d’ogni religione, d’ogni colore di qualsiasi paese ha! Ziad Osmani

I diritti della donna nel mondo arabo–musulmano, incontro con Hafidha Chekir Lo scorso 17 ottobre la nostra facoltà ha ospitato Hafidha Chekir, docente alla facoltà di El Manar a Tunisi, studiosa ed esperta della questione nella tutela dei diritti umani e dei diritti delle donne nonché membro tra più attivi dell’Association des Femmes democrates. Le tematiche affrontate durante l’incontro hanno rilevanza internazionale, dal punto di vista degli atti normativi che positivizzano il riconoscimento dei diritti umani, nonché rilevanza universale dal punto di vista della dimensione universale dei diritti stessi. L’attuale enfasi sul particolarismo mette in crisi il concetto di universalità e sembra essere necessario muovere da una prospettiva che guardi al rapporto tra universalità e particolarismo come ad un rapporto di convivenza e non di esclusione. Il problema del riconoscimento dell’universalità dei diritti, al di là delle tradizioni e specificità culturali, sorge nei Paesi Arabi come conseguenza di una visione settoriale dei diritti: diritti civili, politici, economici e sociali vengono visti come separati gli uni dagli altri nell’inconsapevolezza dell’inscindibilità e indivisibilità dei diritti umani. Fattore impeditivo del

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riconoscimento – godimento dei diritti nel mondo arabo, è poi la mancanza di legittimazione democratica dei governi. Questi ultimi, utilizzano la questione della sicurezza nazionale e le tradizioni religiose per limitare l’esercizio dei diritti, che pure sono riconosciuti dalle carte costituzionali adottate dai paesi ma mai di fatto attuate. Le tesi relativiste, che rafforzano il peso delle diversità culturali, contestano la c.d. “occidentalità” della Dichiarazione dei Diritti dell’uomo, sottoscritta infatti nel mondo arabo solamente da Arabia Saudita e Libano. La dichiarazione premierebbe la dimensione individuale del singolo laddove il mondo arabo riconosce la dimensione collettiva come campo di esplicazione delle potenzialità dell’individuo. Alle tesi relativiste, la dott.ssa Chekir oppone la difesa dell’universalità dei diritti, il cui fondamento è da ricercare in valori transculturali quali la vita e la dignità umana. In un contesto, quale quello delineato, si colloca l’aperta questione dei diritti della donna, destinata in molti stati del mondo arabo ad una posizione di sudditanza ed estraneità sociale. Le origini tunisine di Hafidha Chekir l’hanno spinta a descrivere qual è, a questo proposito la situazione nel suo paese. Il codice dello statuto personale tunisino fu emanato nel 1956 dall’allora presidente Ben Ali, ben tre anni prima che il paese si dotasse di una costituzione. La scelta del presidente fu quella di fondare le istituzioni dello stato sulla promozione del ruolo della donna: oggi, la Tunisia è il primo tra i paesi arabi per presenza femminile nella vita parlamentare. Nonostante il progresso del ruolo femminile nella vita pubblica, la donna tunisina, come madre e come moglie, continua ad essere prigioniera di tradizioni e luoghi comuni. Il padre è capo esclusivo della famiglia; la dote è un atto tradizionale inviolabile; in tema di successioni, continua a vigere la legge islamica che prevede per la donna un’eredità dimezzata rispetto a quella dell’uomo. Nella vita privata il ruolo della donna è legato essenzialmente a quello di genitrice essendo il parto, per la cultura tunisina, coronamento del matrimonio e segno di prosperità. Per combattere la discriminazione femminile è necessario, secondo la dott.ssa Chekir, riconoscere i diritti della donna quali diritti umani e per ciò stesso irrinunciabili e universali. A questo proposito, a livello internazionale, l’impegno per la promozione e la tutela dei diritti della donna trova sbocco nella stipulazione della Convenzione internazionale sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione nei confronti della donna, stipulata nel 1979 ed entrata in vigore nel 1981. La finalità della convenzione è tuttavia vanificata dalla mancata ratifica di alcuni paesi, quali la Somalia, il Sudan, il Katar, nonché dalla possibilità per gli Stati aderenti di apporre riserve ai contenuti della convenzione consentendo così alla legge nazionale e/o religiosa di prevalere su quella internazionale. Anche il contenuto della Carta Araba dei diritti umani trova in concreto un’applicazione scarsa. Se da un lato infatti,

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sancisce l’indivisibilità, l’universalità e l’interdipendenza dei diritti nel rifiuto della schiavitù, della tratta, del lavoro forzato e della prostituzione, dall’altro contiene un’ambiguità di riferimenti nel richiamo alla fede e alla religione islamica. I diritti delle donne continuano, nel mondo arabo, a non essere riconosciuti in modo assoluto bensì relativo: l’uguaglianza tra i sessi è sancita nel rispetto delle discriminazioni positive stabilite dalla società, l’uomo e la donna sono uguali davanti alla legge ma non nella legge. Hafidha Chekir non ha di certo nascosto le difficoltà che incontra la donna nel mondo arabo, anzi le ha rimarcate più volte, ma il suo non è comunque stato un intervento rassegnato. Come donna, prima che come esperta, ci ha testimoniato la sua ferma volontà di continuare a muoversi perchè in un futuro, si spera non troppo lontano, tutte le donne vengano riconosciute titolari di diritti inviolabili e universali, a prescindere dalle culture di appartenenza.

Giulia Gioachin Ricatti e riscatti:al lavoro contro la violenza ( Bologna, 12 Ottobre 2006 ) Che cosa si intende per molestia sessuale sul luogo di lavoro? In Italia non esiste una legge specifica che disciplini il trattamento sanzionatorio da applicare a tale fattispecie. Esiste tuttavia una definizione di molestia sessuale sul luogo di lavoro conferita dalla direttiva comunitaria n. 73 del 2002, recepita dallo Stato italiano con il decreto legislativo n. 145 del 2005. La forte spinta innovatrice consiste nella definizione di molestia sessuale, parificata alla discriminazione di genere. Indi per cui, qualora vengano perpetrati i sopraccitati atti a danno di un soggetto, questi ha a propria disposizione tutte le norme e gli strumenti che l’ordinamento predispone contro le discriminazioni. Rileva però un altro punto all’interno della definizione di molestia sessuale sul luogo di lavoro, che è, oltre alla connotazione sessuale, la non desiderabilità dell’atto. Ecco che in primo piano si staglia unicamente la percezione soggettiva che di quell’ atto ha la vittima, a differenza di un tempo in cui alla non desiderabilità era affiancata l’ intenzionalità dell’ autore( e ciò creava non pochi problemi sul piano giuridico) . La chiave di lettura del fatto è quindi oggi nella mente della vittima. Nel 1997 l’ISTAT ha compiuto la prima indagine sulla sicurezza dei cittadini, al cui interno era presente un modulo sulle violenze sessuali. Si è così finalmente interrotta la preoccupante invisibilità statistica su tale specifico tema

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che fino ad allora dominava lo scenario nazionale. Ed è finalmente venuto alla luce il “sommerso” . Confrontando i dati del 1997-1998 con quelli del 2002, quel che emerge è una diminuzione dei tentati stupri, delle molestie sessuali al momento dell’ assunzione e delle telefonate oscene, stabili rimangono invece gli stupri e le molestie sessuali per l’ avanzamento di carriera. A quali fenomeni possiamo ricondurre lo scenario che le indagini ci presentano? In primo luogo a un mutato quadro legislativo. Dal 1996 la violenza sessuale non è più un reato contro la morale pubblica, bensì un delitto contro la persona . E l’ Unione Europea nel 2002 ha emanato, oltre alla Direttiva n. 73 di cui sopra, una Raccomandazione, in cui afferma che la violenza sessuale contro le donne è frutto di uno sbilanciamento di potere tra i due sessi che comporta una grave discriminazione femminile, sia in famiglia sia in società. In secondo luogo alla crescente occupazione delle donne, le quali possono così, in linea di massima, scegliere fra varie possibilità lavorative, e all’ aumento del lavoro a tempo determinato. Indi per cui il molestatore non è più in grado di mostrare un bene raro o comunque un posto sicuro e a tempo pieno. Ironia della sorte il “precariato” gioca a nostro favore. In terzo luogo a cambiamenti avvenuti dal punto di vista mediatico, poiché indubbiamente se ne parla di più. In ultimo luogo tale quadro è riconducibile a mutamenti della coscienza femminile. Al giorno d’ oggi le donne, in particolare le giovani, vogliono realizzarsi in tutte le dimensioni del vivere. Non tutte le donne però. Poiché non tutte sono pienamente consapevoli, non tutte ripudiano la concezione maschilista universale che si pone alla base e, ahimè continua ad alimentare, la violazione di diritti fondamentali della persona. Nel 1833 sul giornale fondato da Eugenie Niboyet, il “ Conseiller des femmes” , si scriveva : “ Oggi l’ uomo, tutto preoccupato dei suoi diritti, dimentica i suoi doveri; la donna, a lungo preoccupata dei suoi doveri, dimentica i suoi diritti ” . Alessandra Sturabotti

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Cultura e Libri Oriana Fallaci, la scrittrice, la donna Oriana Fallaci lascia per sempre la sua Firenze all`1.05 del 15 settembre 2006. Settantasette anni e un mostro che la consumava dall`interno: il cancro. Come spesso ripeteva sia nei suoi ultimi libri sia nelle interviste, seppur “esule volontaria” in America sarebbe tornata in Toscana, a casa, per l’ultimo viaggio. E così ha fatto. E’giusto scrivere e parlare ancora di lei, soprattutto per proteggere la sua memoria da coloro che la conoscono solo per i suoi ultimi libri ma che nulla sanno del suo coraggio e del suo amore per la vita e l’Italia, terra d’eroi vinti, così le piaceva chiamarla. Oriana Fallaci era innanzitutto una donna. Una donna assetata di sapere e di verità. Prima di incontrare i potenti della terra si preparava con ossessione quasi maniacale, accumulava dati e circostanze a tal punto da riuscire a fare infuriare Henry Kissinger, allora segretario di stato degli USA, che la definì impertinente. No, non era impertinente, era una donna, donna senza limiti che in Vietnam tra i soldati si comportava come un soldato rifiutando di alloggiare negli alberghi e volendo rimanere sempre lì, sul campo. Una donna capace d’amare così intensamente da non poterlo fare più di una volta. Alessandro Panagulis, infatti, fu il suo unico compagno alla morte del quale seguirono 3 anni di solitudine che dedicò ad uno dei suoi capolavori: Un uomo, a lui dedicato. Una donna che con la sua furia ti travolge capace di vivere solo in proporzioni epiche. A lei basta una frase per catturare l’attenzione del lettore , non si resiste alla sua forza descrittiva , al suo impeto e alla sua intelligente ironia. Non si può tollerare chi la critica senza aver letto neppure la trama delle sue opere. A questo scopo voglio riportare alcuni passi tratti dai suoi libri. “ Gli uomini avranno sempre gli stessi problemi, sulla terra come sulla luna, saranno sempre malati e cattivi, sulla terra come sulla luna ” 1965, Se il sole muore. “Io sono qui per capire gli uomini, cosa pensa e cosa cerca un uomo che ammazza un altro uomo che a sua volta lo ammazza ” 1969, Niente e cosi sia. “Vorrei che tu fossi una donna. Non sono affatto d’accordo con la mia mamma la quale pensa che nascere donna sia una disgrazia...Se nascerai uomo io sarò contenta lo stesso. E forse di più perchè ti saranno risparmiate tante umiliazioni, tante servi tu, tanti abusi” 1975, Lettera a un bambino mai nato. “ Viaggiando per sentieri ora limpidi e ora foschi di nebbia, ora aperti al passaggio, ora ostruiti da rovi e liane, andai alla ricerca della tua fiaba ” 1979, Un uomo.

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“ Diventerai prima del tempo un adulto con le rughe sull’anima e perderai prima del tempo la tua gioventù. ” 1990, Insciallah. La Fallaci trasmette se stessa attraverso le sue parole. Per lei i libri sono come i figli che non ha potuto avere; il mezzo per lasciare qualcosa di se sulla terra. Morire senza lasciare nulla equivale a morire due volte. Oriana non e mai morta, le sue venti milioni di copie vendute nel mondo contribuiranno a tenere sempre vivo il ricordo della donna icona del XX secolo. La storia della sua vita non tramonterà mai. Si possono condividere o meno le sue scelte ma almeno lei ha sempre avuto il coraggio e l’onestà di scegliere. Elisabetta Vita

Da Ingrao a “Political Circus”: la luna è lontana “Pensammo una torre/ scavammo nella polvere”. Con questi versi, pubblicati venti anni fa, Pietro Ingrao esprime chiaramente la fine del suo sogno intrecciandola con la disfatta del partito che lo ha accompagnato per tutta la vita, il PCI. In queste parole e nel suo ultimo lavoro “Volevo la luna”, Ingrao non rinnega nulla; c'è solo una punta di amara tristezza per il tramonto di quel sole in cui aveva riposto le sue speranze di cambiamento, unite alla consapevolezza dei propri errori. Ha affrontato la storia del ‘900 strettamente abbracciato i suoi ideali comunisti, che si trattasse di stare sul carro dei vincitori ho dei vinti poco importava. Comunista fino al midollo, comunista sui generis: insofferente verso la cieca fiducia nel credo sovietico, Ingrao, contro il volere di Togliatti, nel ‘56 pubblicò su “l'Unità” un resoconto sul rapporto segreto di Kruscev dei crimini di Stalin. Un sognatore che voleva raggiungere la sua “luna”, quel mondo diverso, migliore, che credeva sarebbe nato attraverso il Comunismo. Un uomo che credeva nella politica, considerandolo un nobile mestiere necessario, prima, per uscire dalla melma della dittatura fascista, e poi per diffondere gli ideali di internazionalismo e di solidarietà verso gli oppressi del mondo. Un uomo che, probabilmente, oggi uscirebbe disgustato dalle sedi del potere politico, dove governanti non vanno per vocazione, ma per me l'interesse; ed è proprio questo loro interesse a dirigere le loro azioni, a guidare le loro coalizioni che sempre più si rivelano lontane e divise. Una politica, quella di oggi, mediatica, spettacolo realizzata, esasperata. Una politica, quella dell'epoca in israeliana, immersa nella rivoluzione, l'incontro di una pluralità di soggetti che trovava nella lotta la sua essenza. Ora, il solo evento rivoluzionario che sembra esserci è il fatto che professionisti

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si siano messi a fare girotondi, tanto scherniti e disprezzati quando a farne eravamo noi giovani. Ingrao era “…parte di un soggetto [il comunismo italiano] che si sentiva protagonista del mondo e del suo cambiamento…”, il cui orizzonte oltrepassava l'Italia e guardava da uno spazio aperto, illuminato da una nota creativa. Oggi, come non vedere un triste destino per la politica, chiusa in se stessa, sterile e con un'intrinseca essenza circense? Nel tendone del Parlamento, entrano sfilando i clown che lo popolano, con i loro sorrisi dipinti sul volto, alcuni con la parrucca, altri si sono trapiantati così fan prima; eccoli, si accomodano sulle loro tanto amate e tante rincorse poltroncine, pronti a farci divertire con altre spettacolari disegni di legge. Ma entra in scena l'attrazione principale, che si esibirà in rocambolesche prove di coraggio di abilità…. Inizia con la fune: lo vediamo, con le braccia a mo' di ali, che cerca di restare in equilibrio benché i suoi clown lottino da una parte e dall'altra, cercando di attirare la sua attenzione sui loro bisogni e sulle loro richieste. Non avendo ancora soddisfatti i suoi compagni di sventura, va a raccogliere le palline da giocoliere ed ora cerca di tener su, insieme, con le 10,20 palline diverse, che deve governare, guidare, e non è da pazzi prevedere che piano piano piano, una ad una, queste palline cadranno dalle mani del povero giocoliere bolognese, un Capo del Consiglio che non sa più su come far felici i suoi amici clown, i quali assistendo al suo giro della morte sul trapezio, non si sentono ancora pagati. E poi ci siamo noi, il pubblico, che si siamo inerti allo spettacolo; alcuni dividono, altri piangono, qualcuno si allontana, esausto, ma tutti, comunque, facciamo parte delle Reality più trash che appare ogni giorno in televisione: POLITICAL CIRCUS. Ma qui non c'è telecomando per spegnere, cambiare canale o almeno mettere il muto... e la luna è sempre più lontana.

Silvia Trapani

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Finalmente qualcuno che insegni a pescare.

Vincitore del Premio Nobel per la Pace 2006: il banchiere bengalese Muhammad Yunus . Direte voi, ma cosa c’entra la Pace con tassi d’interesse e mutui? Eppure vi assicuro che c’entra eccome. Certo, non vorrei crediate che in lista ci siano stati anche Geronzi e co. Si tratta di un banchiere, ma pur sempre sui generis. Stiamo parlando di un micro-banchiere, direttore di una “micro-banca”: la “Grameen Bank”( http://www.grameen-info.org/ ). Non si tratta di una capanna sperduta nel lontano Bangladesh, si tratta di un Istituto dalle 1.084 filiali dove lavorano 12.500 dipendenti e che vanta 2 milioni di clienti sparsi per 37 mila villaggi. Cifre da fare invidia perfino al maxi colosso che nascerà tra breve in Italia, San Paolo- Banca Intesa. L’esperienza del “micro-credito”, così viene chiamata questa forma di finanziamento, nasce da una riflessione di Yunus, allora professore di economia, sulla impossibilità di trovare nei libri di testo le soluzioni ai problemi che colpivano il paese. Quei libri che come lui stesso dice : “ci fornivano occhiali per leggere la realtà, ma non la realtà così com’era”. Allora tolti gli occhiali, si mise ad indagare la vita della porta accanto, quella porta che il sapere accademico non riusciva a raggiungere. Si pose una domanda : “ma perché la gente chiede prestiti agli usurai?” Semplice, le banche non prestano denaro a chi non ha garanzie. E allora non essendo tanto ingenuo da pensare di poter cambiare il sistema bancario, decise di aggiungere un nuovo elemento a questo sistema, la Grameen Bank. Si comincia da un villaggio, poi quello accanto e così via, fino a raggiungere l’intero paese. E, cosa che ha dell’incredibile, il ritorno del denaro era pari al 99%. Questo voleva dire una sola cosa: il sistema può funzionare. Ed il sistema funziona tuttora, anche se il resto delle banche naturalmente non hanno cambiato idea. Un principio domina questa esperienza, quello che la gente, a differenza di quello che si possa pensare, non ha bisogno in tali realtà di grandi somme. Il primo prestito si aggirava intorno ai 27 dollari e ci si è assestati su queste cifre. Ciò di cui ha bisogno la gente è di fiducia .Solo attraverso questa si può attivare la creatività, l’impegno che non è solo esclusiva di chi si trova in una situazione di agiatezza. E da qui si da vita ad una prospettiva piu’ ampia. Ricevuto il danaro, lo si può utilizzare per dare realizzazione alle proprie attività, così da ottenere un guadagno tale da poter restituire lo stesso, ma anche accumulare una quota di risparmi. E tali risparmi a chi andranno affidati : a chi vi ha dato fiducia o a chi vi ha sbattuto la porta in faccia?Naturalmente a chi vi ha dato fiducia, la Greem Bank, che potrà così conseguire utili e provvedere al pagamento dei propri dipendenti. Non si tratta di elemosina, qui non si parla di dare il pesce per sfamarsi, ma di insegnare a pescare, in modo tale da superare una situazione di sottosviluppo

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definitivamente. Il micro-credito quindi come strumento di crescita ma anche tutela dell’uguaglianza, mezzo di emancipazione delle donne. Le donne difatti attraverso i prestiti della Grameen Bank possono finalmente acquistare una casa ponendo così fine a quella insicurezza che ne opprimeva qualsiasi diritto e le obbligava a vivere situazioni di abusi e violenze. In Bangladesh per poter divorziare basta che si ripeta alla moglie per tre volte la parola “divorzio” ed il gioco è fatto.Il marito può lanciarsi alla ricerca di un nuovo matrimonio e una nuova dote, la moglie invece si trova in mezzo alla strada. Questo vuol dire una spada di Damocle perennemente minacciosa sulla testa, in un solo concetto: ricatto. E proprio per non perdere tale possibilità le donne fanno il possibile per restituire i soldi ricevuti e garantirsi una reputazione di buone pagatrici così da poter accedere in futuro al credito ma anche a qualcosa di più importante, la libertà. “Ai giovani direi dunque: che tipo di istituzioni vorreste costruire? In che genere di mondo vorreste vivere? Perché se iniziate ad immaginarlo fin d’ora il genere di mondo che voi vorreste avere , fra 30 , 40 anni può diventare realtà. L’immaginazione è fondamentale. Lasciatela dunque libera, e create il vostro mondo. Non guardate a noi, noi non ci siamo riusciti”.( Muhammad Yunus, Ravenna 2003) Forse gli altri non ci saranno riusciti, il nostro “micro-banchiere” sì! Antonio Iannì

Il ciclismo visto dall’Africa

24 settembre, Mondiali di ciclismo a Salisburgo. Trionfa Bettini, trionfa il ciclismo pulito, il ciclismo semplice di chi, arrivato quasi per caso su una bicicletta, dopo un trascorso da ballerino, e dopo aver fatto il gregario di un certo Bartoli, ha saputo vincere quasi tutto. Ma è stato anche il giorno del trionfo di altri, venuti da molto più lontano, che molti spettatori forse non hanno neanche visto. Sbarcati per inseguire un sogno, quello di poter correre su strade vere, che partono da un luogo e arrivano in un altro; di poter correre circondati da tifosi e giudici, non da mandrie di mucche che interrompono la strada; di poter faticare su una salita, che fino a poco prima non si sapeva neanche cosa fosse; di poter scacciare per un attimo la polvere e i pensieri; di poter scappare dalla povertà.Tre uomini, tre sorridenti ragazzi, a rappresentare tutta l’Africa 21


Nera presente in Austria e il quinto paese più povero al mondo, il Burkina Faso. Status dei tre: corridori dilettanti. Professione: due contadini e un lavoratore al mercato ortofrutticolo. Reddito medio: trenta euro al mese. Tutto questo per un solo obiettivo: restare in gruppo il più possibile per rimandare la fine del sogno. I tre eroi Jeremie, Abdul e Saidou ce l’hanno messa tutta, ma si sono visti staccare sulla prima salita, per poi ritirarsi dopo aver pedalato solo per poche decine di chilometri.Dalle loro parti per comprarsi una bici nuova non basta una vita; i ricambi non esistono, e bisogna arrangiarsi con quello che si trova. Ma il mezzo fa solo da contorno ad atleti che non sanno cosa siano gli integratori, che non possono giustificare una sconfitta con una crisi di fame, che il doping non l’hanno neanche mai sentito nominare, che in tasca, al posto di maltodestrine e barrette energetiche, hanno pezzi di patata dolce e banane.Jeremie racconta: “Le corse sono brevi e polverose, e quando finiscono, finiscono sempre allo sprint. Se non rompi la bici prima o non precipiti in una buca, te la puoi anche giocare. Non ci sono premi, rifornimenti e antidoping, naturalmente. E non ci sono salite, assolutamente nessuna. Ecco perché io ho molta paura delle salite, non ci pedalo mai!”.E tutto ad un tratto si sono trovati in una nuova realtà, fatta di bici da dieci mila euro, di ammiraglie straripanti di ricambi (ma non camere d’aria o rapporti, bensì bici di ricambio) e cibo. Ma al loro fianco avevano anche atleti e amici, che con loro hanno condiviso sacrifici, in Europa lautamente ricompensati, e tanta fatica. Perché almeno quando si mangia l’asfalto e lo si bagna di sudore, quando si ha la faccia deformata dalla fatica, le labbra spaccate dal freddo e i crampi si è tutti uguali. Questo è il ciclismo.Ma a Salisburgo hanno fatto anche nuove conoscenze. I tre corridori del Burkina soggiornavano in un albergo di periferia, lo stesso di tre ragazzi pallidissimi e biodissimi, i kazaki. Dopo aver scrutato per un paio di giorni cosa portava ai piedi Abdul, Alexander Vinokourov, fresco vincitore della Vuelta e bronzo a cronometro, gli si è avvicinato e gli ha regalato le proprie scarpe. Dopo una breve chiacchierata in francese si sono salutati e scambiati gli auguri.Al loro fianco siede Laurent Dupuis, ingegnere di Bordeaux che da anni si finanzia commissario tecnico del Burkina. “C’è chi dice che qui, più che di biciclette avrebbero bisogno di cibo e acqua, ma io rispondo che si vive di pane e rose, anzi di pane e ruote. I sogni contano e ti aiutano a superare la miseria più nera”.Jeremie, ormai pronto a dire addio alle gare, corre su una bici arrivata dalla Francia, vecchia di venti anni, che a fine carriera affiderà ai piedi di un altro ragazzo, molto più fortunato di altri, che cercherà di correre via dalla povertà, sfidando altri africani, su terreni impossibili, dove non li aspetta nessuna vincita ma solo un altro sogno. Giovanni Verla

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Facoltà Elsa: un mondo sconosciuto a molti studenti ELSA – The European Law Student’s Association – è un’associazione di studenti e neolaureati in giurisprudenza, indipendente, non governativa (NGO), apartitica, senza scopo di lucro né tanto meno politico, che opera in tutta Europa. Il suo vertice, l’International Board, che gestisce e dirige l’intero network, risiede a Bruxelles. Al secondo posto della gerarchia vi sono i Consigli Direttivi Nazionali (National Boards), che operano attraverso la rete delle Sezioni Locali (Local Boards), veri organi vitali dell’associazione. Il “philosophy statement” di ELSA, definisce il suo obiettivo astratto, cioè “a just world in which there is respect for human dignity and cultural diversity”. Questo viene concretamente posto in essere mediante la realizzazione di vari eventi ed attività, che possono essere locali, nazionali o internazionali. I rami attraverso i quali ELSA opera, sono sette e corrispondono ad ognuna delle cariche dei consigli direttivi: Board Management, External relations and Expansion (BEE, che è il ramo dei Presidenti), Internal Management (IM, ramo dei Segretari), Financial Management (FM, ramo dei Tesorieri), Marketing (MKT), Academic Activities (AA), Seminars and Conferences (S&C), e Student’s Trainee Exchange Program – programma di tirocini retribuiti all’estero (STEP). ELSA Ferrara, fondata nel nostro ateneo nel 1999, e divenuta ONLUS da giugno 2005, è partita un po’ in sordina, ma negli ultimi anni si è fatta conoscere sempre più, attraverso l’organizzazione di vari eventi, quali conferenze, scambi culturali con sezioni estere, visite istituzionali, colloqui di orientamento professionale, ed altre attività. L’ultima “fatica” è stata la “National Moot Court Competition 2006”, una simulazione processuale nazionale che ha visto la partecipazione di nove squadre provenienti da tutta Italia, che si sono scontrate su un caso di diritto civile elaborato dal prof. Ferroni, ordinario di Istituzioni di Diritto Privato dell’Università di Urbino. La giuria che ha proclamato il vincitore, presieduta dal prof. Bin, era composta dai proff. Cariello, De Cristofaro, Villani, il magistrato della Corte d’Appello di Bologna, dott.ssa Franco, e l’avv. Colli di “Jus & Law”. Per l’anno in corso, sono molti i progetti da realizzare, primo tra tutti un “colloquio di orientamento professionale” (COP), che vedrà la partecipazione di un avvocato civilista ed uno penalista. Questi affronteranno le tematiche inerenti alla professione che molti di noi sognano di esercitare.

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Altri progetti, quali una visita alle Istituzioni Europee a Bruxelles, una alle Istituzioni Statali a Roma, uno scambio culturale con una sezione ELSA straniera, ed una conferenza di diritto commerciale sulla figura dell’amministratore indipendente, sono in fase di elaborazione. I vantaggi di essere iscritti ad ELSA sono i più svariati. Con ELSA si entra a far parte di un network esclusivo di scala internazionale, che permette di confrontarsi con giuristi provenienti da altri Paesi europei. Tertium genus tra l’essere “professionisti del diritto” e l’essere “studenti”, ELSA riesce a fare sì che i due canali di comunicazione siano più vicini e rende l’obiettivo di una proficua crescita giuridica-culturale non una lontana chimera, ma una possibilità reale. Chi volesse ulteriori informazioni, può contattarci all’indirizzo info@elsaferrara.it , o visitare i siti www.elsaferrara.it e www.elsaitalia.it .

Martina Gennari Presidente ELSA Ferrara ONLUS

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Appunti

Mafia e antimafia tra storia e presente Mercoledì 29 novembre Ore 11 - Aula Magna Luigi Ciotti (Presidente di. Libera)

FaSinPat: fabbriche senza padrone Mercoledì 6 dicembre Ore 10.30 – Aula 1 Proiezione del film: “The Take” di N. Klein A seguire dibattito con Giorgio De Iure (Associazione Arci) A cura dell’associazione Officina (officina_unife@libero.it) 25


Libra cambia veste!

Dal prossimo numero Libra cambierà grafica. Chiunque sia interessato può mandare il proprio progetto, comprensivo di logo e grafica generale, all’indirizzo libra_unife@libero.it. E’ offerta così a tutti gli studenti la possibilità di progettarne una nuova. Grazie.

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Links: www.libera.it www.megachip.info www.peacereporter.net www.emergency.it www.beppegrillo.it www.misteriditalia.it www.cittadinolex.it www.ondarock.it www.lavoce.info www.arcoiris.tv http://it.wikipedia.org/wiki/Pagina_principale http://www.centroimpastato.it/index.php3 http://www.forumcostituzionale.it/site/ 27


Un po’ di anni dopo scoprii che non tutti finivano a fare gli addetti stampa della Montedison, me lo fece capire un signore alto alto, magro, emaciato,calvo,brutto che sembrava vivesse delle parole che scriveva sul suo giornale. Questo signore dal nome ottocentesco e dall’accento da toscanaccio stava parlando del suo giornale appena fallito,raccontava alla tv come questo lavoro fosse il solo che sapesse fare e disse una cosa che non ho dimenticato: “Questo è il solo mestiere che è fatto bene solo se si è liberi e capisco quanto questo possa spaventare”. Lo credo anche io. Scrivere sotto dettatura, scrivere per far piacere a qualcuno, niente di male, ma non è giornalismo è cortigianeria: un altro modo di campare, che sembra vada per la maggiore. Ogni volta che scrivo, che cerco di annodare una parola all’altra, mi vengono alla memoria tutti quei bravi giornalisti che non sono più: Montanelli, De mauro, Alpi, Cutuli, Fallaci e provo ad essere come loro. Mentirei dicendovi che tutti avremo un posto al corriere, forse i più che intraprendono questa professione finiranno al Resto del Carlino di Ferrara, ma ugualmente rimane il fascino di poter comunicare alla gente, raccontarle una storia, una vita, un’avventura. Che forse in questo si riassume l’essenza di un giornale e di coloro che lo scrivono.Un grazie quindi a tutti coloro che collaborano a questo libricino, studenti senza paga, senza editore, senza sponsor e proprio per questo veri giornalisti. Concludo rivolgendomi a voi gentili lettori, esortandovi a collaborare con noi poiché, come scrive Cervantes nel suo Don Chisciotte “La Libertà è il bene più grande che i cieli abbiano donato agli uomini” E i regali, si sa, non si rifiutano. Giacomo Capuzzo

LIBRA Giornale non periodico studentesco a diffusione interna della Facoltà di Giurisprudenza di Ferrara. Stampato nella Facoltà di Giurisprudenza di Ferrara nel mese di Marzo 2006. Ringraziamo tutti coloro che hanno contribuito alla riuscita di questo numero. Direttore: Giacomo Capuzzo Hanno scritto su questo numero: Giacomo Capuzzo, Ana Pivato, Vito Todeschini, Giulia Callegari, Luca Morassuto, Edoardo Rosso, Ziad Osmani, Giulia Gioachin, Alessandra Sturabotti, Elisabetta Vita, Silvia Trapani, Antonio Iannì, Giovanni Verla, Marina Gennai. Gli articoli esprimono opinioni e valutazioni proprie dei soli autori.

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