Donne nella scienza Testi: Teresa Porcella Illustrazioni: Marta Pantaleo Progetto grafico: Alessandra Zorzetti www.editorialescienza.it www.giunti.it © 2021 Editoriale Scienza srl via Bolognese, 165 – 50139 Firenze – Italia via C. Beccaria, 6 – 34133 Trieste – Italia Prima edizione: ottobre 2021
Stampato presso Lito Terrazzi srl Stabilimento di Iolo
Teresa Porcella
AIUTIAMOLI A FARE DA SOLI Maria Montessori si racconta
Illustrato da Marta Pantaleo
Capitolo 1
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IL TEATRO È IL MIO GIOCO
n metro e nove centimetri, perbacco! Papà sorrise soddisfatto, mi ricordo bene. Poi mi diede due pacche veloci sulla testa, come a mettere un sigillo sulla mia nuova, inconfutabile altezza. Faceva così da sempre, da quando sono nata: il giorno del mio compleanno, papà Alessandro prendeva un metro e mi misurava. E lo faceva appena mi svegliavo, quasi a certificare che fossi viva. Poi, segnava su un quaderno l’altezza esatta, al millimetro, e calcolava di quanto mi fossi allungata rispetto all’anno prima. Quell’anno 1875, per il mio quinto compleanno, non fece nulla di diverso, ma il risultato lo esaltò.
– Hai finalmente superato il metro, Maria. Lo scorso anno eri sotto di pochissimo, mentre ora no. Capisci? Ora sei grande! Te l’avevo detto che dal metro in su si diventa grandi? Non ricordo... Comunque non importa. Te lo dico adesso: sei grande! Anche se, in effetti, sei lunga più o meno come il cane dei vicini, con la differenza che lui, quando abbaia, fa meno rumore di te quando urli. Papà amava essere preciso, e pure scherzare. E, anche se fuori di casa tutti lo descrivevano come uno serio e rigoroso, io devo dire che, con me e mamma, lui rideva spesso e forte. Poi sì, è vero, aveva la mania di misurare e contare tutto, ma credo che questo derivasse dal suo lavoro e dalla sua storia. Proveniva da una famiglia poverissima di Ferrara, e si era fatto strada da solo come ispettore delle finanze: per forza che era fissato con i numeri e con i conti! Persino sulla lunghezza dei suoi baffi neri era implacabile: se li misurava tutti i giorni e, se superavano i 5 centimetri, li spuntava subito, senza pietà! A me, per fortuna, papà mi ha sempre misurata e basta, senza spuntarmi quando mi allungavo... Comunque, tornando alle cose serie, è proprio grazie alla sua precisione che papà era stato promosso sovrintendente a Chiaravalle. Lì aveva conosciuto mamma, Renilde Stoppani, e sempre lì sono nata io. Per questo a Chiaravalle ci torno volentieri. Poi lo avevano mandato
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a Firenze, dove, come raccontavo, io superai il metro. Ma torniamo lì, a quel metro e nove centimetri di età. – Papà – gli dissi – possiamo segnare la mia altezza anche qui, con il lapis, sopra quella dell’anno scorso? Così capisco anch’io quanto sono cresciuta! Mentre parlavo, in aggiunta alle due pacche sulla testa, me ne dette altre due sulla schiena, come a dire che potevo andare. – Certo, Maria! Agli ordini! – disse poi con la voce che scattò rapida, come la sua mano sulla fronte, a mimare il saluto militare. Gli indicai lo stipite della porta della mia camera, dove, l’anno precedente, allo scoccare dei miei quattro anni, aveva segnato con un lapis quasi spuntato la mia altezza di allora. Funzionava così: io mettevo prima il pollice della mano destra sulla lineetta tracciata l’anno prima e poi l’indice sulla linea dell’anno in corso. Quando avevo preso la misura, mi giravo verso papà, tenendo ben ferma la mano, e dicevo: – Sono cresciuta così, giusto? Di centimetri io non mi azzardavo a parlare. I numeri, a me, non hanno mai detto nulla. Le mani, invece, sì. Non vedevo l’ora di farlo anche quell’anno il gioco del misurino – come lo chiamavamo noi – ma prima bisognava che papà disegnasse la lineetta dei cinque anni. Sapevo bene che cosa avrei dovuto fare perché ciò succedesse: mi appiattii sul legno della porta, attaccai i piedi alla base dello stipite, feci scivolare le braccia
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lungo i fianchi, misi la testa ben dritta e, guardando fisso in avanti, trattenni il fiato. Fu allora che papà fece col lapis il segno grigio. Mamma entrò proprio in quel momento, esclamando: – Ecco, ci risiamo con la storia dell’altezza! Ma quando la finirete voi due di pasticciare le porte? Scoppiammo tutti a ridere. Abbracciandomi, la mamma aggiunse: – Beh, ora tutti a fare colazione! Poi, chissà, Maria, quando sarai un’attrice famosa, queste lineette le vorranno vedere tutti! – È già un’attrice famosa, Renilde – rispose papà col tono di chi la sa lunga. – Ti informo che tua figlia latra meglio del cane dei vicini, glielo stavo giusto dicendo... E giù, a ridere ancora più forte! Me lo sono stampato in mente quel compleanno del metro e nove. E non per le risate, cioè non per quelle risate della misurazione. Mi ricordo perfettamente quel compleanno, perché fu l’ultimo che passai a Firenze e perché, mentre mamma e papà ridevano felici io, a furia di correre e saltare, mi impigliai in una sedia e, all’improvviso, strappai il mio vestito preferito, quello di seta blu. Era liscio, elegante e morbido, come deve essere un vestito della festa. Mi piaceva talmente tanto che, spesso, aprivo il cassetto per accarezzarlo, anche se non dovevo indossarlo. Poi, aveva un colletto di cotone bianco, col pizzo, che
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lo rendeva luminoso e importante e mi dava l’illusione di essere a teatro. Appena sentii il rumore implacabile dello strappo, scoppiai in un pianto senza speranze. Mamma, allora, disse rapida: – Maria, è arrivato il momento di trasformare questo vestito vecchio in un vestito nuovo! Cuciremo lo strappo e metteremo un bel grembiulino bianco bordato di pizzo qui davanti: finalmente avrai un vestito adatto alle tue recite! Il grembiule avrà un bel tascone, dove potrai nascondere i tuoi tesori! Fu velocissima. Non ricordo come, fece spuntare dal nulla una tela candida di cotone, larga e lunga, molto simile a quella del colletto. In un attimo mi prese le misure, si sedette alla macchina da cucire e confezionò il più bel grembiule che io avessi mai visto, con anche lo smerlo in fondo! Poi mi portò vicino al cassettone dove teneva le sue stole di seta e mi disse: – Maria, so quanto ti piace frugare qui dentro e trasformare i miei indumenti in travestimenti per il tuo teatro: ecco, scegli la stola che ti piace di più, infilala nel grembiule e poi vai: è tua. Questo è il mio regalo per i tuoi cinque anni! Sì, sì, me lo ricordo proprio quel compleanno lì, perché capii che si è grandi non quando si supera il metro, ma quando si sa fare ciò che fece mia mamma: trasfor-
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mare le cose tristi in cose allegre in un istante, con la velocità che solo hanno i cuori capaci di accordarsi ai battiti altrui. Decisi di non essere da meno. Ormai ero grande, no? Cancellai dalla faccia il muso lungo che mi era spuntato poco prima e senza indugi scelsi la stola di seta color champagne, quella che brillava al sole come fosse metallo anziché stoffa. Ma non la misi dentro il grembiule, ma sulla testa: la adagiai con grazia, come un velo da sposa. Poi, attenta a non farla scivolare, avanzai elegante e altera: testa alta e passo lento, come si conviene a una gran dama, durante una cerimonia solenne. – Signore e signori, ecco a voi la Regina Maria da Chiaravalle! – dissi con sussiego. Feci un bell’inchino e, retrocedendo tra una riverenza e l’altra, mi ritirai in camera mia. Chiusi la porta sotto gli occhi divertiti dei miei genitori. – È un’attrice nata – sentii che commentava mamma, al di là del mio sguardo, col tono di chi, più che registrare una verità, si rallegra per lo scampato pericolo dei miei latrati. “E comunque, sì: io da grande sarò un’attrice!” mi dissi. Ne ero sicura perché, a differenza di mio padre, a me contare non piaceva proprio per nulla. A me piaceva osservare, imitare, ballare, travestirmi, inventare storie e personaggi... Mamma lo aveva capito bene già da allora, e nonostante essere attrice non fosse un mestiere ritenuto serio per una donna, lei non mi fece e non mi
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ha mai fatto mancare il suo appoggio. Per questo, quel velo è il più bel ricordo che mi abbia lasciato. Anche a Roma, dove arrivammo dopo quattro anni da quella formidabile giornata e dove frequentai le elementari, continuai a ripetermi che la cosa che più mi piaceva fare era sempre la stessa: recitare. Imitavo tutti: genitori, parenti, amici, insegnanti (soprattutto loro), vicini di casa, animali... E anche oggetti: giuro. Come sapevo fare l’appendiabiti io, nessuno! Il trucco, ve lo dico, è osservare, guardare attentamente come sono fatte cose e persone. Funziona così: guardi, capisci, imiti. Questo piacere di osservare era anche l'unica ragione per cui accettavo di andare a scuola: lì trovavo ogni volta nuovi soggetti e ambientazioni per il mio teatro. Perché, per il resto, fatta eccezione per le attività di lettura a voce alta, la scuola, per me, era una tortura. Non parliamo di matematica, geometria o grammatica: le detestavo, di tutto cuore! E infatti non le studiavo. Per fortuna, si può recitare anche in matematica, sapete? Io, per esempio, quando mi davano delle operazioni di aritmetica, come risultati scrivevo numeri a caso: improvvisavo. A volte ci azzeccavo, a volte no, ma che m’importava? Tanto a me non interessava passare alle scuole superiori... Facevo lo stesso con le interrogazioni: a casa non studiavo mai, piuttosto, a scuola, ascoltavo bene quando parlava la
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maestra. Se poi mi chiedeva qualcosa, io ripetevo quello che mi ricordavo di aver sentito da lei in aula: usavo persino il suo stesso tono di voce! Non sempre ricordavo tutto, certo, ma era come per i risultati di matematica: che m’importava? Perché una cosa avevo capito con chiarezza: s’impara solo osservando, imitando e divertendosi. – Se gioco mi diverto, se mi diverto imparo, e sennò no! – Così dicevo a mamma e papà quando provavano a dirmi qualcosa sui miei metodi di studio. E siccome il teatro era il mio gioco preferito, mi parve evidente che avrei continuato a praticarlo per tutta la vita e che sarebbe diventare il mio mestiere. Questo chiesi e promisi ai miei, che continuavano a guardarmi, a sorridere e a scuotere la testa. – Sarò un’attrice, giuro! Parola di Maria da Chiaravalle.
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