Il mio nome è Tartaglia

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Testi: Anna Vivarelli e Guido Quarzo

Pubblicato in accordo con Grandi&Associati, Milano

Illustrazioni: Silvia Mauri

Progetto grafico: Alessandra Zorzetti

www.editorialescienza.it www.giunti.it

© 2023 Editoriale Scienza srl

via Bolognese, 165 – 50133 – Firenze – Italia

via Beccaria, 6 – 34133 – Trieste – Italia

Prima edizione: gennaio 2023

C016466

Stampato presso Lito Terrazzi srl

Stabilimento di Iolo

G. Quarzo A. Vivarelli

TARTAGLIA

Illustrazioni di Silvia Mauri

IL SUONO DELLA PAURA

–T a-ta-ta! Tartà-tartà-tartà! Tartaglia!

Il coro dei ragazzini lo seguiva da casa fino alla parrocchia dove andava a imparare a leggere.

Erano tutti più piccoli di lui, avrebbe potuto prenderli a calci uno per uno, ma preferiva non reagire. Rispondere alla provocazione sarebbe stata un’inutile perdita di tempo, e se c’era una cosa che lui era capace di fare era calcolare, valutare, misurare.

Questo non gliel’aveva insegnato nessuno. Era un dono naturale: a occhio sapeva stimare le quantità, le distanze, le differenze.

Perciò aveva calcolato che il tempo impiegato a rincorrere quei ragazzini sarebbe andato a scapito del tempo che gli occorreva per impadronirsi dell’alfabeto. Quanto al reagire a parole… nemmeno pensarlo.

Perché quel soprannome diceva semplicemente la verità: lui balbettava terribilmente.

Capitolo 1
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Molti di loro sapevano benissimo perché Nicolò avesse tanta difficoltà nel parlare, ma il gusto di prendere in giro il balbuziente era più forte di ogni altro sentimento.

– Ta-ta-ta! Tartà-tartà-tartà! Tartaglia!

Quella specie di processione rumorosa lo seguiva quotidianamente da quasi due settimane, tanto che Nicolò non ci faceva quasi più caso.

Anzi, un giorno, quando bussò alla porta del prete e da dentro gli domandarono “Chi è?”, senza pensarci lui rispose “Tartaglia!”.

I tagli in faccia e sul palato erano guariti, ma quel balbettare era una ferita che non si rimarginava.

Di quel giorno nel Duomo non ricordava molto. Gli erano rimasti in mente soprattutto l’affanno della corsa e sua madre che lo teneva per mano con una stretta forte. Lui non poteva far altro che muovere le gambe e cercare di tenere il passo, altrimenti lo avrebbe trascinato. E c’era il respiro di sua madre, quell’ansimare che non aveva mai sentito prima. Forse era la cosa che lo aveva spaventato di più, perché era il suono della paura.

Dovevano esserci molte altre persone intorno. Ma, ripensandoci, non aveva nessuna immagine di qualcuno che corresse insieme a loro due. Vedeva solo la schiena della mamma, il suo scialle di lana pesante, il gonnellone scuro che sbatacchiava come una vela nella tempesta.

Questo l’aveva immaginato: Nicolò non era mai stato su una nave in tempesta.

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Certe volte si figurava di tornare a quel 19 febbraio e di calcolare con precisione le distanze, come se volesse scoprire una possibilità, una su mille magari, di fare quel passo in più, di scartare a destra o a sinistra o di fermarsi in un vicolo… una possibilità di salvarsi.

Ma le cose non erano andate così e indietro nel tempo non si poteva tornare.

Alla fine della corsa erano entrati nel Duomo ed erano rimasti lì, acquattati dietro una delle colonne squadrate.

Nicolò ascoltava il respiro corto di sua madre: gli arrivava insieme a un brusio come di vespe o calabroni, e si era accorto solo allora che la chiesa era piena di gente.

Pregavano, e aspettavano che la strage finisse. Si credevano al sicuro, perché qualcosa di inviolabile deve pur esserci, anche se sei marmaglia armata e di mestiere scanni, colpisci, saccheggi. E invece la soldataglia francese non aveva rispetto per niente e nessuno: anche il Duomo era soltanto un luogo da depredare.

Pietà di noi, Signore, pietà di noi. Tu sei la nostra speranza, cantava la folla in attesa.

Ed ecco quel rumore che sembrava nascere dalle pietre del pavimento.

Era un tuono, era ferro contro ferro, erano voci forti.

Quando i soldati avevano sfondato il portone ed erano entrati c’era stata una grandissima confusione. La preghiera si era interrotta, o forse era stata coperta dalle urla, dalle spade, dai passi di chi tentava di scappare e di chi ferocemente inseguiva.

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Da lì in poi i ricordi si facevano confusi. Sua madre si era alzata, l’aveva abbracciato e un attimo dopo erano distesi a terra. Poi più nulla. Buio, vuoto.

Quando si era svegliato non riusciva a parlare, non riusciva nemmeno a deglutire.

Di quel buio gli era rimasto in mente un sogno che si ripeté per molte notti: si tocca la faccia, la bocca gli sembra strana, è un becco, allora pensa di essere diventato un uccello e prova a volare, ma non ci riesce perché non è un uccello, non ha le ali, è solo un bambino senza labbra. Guarda in su e vede la faccia dell’uomo con la spada. L’uomo con gli occhi gialli.

Sua madre raccontava di averlo riportato a casa con l’aiuto di uno sconosciuto, un uomo anziano che se n’era andato di fretta. Lei non gli aveva neppure detto grazie perché aveva ben altro a cui pensare. Il suo ragazzo aveva una spaventosa ferita sul viso, e bisognava curarlo, anche se tutti credevano che presto sarebbe morto. Se un colpo di spada ti taglia la faccia, se non puoi neppure mangiare, non c’è speranza. Lei però non voleva ascoltarli. La prendevano per matta, ma non le importava. Acqua pulita, un grande pezzo di tela da cui ricavare le bende, brodo caldo: le serviva solo questo.

Rientrando a casa, si era accorta che dalla madia erano sparite tutte le provviste e che qualcuno, forse furioso per aver trovato poco o niente, aveva gettato a terra il sacco del miglio.

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Il primo suono che Nicolò aveva sentito risvegliandosi dal buio era il crocchiare dei piedi di sua madre sul pavimento cosparso di semi.

“Manda giù, Nicolò”, ordinava sua madre avvicinandogli la scodella alla bocca.

Lui si sforzava di obbedirle, ma il dolore aumentava al punto che veniva ricacciato nel buio. Quando la luce tornava, la testa gli si riempiva di domande, e affiorava qualche ricordo.

Nel Duomo, quel giorno, un soldato con gli occhi strani lo aveva fissato e poi gli aveva assestato un colpo di spada, senza motivo. Perché prendersela con un ragazzino di neanche tredici anni? Aveva forse parlato a sproposito? Aveva attirato la sua attenzione in qualche modo? Non lo sapeva. E passò così tanto tempo prima che potesse chiederlo a sua madre, che la domanda non aveva più senso.

“Manda giù, Nicolò”, gli ordinava lei. E dopo qualche giorno deglutire non faceva più così male. Poi gli lavava la ferita e la ricopriva con una striscia di tela pulita. Un giorno era riuscito a mangiare un pezzetto di pollo, e sua madre aveva recitato ad alta voce una preghiera di ringraziamento.

Lui ora credeva nella stupefacente bellezza dei numeri e della geometria, non nei miracoli, ma forse la sua guarigione aveva davvero qualcosa di prodigioso.

In quelle lunghe settimane di cui conservava ricordi sconnessi, un altro prodigio si era verificato nella sua

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povera testa rotta: una danza di numeri e segni, addizioni e sottrazioni. Si guardava intorno e vedeva cose che erano parti di altre cose, oggetti che si ripetevano e moltiplicavano, e si scopriva a calcolare mentalmente misure, proporzioni, regolarità: il mondo era fatto di geometrie e di numeri, e lui con i numeri era bravo, anche se non era mai andato a scuola. “Ci andrò!” si era detto. “Se riuscirò ad alzarmi, io a scuola ci andrò”.

Però, anche se le ferite si erano richiuse, avevano lasciato tracce che l’avrebbero accompagnato per sempre.

Ta-ta-ta! Tartà-tartà-tartà! Tartaglia!

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