Capitolo 1 LA MIA ISOLA
Fin da molto piccola fui colpita e attratta dalle medaglie di papà. Colonnello dei carabinieri, mio padre Giovanni era stato insignito, per il servizio prestato in occasione di terremoti e contro il brigantaggio in Calabria e in Sicilia, di tante medaglie che mi parevano bellissime. Per me era un eroe da imitare.
La mamma le custodiva gelosamente, adagiate su di un pannello foderato di velluto rosso, in un apposito mobile che chiamavamo la “vetrina”. Conteneva cose fragili e, ai miei occhi, preziose: tazzine da caffè dipinte, piatti e coppe, in cui a volte venivano messi dei cioccolatini, e due “reperti”.
– Ma papà, perché sono in vetrina? Non sono una semplice pietra e una conchiglia? – chiesi un giorno.
– No – disse papà con affetto. – Vedi, Evelina, questa che tu chiami pietra è stata portata da un prozio archeologo che l’ha trovata durante una spedizione in Oriente: è un frammento di una tubatura dell’acqua calda per i tepidari di terme romane. L’altro reperto è una conchiglia fossile raccolta in una zona in cui un tempo c’era il mare…
Io e i miei fratelli eravamo nati nella casa di Sassari, dove nostro padre Giovanni Mameli e nostra madre Maria Maddalena Cubeddo avevano iniziato la loro vita matrimoniale.
I sardi in genere sono di poche parole e mamma era una vera sarda, silenziosa e austera. Veniva da Ploaghe, dove la famiglia Cubeddu abitava. Dopo il matrimonio e il trasferimento a Sassari, si era dedicata completamente a noi figli. Bastava un suo sguardo per farci comprendere i suoi pensieri o ricomporci se ci eravamo abbandonati a un gioco che lei giudicava fuori luogo. Aveva tanti capelli, neri, lunghi, lisci, luminosi: mi pare-
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vano di seta. Li teneva raccolti a crocchia. Stava quasi sempre in casa e in cucina si muoveva sicura tra grosse pentole. Mi ricordo ancora i profumi di miele e uvetta, di zafferano e mirto e l’aroma dolceamaro di ginepro e rosmarino che si sprigionavano durante la cottura dei cibi. Quando preparava il montone, poi, era come se tutto il Mediterraneo entrasse nelle sue pentole.
– Ragazzi, correte a lavarvi le mani, che ho fatto le seadas!
Chiamava i miei fratelli grandi perché io stavo già lì, a guardarla stendere, sottile sottile, la sfoglia che poi tagliava a forma di mezzaluna e farciva con formaggio e miele.
Non l’aiutavo in cucina, mi limitavo a guardare le sue mani e osservare la trasformazione degli ingredienti. Ma appena imparai a leggere non mi vide più.
– Eva, Efisio, a lavarvi le mani, che ci sono le papassinas!
Preferivo leggere un libro, raggiungere in bicicletta il bosco, poco distante da casa nostra, o anche soltanto stare in giardino.
Noi figli, con un padre spesso lontano, eravamo per lei un bell’impegno.
La nostra era una famiglia molto unita, che può essere definita borghese: in casa si leggeva, si commentavano gli avvenimenti politici. Nonni e zii, amici e cugini venivano sovente a trovarci.
Efisio, Romualdo e Antonio erano già grandicelli
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quando il 12 febbraio del 1886 ero arrivata io, Eva Giulia, deposta, diceva papà, sotto un grande mandorlo in fiore. Una premonizione del destino…
Efisio, nato undici anni prima di me, fu sempre il mio fratello preferito, il mio modello, il mio compagno di sogni e progetti. Insieme, appena ebbi l’età per accompagnarlo, facevamo lunghe passeggiate nei boschi, gareggiavamo a chi sentisse e sapesse riconoscere più canti di uccelli, guardavamo le grandi sughere dai tronchi contorti chiedendoci che età potessero avere. Un giorno ne vedemmo una abbattuta, forse schiantata da un fulmine, in un luogo in cui pascolavano le pecore. Ricordo la faccia stupefatta del pastore quando ci vide chini sul tronco, intenti a contare gli anelli.
Spesso ci sedevamo in un uliveto, dove avevamo dato un nome a tutte le piante più anziane. Quegli ulivi così grandi, ricurvi, con le loro cavità, ci parevano un miracolo della natura.
Mi colpivano tantissimo le lunghe “barbe” che adornavano i tronchi degli alberi e mi piaceva vedere le macchie arabescate di rosso, di giallo e di marrone presenti sui grandi massi. Quei ricami li guardavo per ore. Chi li aveva fatti e perché? Me lo spiegò un giorno un insegnante di Efisio: così feci la conoscenza dei licheni, che io, da allora, chiamai “meravigliose creature”.
– Efisio, vieni, andiamo a pinoli.
– Non posso, devo studiare.
– Ma con la bicicletta ci mettiamo un attimo!
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Non faticavo a convincerlo, e i pinoli che uscivano scoppiettando dalle pigne resinose erano una tale delizia per il palato, che mai il mio studioso fratello ebbe rimpianti.
D’estate, poi, liberi dalla scuola e dai compiti, andavamo nei prati. Quanti colori, quanti profumi! E i voli dei bombi, il loro lavoro… Ogni giorno portava una nuova scoperta. Ritornavo sempre a casa con piccoli mazzi di fiori che osservavo con grande attenzione. Mi chiedevo: “Di che cosa si nutriranno queste pianticelle?”.
Efisio, un giorno, mi propose di studiarle. Allora mi munii di un righello e di un quaderno a quadretti, di quelli con la copertina nera e l’etichetta, su cui scrissi “Esperienze”. Senza che nessuno mi vedesse – mi vergognavo un po’ – andavo al prato che avevo battezzato “Fiori allegri” e cercavo di misurare a distanza di giorni la stessa pianta per vedere se cresceva…
Mamma intanto si era appesantita e i suoi lineamenti si erano addolciti: stava nascendo in lei una nuova vita. Una notte, sentii un grande trambusto in casa e poi un pianto: era arrivata Giuseppina a completare la nostra famiglia. Era stata immediatamente ribattezzata Pina o “la piccola”,tanta era la differenza di età tra lei e noi.
Io, intanto, studiavo molto. Terminate le scuole elementari iniziai il ginnasio. Ero brava e anche al liceo ebbi sempre risultati brillanti.
Mi piacevano soprattutto le materie scientifiche: facevo sempre qualche esercizio in più, soprattutto pro-
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blemi di matematica, che mi divertivano come giochi enigmistici. Continuavo anche ad annotare, sui miei quaderni neri con l’etichetta, tutto quello che mi colpiva del mondo naturale. Durante le interrogazioni gli insegnanti si stupivano vedendomi così piccola e minuta, ma fiera e impettita. Sembravo timida, in realtà non lo ero per niente. Dentro di me sentivo una grande voglia di imparare.
Non avevo ancora idea di cosa avrei fatto da grande, però sapevo che desideravo “scoprire per essere utile”.A chi o per che cosa lo ignoravo. Ma l’idea di voler diventare qualcuno mi accompagnò sempre in quegli anni.
– Io ed Efisio diventeremo scienziati – dissi un giorno alla mamma, dopo aver letto la vita di Charles Darwin.
La matematica era diventata la mia passione, però anche in italiano ero brava, tanto che in famiglia dicevano: “Eva parla un italiano di grande precisione ed esattezza”.
Al momento di scegliere cosa fare dopo il liceo, optai per continuare gli studi che privilegiassero le materie scientifiche. Mi pareva ovvio. Studierò, pensavo, le donne possono lavorare… debbono lavorare, perché se non studiano e si occupano solo della faccende domestiche, gli uomini le supereranno sempre.
Nella mia classe al liceo c’erano solo ragazzi (seppi poi dal preside che ero la prima donna in Sardegna a frequentare un liceo pubblico). A quei tempi le ragazze sceglievano altri tipi di scuole o non studiavano affatto.
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In casa erano contenti che volessi frequentare l’università, ma avevano cercato di suggerire studi letterari, più consoni a una signorina… Però, papà Giovanni, era molto aperto e di spirito libero; vedendo la mia determinazione aveva acconsentito a farmi scegliere il tipo di studi che desideravo. Forse aveva capito che ostacolarmi mi avrebbe resa molto infelice.
Così gli studi scientifici mi condussero all’università di Cagliari. Il sodalizio con mio fratello Efisio, che aveva scelto prima di me lo stesso percorso di studi, divenne sempre più stretto. Romualdo, invece, voleva dedicarsi alla carriera militare, mentre Antonio aveva sempre amato i treni fin da bambino e voleva lavorare nelle ferrovie.
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